157 Marialaura Chiacchiararelli Università di Roma “Tor

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157 Marialaura Chiacchiararelli Università di Roma “Tor
TRICEVERSA
Revista do Centro Ítalo-Luso-Brasileiro
de Estudos Linguísticos e Culturais
ISSN 1981 8432
www.assis.unesp.br/cilbelc
TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009
CILBELC
“IL MIO POSTO NEL MONDO”1
TORINO, LE LANGHE E LA CAMPAGNA DI CESARE PAVESE
Marialaura Chiacchiararelli
Università di Roma “Tor Vergata”
RIASSUNTO
L’articolo intende mettere in luce il
rapporto che lega Cesare Pavese sia
alla terra che lo ha visto nascere, le
Langhe e la campagna piemontese, sia
a Torino, la città in cui ha vissuto e
lavorato per tutta la vita. Tale legame
viene rintracciato nei racconti di Feria
d’agosto un’opera che racconta con
una risonanza affettiva davvero
profonda i luoghi cari allo scrittore. Si
mette poi in evidenza il procedimento
letterario attraverso il quale lo
scrittore carica le esperienze e i
luoghi dell’infanzia di un’aura sacrale
fino a trasformarli in miti, fatti
avvenuti una volta per tutte. Si giunge
così a considerare come i paesaggi
descritti nei racconti, pur riferendosi a
luoghi reali, si configurano come
luoghi “assoluti”, sciolti cioè dal
legame con i territori da cui si sono
generati, luoghi dell’anima esperiti al
di là del tempo e dello spazio.
PAROLE-CHIAVE
Langhe;
Torino;
città-campagna;
infanzia; memoria; radici; immagini
primordiali; mito.
ABSTRACT
The article sets out to bring to light the
ties that bind Cesare Pavese, both to the
land of his birth, the Langhe hills and the
Piedmontese countryside, and to Turin,
the city where he lived and worked all his
life. This link is traced in the short stories
of Feria d’agosto, a work dealing with
those places close to Pavese’s heart in a
way that has profound emotional
resonance. The author goes on to
highlight the literary process by means of
which Pavese imbues the experiences and
places of his childhood with a scared aura
to the point where he transforms them
into myths, things that have happened
“once and for all time”. The article ends
up considering how the landscapes
described in the short stories, although
corresponding to real places, take on the
shape of “absolute” places, detached
from the terrain from whence they came,
places of the soul, beyond time and
space.
KEYWORDS
Langhe,
Turin,
city-countryside,
childhood, memory, roots, primordial
images, myth
1
La citazione è tratta da una lettera datata 27 giugno 1942 e indirizzata a Fernanda Pivano
(MONDO, 2004, p.180). Questa e le altre citazioni dall’epistolario sono state tratte dal testo
di MONDO, Lorenzo (a cura di)Cesare Pavese. Vita attraverso le lettere. Torino: Einaudi, 2004.
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Vedi, tu sei veramente un personaggio singolare
 confessa a Pavese l’amico Davide Lajolo
mentre attraversano piazza Statuto, a Torino 
perché sempre ti riconduci alla campagna. I
critici che scrivono di te e i posteri che
scriveranno, falseranno spesso lo scopo, perché
da una parte non riusciranno a capire come tu sia
diventato tanto cittadino, e dall’altra non
sapranno che non soltanto nei libri sei spesso a S.
Stefano Belbo, ma vi sei sempre, ogni giorno della
vita.
(LAJOLO, 1960, p.11)
Il destino vuole farlo nascere a S. Stefano Belbo, luogo che diventerà,
per Cesare Pavese, il centro del mondo: la famiglia Pavese abita infatti a
Torino da diverso tempo e torna al paese soltanto d’estate, nei mesi della
villeggiatura. Per l’uomo e per lo scrittore nascere nelle Langhe non sarà
soltanto un fatto biografico ma assumerà un’importante valenza simbolica:
quelle colline hanno visto i suoi occhi aprirsi per la prima volta, gli hanno
donato l’imprinting, hanno accolto il suo cordone ombelicale, e ad esse
Cesare Pavese rimarrà fedele per tutta la vita.
Il rapporto che lega lo scrittore alle Langhe e alla campagna piemontese,
luoghi in cui ha trascorso tutte le estati da fanciullo, il rapporto che lo lega a
Torino, la città che lo ha visto diventare uomo, si può leggere in tutti gli
scritti che egli ha lasciato, dalle poesie ai romanzi, dal diario alle lettere. Ma
c’è un’opera che racconta con una risonanza affettiva davvero profonda i
luoghi di Cesare Pavese, il modo in cui sono nati quei legami che gli hanno
permesso di mettere radici tra “la terra rossa dissodata” dei filari (“La
vigna”, PAVESE, 2002, p.165) e tra i “tetti marciapiedi e muri” della città (“Le
case”, PAVESE, 2002, p.129): è Feria d’agosto, la raccolta di racconti
composti tra il 1941 e il 1944, pubblicati solo dopo la guerra, nel 1946.2 I
lettori più attenti3 hanno individuato l’originalità di quest’opera, rispetto alle
precedenti, proprio nella modalità in cui l’autore ripensa le “immagini
primordiali”, quasi sempre legate al mondo dell’infanzia, scaturite dal
2
Nelle citazioni da quest’opera si riporta tra parentesi, prima dell’edizione di riferimento, il
tiolo del racconto da cui la citazione è tratta.
3
Cfr. CALVINO, Italo. Pavese in tre libri (1946). in Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi.
Milano: Mondadori, 1995, vol. I, p.1206-1208; GIOANOLA, Elio. Introduzione a Feria d’agosto.
in PAVESE, Cesare. Feria d’agosto. Op. cit., p. V-XXXII.
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contatto con “l’albero, la casa, la vite, il sentiero” (MONDO, 2004, p.180),
immagini che pur appartenendo al preciso paesaggio delle Langhe piemontesi,
si configurano come luoghi assoluti, sciolti cioè dal legame con i territori da
cui si sono generati, luoghi dell’anima esperiti al di là del tempo e dello
spazio. L’intenzione dichiarata di Pavese non è dunque quella di “risalire il
fiume della memoria, quanto rimettersi con abnegazione nello stato istintivo”
(“L’adolescenza”, PAVESE, 2002, p.163) ritrovare l’infanzia, “questo stato di
aurorale verginità” (MONDO, 2004, p.180), a partire dalla realtà attuale.
In principio furono le Langhe.
Cesare, fanciullo, è affascinato dalla vita diversa, più avventurosa e più
libera di quella che si vive in città: all’aria aperta, lontano dalla gente,
assapora il mistero dei boschi; taciturno e solitario, come i suoi antenati,4
ama ascoltare i suoni della natura, sentirne i profumi e andare alla ricerca di
misteriosi segreti (“Vita segreta”, PAVESE, 2002). In città trascorre gran parte
dell’anno, ma nei lunghi inverni di attesa, dietro le imposte che si affacciano
su strade grigie e vuote, Cesare sogna “quella finestra scrostata che guardava
sui prati, sui boschi del fiume, verso lo sbocco della valle” (“Il nome”,
PAVESE, 2002, p.5). La vita tra le colline e le vigne di S. Stefano è la sola che
gli sembra di vivere pienamente: “Venivo in paese per le vacanze e così mi
sembrò di esser stato ragazzo soltanto d’estate. […] Tutti gli anni l’estate fu
come quando non andavo ancor via, un’unica estate che durò sempre”.
(“Storia segreta”, PAVESE, 2002, p.189).
Il giovane ragazzo di città invidiava ai compagni “sporchi e mal
rattoppati” con cui trascorreva le giornate in paese, la spessa pelle dei piedi
che permetteva loro di camminare scalzi sui sassi e sugli spini, di “premere il
tallone sulle stoppie senza farsi male” (“Primo amore”, PAVESE, 2002, p.45); i
suoi teneri piedi bianchi, invece, pativano anche l’acciottolato e la sera
tornavano a casa sempre pieni di lividi. Quando poi dalla campagna tornava a
4
Cfr. i versi de I mari del Sud, lirica che apre la sua prima raccolta di poesie, Lavorare stanca
“[…] Tacere è la nostra virtù./ Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo/  un
grand’uomo tra idioti o un povero folle / per insegnare ai suoi tanto silenzio” (PAVESE, 1998,
p.7).
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vivere a Torino era la spessa stoffa dei suoi pantaloni e quel modo di portare il
berretto da carrettiere, ben calcato sulla testa, a distinguerlo dai compagni di
scuola. Sono piccoli particolari su cui Pavese aveva già riflettuto: “in
campagna tutto è spesso, dalla pelle dei piedi al fustagno dei pantaloni”
aveva meditato con le parole di Berto, in “Paesi tuoi”, riuscendo a delineare
con una semplice pennellata i termini del confronto città-campagna su cui
ruota gran parte della vita dell’uomo e dello scrittore.
Come accade a Berto, il protagonista del racconto “Primo amore”,
quando è in paese Cesare non dimentica completamente la vita trascorsa in
città, in certi momenti desidera anzi sbalordire i suoi compagni con storie di
tram e ascensori, avventure ambientate in una città trasformata, dalla
fantasia di fanciullo, in una fattoria urbana (“Primo amore”, PAVESE, 2002,
p.46-47). Come il protagonista di “Storia segreta”, alla fine di ogni estate,
prima di tornare a scuola in città, guarda con attenzione ogni elemento del
paesaggio, quasi a volerlo imprimere per custodirlo durante il lungo inverno
cittadino: “Tutti gli anni io guardavo le nuvole, le uve e le piante per
vantarmene in città, ma, non so come, pensavo a tutt’altro laggiù e non ne
parlavo” (“Storia segreta”, PAVESE, 2002, p.189). Quando è in paese sogna di
diventare qualcuno e di viaggiare per il mondo; quando diventa davvero
qualcuno desidera di tornare tra quei “quattro tetti”, vedere le colline e
ascoltare il dialetto, luoghi e suoni che porta impressi nella memoria, che gli
sono entrati dentro profondamente: “il mio sangue, le mie ossa, il mio
respiro, tutto era fatto di quella sostanza e oltre me e quella terra non
esisteva nulla” (“La Langa”, PAVESE, 2002, p.17).
Pavese sembra affascinato soprattutto dai tratti ferini e dalla natura
brada dei compagni di quelle giornate trascorse in strada a correre e a
gridare. Emblematica la descrizione di Pale, contenuta nel racconto “Il
nome”, che apre la raccolta. È un ragazzo taciturno e dai modi selvatici, ha la
bocca simile a quella di un cavallo e la criniera fulva come quella di un leone;
dai suoi denti cola il sugo verde di un’erba che è solito masticare; rumina e si
sporca come una bestia; cammina “scalzo sui sassi e sugli spini, senza
badarci” e in alcuni momenti fa delle “smorfie diaboliche” (“Il nome”,
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PAVESE, 2002, p.6-7). Il protagonista del racconto, alter ego dell’autore, pur
sentendosi attratto dalla vita selvatica del suo compagno, ne osserva quasi
con distacco la diversità che li separa: la pelle spessa dei piedi, le ripetute
fughe da casa, un bagaglio di conoscenze per affrontare la vita ben diverso da
ciò che si apprende sui libri, rubato con gli occhi guardando gli adulti o
ascoltando i racconti notturni alla luce dei falò, come il modo corretto di
richiamare la vipera o la leggenda secondo cui non bisogna mai pronunciare il
nome di chi la sta cacciando perché essa si vendica ammazzando tutti quelli
che la cercano. L’attrazione per quella vita selvatica viene tradotta in odori,
sapori e silenzi, affidata ad immagini indimenticabili: l’odore del lampo,
“come d’un fiore mai veduto, schiacciato tra le nuvole e l’acqua […] era
fresco, pungeva dentro il naso come quando si tuffa la faccia nel catino”
(“Storia segreta”, PAVESE, 2002, p.190); l’aspro sapore delle prugnole che
crescono lungo le forre, in siepi verdi e spinose, “all’orlo delle vigne, dove il
coltivato finisce e più nulla matura se non l’arido del terreno scoperto”
(“Storia segreta”, PAVESE, 2002, p.191); il silenzio irreale che si può udire solo
in campagna quando, d’agosto, i lavori dei campi sono sospesi e, in un tempo
immobile, l’uva matura, “se uno sta zitto è come urlasse tanto forte da non
sentir più […] è il rumore del sole che cuoce la terra” (“Il colloquio del
fiume”, PAVESE, 2002, p.182-83).
Tuttavia, fin da subito, Pavese sembra sapere che il proprio destino
sarebbe stato in città: il paese dove gioca da bambino, infatti, è attraversato
dallo stradone provinciale che porta a Canelli e il desiderio di “vedere, vedere
sempre” (“Vocazione”, PAVESE, 2002, p.115) si fa più forte. Torino lo
conquista lentamente con la malinconia dei viali grigi di nebbia, i colori della
collina, il fresco delle vallate e il corso ancora selvaggio del fiume Po.
Quest’è il giorno che salgono le nebbie dal fiume
nella bella città, in mezzo a prati e colline,
e la sfumano come un ricordo. (“Paesaggio”. In: PAVESE, 1998, p.63)
A Torino, al Liceo D’Azeglio, incontra Augusto Monti, il professore di
italiano e latino che avrà una grande influenza nella sua formazione, e
attorno al quale, negli anni dell’Università, si raduneranno giovani impegnati
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sul piano culturale e politico, come Leone Ginzburg, Vittorio Foà, Tullio
Pinelli, Norberto Bobbio, Massimo Mila. Gli amici, gli amori tormentati, il
lavoro alla Casa Editrice Einaudi, gli impegni importanti della sua vita di
adulto si realizzano tutti “nella bella città” che si fa sempre più accogliente.
Il giovane dal carattere schivo e riservato, amava guardare “la faccia sempre
diversa della gente sui cantoni più familiari” (“La città”, PAVESE, 2002,
p.119), passeggiare la domenica lungo le strade deserte del centro circondate
da palazzi zitti e vuoti (“Le case”, PAVESE, 2002, p.129); nei giorni sereni gli
piaceva il modo semplice di far comitiva, poiché “bastava entrare in un caffé,
fermarsi a un portone, fischiare in una viuzza, e i vecchi amici sbucavano, ci
si metteva d’accordo, si andava, si rideva” (“La città”, PAVESE, 2002, p.119);
nelle notti insonni misurava i lunghi viali “col suo passo, testardo e solitario”
(GINZBURG, 1962, p.28); in compagnia di un amico amava “indugiare il
commiato”,
continuare
a
parlare
mentre
“tra
gli
spigoli
dei
tetti
occhieggiavano le stelle” e la luna disegnava “quinte d’ombra tra le case” (“Il
tempo”, PAVESE, 2002, p.102); nei momenti di angoscia tra lui e la notte
cittadina, fatta di solitudine e di suoni remoti (il marciapiede su cui echeggia
il passo di un amico che si allontana, una fontana borbottante, il lontano
cigolio di un carro) si creava “un’intimità vaga” e nel silenzio il “grande
dolore taceva quasi assopito” (“Risveglio”, PAVESE, 2002, p.98-99).
Caffé, teatri, cinematografi, negozi, tram, luci: Pavese sembra
affascinato dalla vita lontana dal paese, ma è proprio questa lontananza a
trasformare la relazione con la terra natale in un legame veramente
profondo. Attraverso un sapiente procedimento letterario, lo scrittore rievoca
le esperienze e i luoghi dell’infanzia, caricandoli di un’aura sacrale e
trasformandoli in miti, fatti avvenuti una volta per tutte. Per spiegare la
commozione dell’adulto di fronte a determinate esperienze richiama i
momenti in cui tali esperienze si sono verificate nell’infanzia e scopre che “ci
commuoviamo perché ci siamo già commossi” (“Del mito, del simbolo e
d’altro”, PAVESE, 2002, p.152). Ma è l’adulto che rende assoluti i fatti
accaduti durante l’infanzia, poiché “nessun bambino ha coscienza di vivere in
un mondo mitico […] nessun bambino sa nulla del paradiso infantile in cui a
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suo tempo l’uomo adulto s’accorgerà di essere vissuto” (“Del mito, del
simbolo e d’altro”, PAVESE, 2002, p.152).
Pale mi prese un bel momento per il polso e gridò “Scappa!”. Fu una
corsa fino alla piana; ci gridavamo “La vipera!” per eccitarci, ma la
nostra paura  la mia, almeno  era qualcosa di più complesso, un senso
di aver offeso le potenze, che so io, dell’aria e dei sassi. (“Il nome”,
PAVESE, 2002, p.7).
In questo passo il sentimento della paura, che Pavese può aver
sperimentato durante una delle tante avventure da ragazzo, viene
trasformato dallo scrittore che lo rievoca in una “immagine primordiale”. La
sensazione di aver offeso le potenze della natura, infatti, non è propria del
fanciullo, che si limita a provare paura, ma appartiene alla coscienza
dell’adulto che eleva quel ricordo al rango di evento assoluto, lo trasforma in
un mito: “Così a ciascuno i luoghi dell’infanzia ritornano alla memoria; in essi
accaddero cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con
questo suggello mitico” (“Del mito, del simbolo e d’altro”, PAVESE, 2002,
p.149).5
I paesaggi descritti nei racconti, fanno certamente riferimento a luoghi
reali. La topografia di certi ambienti, infatti, è raccontata con minuzia di
particolari. Basti comparare le descrizioni contenute in alcuni racconti di
Feria d’agosto con quelle contenute nella lettera a Fernanda Pivano del 25
giugno 1942, scritta da S. Stefano Belbo, dopo aver ripercorso i luoghi
dell’infanzia e aver riguardato le colline natie (MONDO, 2004, p.178-79).
L’immagine della “strada che gira intorno alle mie vecchie vigne e scompare,
alla svolta, con un salto nel vuoto” viene ripresa nel racconto “Il mare” dove
5
Pavese, dunque, rivolge in modi diversi il proprio sguardo al passato e ai luoghi dell’infanzia,
per scoprirvi, come egli stesso sembra suggerire in un passo del Mestiere di vivere,
“avvenimenti insospettati” (27 maggio 1944). In questi momenti lo scrittore si apre alla
“disponibilità assoluta” (Una certezza, PAVESE, 2002, p.96), è pronto ad assaporare la “gioia
remota” che scaturisce da un inatteso ricordo (Fine d’agosto, p.10), a provare un
“entusiasmo tranquillo” al sospetto di sentirsi radicato nel mondo (Il tempo, PAVESE, 2002,
p.102), a saggiare quel “sussulto di gioia, che ci accoglie nel ricordo assoluto” (L’adolescenza,
PAVESE, 2002, p.164). Lo scrittore lascia così trasparire un aspetto di sé, gioioso e fiducioso, a
lungo trascurato dalla critica, più propensa a mettere in luce i bilanci esistenziali negativi del
Mestiere di vivere o la scelta estrema del suicidio, lasciando nell’ombra l’allegria che pure
occupa tanta parte della sua opera. A tal proposito si veda il recente saggio di MESIANO,
Luisella. Il ritratto oscurato di Pavese allegro: Lettura e documenti di un’inedita condizione
espressiva. Milano: Officina Libraria, 2009, in cui l’autrice legge le prose di Feria d’agosto
come summa del ritratto oscurato di Pavese allegro.
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si parla di uno stradone che “con una svolta seguiva la costa, e […] dalla parte
del salto […] il ciglione della strada dava nel vuoto, sulla bassa piana del
Belbo” (PAVESE, 2002, p.73); l’esperienza di scorgere il cielo attraverso il
folto della vegetazione, “come quando stesi nel prato, si guarda l’erba:
chiude il cielo e sembra una foresta, ma presentivo di là dal salto, a grande
distanza […] una barriera remota di colline assolate e fiorite”, ricompare ne
“Il campo di granturco” in cui si dice che “il disseccarsi delle foglie apre
sempre maggiori tratti di cielo, rivela più nudamente le colline lontane”
(PAVESE, 2002, p.12); e poi le “grandi colline  tutte, quella enorme e
ubertosa come una grande mammella, quella scoscesa e acuta dove si
facevano i grandi falò, quelle interrotte strapiombanti come se sotto ci fosse
il mare” che ritornano in ogni racconto. Con estrema precisione vengono
enumerate anche le specie di piante e la varietà dei frutti: il viale di platani
in fondo al quale c’erano le prime ville di Canelli; i canneti lungo il fiume, il
cui crepitio nella canicola dava la sensazione che il tempo si fosse fermato; i
viali di ginepri, gli spini e i roveti dietro cui acquattarsi per dar la caccia alla
serpe; il colore scarlatto dei rosolacci, il bianco dei fichi, il verde del
capelvenere; la merenda col secchio pieno d’uva luglienga; il sapore deciso
delle nespole acerbe, quello aspro delle prugnole che conservava una punta di
dolce. In un’epoca di sofisticazioni alimentari, Pavese descrive sapori
scomparsi e odori dimenticati, raffigura i colori originari della natura,
asseconda quel naturale ritmo delle stagioni che sapeva risarcire con
generosità l’attesa di quello o quel frutto. E attraverso le parole di Sandiana,
in “Storia segreta”, sembra voler insegnare all’ignaro uomo di oggi che “tutto
quello che nasce, è fatto di terra; acqua e radici sono in terra; dentro il grano
che mangi e il vino d’uva c’è tutto il buono della terra” (“Storia segreta”,
PAVESE, 2002, p.190). Perfino i gesti quotidiani sono ricostruiti con l’amore di
chi li ha osservati tante volte: il rimbombo dell’asse quando le donne
impastavano (“Il mare”, PAVESE, 2002, p.83); il modo di bagnarsi le dita alla
fontana e di asciugarle nella pezza sporca, tipico delle “donne quando hanno
mangiato le pesche” (“Il mare”, PAVESE, 2002, p.76); la maniera di
camminare dei passanti diretti “verso la pianura piegati innanzi col mantello
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sulla bocca” e le loro ombre stampate sulla strada, che seguono adagio,
adagio.
Lo scopo di Pavese però non è quello di descrivere luoghi e paesaggi:
“bisogna che i paesaggi  meglio i luoghi, cioè l’albero, la casa, la vite, il
sentiero, il burrone, ecc.  vivano come persone, come contadini, e cioè
siano mitici” (MONDO, 2004, p.180). Lo sguardo dello scrittore, allora,
memore della lezione di Leopardi, sa andare “al di là” della collina che
chiude l’orizzonte per trasformare il viaggio tra i luoghi dell’infanzia in un
viaggio dell’anima:
la guardavo dai canneti della strada, dove basta fermarsi e si è soli, e
anche qui la lontananza, filtrata dal canneto, pareva nitida e più azzurra,
tra fiorita e marina. A salire più in alto  ma ci andavo di rado e non solo
 s’intravedeva la pianura; e minuscole chiazze sperdute nel vago,
ch’eran case o paesi, parevano vele arcipelaghi, spume. (“Storia
segreta”, PAVESE, 2002, p.201)
Lo sguardo che si perde tra “vele, arcipelaghi, spume”, l’utilizzo di
termini come “lontananza”
e “vago”, ricordano la poetica leopardiana
dell’infinito:6 Pavese parte da un dato reale, la collina vista attraverso un
canneto, per naufragare in un altrove, disporsi ad accogliere uno “stato di
grazia” dove non esiste il tempo e “l’attimo equivale all’eterno, all’assoluto”
(“Stato di grazia”, PAVESE, 2002, p.157).
I luoghi dell’infanzia vengono a tal punto interiorizzati da divenire una
cosa sola con l’uomo che li rievoca: “Talvolta se mi accosto a questa terra ne
ho un urto impetuoso che mi rapisce […] Son fatto pietra, umidità, letame,
succo di frutto, vento” (“Mal di mestiere”, PAVESE, 2002, p.168). Da lì Pavese
attinge le metafore correlate al mondo della natura, così frequenti nei suoi
scritti. Nella lettera a F. Pivano del 30 agosto 1942, ad esempio, paragona i
ricordi alle radici che tengono salda una pianta nel terreno: “le persone di un
racconto devono essere radicate nella loro realtà da innumerevoli radici che
sono i loro ricordi, la loro vita fantastica” (MONDO, 2004, p.181). Con
un’immagine molto simile, nel racconto “Stato di grazia”, afferma che i nostri
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Il riferimento a Leopardi e alle figure d’infinito è presente nel racconto Stato di grazia, in
PAVESE, 2002, p.158.
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ricordi nascondono il capo, affondano cioè nella sfera dell’istintivo
irrazionale, nella parte più nascosta e profonda del nostro essere e solo
“profondandoci in essa ritroviamo noi stessi”; ciascuno di noi, poeta o
contadino, possiede infatti dentro di sé “una ricchezza intima di figurazioni
[…] le quali compongono il vivaio di ogni stupore”; davanti a tale ricchezza
Pavese propone la sua catabasi, uno sprofondamento alla ricerca dei simboli
essenziali: “Sarà un discendere nella tenebra feconda delle origini dove ci
accoglie l’universale umano, e lo sforzo per rischiarane un’incarnazione non
mancherà di una sua faticosa dolcezza” (“Stato di grazia”, PAVESE, 2002,
p.156-160). Pavese ripropone l’immagine delle radici anche quando parla
della parte più intima di sé: nella lettera citata sostiene che una persona si
dice “cara via via che la si radica nella nostra memoria” (MONDO, 2004,
p.182) e in un autoritratto scritto nel novembre del 1940, indirizzato ancora
una volta alla Pivano, per descrivere il dolore provato alla fine di una grande
passione, ricorre alla cruenta immagine dello “sradicamento  il senso di
avere il petto e il cuore lacerato e sanguinante per lo strappo violento delle
mille radici che una donna vi aveva messo” (MONDO, 2004, p.166). Sarà anche
la ferita provocata da questo sradicamento a prosciugare, lentamente, la sua
voglia di vivere e ad insinuare il tarlo che lo porterà al suicidio.
Alla fine furono le Langhe.
Prima di porre fine alla sua vita in un albergo di Torino, nei pressi della
stazione, “volendo morire, nella città che gli apparteneva, come un
forestiero” (GINZBURG, 1960, p.33), per l’ultima volta lo scrittore vuole
celebrare l’amore per la terra che lo ha visto nascere, rievocando attorno alla
trama de La luna e i falò i luoghi, i volti, i profumi, i colori, i suoni delle sue
Langhe, “figure primordiali” maturate nell’esperienza di una vita e
“arricchite dei sedimenti successivi del ricordo” (“Del mito, del simbolo e
d’altro”, PAVESE, 2002, p.149). Ancora oggi, a sessanta anni dalla morte,
chiunque desideri parlare di Cesare Pavese non può prescindere dal profondo
legame che lo scrittore ha intessuto con i luoghi che lo hanno visto nascere e
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diventare uomo; in uno dei suoi racconti più belli, lo scrittore sembra
spiegarcene il motivo e suggerci il modo più corretto di ricordarlo:
Quando anni fa morì mio padre, trovai nel mio dolore un senso di calma
che non mi aspettavo eppure avevo sempre saputo […] Pensai che mio
padre ora esisteva come qualcosa di selvatico e non aveva più bisogno di
girare giorno e notte per dirmelo. La chiesa, com’è giusto, l’aveva
inghiottito, ma la chiesa anche lei non va al di là dall’orizzonte e mio
padre sotterra non era cambiato. Da corpo di sangue era fatto radice, una
radice delle mille che tagliata la pianta perdurano in terra […] Ora in
tutte le cose sentivo mio padre; la sua assenza pungente e monotona
condiva ogni vista e ogni voce della campagna. Non riuscivo a rinchiuderlo
dentro la bara nella tomba stretta: come in tutti i paesi di queste colline
ci son chiese e cappelle, così lui mi accompagnava dappertutto, mi
precedeva sulle creste, mi voleva ragazzo. Nei luoghi più suoi mi fermavo
per lui; lo sentivo ragazzo. Guardavo dalla parte dell’alba la strada e la
città nascosta in fondo dove –quanto tempo fa?- lui era entrato un
mattino, col suo passo campagnolo e raccolto. (“Storia segreta”, PAVESE,
2002, p.193-94)
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TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009