Notiziario Accademia Italiana Cucina

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IL PAESE DELLA MANDIOCA
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a ricorrenza dei cinquecento anni della scoperta
del Brasile rinverdisce l’interesse circa l’alimentazione esistente all’epoca tra gli indios.
I dati sono quelli dei primi cronisti che posero piede
sulla nuova terra. Tra questi, Vicente Yañez Pinzon
(1460-1519 o 1523) già al comando della “Niña” con
Cristoforo Colombo nel 1492, che nel 1500 (ricalcando
la rotta del terzo viaggio del genovese) aveva finito
con l’approdare inaspettatamente in Brasile. Si trattava
del Cearà: il 26 gennaio una spaventosa tempesta lo
aveva messo fuori rotta e orientamento. Al ritorno in
Spagna aveva dedicato un intero pomeriggio a descrivere le sue avventure al sacerdote e storico Piero Martire d’Anghiera (1459-1526).
Particolare importanza spetta poi alla famosa lettera
di Pero Vaz de Caminha (1451-1526) dall’1 maggio
1500 al re di Portogallo Dom Manuel con la notizia della scoperta e molti particolari. Fu portata subito in patria da Gaspare de Lemos, con la navicella dei viveri,
poco dopo lo sbarco di Dom Pedro Alvarez Cabral del
22 aprile 1500 nell’isola, supposta, di Santa Cruz. Amerigo Vespucci (1454-1512) con i suoi due viaggi del
1499 e del maggio 1501 ha fornito ulteriori, ampi ragguagli attraverso la corrispondenza con Lorenzo di Pier
Francesco dei Medici e con l’amico Piero Soderini.
Nel complesso, il quadro è quello di un mondo primitivo, nomade per necessità, privo di animali domestici, con religioni naturali.
Il primo interrogativo che ci si pone legato all’alimentazione, in forma piuttosto raccapricciante, è quello dell’antropofagismo. Ci si era imbattuto lo stesso
Amerigo Vespucci in due occasioni all’epoca del suo
secondo viaggio.
Nell’agosto 1501, quando era sbarcato in Brasile, all’incirca come Pinzon, tra Rio Grande del Nord e Cearà,
i marinai scesi a terra erano stati attaccati, uccisi e divorati davanti a suoi stessi occhi.
Mesi più tardi, nella baia di “Todos os Santos”, dopo
un prolungato soggiorno tra gli indigeni più cordiali e
tranquilli, i portoghesi erano ricorsi all’acquisto di dieci
indios prigionieri, proprio per sottrarli alla morte per
un rituale antropofagico.
In epoca di poco successiva, il pastore calvinista Jean
de Léry (1534-1611), autore di un classico libro su di
un suo viaggio in Brasile, si era dovuto esprimere in
termini orripilanti sui “diabolici Goitacazi divoratori di
carne umana”.
A questo punto sono indispensabili alcune spiegazio-
ni. Prima di tutto, sebbene gli indios brasiliani appartengono prevalentemente all’esteso gruppo etnico dei
Tupí-Guaraní, le varietà tribali che lo compongono sono estremamente differenti e antagoniche.
Così ai tranquilli e socievoli Tupininquim, incontrati
appunto da Cabral al suo sbarco, si contrapponevano
gli aggressivi e terribili Potiguar del Nord-Est, nei quali
si era imbattuto casualmente Pinzon.
Indispensabile e doverosa messa a punto è il fatto
che gli indios in assoluto non mangiavano carne umana per fame. In altri termini, esisteva un’antropofagia,
ma si trattava di un’antropofagia ritualistica.
Premesso che gli indios non conoscevano l’uso del
sale, che sarà introdotto dai portoghesi, l’alimentazione
vera e propria poggiava su tre elementi: carni, vegetali,
frutti.
Le carni erano il prodotto della caccia e della pesca,
impiegando per l’una e l’altra arco e frecce.
Animali domestici non ne esistevano. Le galline furono introdotte dagli stessi scopritori, mentre bovini e
ovini fecero la loro apparizione a partire dal 1534 nella
capitania di S. Vicente, e di lì raggiunsero prima il
Nord-Est e poi il Sud, con l’arrivo dei Gesuiti.
Tra gli animali di caccia c’era il “javali” una specie di
minuscolo incrocio tra cinghiale e porco selvatico, ma
la carne più considerata dagli indios, perché “delicata”,
era quella di scimmia. Altre fornitrici di carne erano le
tartarughe, per non dire dei pesci in generale, sia di
fiume che di mare, in grande quantità e varietà.
Riferisce Vaz de Caminha nella sua lettera che i primi
indios contattati da Cabral non accettarono e rigettarono gli alimenti loro offerti inizialmente, ma già cinque
giorni dopo “mangiarono tutte le carni che furono loro
date”.
Gli indigeni consumavano le carni arrostite e Jean de
Léry e Thevet A. forniscono la descrizione di una specie di graticola di legno, denominata “moquém”, di cui
si servivano.
L’artefatto era impiegato anche per la conservazione
delle carni perché, in assenza del sale, ricorrevano per
suo mezzo all’affumicamento.
Come accennato, le tribù erano nomadi, con gli uomini cacciatori-raccoglitori, mentre le donne si incaricavano, ma assai saltuariamente, di un’elementare agricoltura.
Frumento non ne esisteva e il granturco sarebbe
giunto anni dopo. Lo aveva portato in Spagna Cristoforo Colombo, forse addirittura dopo il primo viaggio,
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provenendo da Hispaniola, o al ritorno dal terzo del
1498. Occorre appunto precisare che l’attuale parola
“mais” deriva dalla denominazione “mahiz” data dagli
indios in lingua taino delle Antille alla pianta dalla cui
farina ricavavano lo “zacan”, loro alimento di base.
Per gli indigeni brasiliani l’alimento principale era la
farina di mandioca (o manioca), un arbusto della famiglia delle euforbiacee dal cui tubero radicale, ricchissimo in amido, ricavavano una farina. La pianta era talmente diffusa nel Paese da Nord a Sud che a lungo lo
stesso Brasile fu conosciuto come Terra della Mandioca. Le radici della pianta, che esiste allo stato sia selvatico che coltivato, contengono però un liquido velenoso, la “manipueira”, dovuto alla presenza di acido cianidrico.
Il tossico viene eliminato con il lavaggio, la cottura e
l’arrostimento. Con un procedimento non molto complesso si estrae la farina alimentare “tapioca”. Anche
dalle foglie si ottiene una farina ricchissima in vitamine
A e C.
Quanto al riso, altro apportatore di amido, rimane
ancora il dubbio se all’epoca fosse presente in crescita
nativa. Lo troviamo sicuramente nel Maranhão ancora
nel secolo XVI, per presumibile provenienza iberica.
Allo stesso modo, anche i fagioli non risultano con
sicurezza tra gli alimenti indigeni: c’è chi li dichiara autoctoni e chi importati dall’Africa in epoca coloniale.
Sebbene le palme non risultino tra le piante ufficialmente presenti - il cocco lo avrebbero introdotto i portoghesi nel 1553 - è indubbio l’uso alimentare da parte
degli indios del “palmito” (Oreodoxa sangena) nella
sua parte interna (midollo).
Passando ai frutti, mentre oggi di banane in Brasile
se ne possono annoverare almeno trenta tipi, pare che
alla scoperta esistesse una sola banana, la “pacova”, di
maggiori dimensioni.
Frutto di grande diffusione e assoluta predilezione fu
l’“abacaxi”, una bromeliacea varietà dell’ananas, poco
esigente, di facile crescita, dal gusto gradevolissimo e
dissetante.
Altrettanto utilizzato era il “mamão” o “papaia”, della famiglia delle caricacee, dicotiledini dal grosso frutto arrotondato, con forte buccia, polpa giallo-rossastra
carnosa e dolce. Ricco dell’enzima papaina vanta ancor oggi virtù digestive specie sulle proteine animali.
Finalmente tra le piante d’alto fusto, il “cajueiro”,
un’anacardiacea, il cui frutto “cajú” produceva un peduncolo consumato abbrustolito dagli indigeni.
AMEDEO BOBBIO
Accademico di San Paolo (Brasile)
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LA CUCINA MATRIARCALE
La Delegazione nissena dell’Accademia si è riunita
nei locali del ristorante “Cortese”. Il Simposiarca della serata, Saro Amico, ha proposto la rivisitazione
della cucina contadina matriarcale dei tempi andati. La cucina del ristorante si è espressa come meglio
ha potuto per la realizzazione delle pietanze. I piatti
presi in considerazione erano molto poveri, e solo
l’amore e la fantasia delle nostre nonne, veri e propri “angeli del focolare”, riuscivano a rendere accettabili e idonei a creare quell’atmosfera gioiosa e gratificante che vedeva riuniti tutti i componenti della
famiglia. La prima portata, charlotte di verdura, ha
reso magistralmente questo concetto. L’inconsistenza
calorica della pietanza era compensata abbondantemente dalla sua policromia (rosso della polpa di
pomodoro, rosato intenso delle carote, bianco e verde deciso della superficie esterna e interna della
zucchina) che rendeva il piatto simpatico, allegro e
appetitoso. Il collegamento di quel tipo di cucina all’unità familiare, ha suscitato una discussione molto
vivace, cui hanno preso parte sia gli Accademici, dal
Delegato onorario Guido Di Prima agli Accademici
Placido D’Orto, Mario Arnone, Diego Argento, Arcangelo Lacagnina; sia i numerosi ospiti: dall’arch.
Sillitti presidente dell’ordine degli architetti, al dott.
Zanda, primario ortopedico del S. Elia, all’ing. Corbo, ingegnere capo del Comune. Era naturale che la
discussione finisse col prendere in esame il rapporto
cucina-famiglia di quell’epoca rispetto all’attuale. Si
è constatato che oggi due novità hanno modificato
questo rapporto: da una parte è cresciuta la quantità e la qualità dei cibi e dall’altra è notevolmente
mutata la posizione della donna in seno alla società. La donna ha conquistato una maggiore indipendenza, per conservare la quale purtroppo si è dovuta sovraccaricare di lavoro e ciò la costringe a dedicare meno tempo alla casa e non è più l’“angelo
del focolar”. La cucina la interessa sempre meno,
anche perché l’industria alimentare le viene incontro con i cibi precotti e surgelati e con i fast-food.
Inoltre i componenti della famiglia non rispettano
più i tre classici appuntamenti quotidiani per consumare la colazione, il pranzo e la cena. La mattina
c’è il fuggi fuggi generale per recarsi tutti, alla stessa
ora, sul posto di lavoro. A mezzogiorno il traffico cittadino impedisce di tornare a casa e ci si accontenta di un panino. Infine la sera spesso non si consuma la cena, per concedersi un minimo di vita mondana socializzante. Il venire meno di questo insostituibile momento aggregante è uno dei motivi che
congiura contro l’unità familiare. Il dibattito è stato
diretto dal Delegato Michele Macaluso.
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