CAPITOLO IX Uso e abuso del decreto legge di Giovanni Marongiu

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CAPITOLO IX Uso e abuso del decreto legge di Giovanni Marongiu
CAPITOLO IX
Uso e abuso del decreto legge
di Giovanni Marongiu
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Capitolo IX - Uso e abuso del decreto legge
SOMMARIO: 1. Tributi senza consenso e la necessità di un codice fiscale - 2. Riferimenti bibliografici
1. Tributi senza consenso e la necessità di un codice fiscale
Molti sono gli interrogativi che hanno trovato risposta negli scritti qui
presentati e altrettanti quelli che, invece, rimarranno senza risposta e nessun giurista si stupirebbe se non fosse che, negli ultimi anni, l’incertezza,
con riguardo alle norme fiscali, non è più imputabile solo alla mutevolezza
del quadro politico, sociale ed economico (cui le normative tributarie sono
sensibilissime) ma ad un preciso fattore che merita una particolare attenzione perché ha inciso e incide sugli stessi equilibri istituzionali, l’abuso del
decreto-legge.
Potrà stupirsi il lettore ricordando che la Legge n. 212/2000 (meglio
conosciuta come lo “Statuto del contribuente”) antivedendo questo
deprecabile fenomeno, statuì (e statuisce) che “non si può disporre con
decreto-legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di
tributi esistenti ad altre categorie di soggetti”.
Palese è l’intento, nella legge che per la prima volta ha dettato i principi
generali dell’ordinamento tributario, di contenere l’uso del decreto-legge.
Ma, ahimè, proprio l’impatto dello Statuto sull’ordinamento fiscale
necessita di qualche puntualizzazione.
I giudizi sulla operatività dello Statuto sono i più disparati ma per trarne
qualche indicazione occorre essere più precisi, meno qualunquistici e non
abbandonarsi, sconfortati, all’affermazione per la quale lo Statuto non serve
perché è continuamente violato.
Al riguardo è, quindi, indispensabile porsi in una prospettiva e la più
corretta appare quella degli interpreti, degli operatori cui si rivolge lo Statuto
stesso.
In primis (ben si intende non in ordine di importanza) vi sono gli studiosi.
Ebbene qui gli elogi allo Statuto e le sue corrette applicazioni sono,
direbbe una celebre canzone, “senza fine”. Non solo allo Statuto sono state
dedicate specifiche monografie e dotti articoli ma non v’è istituto tributario
che non sia stato rivisitato alla luce dei principi dettati dallo Statuto stesso: e
come se la letteratura fosse datata prima e dopo il 2000.
Ugualmente dicasi per la pubblica amministrazione, certo con qualche
maggiore fatica e con qualche resistenza. Ricordo il panico che suscitò il
disposto della norma sull’interpello “chi tace acconsente”. L’amministrazione
si è organizzata e, lo dicono gli operatori, l’interpello ordinario funziona, così
come l’autotutela, così come il dialogo.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione e delle Commissioni tributarie ha assunto lo Statuto come una stella polare. È sufficiente ricordare: a)
l’affermazione che i principi dello Statuto hanno una superiorità assiologica e
hanno funzione di orientamento ermeneutico vincolante per l’interprete; b)
il riconoscimento che il principio di buona fede vale anche nei confronti del
tributo; c) la emendabilità di tutti gli errori del contribuente, testuali ed extratestuali, di fatto e di diritto, riconoscibili e non riconoscibili; d) la tutela dello
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spatium deliberandi (60 giorni) nell’ipotesi di notifica di p.v.c.; e) il rispetto
dell’obbligo di motivazione; f) il riconoscimento del contraddittorio quale principio generale (al riguardo e per un’esposizione dettagliata di tutte le questioni
affrontate dalla dottrina e dalla giurisprudenza si veda G. Marongiu, 2010).
A quest’ultimo riguardo il Supremo Collegio significativamente soggiunge che “Questa interpretazione rappresenta una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni della legge istitutiva dell’accertamento
sulla base di parametri, in quanto:
a) da un lato, il contraddittorio deve ritenersi un elemento essenziale e
imprescindibile (anche in assenza di una espressa previsione normativa) del
giusto procedimento che legittima l’azione amministrativa (in questo senso
v. Cass. n. 2816 del 2008, sulla base di argomentazioni che il collegio condivide e conferma);
b) dall’altro, esso è il mezzo più efficace per consentire un necessario
adeguamento della elaborazione parametrica alla concreta realtà reddituale
oggetto dell’accertamento nei confronti di un singolo contribuente e cioè
alla sua capacità contributiva” (così Cass. civ., SS.UU., 18 dicembre 2009,
n. 26635).
E qui mi fermo omettendo le decine di sentenze delle Commissioni
tributarie che, quotidianamente, fanno applicazione dello Statuto.
Discorso ben diverso va fatto nel giudicare il rapporto tra Statuto del
contribuente e legislatore.
Il primo statuisce la eccezionalità delle leggi interpretative e il secondo
le approva a man salva.
Il primo indica le irretroattività della legge come un principio generale e
il secondo continuamente deroga un precetto posto a garanzia della certezza
del diritto.
Il primo cerca di contenere l’uso del decreto-legge in ambiti fisiologici
e il secondo ne abusa quotidianamente, ancorché, è appena il caso di ricordare, l’art. 77 Cost. statuisca che solo “in casi di straordinaria necessità e
urgenza il governo può, sotto la propria responsabilità emanare atti aventi
valore di legge”.
Ho parlato volutamente di abuso e la locuzione non è figlia di un malinteso qualunquismo.
Già nel 1996 l’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro,
rispondendo al “grido di dolore” del presidente del Consiglio Nazionale
del Notariato che gli aveva manifestato il profondo disagio della categoria
di fronte alle conseguenze dell’abuso della decretazione d’urgenza, riconosceva che la situazione venutasi a creare presentava ormai “tali aspetti di
patologia istituzionale, da non poter essere più sostenibile e da recare seria
minaccia alla certezza del diritto, che deve invece costituire elemento fondante degli atti con i quali si definiscono e si regolano le situazioni giuridiche”.
Dieci anni dopo sono i numeri che parlano.
Tra il 2006 e il 2008 con il governo Prodi su 24 leggi approvate dal
Parlamento 3 sole erano di origine parlamentare; ben 21 erano di origine
governativa di cui 13 di conversione di decreti legge.
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La situazione è ulteriormente peggiorata nel solo primo anno del
governo Berlusconi: a febbraio 2009 rispetto alle 45 leggi approvate 1 sola
era di origine parlamentare e ben 44 di origine governativa e di queste 25
erano conversioni di decreti-legge, con l’apposizione della fiducia per 11
volte e la marea non si è arrestata ma è venuta meno la pazienza di contare
gli uni (i decreti-legge) e le altre (le fiducie).
Ora non v’è dubbio che più fattori congiurano a ridimensionare il ruolo
e il potere del Parlamento, dei Parlamenti, del principio democratico, ma è
altrettanto vero che, proprio con riguardo ai tributi, occorre trovare un punto
di equilibrio tra governo (il momento decisionale) e Parlamento (il momento
del consenso) perché le imposte si legittimano con il consenso e questo
può derivare solo da un effettivo dibattito pubblico nelle aule di Camera e
Senato.
Non a caso lo Statuto albertino sanciva all’art. 30, che “nessun tributo
può essere imposto e riscosso se non con il consenso della Camera e la
sanzione regia”.
Certo oggi l’art. 23 utilizza una formulazione più moderna e quindi sancisce che “nessuna prestazione patrimoniale o personale può essere imposta
se non in base alla legge”; ma, essendo il tributo una obbligazione di ripartizione (si veda l’art. 53 Cost.), è di tutta evidenza che solo i rappresentanti del
popolo hanno, in via normale, il potere di istituire e disciplinare le imposte.
Solo la legge ordinaria realizza il principio primo e fondamentale dei tributi,
l’auto imposizione, e, in questo quadro, il decreto legge è, e deve rimanere,
uno strumento eccezionale di legislazione.
Si convive, invece, con un sistema impositivo di stampo burocratico
(il governo di cui al precetto costituzionale significa in concreto il ministro
competente e questi rimandata alla propria burocrazia) che, alla possibile
arbitrarietà, aggiunge la certezza di essere privo di consenso espresso
nelle aule parlamentari perché istituire con decreto legge i tributi (e modificarne di continuo la disciplina) e porre sulla legge di conversione la fiducia significa azzerare il vaglio, il dibattito (decadono gli emendamenti) e
quindi “il consenso” del Parlamento: e ciò, ahimè, è accaduto e accade
incidendo sui delicati equilibri tra maggioranza e opposizioni, tra governo
e Parlamento.
Ovviamente lo stravolgimento delle regole costituzionali non sarebbe
grave (anzi) se i numerosi decreti-legge si limitassero a modificare le aliquote
dei tributi e cioè ad alleggerire o ad appesantirne il peso (per questo furono
inventati i decreti-legge).
In realtà con essi si stravolgono discipline e comparti fondamentali
dell’ordinamento.
Vi sono, addirittura, tributi noti da secoli e applicati in tutto il mondo che
sono scomparsi e ricomparsi come fiumi carsici!
Nel 2001 fu soppressa l’imposta sulle successioni che era stata opportunamente ridisciplinata nel 2000: per cinque anni, quindi, fummo l’unico
Stato membro delle N.U. a non avere un tributo di successione e perdemmo
più di 12.000 miliardi di vecchie lire.
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Nel 2006 il tributo fu ripristinato con l’art. 2 del D.L. 3 ottobre 2006,
n. 262 e nessun italiano ha mai compreso (al di là delle ragioni elettorali)
perché il tributo fu prima soppresso e poi ripristinato.
Con decreto “televisivo” trasfuso nell’art. 1 del D.L. 27 maggio 2008,
n. 93 (conv. nella Legge 24 luglio 2008, n. 126) fu disposto che, a decorrere
dall’anno 2008, sarebbe stata esclusa dall’ICI l’unità immobiliare adibita ad
abitazione principale del soggetto passivo.
Fu un record quanto alla violazione dei principi.
In una stagione di conclamato federalismo il legislatore nazionale (e cioè
“romano”) sottrasse, indiscriminatamente, ai Comuni una risorsa importantissima, mentre il rispetto delle regole avrebbe voluto che i Comuni fossero
facoltizzati a non applicare il tributo (ciascuno di essi avrebbe deciso autonomamente in relazione alla propria specifica situazione).
Fu sottratto ai Comuni italiani una importante fetta di gettito che i
Comuni di tutto il mondo gestiscono (salve le esenzioni per conclamate
situazioni di indigenza) e questo accadeva proprio mentre, per esigenze di
equilibrio dei conti pubblici, erano ridotti i trasferimenti: le autonomie locali
furono così strozzate tra la sottrazione di un cespite e la riduzione dei trasferimenti fermo rimanendo l’obbligo, si intende, di rendere ai cittadini gli
attesi servizi.
Insomma, il legislatore nazionale si mise le penne del pavone, i Comuni
furono mortificati e il cittadino ha pagato e paga vuoi con l’aumento rilevante
degli altri tributi comunali vuoi con la diminuzione della quantità e della qualità dei servizi.
In sintesi, in nome di una asserita necessità e urgenza si mortificano
il vaglio del Parlamento e quindi la legge ordinaria ma i frutti non sembrano
cospicui, anzi sono molto spesso velenosi, perché l’abuso del decreto legge
ne rende incerta la stessa sopravvivenza nel tempo.
Ne costituisce testimonianza la sorte di quel tributo chiamato, suggestivamente “Robin Tax”ed istituito anch’esso con decreto legge.
Infatti la Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, con ordinanza del 26 marzo 2011 (pubblicata in Gazz. Uff. del 19 ottobre 2011) ha
ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17, 18, D.L. 25 giugno 2008 (conv. nella
Legge 6 agosto 2008, n. 133) per violazione degli artt. 3, 23, 41, 53, 77 e
117 Cost.
Nella ben argomentata ordinanza si legge, fra l’altro che “il decretolegge in esame è stato emanato in carenza del presupposto del caso straordinario di necessità ed urgenza in quanto l’addizionale è stata istituita per
un tempo illimitato, ha carattere di tributo autonomo e ordinario, incide, perciò, strutturalmente nell’ordinamento tributario e non è conseguentemente
misura straordinaria e temporanea per rispondere a una situazione di fatto
improvvisa e straordinaria, determinatasi nel mercato degli idrocarburi liquidi
e gassosi” (omissis) (si veda al riguardo G. Marongiu, 2008, n. 5).
Non meno significativi sono gli esempi che si possono trarre dalle
discipline delle sanzioni, dell’accertamento e della riscossione, ancora più
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sensibili perché il loro mutamento improvviso e improvvisato può comportare errori e sicuramente maggiori oneri economici, e non solo.
Si pensi a quello che è accaduto con riguardo alle sanzioni amministrative tributarie. Nel 1997, nel momento in cui si era dettata una disciplina
di principi, si era scelto di colpire l’autore della violazione. Nel 2003, con
un decreto-legge, per i soggetti e le società dotate di personalità giuridica,
si scelse di sanzionare il “contribuente” (società delinquere potest): e così
oggi abbiamo un sistema binario - uno per le persone fisiche (che sanziona
l’autore della violazione) e uno per le persone giuridiche che sanziona il “contribuente” - privo di qualsiasi ragionevolezza.
E ancora. Nel 2010 si è mutata la disciplina dell’accertamento sintetico
redditometrico (con decreto-legge) e solo nel mese di ottobre del 2011, è
stato reso noto il decreto ministeriale di attuazione: il che induce a chiedersi
quale fosse, nel 2010, il caso straordinario di necessità e d’urgenza.
Si pensi ancora al raddoppio dei termini dell’accertamento disposto
dall’art. 37 del D.L. n. 223/2006, assolutamente non prevedibile. Al riguardo,
ci sia consentito osservare che non è facile cogliere la ratio dello “strappo”
nel contesto di un ordinamento complessivamente orientato a principi di
garanzia, che trovano chiara espressione non solo nella Costituzione ma
anche nello Statuto del contribuente che pure riveste una riconosciuta
valenza orientativa nell’interpretazione delle leggi.
Nell’applicazione delle imposte v’è, non può non esservi, l’esigenza di
una “giustizia procedurale”, che si traduce nella “neutralità nelle procedure”
e nella “affidabilità dell’autorità fiscale” perché le prime non sono poste
nell’interesse fiscale, ma di un interesse superiore a quello delle parti. È il
caso dei termini di decadenza che sono alterati nella loro funzione quando
sono prorogati per la comodità dell’amministrazione pubblica.
Ma non minore stupore ha suscitato la cosiddetta concentrazione della
riscossione nell’accertamento: con l’art. 29 del D.L. 31 maggio del 2010,
n. 78 (conv. nella Legge 30 luglio 2010, n. 122) si è sovvertito un sistema
pluri-pluridecennale che prevedeva la distinta notificazione di due atti, l’atto
di accertamento e la cartella di pagamento, e si sono concentrati l’accertamento, il titolo esecutivo e il precetto nel primo atto.
Riforma forse necessaria ma che avrebbe richiesto una maggiore riflessione, un più ampio coinvolgimento dei tecnici, una migliore informazione
tant’è che, a fronte delle difficoltà, il governo è dovuto intervenire con un
secondo decreto-legge (il n. 70 del 13 maggio 2011) spostando in avanti la
data di applicazione della nuova normativa.
Constatazioni che fanno giustizia anche delle argomentazioni secondo
cui il decreto-legge garantirebbe una maggiore rapidità delle decisioni e una
loro migliore formulazione perché i casi sopra ricordati mostrano proprio
il contrario e cioè che decreti-legge raffazzonati richiedono modificazioni,
ripensamenti, proroghe.
Si infittiscono così le censure di incostituzionalità come è accaduto al
recentissimo decreto-legge istitutivo della c.d. “Robin Tax”.
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E allora, ancora una volta, viene naturale chiedersi: è mai possibile che
strappi così forti alle discipline previgenti siano stati perpetrati dal governolegislatore e cioè dalla sua burocrazia e quindi da una delle parti del rapporto giuridico di imposta? Quale è stato l’evento straordinario, necessario
e urgente che ha indotto a scegliere la scorciatoia del decreto legge (con
fiducia) per stravolgere la certezza dei rapporti? Come può invocarsi la lealtà
reciproca quando il c.d. legislatore fa strame delle norme costituzionali?
E si badi che le nostre non sono considerazioni da azzeccagarbugli.
Vale al riguardo il severo monito della Corte di Cassazione che, a proposito di una delle numerose leggi interpretative, scrive: “Si aggiunge, poi,
che come è accaduto nel caso di specie, in materia fiscale gli interventi
interpretativi sono sempre pro Fisco, in quanto dettati da ragioni di cassa
(nell’intento di realizzare maggiori entrate)”. Non sono ispirati, quindi, alla
esigenza di realizzare la certezza del diritto, ma soltanto a garantire gli interessi di una delle parti in causa. Ciò non facilita l’instaurarsi di un rapporto
di fiducia tra amministrazione e contribuente, basato sul principio della collaborazione e della buona fede, come vorrebbe lo Statuto del contribuente
(art. 10, comma 1, Legge n. 212/2000).
Nel caso di specie, poi, non è facile distinguere l’Amministrazione finanziaria, parte in causa, dal legislatore, posto che la norma interpretativa è
stata approvata con decreto-legge del Governo, convertito in una legge, la
cui approvazione è stata condizionata dal voto di fiducia al Governo.
“Tanto che se fosse stato diverso l’orientamento del collegio (rispetto
alla scelta legislativa), non ci si sarebbe potuti esimere dal valutare la compatibilità della procedura di approvazione dell’art. 36, comma 2, D.L. n. 23/2006,
con il parametro costituzionale di cui all’art. 111 Cost., che presuppone una
posizione di parità delle parti nel processo, posto che, nella specie, l’Amministrazione finanziaria ha avuto il privilegio di rivestire il doppio ruolo di parte in
causa e di legislatore e che, in questa seconda veste, nel corso del giudizio
ha dettato al giudice quale dovesse essere, pro domo sua, la corretta interpretazione della norma, sub judice” (così Cass. civ., SS.UU., 30 novembre
2006, n. 25506).
Insomma, il momento giurisdizionale mostra segni di palese fastidio
rispetto alle prepotenze del c.d. legislatore.
È queste preoccupazioni sono tanto più gravi oggi stagione nella quale
si profila una nuova minaccia, il possibile depotenziamento del processo tributario. Minaccia tanto più grave ove si rammenti che “la legalità dell’imposizione richiede non solo la disciplina dei rapporti, ma l’organizzazione
necessaria per attuarla, sia dell’amministrazione che del giudice adeguato.
Senza una adeguata tutela giurisdizionale tutta l’imposizione prevista dalle
leggi tributarie sarebbe costituzionalmente illegittima”, come ha scritto lucidamente Valerio Onida.
Ebbene in questa prospettiva numerosi sorgono gli interrogativi che
restano senza risposta.
Non sarebbe forse opportuno che le segreterie delle Commissioni tributarie fossero sganciate dalla dipendenza dal Ministero dell’economia?
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E ancora. Come può pretendersi di avere giudici adeguatamente preparati quando l’ordito normativo è attraversato da continui devastanti terremoti?
Come può pretendersi un giudice motivato e pronto ad affrontare le più
difficili controversie che connotano il complesso ordinamento italiano e che
coinvolgono centinaia di migliaia di cittadini quando allo stesso giudice sono
lesinate adeguate risorse?
Qui mi fermerei perché parlando di “abusi” non intendo certo abusare
del tempo del lettore, se non fosse che mi parrebbe limitativo avere indugiato tanto sui condizionamenti negativi del nostro ordinamento tributario
senza pensare a (e proporre) qualche rimedio.
Il rimedio c’è e si traduce nell’andare oltre lo Statuto dei diritti del contribuente. Se lo stesso ha sancito alcuni principi, fondamentali, che hanno trovato e trovano quotidiana applicazione occorre andare oltre e dotare anche il
nostro paese, un’eccezione negativa, di un “Codice” tributario.
L’avvio dei lavori nel senso auspicato sembrava imminente allorquando, nel 2003, fu approvata una legge delega (Legge 7 aprile 2003, n. 80)
che avrebbe dovuto realizzare una riforma generale del sistema tributario
italiano.
La delega fu, allora, portata a compimento solo in modesta parte ma il
ricordarla, oggi, può avere un significato considerato che il codice, da essa
previsto, avrebbe dovuto ripartirsi in una parte generale e in una parte speciale.
E i principi direttivi, che vale la pena ricordare, erano i seguenti: a) rispetto
dei principi costituzionali di legalità e capacità contributiva e uguaglianza;
b) adeguamento ai principi fondamentali dell’ordinamento comunitario, c)
rispetto dei principi di chiarezza, semplicità, conoscibilità ed irretroattività; d)
divieto di doppia imposizione giuridica; e) divieto di applicazione analogica
delle norme sostanziali; f) tutela dell’affidamento e della buona fede; g) disciplina, unitaria per tutte le imposte del soggetto passivo, dell’obbligazione
fiscale, delle sanzioni e del processo; h) minimizzazione del carico di adempimento sul contribuente; i) riconducibilità della sanzione al soggetto che ha
tratto beneficio dalla violazione fiscale; l) applicazione della sanzione penale
solo ai casi di frode e grave danno per l’erario.
Senza entrare nel merito dei singoli principi allora formulati, e nei quali
era evidente l’influenza dello Statuto, occorre dire che l’idea di un codice
tributario, quale, “contenitore” del complesso normativo che usiamo designare come “sistema tributario”, sarebbe un approdo felice,ancorché assai
tardivo, per il legislatore italiano.
Infatti, i principali e più”civili” Paesi del mondo dispongono, da tempo,
di uno strumento codicistico e in Italia se ne parla dai tempi degli studi di Ezio
Vanoni (1937-1938) ma sempre con magrissimi risultati.
È auspicabile, perciò, che la delega del 2003 sia ripresa e, in specie,
che l’opera di codificazione sia concepita come lavoro da demandarsi alle
energie migliori del nostro Paese nel campo della teoria e della pratica del
diritto tributario.
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Un codice della parte generale dell’ordinamento tributario avrebbe
benefici effetti su più versanti.
In primis darebbe maggiore certezza soprattutto agli investitori stranieri
che hanno abbandonato l’Italia non solo per il peso dei tributi (la pressione
fiscale è più pesante che in Francia e in Germania) ma per la inaffidabilità
delle nostre scelte fiscali e per la continua loro mutevolezza.
In secondo luogo, faciliterebbe, rendendoli ripetitivi nel tempo, gli
adempimenti di tutti i contribuenti e quindi li renderebbe meno onerosi diminuendo il costo dell’obbedienza fiscale (calcolata in una percentuale pari al
10-12% del tributo pagato).
In sintesi il codice fiscale costituirebbe, oggi, la più importante e vantaggiosa riforma fiscale a “costo zero”.
È stato promesso da anni. Si confida che esso possa trovare attuazione
nella preannunciata e reclamizzata “riforma del fisco”.
2. Riferimenti bibliografici
G. Marongiu, Robin Hood Tax: taxation without “constitutional principles”?, in Rass. trib., 2008,
n. 5; G. Marongiu, Lo Statuto del contribuente, II ed., Torino, 2010.
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