Un paese lontano - FOR.PSI.COM. Uniba
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Un paese lontano - FOR.PSI.COM. Uniba
Un paese lontano di Giorgio Chittolini 1. Che il passato sia, rispetto al nostro presente, un «paese lontano» è oggi una sensazione abbastanza diffusa: una sensazione di distacco, spesso anche di disattenzione. Non forse per quanto di esotico, di favoloso, di diverso può esserci nella lontananza (basta anzi pensare ai tanti popular uses of the past , alla fortuna della historical fiction); e nemmeno per quanto di famigliare, di quotidiano, di attuale possiamo trovare nelle esperienze di uomini e donne vissute centinaia di anni fa, per «quegli aspetti dell’esistenza umana che sono considerati relativamente non-toccati dal cambiamento storico, come dotati di una ‘quasi-naturale immutabilità’». Questi temi, proprio perché risultano «strettamente legati alle preoccupazioni e alle esperienze del presente», e «con un immediato riscontro nell’attualità della nostra vita, nella nostra esperienza quotidiana», sono anzi capaci di sollecitare un forte interesse, anche al di fuori del mondo degli specialisti . Ma disattenzione o sfiducia si manifestano di fronte alla possibilità di vedere persone, vicende, epoche nel loro profondo spessore cronologico, nelle articolazioni e nei nessi che, lungo il tempo, le legano ad altre; di fronte alla possibilità di vedere quali rapporti uniscano le età passate all'oggi: a cercar di capire (per usare espressioni che gli autori di alcuni libri recenti, pur fra loro diversi, hanno usato per spiegare quale sia il compito dello storico) «come e perché l’homo sapiens è passato dall’era paleolitica all’era nucleare», «come siamo diventati ciò che siamo», come possiamo «cogliere e chiarire le situazioni e i nessi che dal passato hanno portato al nostro presente, e orientano sottilmente il nostro presente». Questo passato appare assai lontano, e spesso di scarso interesse. È un atteggiamento che notiamo nei giovani, nella scuola (si è detto, con una valutazione alquanto pessimistica, che «l'indifferenza degli studenti nei confronti degli eventi del passato si accresce ogni anno»). Ma esso caratterizza più in generale tutta una sensibilità e una cultura, un modo di sentire. La constatazione che «la società occidentale sta diventando largamente e sempre più una società astorica» - constatazione che J. Elliott faceva una dozzina di anni fa, e proprio nel senso che si è cercato di precisare sopra - si può ripetere oggi, a maggior ragione, ed è diventata un luogo comune. Questa sensazione di lontananza, di distacco non significa necessariamente disinteresse da parte degli storici: ma essi di questo clima pure partecipano. E ciò mi pare si traduca in un certo modo di porsi nei confronti del passato, anche nei confronti di età relativamente vicine a noi, definite come «moderne» (magari solo cronologicamente, più che connotativamente), come il periodo del Rinascimento (tradizionale punto d’avvio dell’età moderna), o il seicento, o il settecento. Come ha rilevato recentemente Franco Benigno «i legami che connettevano intimamente le strutture fondamentali della contemporaneità alla fuoruscita dall’antico regime si sono sfilacciati e la sensibilità odierna - che non sapendo come chiamare altrimenti, chiamiamo postmoderna - impone con forza di guardare al passato come a un paese lontano: un mondo alieno che, liberato dal grigio schematismo delle proiezioni storiografiche, riprende colore e vita in virtù della sua alterità» . Sono quindi non tanto i legami col nostro presente, quanto proprio la lontananza, la diversità, l’alterità, che danno colore e vita al passato, anzi, che ci permettono di conoscerlo realmente, sfuggendo «al grigio schematismo delle proiezioni storiografiche», alle forzature e agli schemi interpretativi prodotti da un punto di vista troppo radicato nel nostro presente. 2. Su questo ha insistito recentemente Marcello Verga, con riferimento agli studi condotti sul seicento, un secolo che per lungo tempo è stato trascurato, e valutato negativamente. Sottolineando, in un ricco e lucido articolo, la fioritura delle ricerche e la qualità dei risultati, egli nota come a ciò abbia contribuito la prospettiva in cui gli storici si sono posti: e cioè l’idea di considerare il secolo XVII fuori da «dai condizionamenti di tradizioni storiografiche consolidate e da antichi schemi di interpretazione generale» come quelli che, «nell’ambito di una ricostruzione complessiva della società italiana» ne facevano «l’età della decadenza»; ma viceversa con «la consapevolezza di trovare in quel secolo modelli ideali e di comportamento che, pur rappresentando l'alterità rispetto al presente, sembrano capaci di parlare alla nostra sensibilità, al nostro disincanto e disaffezione per modelli di società in cui si affermano e/ o pretendono di affermarsi paradigmi forti di razionalità ed insieme coesi 'stati moderni' e 'buone maniere' senz’altro meno fascinose di quelle cortigiane». E ciò - aggiunge l’autore - «non per alimentare rimpianti e ideologiche simpatie – che pure non mancano – per un antico regime e per un medioevo il cui potere è diffuso nel corpo sociale e non operano le fratture sociali e politiche segnate dalla rivoluzione del 1789 e dall’affermarsi della ‘società borghese’ e dello ‘Stato moderno’; quanto per negare, di fronte ad una proclamata crisi della modernità, e dei suoi valori politici e ideali, l'inevitabilità e l'unicità del processo di costruzione della ragione e dello stato 'moderni', e insieme per ritrovare in questo antico regime i fili di una complessità sociale che appare oggi presentarsi come il limite o il segno della sconfitta del processo storico di disciplinamento sociale e di costruzione del moderno». A parere di Verga «si vengono consolidando i tratti di un'operazione storiografica tesa alla ricostruzione di un 'antico regime' che non è solo contrapposizione al moderno, ma che è comunque un 'cosmo' da analizzare nelle sue logiche reali e nelle sue rappresentazioni». Quello che emerge è «la delineazione e l'individuazione di un potere, di una società, di una cultura connotati dal ricorso a quella categoria di antico regime che consente agli storici della società e della politica la costruzione di una 'alterità' rispetto alla modernità otto-novecentesca e l'individuazione, quindi, di un oggetto storiografico in sé chiuso, da studiare nelle sue logiche di potere, nei suoi meccanismi economici e sociali, nelle sue forme di riproduzione sociale, nel suo universo culturale, nelle sue credenze e nei suoi comportamenti collettivi». È una alterità della quale «non interessa o non si sa più indicare le linee di passaggio, di transizione alla 'modernità', nella misura in cui certo è oggi certamente assai difficile delineare i caratteri costitutivi del moderno». Anche un altro modernista, Danilo Zardin, pur in un discorso diversamente orientato, ha recentemente insistito sul fatto che l’età moderna – il periodo dal cinquecento al settecento – può essere vista nel suo insieme «come la costruzione di una grande architettura di civiltà, come una “struttura”, un sistema che va capito studiandolo nel suo funzionamento interno, secondo le stesse categorie ordinatrici con cui esso si pensava e descriveva la sua fisionomia, non in funzione o a partire dal punto di vista del nostro presente. Occorre sostituire uno sguardo pienamente storico a quello condizionato dall’interpretazione che la cultura otto-novecentesca ha dato della sua genesi moderna, rileggendola in funzione delle esigenze (e della nuova mentalità) del mondo con cui i padri della storiografia contemporanea si sono trovati a doversi misurare». Il cinquecento, il seicento, il settecento vanno pensati, piuttosto che come prima età moderna, «come ‘antico regime’ cioè un universo dotato di una sua logica interna e che stava in piedi sorretto dalle sue specifiche strutture portanti, sociali, politiche, culturali»; l’antico regime va immaginato «come un sistema organico, fondato su un suo specifico equilibrio e inquadrato in un proprio riconoscibile universo culturale» . Mi sembra interessante, in ambedue gli autori, da un lato l’opzione forte di partenza, a favore della legittimità della costruzione di un quadro largo, di una grande epoca storica, con il riconoscimento, mi pare, di un «senso» che essa possiede, e di una sua logica interna, che ne tiene insieme gli elementi e aspetti diversi, e che noi possiamo intendere e decifrare . E inoltre la sottolineatura del rischio che le categorie interpretative che il presente ci offre, e che proietta sul passato, si rivelino come concetti rigidi, e suggeriscano interpretazioni distorte di «oggetti storiografici in sé chiusi», da capire iuxta propria principia: fuori da schemi e paradigmi interpretativi come quello della «decadenza», di cui Verga opportunamente sottolinea la lunghissima e negativa influenza sulla storiografia italiana, o come quello di una modernità che non conoscerebbe scansioni significative, ad esempio fra antico regime e otto-novecento, scansioni che invece Zardin tende a rimarcare. Al di là dello specifico discorso sul seicento, si avvertono qui gli echi di problemi delicati, dibattuti non solo dagli storici dell’età moderna, e non solo dagli storici. È il problema, comune forse a tutte le scienze umane, della «insolubile antinomia tra il descrivere il sistema dall’esterno, e il comprendere se stessi come parte di questo sistema», e in particolare, nell’ambito degli studi di storia, una delle questioni fondamentali su cui il post-modernismo ha messo l’accento, «the impulse to judge the past in terms of the present»: appunto il pericolo di fare del nostro presente, consapevolmente o inconsapevolmente, il referente del discorso storico (poiché, in quanto risultato di un processo, esso tende a porsi come principio esplicativo del processo stesso, e a interpretarlo anzi alla luce di specifici valori e contenuti). Donde il pericolo di interpretazioni teleologiche, che guardano a un fine, a un obiettivo preconosciuto (come il paradigma della decadenza, ad esempio: elaborato in un altro «presente», ma conservato e custodito dalla tradizione storiografica sino a oggi); ovvero il rischio di interpretazioni che, semplicemente perché rimandano a un «dopo» e a un «prima», distolgono lo sguardo dalla organicità e della complessità di un oggetto storiografico considerato in sé, evidenziando invece gli effetti del «prima» e i precorrimenti del «dopo». In particolare quando questo «dopo» è il moderno: poiché «è oggi assai difficile delineare i caratteri costitutivi del moderno», e le linee di transizione e di passaggio alla modernità oggi «non interessano o non si sanno indicare»). 3. Fortemente interessato al problema della transizione alla modernità appare invece Luca Mannori, in alcune sintetiche riflessioni sollecitate dal volume di A. De Benedictis, Politica, governo e istituzioni nell’Europa moderna: un’opera in cui egli Mannori vede realizzato un quadro compiuto e organico di una situazione di «antico regime»: un quadro così organico, e quasi in sé concluso, da non far capire come esso potesse modificarsi. «E tuttavia proprio per il fatto di non apparire più incamminata verso alcun destino precostituito l’età moderna necessita, ora più che mai, di una teoria del mutamento che ne spieghi il pur innegabile, interno travaglio, e soprattutto quel finale tracollo che, secondo una scansione non contestata dal nostro stesso volume, segna il suo concludersi nell’avvio di una frase storica presuntivamente diversa. Il revisionismo istituzionale dei modernisti ha finito cioè per creare un problema assai serio, che è quello di dar conto della crisi dell’antico ordine: problema le cui dimensioni si rivelano in tutta la loro imponenza non appena si abbandonino i porti separati delle ricerche specialistiche per affrontare un’opera di grande sintesi, come quella che qui recensiamo». Con riferimento alla storia politica Mannori nota che, «se all’interno di una più o meno convenzionale Staatsgeschichte l’evoluzione era iscritta nella logica del modello adottato, e lo storico poteva anche cavarsela (come per tanto tempo si è continuato a fare) accumulando argomenti a confronto di un esito in sé già garantito, …una volta spenta infatti lo stella polare dello Stato moderno, che, come un gigantesco magnete collocato fuori dai confini dell’età moderna, ne garantiva il moto sicuro ed insieme l’esito trascendente, resta da capire come mai allora l’antico regime sia finito». «Il nuovo approccio alla realtà istituzionale chiama [lo storico ] ad un compito assai più impegnativo e difficile, quello di spiegare fino in fondo come mai questo Stato premoderno così robusto, longevo e saldamente fondato abbia ceduto il posto, tra la fine del sette e l’inizio dell’ottocento, ad un tipo di organizzazione politica che sotto una quantità di profili si presenta come la sua negazione… Ciò di cui si avverte la necessità è proprio un nuovo e specifico modello esplicativo, capace di dar conto dell’avvento della modernità, oppure di liberare il campo storiografico da un concetto certamente usurato, ma da cui non ci si può liberale attraverso un’eterna postergazione» . 4. Queste affermazioni - che si compongono quasi come battute di un dialogo - appaiono fortemente divergenti (anche per come sono qui presentate, giustapposte ed estrapolate da discorsi più ampi e complessi). Divergenti, anche se non di necessità esclusive l’una dell’altra. Dietro di esse si avvertono del resto esigenze antiche (ed antiche aporie), che si sono riproposte in altri momenti, più o meno recenti, del dibattito storiografico; e da esse si può forse prendere lo spunto – anche al di là delle intenzioni e della portata delle affermazioni dei nostri autori; e di ciò ci scusiamo – per qualche considerazione a margine. Da un lato si sottolinea il vantaggio di studiare un’età «come in stato di quiete» (per usare la bella espressione di Jakob Grimm a proposito delle sue ricerche sul diritto antico): in modo da evitare «una comprensione storica di tipo ‘teleologico’, quale appunto deriverebbe da un rapporto diretto col diritto vigente», e permette di ritrovare invece «criteri immanenti alla storia dell’antico diritto» . In questo modo si presume di evitare, nel cogliere i caratteri propri di quell’età, forzature categoriali e interpretative: ma si allontana il passato dal presente, almeno nel senso di uno svolgimento cronologico. E non ci si pone (come del resto non si sarebbe posto Foucault), il problema di spiegare il passaggio a un’altra età, o più ingenerale, il problema di uno svolgimento. Di contro si sottolinea – in consonanza con una tradizione antica – il fatto che lo storico deve cercare di spiegare quello che si suol definire «il mutamento», «la trasformazione». Perché appunto è proprio dello storico il senso del cambiamento, l'esigenza di non perdere di vista il movimento e lo sviluppo che di fatto animano costantemente le età e le società del passato, «il cambiamento dei costumi e delle leggi». E, in più, egli avverte l’esigenza di riconoscere una serie di nessi che collegano le età passate fra loro, sino al moderno. In questo modo lo storico, dal suo presente, mantiene il contatto con le età passate, si rivolge ad esse per cercare una risposta ai problemi dell’oggi: introducendo però prospettive e categorie che da quei problemi sono inevitabilmente condizionate. Si aprono allora le trappole della teleologia, «dell’anacronismo, della ‘filogenesi’, della ‘ipostatizzazione/reificazione’», di tutto quanto di infido e rischioso lo storicismo ha prodotto. Queste preoccupazioni si sono rese più acute negli ultimi decenni - gli anni settanta costituiscono un passaggio significativo; e si sono poste questioni più radicali intorno ai modi e alla possibilità stessa di una conoscenza di fatti, di oggetti e di svolgimenti storici (in particolare per la diversità dei nostri lessici e linguaggi rispetto a quelli del passato). Si è posto in discussione non solo il rapporto fra presente e passato, ma anche il rapporto fra la scrittura storica e il suo oggetto; si è discusso intorno alla possibilità di individuare un «discorso» che abbia caratteristiche propriamente storiche rispetto ad altri, e rispetto ad altre forme di narrazione. Si è avvertita una diffidenza crescente - e non solo nel campo della storia - nei confronti di concetti e strumenti epistemologici e linguistici dati per scontati e apparentemente ovvii, ma in realtà ambigui e non neutri, e tanto più fragili e pericolosi quanto più complessi sono gli oggetti di ricerca, quanto più generali le prospettive adottate; una nuova «libertà della memoria» si è contrapposta alla rigidezza di forti e ambiziosi schemi interpretativi. Tutto ciò ha dato avvio a un profondo ripensamento di modelli, concetti e linguaggi, che ha sollecitato novità e sperimentazioni nella articolazione delle ricerche, nella strumentazione concettuale, nella analisi delle fonti. Il «documento» diventa sempre più spesso oggetto di ricerca in se stesso, quasi più che il «fatto» di cui esso dà conto. Il quadro della ricerca storica, nei suoi oggetti e nei suoi metodi, si è straordinariamente e rapidamente arricchito. Alla «storiografia tradizionale» (un’espressione, questa, che e ritornata negli ultimi tempi con una frequenza superiore all’uso che se ne è sempre fatto nei passaggi generazionali), si è contrapposta una «nuova storia», anzi, ben presto, tante «nuove storie». Oppure, di fronte alla «impossibilità di una analisi scientifica della società, si sono immaginate «ritirate strategiche» su obiettivi più limitati . Sono anche emerse - soprattutto nel mondo anglosassone - posizioni radicalmente scettiche, o negazioniste, di ispirazione, spesso, postmodernista (posizioni queste che non si sono tradotte, ne lo potevano, in pratiche storiografiche che si ponessero nel solco della «storia che abbiamo conosciuto», come scrive K. Jenkins). 5. In questo clima, le esigenze espresse da Mannori, di ritrovare la via che dall’Antico regime conduce al moderno, non incontrano forse un’eco diffusa. Gli storici non avvertono forse un interesse forte per il «mondo moderno», per quegli assetti sociali e politici della modernità cui egli si riferisce. Non è più possibile riconoscerli e accettarli come esito «positivo» dell’evoluzione della civiltà occidentale (il termine «moderno» si associa piuttosto al concetto di «crisi» che a quello di «progresso»), e si evoca quasi sempre con un forte segno negativo (magari in contrapposizione all’età medievale). E in ogni caso il tema del moderno ha perso di rilievo e di pregnanza, suscita piuttosto disagio, e incertezze sui suoi contenuti precisi. La parola stessa «moderno» viene usata con qualche cautela, anche in senso denotativo. Risulta anche difficile, come bene notano Verga e Mannori, riconoscere esattamente e datare il periodo che si possa definire «moderno», e indicarne i caratteri e i contenuti. Una volta si tendeva ad anticipare l’avvento della modernità, o a indicarne lontane radici: oggi – privi forse di una identità sicura (moderna?contemporanea?), e correlativamente, di un passato rispetto a cui confrontarci – avvertiamo una sorta di incertezza e di ritegno a constatare una piena e riconoscibile realizzazione della modernità, o a cogliere il momento del suo sfrangiarsi nel presente, nel contemporaneo. Si inclina piuttosto a posporla - prolungando magari l’antico regime ben addentro nell’ottocento o nel novecento in attesa di una sicura constatazione del suo compiuto determinarsi (ma quando?). Non sono oggi molto frequenti libri come quello di Prodi sulla storia della giustizia, citato sopra, libri che prendano di petto il problema della modernità (una modernità che dal cinquecento si prolunga nel presente), con l’esplicito obiettivo di spiegarla nella sua crescita lungo i secoli, e di capire che cosa ha contribuito «a farci diventare ciò che siamo». Ma soprattutto gli storici, del «moderno», tendono a respingere quelle concezioni che hanno teorizzato concetti forti e globalizzanti di spiegazione della storia, del suo movimento, della sua processualità e del suo percorso: in termini fortemente storicistici, di filosofia della storia. Questo «moderno», in tutto il suo «integralismo», è stato appunto l’oggetto prevalente delle critiche degli ultimi decenni, e dalle forzature che esso ha introdotto si sente il bisogno di liberarsi. Di quel moderno si auspica piuttosto una completa decostruzione, se ne prendono esplicitamente le distanze . Non sono novità, sul piano propriamente teorico si può risalire a Nietzsche, Heidegger. Ma questi temi, rimasti per lungo tempo all’interno di un dibattito soprattutto filosofico, con gli anni sessanta e settanta, col passaggio « dalla storiografia alla ‘pratica storiografica a forte consapevolezza teorica’» si sono largamente diffusi, e hanno costituito come un punto di riferimento nella riflessione degli storici e nella pratica della ricerca storica. 6. Così, un'impresa complessa come quella della identificazione delle linee di passaggio dall’«antico regime al moderno» non sembra in grado di raccogliere, oggi, una attenzione forte da parte di molti studiosi. Ma anche il secondo problema sollevato da Mannori, il problema del «cambiamento» (che comporta il problema della «spiegazione del cambiamento»), non suscita particolare interesse. Studiosi di formazione diversa convergono piuttosto sulla proposta di affrontare un'età – il seicento, l’antico regime: periodi di forte significati, grandi campi di indagine e oggetti di ricerca – a patto di distaccarla nettamente dal presente, proprio come condizione di una migliore intelligibilità. La constatazione della inadeguatezza della categoria interpretativa della decadenza, ad esempio, suggerisce immediatamente di riportare questa inadeguatezza al problema generale delle distorsioni che il presente introduce nel cercar di conoscere il passato, e a quello della difficoltà di svolgere un discorso in una dimensione temporale ampia, di riconoscere un’evoluzione identificabile e spiegabile. È una diffidenza, come si è detto, enfatizzata soprattutto da una cultura di ispirazione genericamente post-modernistica, ma che in forme e misure diverse, appare largamente condivisa, sia nelle riflessioni di metodo sia nella pratica della ricerca. Di tale diffidenza si può ben capire la ragione e la legittimità. Il porre un prima e un poi, introdurre un principio di spiegazione temporale, sembra comportare una inevitabile distorsione. E a maggior ragione appare rischioso cercare di capire ciò che nel passato sembra portare all’oggi, in che misura il nostro presente è collegabile a situazioni ed eventi lontani nel tempo. Si avverte il rischio di cadere in discorsi teleologici, o «quasi-teleologici», nella misura in cui, prendendo le mosse dal punto di arrivo, si adottano determinate prospettive e gerarchie di rilevanze, una selezione dei fatti e degli eventi, la costruzione di una processualità; si pongono immediatamente gli annosi problemi della «comprensione» e della «spiegazione» degli eventi, e del loro svolgersi. Più che a occuparsi di linee di evoluzione nel tempo, o di interpretare storicamente il «profilo geologico» del presente, identificando gli strati che provengono da altre epoche , la ricerca si è applicata piuttosto ad ampliare in orizzontale i suoi campi di indagine, mettendo in luce la pluralità e la molteplicità dei possibili oggetti di studio, degli attori operanti , delle identità, delle pratiche messe in atto (pratiche politiche, sociali, del quotidiano). E ciò sia per l’esigenza di ampliare il quadro e di rendere meno esclusivo e selettivo il discorso storico; sia anche per la convinzione che proprio nello studio di soggetti considerati minori e marginali, nell’esame attento del «piccolo insignificante dettaglio», nel nuovo quadro – più complesso e più libero - che da quella prospettiva di partenza si delineava, lo storico possa trovare un rapporto più corretto col suo oggetto di ricerca. Un’esplorazione in orizzontale, del resto, era favorita dall’incontro della storia con le scienze sociali (orientate, nelle loro prospettive di ricerca, in senso prevalentemente sincronico): un incontro fortemente auspicato, e verificatosi di fatto in larga misura. Era favorita forse anche dall’apertura così larga, verso argomenti e temi «minori» e inconsueti (molti dei quali , si è detto sopra, capaci di sollecitare un forte interesse, anche al di fuori del mondo degli specialisti, perché in grado di parlare direttamente, e con un linguaggio attuale, agli uomini e alle donne di oggi, assai più di quanto facesse la storia tradizionale): argomenti e temi (il quotidiano, le passioni, la cultura materiale, etc. ) che si ordinano più naturalmente in tempi lunghi, secondo ritmi diversi da quelli della storia politica. Di fatto, la «dimensione tempo», nel senso di un tempo lungo, entro cui cogliere scansioni e linee evolutive, non sembra essere avvertita come essenziale. Il passato appare talvolta come un immobile serbatoio di casi vari e diversi, una somma di momenti inconnettibili e irrelati, esplorabili piuttosto con gli strumenti dell’archeologia e della genealogia che con quelli della storia. Oppure il tempo risulta come spezzato in una serie di cicli ripetitivi, in cui si possono riconoscere «meccanismi», piuttosto che processi, o fasi. Chi svolge un indagine su un argomento particolare, in un momento particolare, non è spinto a porsi necessariamente il problema del prima e del poi, a valutare quale significato specifico il suo oggetto di ricerca derivi da quella specifica collocazione e contestualizzazione cronologica. E difficoltà ancora maggiori, come in parte si è visto, comporta il problema di come connettere un’età a un’altra, di come spiegare l’evolversi nel lungo periodo di insiemi complessi, collegabili gli uni agli altri, di come costruire periodizzazioni (che presuppongono appunto una «visione generale» dello sviluppo storico). Quelle periodizzazioni «totalitarie», come scriveva Foucault, costruite artificiosamente, sulla base di syncronies massives, suscitano sospetto. «La storia - si legge in un recente volumetto di ‘avvio’ agli studi storici - era presentata come un itinerario, di cui ogni epoca era una tappa, come se esistesse una meta, una evoluzione, una direzione, un ‘cammino’... Ora la situazione è del tutto cambiata. Questo cammino non c’è, - oggi pensiamo – non ci sono tappe» . Sembra di potere constatare il venir meno di quella che mi sembra sia stata una dimensione importante del lavoro dello storico («così come si è fatto sinora», almeno), anzi una sua caratteristica specifica – anche se non l’unica - nell’ambito degli studi di scienze umane: non solo accedere ai materiali del passato, e usarli per restituirci un evento o una situazione o un'età (così come fanno assai bene, e sempre più spesso, dall'interno dei loro discorsi disciplinari, antropologi, sociologi, economisti, psicologi); ma arricchirli di quel valore aggiunto che e dato loro dal tempo, «le plasme même ou baignent les phénomènes ( se vogliamo usare una citazione famosa) et comme lieu de leur intelligibilité»; di quel particolare significato che essi traggono dalla collocazione in un determinato contesto temporale (sia che bastino pochi nessi, sia che vogliano arrivare al presente) In un articolo famoso Edoardo Grendi negli anni settanta poteva descrivere un «senso comune storiografico» che era in gran parte una caricatura della storia politica generale (nei suoi soggetti vuoti e gonfi, e soprattutto nei suoi concatenamenti, spiegati col senso comune, con tautologie, con meccanismi esplicativi ridicoli, alla luce di uno «storicismo selettivo teleologicamente contraddittorio con la storicità delle esperienze» o da una «gerarchia tradizionale delle rilevanze» che da quelle prospettive deriverebbe). Ebbene, mi chiedo se non si intraveda oggi un orientamento (un «nuovo senso comune storiografico»?), attento «al nome e al come» più che al prima e al poi, incline a prescindere da rigide gerarchie di rilevanze, attento a una dimensione orizzontale (nel senso dell’allargamento dei campi, dei temi, dei casi di ricerca) piuttosto che verticale (a cercare come uno spessore cronologico, a vedere il rapporto fra periodi diversi, a individuare collegamenti e scansioni); una ricerca attenta al singolo caso in sé, più che a una prospettiva generale in cui i fatti e gli eventi e i personaggi si dispongano, nel tempo come nello spazio. un quadro ricco, articolato, gratificante, per chi legge la storia, e per chi la scrive, ma talora frammentato, e statico. Se l’obiettivo di un approccio microanalitico era quello di aggirare ingombranti schemi interpretativi, partendo da un piccolo punto, libero da implicazioni ingombranti, che permettesse di ricostruire il sistema di relazioni che si disegna nel tempo e nello spazio intorno all’oggetto della ricerca, l’opzione di partenza, mi pare sia stata condivisa e praticata, ma non sempre perseguito poi l’obiettivo di fondo. «La grandiosa macchina della cultura storica contemporanea - ha osservato Villari - sembra che rischi di incepparsi nel collegamento tra i singoli eventi, le situazioni particolari, che l’analisi filologica ci permette di accertare, e la conoscenza dei processi di trasformazione storica della società, dei fattori che li hanno determinati, dei grandi problemi che nell’una o nell’altra fase sono emersi e delle relative soluzioni». 7. E questo forse è il punto centrale. Se riteniamo che nello studio di un’età passata si possa prescindere dal prima e dal poi, dagli svolgimenti che in qualche modo la legano all’oggi; e riteniamo anzi, che per meglio intenderla nelle sue caratteristiche proprie, sia necessario escludere le interferenze del presente, ed esaminarla «in stato di quiete»: allora dobbiamo tenerla a distanza di rispetto, nel suo paese lontano; e da ciò nasce in gran parte quel senso di lontananza, di estraniamento verso la storia nel senso in cui si diceva all'inizio. Altrimenti, è attraverso le categorie del nostro presente che dobbiamo passare, se vogliamo acquisire «la conoscenza dei processi di trasformazione storica della società», o anche, più semplicemente, se vogliamo cercare ricostruire nessi significativi fra eventi e situazioni, o, ancora, di affrontare il problema del passaggio al moderno, e all’oggi. Sembra difficile rinunciare a categorie interpretative, a un «pensiero», a un «giudizio storico» – come questi strumenti sono stati variamente e approssimativamente definiti -; a costruzioni concettuali (con le loro gerarchie di rilevanze), anche se esse restano talora non esplicitate, o addirittura assunte inconsapevolmente. Sono quegli strumenti nei confronti dei quali lo studioso avvertito nutre oggi non poca diffidenza, per il «carico di teoria» che portano in sé, per la inevitabile e pericolosa connessione col nostro presente, per il mal uso che se ne è fatto sovente. Ma sono proprio gli strumenti – quelli cioè che consentono di stabilire un rapporto col passato, in termini di dialogo, di nessi e svolgimenti – che sono ritenuti assolutamente indispensabili da numerosi altri studiosi; studiosi, soprattutto, formatisi in altra temperie storiografica (o studiosi «meglio educati a porsi problemi propriamente storici, anche di largo orizzonte», come Cinzio Violante definisce sé stesso, e gli storici della sua generazione); studiosi assai diversi fra loro, ma che insistono proprio su questo punto, su questa obliterazione di concetti e di strumenti interpretativi, di «un pensiero» e di un «giudizio storico» che permettano di guardare alla storia in termini di processi e svolgimenti riconoscibili, come su una caratteristica negativa dei nuovi orientamenti di ricerca cui si è fatto cenno. Essi vedono in ciò come un atteggiamento di rinuncia e di rifiuto di fronte alle grandi questioni che il presente ci invita a porre al passato, e dichiarano una senso esplicito di disagio. «Si perde contatto con il senso della storia». Si denuncia l’impoverirsi del lavoro dello storico, si ripropone il concetto crociano della storia come storia contemporanea, della reciproca illuminazione fra passato e presente .«Guai - come suona l’ammonimento di Hobsbawm, secondo l'efficace compendio che ne dà un suo recensore - guai a smarrire il senso della storia, guai a concepirla come un insieme di fatti privi di direzione e di orientamento». Mi pare che intorno a questi problemi si sia evidenziata una linea di divisione, secondo un confine che spesso - non sempre - separa generazioni diverse di storici. Alla diffidenza verso la nuova storia, da un lato, si contrappone, dall’altro, un’esigenza forte di emancipazione rispetto alla «storiografia tradizionale» (dei nessi e degli svolgimenti, delle grandi costruzioni e narrative, implicite o esplicite): e ciò con una vivacità polemica maggiore che in altre fasi di passaggio. Sarebbe un peccato se, dopo le novità di spunti e di problemi sollevati negli ultimi anni, si determinassero arroccamenti intorno a idiomi generazionali diversi, autoreferenziali e non dialoganti. 8. Marcello Verga - quasi anticipando una sua risposta al problema posto da Mannori – notava che mancano forse sia la volontà, sia forse la capacità di indicare le linee di passaggio alla modernità. L’ampio dibattito che si è svolto in questi anni ha mostrato il rilievo e la portata dei problemi epistemologici che in effetti si pongono, in rapporto a questioni del genere. Tesi antiche e recenti sono state poste, discusse, riproposte, da prospettive diverse (di teorie della storia, di metodo storiografico, di historiology), con linguaggi diversi (e non sempre desiderosi di confrontarsi veramente fra loro). E risulta difficile addentrarsi in un campo che presuppone competenze lontane dal semplice esercizio di una pratica di ricerca. Ma ci si può forse chiedere fino a che punto il distacco dal presente, e il rigetto delle concettualizzazioni che esso produce, debbano essere considerati presupposti obbligati di una corretta pratica storiografica, di una «nuova storia», o di una «nuova nuova- storia» opposte, in una rigida polarizzazione, a una vecchia storiografia); e fino a che punto si debba escludere la possibilità di guardare al passato in una prospettiva di nessi (e rotture, e discontinuità) con il presente, nell’idea di una circolazione viva di problemi, di domande, di risposte fra i linguaggi del presente e i linguaggi di tanti passati. Su questi problemi del resto ci si è a lungo soffermati (come si accennava) dopo che essi sono emersi con forza a fine ottocento, e oggi si ripropongono, dietro nuove sollecitazioni, in termini anche più complessi, su un terreno di discussione assai più ampio. Sono problemi ben vivi, ad esempio, lungo tutta una linea di riflessione come quella che da Koselleck risale a Droysen, intorno ai problemi di una nuova Historica (riflessione in cui la questione del tempo storico ha una importanza centrale); e sono ben vivi in uno studioso come Momigliano – ce lo ricorda un saggio recente - che riteneva cruciale, e si poneva come oggetto continuo di analisi, il problema «dell'ambivalenza con cui necessariamente guardiamo ai modelli dei nostri molteplici passati, e dell'impossibilità di stabilire con essi un rapporto diretto, non mediato dalla ricostruzione dei processi che ci hanno trasmesso quei modelli» . In una inevitabile pluralità di approcci e di «storie» mi pare che di fatto si siano elaborati, in questi decenni, da posizioni di partenza diverse, «strumenti e metodi per rendere possibile scoperta dei fatti e controllo delle mosse degli storici nell’età dello storicismo, cioè quando anche lo sguardo dello storico è collocato nel flusso degli eventi» : e pure vuole ricercare – aggiungiamo – nessi e svolgimenti, che ci aiutino a capire il mondo di oggi. Al presente siamo inestricabilmente legati, e da esso soltanto nasce lo stimolo a guardare al passato. Né, d’altra parte, il passato può esso stesso, senza alcuna sollecitazione, farci giungere la sua voce : «i fatti sono muti». Il passato è sempre «contemporaneo»; ovvero un «passato-presente», se così vogliamo chiamarlo con Koselleck, o un «passato del presente», come dice Luhmann; e da quest’ultimo dobbiamo partire per studiarlo, seppure in un’inevitabile commistione di concetti e di linguaggi. Una commistione che possiamo tranquillamente accettare (in una prospettiva, ad esempio, postmodernista, in cui il nesso fra presente e passato nemmeno si pone come problema, grazie a una sorta di recupero empatico consapevolmente anacronistico); o che dobbiamo cercare in qualche modo di districare: tenendo tuttavia presente il fatto che lo svolgersi del tempo ci ha spinto inesorabilmente fuori dal «villaggio» che vogliamo studiare, in una condizione di osservatori oggettivamente estranei ad esso. Anche l’idea di vedere il passato in termini di alterità, piuttosto che di congiunzione, risponde appunto al bisogno di guardarlo con uno sguardo più libero e non condizionato; ma l’alterità presuppone il presente e la nostra collocazione nel presente. Il rapporto, in questo caso, è speculare, non di derivazione: ma non per questo meno preciso e stringente. Se si vuole mantenere il rapporto col passato in termini di derivazione/svolgimento, il problema è quello di calibrare e raffinare strumenti conoscitivi troppo grossolani o usurati, di rinnovare e arricchire la «cassetta degli attrezzi» (Koselleck). Si tratta di vedere quale grado di verità possiamo proporci in relazione ai diversi temi e problemi che ci poniamo come oggetto, applicando volta a volta criteri che, nelle diverse prospettive, possono essere diversi (devono anzi essere diversi, quanto alla «scala», ai metodi, ai provvisori modelli esplicativi, modelli da intendere come strumento, non come fine della ricerca), e pure restano legittimi e corretti, sulla base dei requisiti di «verità» che si applicano (e sono comunemente accettati) nella pratica della ricerca. È la presenza di un dialogo portato avanti da una comunità di studiosi che parlano un linguaggio comune e che in essi si riconoscono, un linguaggio però non scelto arbitrariamente - scrive Iggers, richiamandosi a Kuhn –, un linguaggio che distingue la scienza dalla imaginative fiction; e aggiunge che «un analogo dialogare, molto meno esatto, molto più evasivo, regolato dai principi di un discorso razionale, governa ugualmente il lavoro degli storici». Cercare di comprendere il cambiamento nel tempo, la spiegazione di un prima e di un poi, non credo debba necessariamente portare alla costruzione di un paradigma rigido. E ugualmente le domande più delicate e impegnative - : «come siamo arrivati a questo presente, quali sono i fattori che sembrano avere condotto ad esso?»; o l’altra domanda «quali sono i problemi, le situazioni , gli eventi che devono essere studiati per capire come oggi, ci siamo trovati a vivere in un mondo come questo, piuttosto che in qualcosa d’altro?»: ebbene, non mi sembra che esse debbano ingenerare un approccio inesorabilmente teleologico. Da quelle domande sono nate ricerche che, pur datate e pur portando i segni dell’età, e magari la patina stinta di antichi linguaggi, continuiamo a riconoscere come punti saldi della nostra conoscenza; ricerche sulla base delle quali si sono costruiti modelli interpretativi inevitabilmente caduchi ma che hanno svolto dignitosamente la loro funzione di strumenti conoscitivi. Si tratta dunque di non rinunciare a cogliere quello che può essere significativo in un rapporto di prima/dopo, di districare l’intreccio fra relazioni necessariamente successive, e altre che non lo sono, di vedere se certi fatti e momenti, e quali, si pongano in una relazione temporale significativa. Non è per questo necessario presupporre una successione lineare di eventi, escludendo rotture o discontinuità: ben vengano, anzi, ad arricchire e a complicare un quadro che non per questo si frantumerà in una serie di mondi non comunicanti e irrelati! E neppure è necessario ritenere che ciò che è successo, proprio perché è successo, dovesse succedere necessariamente . Così come, per altro verso, un approccio al seicento come a un’età da vedere globalmente, «da studiare nelle sue logiche di potere, nei suoi meccanismi economici e sociali, nelle sue forme di riproduzione sociale, nel suo universo culturale, nelle sue credenze e nei suoi comportamenti collettivi» è certo utile, necessario ad evitare arbitrarie decontestualizzazioni di questo o quell’elemento dal quadro complessivo; e stimola, credo, una sensibilità più acuta e più attenta nello storico. Ma senza però che questo debba significare necessariamente la rinuncia alla possibilità di vedere quel secolo nelle sue interrelazioni cronologiche, nei suoi svolgimenti. 9. Quanto alla volontà di vedere i nessi col moderno, l’allentarsi del legame col passato, come si è detto, non è certo da addebitare agli storici soltanto, esso ha origini ben più complesse, non nasce dalle ricerche d’archivio e di biblioteca. Si tratta piuttosto di quel clima diffuso per cui facciamo fatica a riconoscere una società e una civiltà ben contornata e definibile di cui facciamo parte, e di cui possiamo progettare e controllare l’evoluzione; un clima che nasce forse più da un distacco dal futuro che del passato, «dalla perdita dell’illusione che l’azione politica possa portare a un mutamento. E allora lo storico pensa che se non c’è più meta … non ha alcun senso volgersi indietro, sapere da dove si viene. Si sta nel presente, senza memoria e senza speranza». Ora che il futuro è diventato confuso e incerto, che l’avvenire è in crisi, il passato può sembrare irrilevante. È una difficoltà che non nasce da problemi propriamente o esclusivamente storiografici: e non saranno solo la storia e la ricerca storica che consentiranno di superarla; così come la naturale politicità di molti degli storici degli anni cinquanta o sessanta (sia quanto all’ispirazione, sia quanto ai temi affrontati), pur nella diversità di prospettive e di ideologie, non derivava da qualche metodo particolare, ma da un clima e una cultura di cui essi partecipavano, da un loro modo di intendere la funzione dello storico, «mosso ad indagare sulle cose del passato da una sempre viva passione politica e civile» . Quali guasti, non solo storiografici, possa provocare una cattiva interpretazione di questo ruolo bene sappiamo. E però spiacerebbe che proprio gli storici non si interrogassero «sulla ‘qualità’ civile delle domande che [essi] oggi intendono porsi sulla storia d’Italia» . Spiacerebbe anche perché - al di là dei problemi della ricerca – quello che si suole chiamare l’uso pubblico della storia, nella scuola, nella società; la questione dello «snodo» tra «una ricerca accademica sempre a rischio di soffocare nello specialismo, e la cultura della società in cui siamo inseriti»: tutto ciò richiede appunto delle risposte. Anzi, le risposte (molto diverse per consapevolezza e qualità) ci sono già, nella mente di ognuno di noi, ci sono anche se non le hanno date gli storici. E queste risposte costituiscono il referente costante dell’agire quotidiano di tutti. «La storia - ha notato di recente Giovanni Levi - è manipolata e usata, mentre le voci degli storici sono diventate soffocate e distanti. Né una memoria frammentata, né la scuola, né il modo di comunicare dei media possono utilizzare i procedimenti di ricerca, incerti e lenti, che gli storici usano. Questa situazione deve essere urgentemente discussa». Urgentemente, in effetti, anche perché , nonostante ne sia periodicamente proclamata la fine, la storia è tutt’altro che finita. «Siamo sopravvissuti alla ‘morte di Dio’, alla ‘morte dell’uomo’ scriveva qualche hanno fa G. Himmelfarb - sopravviveremo certamente anche alla ‘morte della storia’». Una storia, una pratica storiografica, che non possono evitare di essere sollecitate consapevolmente o inconsapevolmente - dal presente, da un mondo intero «che si muove», come ha ben sottolineato R. Descimon, nel discutere dell’impasse in cui si ritrovano oggi sia gli approcci totalizzanti, sia quelli microstorici: «Et pourtant … elle change, la société mondiale, à la fin du XX siècle, la fin de l’historie se joue à un rythme endiablé qui se moque de l’histoire immobile».