15. La Politica al femminile, il Politico al maschile

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15. La Politica al femminile, il Politico al maschile
15.
La Politica al femminile, il Politico al maschile
La Politica e il Politico è una distinzione novecentesca.
Presuppone la fine del monopolio della forza nelle mani
dello Stato. E l’esaurirsi dello jus publicum europaeum. C’è un
residuo, un’eccedenza, che resta fuori della dimensione statuale e che si esprime in nuove soggettività, possono essere
partiti, movimenti, gruppi di pressione, poteri di fatto e non
di diritto, oppure orizzonti di senso, rivendicazioni di parte,
capaci di autonomi ordini simbolici.
La teoria e la pratica della differenza, mentre il secolo
scorso girava intorno a se stesso, mentre declinava l’età delle
guerre civili europee e mondiali, ha mostrato l’esistenza di
una di queste soggettività nuove, poststatuali. Ma non solo.
La tesi di questo intervento è secca. Quella della differenza
femminile è una emergenza postpolitica.
Mi sentirei di contestare che si tratti di un altro modo di
fare politica. Questa espressione: «un altro modo di fare politica», trae la sua origine dall’immaginario degli anni Sessanta, esplode nel Sessantotto, si sviluppa, in forme diverse, negli anni Settanta.
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Dobbiamo constatare oggi che non ha portato a buon fine.
Ha espresso, ha portato, ha segnato un cambiamento nella
percezione della realtà e soprattutto nella volontà di trasformarla, a livello di esistenze individuali e a livello di movimenti collettivi.
Nel medio periodo, nel corso degli ultimi decenni, ha avuto però una funzione solamente decostruttiva. Non a caso si è
incontrata con alcuni orientamenti di pensiero francese.
Alla fine si è iscritta, inconsapevolmente ma passivamente,
nella fase che, dagli anni Ottanta in poi, si può definire come
di restaurazione innovatrice, un episodio al ribasso della tradizione alto borghese, novecentesca, della rivoluzione conservatrice. Qui si è trattato di una reazione antinovecentesca,
dai caratteri medio borghesi.
Come vedete, sto cercando di movimentare il quadro della
discussione. In realtà, a partire da me, devo registrare e cerco di comunicare, con franchezza, che spero solo non risulti
irritante, un passaggio di grande freddo nei confronti dell’esperienza femminista, che pure ho riguardato con partecipazione umana e curiosità intellettuale.
Questo, all’interno di un più generale ripensamento critico intorno a quella mutazione antropologica che ha preso
avvio dai favolosi anni Sessanta. Nel caso specifico della differenza, il punto di contrasto può essere messo a sintesi nella
seguente formulazione: voi dite che la rivoluzione femminile
è l’unica rivoluzione riuscita del Novecento; io dico che la rivoluzione femminile è una delle rivoluzioni fallite del Novecento.
Il secolo passato va rubricato sotto il titolo di: fallimento
della rivoluzione. Con due conseguenze di comportamento
da trarre: l’orgoglio ideale per aver realizzato il tentativo e
la presa d’atto realistica che quel tentativo è stato sconfitto.
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Sconfitti, non vinti. Il lascito per le generazioni future è
niente altro che il compito di ricostruire una forza «vendicatrice», per usare le parole di Walter Benjamin, «che porta a
termine l’opera di liberazione in nome di generazioni di
sconfitti».
Non c’è nulla che abbia di più corrotto i lavoratori – dice
ancora Benjamin – «quanto la convinzione di nuotare con la
corrente». Ecco. Nuotare con la corrente mi sembra la scelta
dello stesso femminismo più radicale. Non mi piacciono queste magnifiche sorti e progressive, cantate in coro, per la
condizione della donna nel pessimo mondo in cui ci troviamo a vivere.
L’oppressione della donna sarebbe tutta altrove, mentre
qui celebriamo, statistiche alla mano, la sua irresistibile avanzata egemonica.
In realtà, ha vinto il paradigma dell’emancipazione, ha
perso il progetto della liberazione. Non solo. Il punto di cui
va presa coscienza è che la conquista dell’emancipazione ha
funzionato come strumento per la sconfitta della liberazione.
Naturalmente l’emancipazione è premessa necessaria della
liberazione. In altri mondi, fuori dell’Occidente, essa ha ancora un carattere sovversivo. Qui da noi, la pratica emancipatoria ha subìto un processo di addomesticamento funzionale.
Si può dire la stesa cosa per il processo parallelo. Ha vinto
la soluzione della democrazia, ha perso il tentativo della rivoluzione. Non solo. La vittoria della democrazia è stato strumento essenziale, decisivo, per la sconfitta della rivoluzione.
Anche qui, o la democrazia diventa strumento per il rivolgimento delle cose, oppure funziona, e così funziona oggi, come prassi gestionale dell’ordine esistente.
Altrimenti è come se noi che viviamo in quello che viene
chiamato il mondo libero, dessimo per raggiunta una condi203
zione di personale libertà, e non riconoscessimo lo stato reale
di servitù volontaria come il massimo che ci viene concesso.
Se non mettiamo le cose lucidamente in questo modo, non
riusciamo a effettivamente liberarci dalla gabbia d’acciaio
della narrazione ideologica dominante.
Se la differenza non è ontologica, non è identitaria, se è –
come dice Luisa Muraro – «un atto di indipendenza simbolica», se è una «schivata rispetto ai percorsi dell’emancipazione», ma io direi una mossa di scarto rispetto alle conquiste
stesse dell’emancipazione, allora non si dà separazione storica dai progetti analoghi di liberazione, e dalle enormi, quasi
insormontabili, difficoltà, in cui essi oggi, tutti, si trovano.
È chiaro che l’emancipazione vincente mette in atto un potente processo di cancellazione della differenza, un potente
processo di inclusione dell’altra metà del cielo nella terra
delle cose come stanno qui e ora e in prospettiva per sempre.
Per usare una immagine teologico-politica, una sorta di immanentizzazione della trascendenza femminile.
Sappiamo che il simbolico e l’immaginario non sono la
stessa cosa.
Ma di nuovo anche qui, non solo. In realtà tra i due piani
si apre una divaricazione. Io, non so se sbaglio, ma scorgo
nel simbolico una dimensione culturale e vedo nell’immaginario una dimensione popolare. Allora, mentre il simbolico
femminile risulta oggi montante e vincente, credo che non ci
sia stato un tempo in cui l’immaginario intorno alla donna
abbia raggiunto un tale stadio di degrado. Blob, una delle rare trasmissioni che si possono vedere, a modo di esempio, ne
dà quotidiana testimonianza comunicativa, nel riassunto sarcastico che fa dell’intrattenimento televisivo a centralità del
corpo femminile.
La situazione è questa: una élite femminile, colta, armata di
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una bella tradizione di pratiche e di pensiero, del tutto separata, e ignorata, da quello che fu chiamato, con una espressione che a me piaceva molto, il popolo delle donne.
Una situazione molto simile, ecco un’altra corrispondenza,
allo statuto dell’opposizione, non ai governi ma alle società
attuali. Una sinistra senza popolo, asserragliata in insediamenti tradizionali, e per il resto confortata, e quel che è peggio, orientata dal consenso dei ceti medi riflessivi, élites di
massa approssimativamente acculturate, mobilitate in battaglie di valori e di principi, che nulla sanno di come vive, o
sopravvive, chi lavora, chi il lavoro non lo trova, chi il lavoro
lo perde, le persone semplici, senza ricchezza e senza potere,
che non subiscono le paure, hanno paura, di un futuro che
non è nelle loro mani, vivono l’incertezza, soffrono l’insicurezza, e vanno a finire, abbandonate, indifese, nella trappola
delle pulsioni populiste e autoritarie.
Sbaglio se dico che il femminismo si è infilato dentro questa contraddizione tra élites e popolo? È di questo che vorrei
si parlasse qui.
E, nel caso, perché? La mia risposta rimanda al titolo di
questo intervento. La politica al femminile ha fatto male a
contrapporsi al politico al maschile.
Intanto, perché questo politico non è un maschile, ma un
neutro. E un neutro che era stato pensato contro le neutralizzazioni e le spoliticizzazioni. Così, la politica al femminile ha
subìto l’urto di quella reazione antinovecentesca, emersa già
dentro il Novecento, che si è espressa come narrazione antipolitica. Questa, sì, narrazione ideologica, prepotente e totalizzante.
Ha fatto male, il femminismo della differenza, a declinare
la relazione contro il conflitto. Era situata nella postazione
migliore per introdurre la civiltà della relazione nella storia
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necessariamente conflittuale evocata dall’idea e dalla pratica
della differenza.
È inutile saltare sulla sedia ogni volta che si nomina il criterio dell’amico/nemico. Io faccio sempre la domanda: ma
insomma, noi viviamo in una società divisa, o no, in un mondo diviso, o no? Non ci sarà più la contrapposizione tra grandi classi antagoniste, lo scontro tra blocchi di potenze, l’alternativa tra ideologie inconciliabili, ma c’è ancora, in questa
società e in questo mondo, chi può liberamente comandare e
chi deve per forza obbedire, tra gli straricchi e i miserabili,
tra chi ha tutto e può avere tutto e chi ha niente e non può
avere più di niente?
O viviamo in una società e in un mondo di armonie prestabilite?
Che cosa volete che sia la politica se non il pensiero e la
pratica di questo conflitto?
Chi vi dice che non ci deve essere più il nemico, vi sta dicendo che è amico delle cose come stanno, che devono restare così.
Qual è il novum da introdurre in quel Kriterium? È il superamento della separazione novecentesca tra Zivilisation e
Kultur. Il criterio dell’amico/nemico non va soppresso, va civilizzato. Mettere la relazione nel conflitto vuol dire esattamente questo: vuol dire il conflitto senza la guerra, vuol dire
la forza senza la violenza.
Solo noi, uomini e donne che abbiamo avuto il privilegio
di vivere il Novecento, possiamo operare, almeno nell’idea,
questo passaggio. E non è un noi generico. È il noi di chi ha
attraversato, nel secolo, con una oggi impensabile felicità intellettuale, la grande avventura del movimento operaio organizzato, e in particolare di quella punta più avanzata, che è
stato il movimento comunista.
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Il più alto modello di conflitto senza guerra, che io conosca, è la lotta di classe. Gli operai che sottraggono lavoro vivo alla macchina come capitale morto, incrociano le braccia,
sospendono la produzione di profitto, non uccidono, ma
combattono il loro nemico. Il nemico, nella politica, non
presuppone la sua eliminazione, presuppone, contro di esso, la lotta.
Perché allora la differenza non può assumere questo criterio?
Per finire, non posso che aggiungere, in coerenza con la
tonalità del discorso, un’ultima provocazione.
Non date retta a chi dice: il mondo è delle donne, anche
se la voce consolatoria viene, dati alla mano, da un autorevole sociologo.
Il mondo è dei padroni, è dei padroni del mondo. Io so di
vivere in questo che non è il mio mondo, parlo di questo
giardino delle meraviglie che si chiama Occidente. È il mondo dominato dai miei nemici, che ne fanno quello che vogliono, perché hanno un potere assoluto. Un potere assoluto
di tipo nuovo, democraticamente legittimato. Un assolutismo
che riceve legittimità non dall’alto, ma dal basso. In questo
senso non è un potere sacralizzato, ma secolarizzato.
Di qui, l’idea di un’operazione parallela di critica dell’emancipazione, critica della democrazia, critica della secolarizzazione, che vada a colpire i punti più avanzati in cui dà
rappresentazione di sé l’ordine sistemico attuale.
È da qui che discende quella potenza inclusiva, che è il vero potere da battere.
Consiglierei di tornare a quella fortunata formulazione,
che fu per me il colpo di fulmine nell’innamoramento per il
pensiero e la pratica della differenza.
Quel Non credere di avere diritti, Libreria delle donne di
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Milano, 1987, che da Demau e da Rivolta femminile raccontava un viaggio, approdava a quelle, come al solito, geniali
parole di Simone Weil: «Non credere che ci si possa legittimamente aspettare che le cose avvengano in maniera conforme alla giustizia; tanto più che noi stessi siamo ben lungi
dall’essere giusti».
Parole sante. Proprio perché parole ingiuste.
E l’utopia resta giustamente fuori campo.
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