Il dramma di una vittima della violenza famigliare

Transcript

Il dramma di una vittima della violenza famigliare
Fonte: il secolo XIX
Il dramma di una vittima della violenza
famigliare
08 luglio 2010
| Milena Arnaldi
Costretta a nascondersi per proteggersi dal compagno padre di suo figlio
Francesca, come prima cosa, alza la gonna e mostra le gambe: indelebili, profonde
cicatrici la segnano, la deturpano. In più punti, sulla coscia, sul ginocchio la pelle è “cotta”,
corrosa, bruciata dall’acqua bollente, una pentola di acqua bollente che lui le ha gettato
addosso in un momento di rabbia. In uno dei momenti di rabbia. Una ragazza bella,
giovane, che maschera il ricordo dell’orrore e del dolore sotto un abito lungo. Una donna
costretta a nascondersi. La storia di Francesca, il nome ovviamente è di fantasia, è
terribile eppure banale, quasi scontata nel suo susseguirsi di episodi di violenza, di botte,
di giorni, di anni di terrore, di rabbia. Di vigliaccheria. Il suo racconto colpisce come uno
schiaffo per la crudezza degli episodi. Nei suoi occhi chiari, trasparenti si legge tutta la
sofferenza, l’angoscia di chi vive con l’incubo di non sapere quando e come la persona
che dorme accanto a te, il padre di uno dei tuoi figli possa trasformarsi in un nemico, in un
aggressore spietato.
Vuole raccontarci la sua storia?
«Ero innamorata di lui, mi faceva sentire protetta, sicura. Avevo un’esperienza dolorosa
alle spalle e un figlio. Ma le cose sono cambiate quasi subito. Non c’è stato giorno in cui io
non abbia avuto paura. Mi ha rotto per due volte il setto nasale, avevo sempre la faccia
gonfia, lividi ovunque, le gambe sfigurate dalle botte. Ho imparato a nascondere i segni,
ad andare a lavorare con gli occhiali scuri. Tre anni fa ho lasciato questa persona ma lui
ha cominciato a perseguitarmi, a seguirmi, a telefonarmi in continuazione, a minacciare
me e la mia famiglia. Le denunce, le segnalazioni non sono servite a nulla. Ho chiesto
aiuto ad amici ma quando lo ha saputo mi ha massacrata. Ho un bambino a casa con mia
mamma e un altro, più piccolo, che è figlio suo. Mi veniva a cercare sul lavoro, mi seguiva,
è venuto ad aspettarmi, mi ha sequestrata fracassandomi il telefonino e prendendo il mio
motorino. Mi ha picchiata per quattro ore. Ho vissuto nel terrore e per cercare di fermarlo
sono tornata a stare con lui».
Francesca, lei è riuscita a lasciare questa persona poi è tornata indietro. Perchè?
«Era meglio stare con lui che contro di lui.Tornare insieme era “mettere al sicuro” i miei
figli, i miei genitori. Potrei raccontare per ore episodi tremendi vissuti nei sei anni che
siamo stati insieme, mi ha puntato il coltello alla gola, mi infilava la spugna sporca in bocca
solo perché secondo lui non avevo lavato bene la moto, mi ha trascinato nuda in giardino
massacrandomi di botte, mi ha picchiata mentre ero incinta del nostro bambino. Quando
mi ha bruciata con l’acqua bollente in ospedale i medici mi hanno chiesto che cosa fosse
successo, ma lui era lì davanti a me, non mi lasciava da sola un minuto, aveva il bambino
in braccio. E ho avuto paura. Sono stata zitta».
Poi un giorno la decisione. Francesca si prepara con calma, veste il figlio e con una scusa
esce. Si reca in Questura dove sa di trovare qualcuno che conosce la sua storia, che ha la
possibilità di intervenire. Mentre è in quella stanza dove si sta decidendo il suo domani, lui
la chiama in continuazione al telefono. Ma la donna riesce a controllarsi, a portare a
termine il suo progetto di rinascita. Francesca e il suo bambino vengono immediatamente
condotti in un centro di accoglienza. Tramite il Centro Provinciale Anti Violenza le viene
offerta una sistemazione, in una città lontana dove poter gestire la sua vita, dove poter far
tornare il sorriso al suo bambino. Fino a che durerà questo protocollo di protezione.
E poi?
«Voglio la mia vita, non posso scappare per sempre. Tante persone mi hanno consigliato
di andare via ma non sarebbe giusto, non vedo perché devo essere io ad allontanarmi
dalla mia casa, dalla mia città, dalle persone che mi vogliono bene. In questi mesi ho
imparato a contare su me stessa, a ritrovare la forza per guardare avanti. Il mio bambino
ha imparato a parlare, il silenzio, la paura lo ha circondato per troppo tempo. Mi guardo
alle spalle e rivivo quello che ho passato, all’idea di tornare in quella casa dove sono
rimaste le mie cose.. mi sento assalire dalla paura. Ho il terrore di quello che ho passato.
Ho il terrore di lui. Quando vedo sui giornali o in televisione gli occhi di Delfino, quell’uomo
che ha massacrato a Sanremo l’ex fidanzata mi si gela il sangue. Lui aveva lo stesso
sguardo quando mi colpiva, lui non si è mai fermato di fronte a nulla e quando vedeva i
segni della sua violenza, i lividi sul mio volto, mi colpiva di nuovo perché secondo lui
volevo sfidarlo mostrandogli quello che mi aveva fatto. Il mio pensiero è lì, ho il terrore che
mi uccida, ho l’incubo di non poter tornare a vivere un’esistenza tranquilla. Non posso
lavorare, non posso crescere i miei figli. Perché questa persona non solo mi perseguita,
quell’uomo se non viene fermato mi ammazza. Quando esco di qui sono morta. Lui dice
che sta curandosi, ma non esiste cura. Non ha picchiato solo me, anche la sua famiglia lo
sa».
Lei non può sicuramente tornare a casa, che cosa farà nel momento in cui sfumerà
la sicurezza del centro di accoglienza?
«Ho un avvocato che sta seguendo la mia vicenda, le forze dell’ordine sono a conoscenza
di quello che ho passato, esiste un fascicolo di denunce. La giustizia farà il suo corso. Ho
fiducia, ma non so se questo sarà sufficiente. Sono sola contro di lui, mi autodifendo. Non
sempre una donna riesce o ha la possibilità di denunciare chi le sta facendo così male
perché sa benissimo che quella persona potrebbe farla franca. Chi vive in questa
situazione ha bisogno di aiuto, di sostegno. Lotto per recuperare i giorni strappati via, per
ritrovare la speranza di potercela fare. Perché quello che mi interessa è riavere la mia
vita».