STRUMENTI ALTERNATIVI DI RISOLUZIONE
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STRUMENTI ALTERNATIVI DI RISOLUZIONE
STRUMENTI ALTERNATIVI DI RISOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE 1. - Diritto di azione alla luce del principio di inviolabilità dell’agere licere individuale: 1.1. - Il diritto di azione nel quadro costituzionale, eurounitario e sovranazionale. 1.2. - Il diritto di azione come declinato dalla giurisprudenza costituzionale. 1.2.1. Analisi della compatibilità costituzionale degli adempimenti fiscali dovuti in caso di esercizio del diritto di azione. - 2. - Limiti al regime processuale dell’azione e strumenti alternativi di risoluzione delle controversie. 2.1. - Tesi di esclusività del monopolio statale del diritto e della giurisdizione: suo superamento ed attuale piena praticabilità degli strumenti alternativi al contenzioso. 2.2. - I mezzi alternativi eteronomi nell’ordinamento giuridico italiano. 2.3. - I mezzi alternativi eteronomi nell’ordinamento giuridico italiano: la mediazione. 2.4. - I mezzi alternativi eteronomi nell’ordinamento giuridico italiano: l’arbitrato. 1. - Diritto di azione alla luce del principio di inviolabilità dell’agere licere individuale: 1.1. - Il diritto di azione nel quadro costituzionale, eurounitario e sovranazionale. - L’art. 24, primo comma, Cost. stabilisce che “tutti possono agire in giudizio in difesa dei propri diritti e interessi legittimi”. La norma tratteggia il c.d. “diritto di azione”, per il quale, in coerenza con il principio di legalità e di uguaglianza, il Costituente ha previsto un espresso riconoscimento “costituzionale”. L’espressa costituzionalizzazione del diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti trova l’ovvio fondamento nella reazione al passato autoritario e nell’esigenza di evitare il ripetersi di aberranti discriminazioni (Mortati, Relazione all’Assemblea costituente, pg. 93, 95-96, 120). Infatti, dal punto di vista del singolo, il diritto di azione, siccome costituzionalizzato, segna il confine oltre il 1 quale ogni ulteriore intervento limitativo dello Stato è illegittimo perché violativo dell’inviolabilità di un agere licere individuale; sotto diverso angolo prospettico, e, segnatamente, avuto riguardo allo Stato apparato, la richiamata norma impone il dovere di assicurare il diritto alla giurisdizione ed al giudice, nel senso che ogni controversia riguardante diritti soggettivi o interessi legittimi va rimessa innanzi ad Organi appartenenti al potere giudiziario, di cui va assicurata l’indipendenza e l’autonomia1. Il che testimonia l’evidente soluzione di continuità con l’ordinamento previgente nel quale le guarentigie processuali contenute nello Statuto albertino non avevano impedito una perniciosa esclusione della tutela giurisdizionale per una serie di diritti e interessi (interessanti da leggere sono gli interventi di Codacci e Pisanelli nella seduta del 28 marzo 1947, nell’ambito del dibattito relativo al progetto di Costituzione redatto dalla Commissione dei Settantacinque, circa gli abusi perpetrati dal regime fascista con la qualificazione di taluni atti amministrativi come politici al fine di sottrarli alla tutela giurisdizionale). Con l’art. 24, primo comma, Cost. è stato, dunque, riaffermato l’accesso incondizionato alla giustizia, quale necessario presupposto di tutela dell’individuo: inoltre, tale principio è stato elevato a livello costituzionale, allo scopo di impedire ogni arbitraria privazione anche da parte del legislatore ordinario della giustiziabilità di alcune posizioni giuridiche soggettive. In coerenza con siffatta impostazione il diritto di azione è stato ricompreso dalla giurisprudenza costituzionale inizialmente nella categoria dei “diritti inviolabili” (Corte cost. n. 27 dicembre 1965, n. 98) e, in un secondo momento, altresì, nel novero dei “principi supremi” del nostro ordinamento costituzionale, giacché esso “è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio” (Corte cost. 2 febbraio 1982, n. 18). 2 Proprio la qualificazione dell’art. 24, primo comma, Cost. quale principio supremo comporta che esso non possa essere sovvertito o modificato nel suo contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Infatti, con la nota sentenza 15 dicembre 1988 n. 1146, la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare che rientrano tra i principi supremi “tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” (Punto 2.1. del Considerato in diritto). Venendo ora al contenuto dell’art. 24 Cost., la locuzione “tutti” sta a significare che la disposizione si riferisce non solo ai cittadini, ma anche agli stranieri, a prescindere dalle condizioni personali o sociali degli stessi. Si tratta, dunque, di una riaffermazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., con specifico riguardo alla tutela giurisdizionale. E, dunque, chiunque sia portatore di un “diritto” ovvero di un “interesse” può agire nei confronti delle persone fisiche, di quelle giuridiche, dello Stato ovvero degli altri enti territoriali. Sotto tale ultimo profilo, l’art. 24, primo comma, Cost. è in stretta connessione con l’art. 113 Cost., il quale assicura la massima estensione soggettiva ed oggettiva all’accesso alle Corti nella competente sede giurisdizionale, con possibile sovrapposizione di ambito di efficacia fra le due garanzie. Del pari, l’art. 111, settimo comma, Cost., nel riconoscere il diritto di ricorrere per Cassazione avverso qualsiasi sentenza costituisce, anche se non solo, chiara esplicazione dell’art. 24 Cost.. Allargando la ricognizione del contesto normativo al costituzionalismo multilivello, il diritto di azione trova riconoscimento, come è noto, nell’art. 6 n. 3 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ed anche nell’art 13, relativamente al caso in cui i diritti e le libertà riconosciuti dalla richiamata Convenzione siano stati violati). Ora, quanto al rango delle norme convenzionali introdotte nell’ordinamento italiano mediante l’ordine di esecuzione, è noto che fino all’entrata in vigore della L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3, che ha modificato il titolo V della parte II della Costituzione, doveva ritenersi che il rapporto fra le norme convenzionali di origine pattizia e quelle immesse da leggi ordinarie fosse di pari rango, regolato, quindi, dal principio per cui la legge posteriore abroga l’anteriore e la legge speciale prevale su quella comune (cfr. inter alia Corte cost. 16 dicembre 1980, n. 188, secondo cui, appunto, in mancanza di specifica previsione costituzionale, le norme pattizie, rese esecutive nell’ordinamento interno della Repubblica, avevano il valore di legge ordinaria). Epperò, l’art 3, n. 1, secondo comma, della legge citata ha radicalmente innovato la materia, appunto stabilendo, nel novellare l’art. 117 I co. Cost., che la legislazione statale deve esercitarsi nel rispetto dei vincoli […] internazionali. E’ stata così sancita una preminenza degli obblighi internazionali e, quindi, anche degli obblighi derivanti dai trattati sulla legislazione ordinaria. La Corte costituzionale, in due sentenze (Corte cost. 22 ottobre 2007 , n. 348 e 349), ha affermato tale prevalenza, superando così i dubbi emersi in dottrina (tesi cd. continuista), nonostante il chiaro disposto dell’art. 117 I co. Cost.. Alcuni autori hanno evidenziato come il trattato internazionale debba anche orientare l’attività interpretativa del giudice, lasciando così sullo sfondo, come ipotesi residuale, l’intervento della Corte costituzionale. In particolare, secondo tale lettura, la prevalenza del trattato internazionale sulle leggi interne andrebbe attuata il più possibile dai giudici comuni sul piano interpretativo, di modo che, solo quando tale sforzo interpretativo non risulti possibile, può ipotizzarsi che il trattato internazionale, attraverso il rinvio mobile contenuto nel nuovo dato 4 costituzionale, può divenire il parametro mediato ed indiretto della legittimità costituzionale delle fonti primarie, ossia norma interposta (tra legge ordinaria e Costituzione, essendo, da un lato parametro di costituzionalità delle leggi ed avendo dall’altro rango inferiore alla Costituzione). In tal senso giova richiamare Corte cost. 16 luglio 2009, n. 239, laddove, al § 3, la Corte afferma che il giudice comune deve interpretare una disposizione interna in conformità con una norma della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (da ricondursi, si evidenzia, nell’alveo dei comuni trattati internazionali), quando la formulazione letterale di tale disposizione lo consenta. Concludendo sul punto, il diritto internazionale pattizio, in linea generale, costituisce un limite all’attività normativa dello Stato (e delle Regioni), purché non confligga con altri superiori valori costituzionali. Al riguardo, preme richiamare Corte cost. 4 dicembre 2009, n. 317 e Corte cost. 28 novembre 2012, n. 264, che si pone nel solco di questa, secondo cui la norma convenzionale, una volta che è divenuta grazie all’art. 117 Cost., parametro interposto di costituzionalità, è sottoposta all’ordinario giudizio di bilanciamento fra interessi costituzionali concorrenti cui presiede la Corte costituzionale. Va da sé che qualora la Consulta giudichi recessiva la norma convenzionale in vista di una qualsiasi diversa norma costituzionale, anche se non integrante un principio fondamentale, resta salva la via del ricorso individuale alla Corte europea, che, eventualmente, potrà anche pronunciarsi in modo difforme rispetto a quanto statuito dal giudice costituzionale nazionale. Per completare il quadro normativo europeo, va segnalato che, allo stesso modo, l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, come adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, intitolato “diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”, così dispone: <<ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi 5 a un giudice nel rispetto delle condizioni previste dal presente articolo. Ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare. A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia>>. E’ pleonastico rammentare che, con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, la Carta di Nizza ha il medesimo valore giuridico dei trattati, ai sensi dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, e si pone dunque come pienamente vincolante per le istituzioni europee e gli Stati membri e, allo stesso livello di trattati e protocolli ad essi allegati, come vertice dell’ordinamento dell’Unione europea. Le sue disposizioni contengono principi che, come previsto dall’art. 52, possono essere invocati dinanzi ad un giudice (Corte di giustizia e Corte costituzionale nell’ambito delle rispettive competenze) ai fini dell’interpretazione e del controllo di legalità degli atti legislativi ed esecutivi adottati da istituzioni, organi ed organismi dell’Unione europea e da atti di Stati membri allorchè essi danno attuazione al diritto dell’Unione. Peraltro, se i giudici nazionali non motivano il mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea è certa la violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura il diritto all’equo processo. Si tratta di un principio stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in una nuova sentenza di condanna all’Italia depositata l’8 aprile 2014 (Dhahbi contro Italia, ricorso n. 17120/09). 1.2. Il diritto di azione come declinato dalla giurisprudenza costituzionale. Delineata la cornice normativa, anche sovranazionale, giova evidenziare che la Corte costituzionale ha avuto occasione di occuparsi delle limitazioni 6 riguardanti l’accesso al giudice eminentemente con riferimento a tre argomenti: l’arbitrato; gli oneri fiscali e patrimoniali; la giurisdizione condizionata. Circa l’arbitrato, la Consulta ha chiarito che non vi è menomazione del dato costituzionale a meno che l’arbitrato non si palesi come obbligatorio. Infatti, per giurisprudenza costante del giudice delle leggi sono da considerarsi illegittime quelle norme che, prevedendo ex lege il ricorso all’arbitrato, non sono in grado di garantire l’osservanza del “principio generale, costituzionalmente tutelato, (...) dell’art. 806 c.p.c., secondo cui le parti sono libere di far decidere le controversie tra loro insorte da arbitri liberamente scelti”, per cui “la fonte dell’arbitrato non può (…) ricercarsi in una legge ordinaria o in una volontà autoritativa”. In particolare, secondo Corte Costituzionale 14 luglio 1977, n. 127, espressiva di un principio poi ribadito da Corte Cost. 488/91; 49, 206, 232/1994; 54/1996, 152/1996, 381/1997, 325/1998, 115/2000, 221/2005, il contrasto con la Carta costituzionale dell’istituto in oggetto si sarebbe potuto pienamente apprezzare solo se individuato in relazione al combinato disposto degli artt. 24 e 102 Cost.. Tali norme, lungi dall’essere autonome l’una dall’altra, vanno considerate come un tutt’uno, contribuendo entrambe a gettar luce sull’essenza del principio di cui inscindibilmente – ancor oggi - sono portatrici: “chi vuol far valere un diritto in giudizio o, se si vuole, esercita l’azione – ha affermato Virgilio Andrioli- non può rivolgersi se non ai giudici ordinari, di cui all’art. 102, specializzati e no, ai giudici speciali, previsti dall’art. 103, e ai giudici speciali di antica data, revisionati ai sensi della disposizione transitoria VI, e a questo complesso di mezzi di tutela altra alternativa non si dà all’infuori dell’arbitrato rituale, del quale, così come descritto nell’ultimo titolo del codice di procedura civile, fonti possono essere solo il compromesso e la clausola compromissoria, intesi quale espressione di autonomia privata”. Da tali premesse è stato dunque possibile evincere che solo l’autonomia privata, che l’ordinamento consenta di esplicarsi nel libero accordo delle parti volto a deferire la risoluzione di una controversia ad uno o più arbitri, 7 è in grado di trasformare le ipotesi di arbitrato obbligatorio-necessario (dunque illegittime) presenti nel sistema attuale in arbitrati facoltativi-volontari e dunque conformi a Costituzione. Altrimenti detto, con tali pronunce la Corte ha espresso il principio in forza del quale ogni procedimento arbitrale può ritenersi aderente ai precetti costituzionali degli artt. 24 e 102 Cost. solo qualora non sia eteronoma rispetto alle parti la fonte del potere di decidere la controversia di cui sono investiti i giudici privati, al punto che, in detti casi, le parti coinvolte nel giudizio arbitrale non potrebbero – paradossalmente - nemmeno più dirsi tali, e cioè compromettenti proprio perché, infatti, verrebbe del tutto a mancare la ragione di tale appellativo, una volta che il deferimento della controversia ad arbitri non avvenga in forza di una volontà liberamente manifestatasi in tal senso (appunto mediante accordo compromissorio). Ne segue che, in una prospettiva de iure condendo, non ponga dubbi di conformità al dato costituzionale, un’eventuale previsione volta a consentire la translatio iudicii del giudizio di primo grado, già instaurato, ad arbitri, purchè previo consenso di tutte le parti, anche rimaste contumaci, e mantenendo ferme le eventuali preclusioni già maturate e l’attività deduttiva ed istruttoria compiuta. Del pari può avere cittadinanza costituzionale una previsione che delinei la negoziazione assistita da un avvocato, ossia un accordo mediante il quale le parti, che non abbiano adito un giudice o non si siano rivolte a un arbitro, convengono di cooperare per risolvere la controversia tramite l’assistenza dei propri avvocati in via amichevole in consapevole e consensuale alternativa a forme di mediazione obbligatoria. Ciò sempre che tale previsione sia accompagnata da caveat volti a responsabilizzare fortemente i professionisti coinvolti e ad impedire l’utilizzo strumentale, anche in frode alla legge, di tale strumento alternativo di composizione della lite. In questa prospettiva si è recentemente mosso il Governo che, con il decreto legge n. 132 del 12 settembre 2014, in attesa di conversione, ha predisposto diverse misure normative finalizzate allo smaltimento dell’arretrato civile e allo 8 snellimento dei procedimenti contenziosi; misure connotate proprio dall’implementazione del fenomeno della c.d. degiurisdizionalizzazione mediante l’introduzione di strumenti il più possibile rispettosi del dettato costituzionale. Sotto diverso angolo prospettico, la Corte costituzionale ha ritenuto costituzionalmente illegittimo l’art. 98 c.p.c. nella parte in cui prevedeva che il giudice su istanza del convenuto disponesse il versamento di una cauzione per il rimborso delle spese (la c.d. cautio pro expensis) da parte dell’attore non ammesso al gratuito patrocinio nel timore che la condanna al rimborso delle spese rimanesse ineseguita. Con sentenza 23 novembre 1960 n. 67 la Corte ha dichiarato incostituzionale tale istituto in quanto andava a menomare proprio il diritto di agire in giudizio, così fondando la sua decisione principalmente sulla considerazione che l’imposizione della cauzione e la conseguente estinzione del processo nel caso che la cauzione non fosse prestata, avrebbe potuto provocare conseguenze di eccezionale gravità rispetto all’esercizio dei diritti che l’art. 24 della Costituzione dichiara inviolabili. Analoghe considerazioni hanno indotto la Corte alla dichiarazione di incostituzionalità dell’istituto del solve et repete vigente nel processo tributario di cui al secondo comma dell’art. 6 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, in ragione del quale l’azione del contribuente, volta a far valere l’illegittimità della pretesa dell’amministrazione, era subordinata al preventivo pagamento del tributo: secondo la Corte costituzionale (sent. n. 31 marzo 1961, n. 21) lo strumento in esame si risolveva in un privilegio per una delle parti (in genere, una P.A.), comportando, nel contempo, uno svantaggio per i meno abbienti. Sulla scorta di tale pronuncia, oltre ad essere dichiarata l’illegittimità costituzionale, con sentenza del 22 dicembre 1961, n. 79, dell’art. 149 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269; del secondo periodo del secondo comma dell’art. 52 della legge 19 giugno 1940, n. 762; del terzo comma dell’art. 24 della legge 25 settembre 1940, n. 1424 (disposizioni in materia di imposta di registro, di 9 imposta generale sull’entrata e di imposte doganali), è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 60 comma 2 r.d.l. 19 ottobre 1938 n. 1933, relativo al lotto pubblico, in quanto, stabilendo che il ricorso all’autorità giudiziaria contro la liquidazione della tassa per i concorsi e le operazioni a premi è ammissibile solo se sia stata pagata la tassa dovuta, contiene una applicazione della regola del " solve et repete " considerata illegittima (Corte cost. 24 febbraio 1995, n. 55). La Corte Costituzionale, sotto altro punto di vista, sciogliendo ogni residuo dubbio, si è pronunziata dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1462 c.c., in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. (Corte cost. 12 novembre 1974, n. 265), sottopostale dai giudici di merito, precisando che mentre il solve et repete fiscale, impedendo al giudice di decidere la controversia, comportava, sino all’avvenuto pagamento del tributo, un completo difetto di giurisdizione, con conseguente illegittimità, le clausole contrattuali del solve et repete non costituiscono ostacolo all’instaurarsi di un valido rapporto processuale e si sottraggono, quindi, ad ogni sospetto di illegittimità (incostituzionalità). Espressiva dei limiti di interdipendenza fra diritto di azione e oneri fiscali è la sentenza della Corte cost. n. 333 del 5 ottobre 2001, con la quale la Consulta, affrontando nuovamente il problema della compatibilità tra il principio costituzionale che garantisce a tutti la tutela giurisdizionale, anche nella fase esecutiva, dei propri diritti e le norme che impongono determinati oneri a chi quella tutela richieda, ha riaffermato che occorre distinguere fra oneri imposti allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione ed alle sue esigenze ed oneri tendenti, invece, al soddisfacimento di interessi del tutto estranei alle finalità processuali. Di modo che, mentre i primi sono consentiti in quanto strumento di quella stessa tutela giurisdizionale che si tratta di garantire, i secondi si traducono in una preclusione o in un ostacolo all’esperimento della tutela giurisdizionale e comportano, perciò, la violazione dell’art. 24 Cost. (sentenza 3 luglio 1963, n. 113, pronunciata con riferimento 10 all’art. 1171, secondo comma, c.c., la quale prevede che il giudice ordini le opportune cautele per il risarcimento del danno prodotto dalla sospensione dell’opera oggetto della denuncia o, inversamente, per quello che possa soffrirne il denunciante, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.). Sulla base di tale criterio discretivo ( di cui anche alle sentenze della Consulta 45, 56, 83 del 1963; 47, 69, 91, 100 del 1964) ha ritenuto che l’onere del locatore di aver assolto taluni obblighi fiscali (e precisamente: la registrazione del contratto di locazione dell’immobile, la denuncia dell’immobile locato ai fini dell’applicazione dell’ICI ed il pagamento della relativa imposta nell’anno precedente, la dichiarazione del reddito dell’immobile locato ai fini dell’imposta sui redditi), sia imposto esclusivamente a fini di controllo fiscale e risulti, pertanto, privo di qualsivoglia connessione con il processo esecutivo e con gli interessi che lo stesso è diretto a realizzare, donde l’incostituzionalità dell’art. 7 della L. 431/98. 1.2.1. Analisi della compatibilità costituzionale degli adempimenti fiscali dovuti in caso di esercizio del diritto di azione. - Interessante è poi l’elaborazione della giurisprudenza costituzionale quanto al contributo unificato. Va primariamente escluso che l’art. 53 Cost. si riferisca ai tributi giudiziari. Infatti, avendo fatto richiamo alla capacità contributiva e alla progressività rispettivamente come indice di imponibilità e come criterio di imposizione, esso ha avuto riguardo soltanto a prestazioni di servizi il cui costo non si può determinare divisibilmente. Non concerne perciò quelle spese giudiziarie la cui entità è misurabile per ogni singolo atto, e che quindi possono gravare individualmente su chi vi ha dato occasione; ed è richiamabile solo per la spesa della organizzazione generale dei servizi giudiziari, che è sostenuta dallo Stato nell’interesse indistinto di tutta la collettività, e che, di conseguenza, indistintamente su tutta la collettività deve gravare, in proporzione della 11 capacità contribuitiva di ognuno dei suoi membri (Corte cost., 18 marzo 1964, n. 30). Ciò posto, la premessa da cui muove la Consulta è l’inesistenza di una garanzia di gratuità nell’ambito della funzione giurisdizionale (Corte cost., 3 marzo 1972, n. 41, secondo cui gli oneri patrimoniali che condizionano l’azione e la difesa giudiziaria non sono ostacoli che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini; quegli ostacoli che l’art. 3 della Costituzione vuole che si eliminino). Ne segue che l’onere di corrispondere determinati diritti o di anticipare le spese per gli atti che la parte interessata richiede o compie nel processo non è che il riflesso della controprestazione dovuta allo stato per la prestazione del servizio giudiziario (Corte cost. 8 luglio 1967, n. 93; Id. 24 gennaio 1969, n. 3). Al riguardo, i tentativi di contestare le scelte di politica giudiziaria/fiscale caratterizzati dall’introduzione per talune tipologie di controversie o dall’incremento per le restanti del contributo unificato non hanno sortito gli effetti sperati. Proprio in materia di appalti pubblici, la Corte Costituzionale, con ordinanza 6 maggio 2010, n. 164 aveva ritenuto la questione manifestamente inammissibile in quanto “nel caso di specie, la norma censurata, introducendo una più articolata distinzione tra diverse categorie di controversie amministrative ed elevando la misura dei contributi per alcune di esse, deve ritenersi frutto di una scelta discrezionale non manifestamente irragionevole. Icastica è poi Corte cost. 13 giugno 1983, n. 162, secondo cui letteralmente “l’ammontare delle spese processuali poste a carico degli utenti della giustizia, la sua ripartizione in voci corrispondenti ai momenti del processo e ai vari servizi richiesti costituiscono determinazioni conseguenti a molteplici fattori di diversa natura, anche tecnica, e di varia incidenza, determinazioni spettanti al legislatore e che, al di fuori dell’ipotesi di palese irragionevolezza, non sono assoggettabili a censure di rango costituzionale”. La Corte costituzionale, con ordinanza n. 143 del 18 aprile 2011, ha rilevato 12 l’’irrilevanza della questione prospettata rispetto alla decisione del giudice a quo, perché, secondo la Corte, la pronuncia di illegittimità costituzionale avrebbe potuto incidere sui giudizi solo se l’inadempimento dell’obbligazione tributaria, connessa al pagamento del contributo unificato, avesse comportato la sanzione processuale dell’improcedibilità della domanda. Il che non era accaduto, avendo comportato esso soltanto l’attivazione delle procedure di riscossione coattiva del contributo stesso, nonché l’applicazione di sanzioni. Per completezza argomentativa, va segnalato che Tar Trento, con ordinanza n. 23 del 29 gennaio 2014, ha rimesso alla Corte di Giustizia Europea la questione pregiudiziale relativa alla corretta applicazione della normativa interna in rapporto a quella comunitaria sovraordinata, in particolare se “ i principi fissati dalla Direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE e successive modifiche ed integrazioni, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 13, commi 1-bis, 1-quater e 6-bis, e 14, comma 3-ter, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 (come progressivamente novellato dagli interventi legislativi successivi) che hanno stabilito elevati importi di contributo unificato per l’accesso alla giustizia amministrativa in materia di contratti pubblici”. In una visione comparatistica, si segnala quanto accaduto in Francia. Con l’art. 54 della legge 2011-900, del 29 luglio 2011, modificativa della legge finanziaria francese approvata per quello stesso anno, è stato modificato l’art. «1635 bis Q» del code général des impots, stabilendo che, in deroga a quanto stabilito dagli articolo 1089 A e 1089 B del medesimo codice (i quali esoneravano da ogni imposta, ivi compresa quella di registro, l’accesso alla giustizia), fosse prevista una «contribution pour l’aide juridique», poi nella volgata chiamata timbre fiscal pour la justice. In tal guisa, l’accesso alla 13 giustizia civile e amministrativa, che, fino ad allora in Francia era gratuito, veniva subordinato, per la prima volta, ad una sorta di «contributo unificato», con importi assai modesti: 35 euro per il primo grado, 150 per l’appello, indipendentemente dal tipo della controversia. Tale contribution non finanziava né il Ministero, né un fondo incentivante per i magistrati, bensì le spese dell’aide juridique: l’equivalente, più o meno, del nostro «gratuito patrocinio». A seguito delle critiche sollevate, il 23 luglio 2013, il Ministro della Giustizia ha annunciato che con la legge finanziaria per il 2014 il timbre fiscal sarebbe stato abrogato. Cosa avvenuta con l’art. 128 della legge 2011-1278, del 29 dicembre 2013. Significative sono le ragioni dell’abrogazione, dichiarate dal Ministro della Giustizia francese: “l’instaurazione, ad opera del precedente Governo, del contributo per l’aiuto giurisdizionale di 35 euro, esigibile per ogni domanda giudiziaria, al fine di finanziare l’aiuto giurisdizionale, ha avuto, quale propria conseguenza, quella di penalizzare le posizioni più vulnerabili di chi chiede giustizia. Rendendo oneroso l’accesso al giudice, questa imposta di 35 euro ha comportato un’incontestabile diminuzione dell’accesso alla giustizia da parte dei soggetti caduti sotto la soglia della povertà, nonostante i casi d’esenzione cui era ispirata la contribuzione per l’aiuto giudiziario. Il contenzioso in materia di lavoro, famiglia, locazione e il contenzioso amministrativo sono stati particolarmente colpiti. Il Guardasigilli intende ristabilire il legame tra chi chiede giustizia e l’istituzione giudiziaria, onde favorire una giustizia «di prossimità» accessibile al più grande numero di cittadini, nell’insieme complessivo del sistema giurisdizionale». Redatto dal Cons. dott. Fulvio TRONCONE 2. - Limiti al regime processuale dell’azione e strumenti alternativi di risoluzione delle controversie. - 2.1. - Tesi di esclusività del monopolio statale del diritto e della giurisdizione: suo superamento ed attuale piena praticabilità 14 degli strumenti alternativi al contenzioso. - Di taglio del tutto diverso è la problematica riguardante i limiti che incidono direttamente sul regime processuale dell’azione, sia che attengano a condizioni di proponibilità dell’azione sia che concernano la giurisdizione condizionata. Sul punto può dirsi acquisito nell’elaborazione giurisprudenziale il principio per cui il diritto di accesso al giudice per la tutela delle proprie posizioni giuridiche soggettive è, sicuramente, un diritto fondamentale di ciascun individuo, ma al contempo sussiste l’esigenza di contemperare il diritto di ciascun individuo ad adire un Tribunale per far valere le proprie posizioni giuridiche soggettive con la necessità di evitare che l’eccessivo carico del ruolo rispetto alle risorse spesso esigue messe a disposizione metta a repentaglio la possibilità di assicurare giustizia in tempi accettabili. In altri termini, è necessario bilanciare il disposto dell’art. 24 Cost., che riconosce il diritto di ciascuno ad agire e difendersi in giudizio per la tutela dei propri diritti e quello dell’art. 111 Cost., che individua tra i canoni dell’equo processo anche la ragionevole durata dello stesso. In tale prospettiva è necessario che tutti gli attori del processo cooperino tra loro affinché lo stesso non divenga la sede per lo svolgimento di attività meramente defatigatorie, finalizzate ad allontanare il più possibile il momento della decisione finale. Sotto questo profilo non può non rilevarsi che la realtà giudiziaria ha da tempo evidenziato l’infondatezza dell’idea dell’esclusività giurisdizionale e dell’assioma del monopolio statale del diritto e della giurisdizione, assioma per il quale soltanto il giudice può dichiarare il diritto nei rapporti tra i privati” E’ ormai evidente, infatti, che esiste una palese sproporzione del numero dei procedimenti civili in entrata rispetto alle reali capacità di smaltimento del sistema giudiziario, così come è evidente che le cause di tale squilibrio riposano essenzialmente nella sopravvenienza di sempre nuove tutele (si pensi alle materie delle class action e dell’antitrust, ai nuovi istituti del diritto di famiglia, come l’affido condiviso, l’equiparazione dei figli di persone non sposate ai figli 15 nati in costanza di matrimonio, l’amministrazione di sostegno, al riconoscimento e alla revoca dello status di rifugiato politico, ecc.) e nell’inesauribile e graduale incremento della domanda di giustizia. Da qui l’esigenza, ormai improcrastinabile, di una drastica limitazione del ricorso al giudice, contenendo il numero delle controversie in entrata e avversando l’idea che rivolgersi all’organo giurisdizionale statale sia il solo rimedio a disposizione dei cittadini per ottenere il riconoscimento e l’affermazione dei loro diritti. Del resto, come recentemente ricordato dal Primo Presidente della Cassazione Giorgio Santacroce, nella sua recente seconda edizione del “Disegno sistematico dell’arbitrato” Carmine Punzi ha scritto che “se appare essenziale al nascere dello Stato il monopolio della forza nell’attuazione coattiva dei diritti e se può apparire essenziale il monopolio legislativo, non altrettanto essenziale è l’affermazione del monopolio della composizione delle controversie e in particolare del potere di risolverle e deciderle mediante lo jus dicere”2. Naturalmente non esistono modalità alternative di soluzione dei conflitti in assoluto da preferire, in quanto ognuna può rivelarsi nel contesto appropriata o meno. Ciò che realmente rileva, in un’ottica di efficienza del sistema giustizia, è un radicale mutamento di prospettiva che tenda ad attribuire agli strumenti alternativi per la soluzione delle controversie (noti con l’acronimo ADR: Alternative Dispute Resolutions) un ruolo sempre meno accessorio e subalterno. Com’è noto i sistemi di ADR sono nati storicamente negli Stati Uniti d’America negli anni settanta, per diffondersi negli anni ottanta in Australia e nel Regno Unito e quindi negli anni novanta in ambito europeo, come reazione all’inadeguatezza delle procedure giurisdizionali tipiche. Si tratta di strumenti extragiurisdizionali per la risoluzione dei conflitti economici che pur se connotati dal comune carattere stragiudiziale delle 16 soluzioni presentano, al contempo, innumerevoli variabili strutturali che non consentono di ricondurre ad unità il fenomeno. Nell’esperienza americana gli istituti più importanti sono: Mediation3, Pre-trial e mini-trial4, Neutral fact-finding5, Summary jury trial6, Moderated settlement conference7,Ombudsman. 8 In Europa lo sviluppo degli ADR è stato più lento e la ragione del ritardo riposa essenzialmente nell’importanza della tradizione dell’unità della giurisdizione. Anche l’ordinamento giuridico italiano conosce metodi alternativi di risoluzione delle controversie. Sul punto giova premettere che i veri e propri metodi alternativi di definizione dei conflitti sono quelli che operano in via stragiudiziale i quali, a loro volta, posso essere autonomi o eteronomi Ricorre la prima ipotesi quando le parti riescono a conciliarsi da sole (o al più attraverso l’opera dei loro difensori) e la tipica ipotesi è quella della transazione, che è il contratto con il quale le parti prevengono l’insorgere di una lite (o pongono fine una lite in atto), facendosi reciproche concessioni (art. 1965 c.c.). Ricorre la seconda, invece, quando la definizione della lite presuppone necessariamente l’intervento di un terzo che collabora al raggiungimento dello scopo conciliativo. 2.2. I mezzi alternativi eteronomi nell’ordinamento giuridico italiano. - Le figure di mezzi alternativi eteronomi che il nostro diritto conosce sono la conciliazione, la mediazione e l’arbitrato. Ma mentre la mediazione, introdotta con il d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, e l’arbitrato sono rimedi di ordine generale, la conciliazione assume varie forme in funzione della tipologia delle liti; forme mantenute in vigore dall’art. 23 del cit. d.lgs. sulla mediazione, eccezion fatta per il procedimento di conciliazione 17 societaria di cui agli artt. 38-40 del d.lgs. n. 5 del 2003, che è stato abolito dal menzionato art. 23. Tali strumenti, sia pure con un ritardo di decenni rispetto ai Paesi di common law, si stanno positivamente affermando nel nostro paese e l’auspicio, in una prospettiva futura di maggiore efficienza dell’intero sistema giustizia, non può che essere quello di un implementazione di metodi alternativi al processo civile che consentano di pensare al conflitto come a un fenomeno fisiologico nell’ambito dei contatti umani ovvero un’occasione di confronto. Del resto, come più volte rilevato anche dalla Commissione Europea, già da tempo la crisi della giustizia in Italia ha evidenziato la necessità di istituire metodi alternativi di risoluzione delle controversie quale possibile mezzo per alleggerire il carico di lavoro delle aule giudiziarie. La stessa necessità è stata messa in evidenza negli altri Stati membri dell’Unione Europea. Ricerche e studi di settore, in particolare, hanno dimostrato come il mondo imprenditoriale (e non solo) abbia bisogno di strumenti efficienti per risolvere le controversie senza adire le vie legali, con conseguente perdita di tempo, di denaro e deterioramento delle relazioni commerciali. Premesso che non è questa la sede per una disamina specifica di tutti i possibili Alternative Dispute Resolutions, tra le principali forme di conciliazione stragiudiziale che il nostro ordinamento conosce meritano di essere ricordate: a) la c.d. conciliazione in sede non contenziosa, prevista dall’art. 322 c.p.c., che si svolge di fronte al giudice di pace non adito in funzione giurisdizionale (cioè per la decisione della controversia), ma al solo fine di conciliare le parti; b) il tentativo di conciliazione in materia di lavoro previsto dagli artt. 410 ss. c.p.c., che è stato ampiamente modificato dall’art. 31 della Legge 4 novembre 2010, n. 183; c) il tentativo di conciliazione di cui all’art. 11 D. lgs. 150/2011 per le controversie in materia di contratti agrari o conseguenti alla conversione dei contratti associativi in affitto; d) il tentativo di conciliazione di cui all’art. 76818 octies c.c. per le controversie relative ai patti di famiglia; e) il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 11, Legge 31 luglio 1997, n. 249 istitutiva dell’AGCOM per le controversie in materia di telecomunicazioni fra gli utenti e i destinatari delle licenze per l’erogazione del servizio previste dall’art. 2 della legge; f) il procedimento di conciliazione stragiudiziale previsto dall’art. 4, del d.lgs. 8 ottobre 2007, n. 179, per le controversie concernenti i risparmiatori e gli investitori e quello di cui all’art. 128-bis del T.U. in materia bancaria e creditizia di cui al d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385; il procedimento di conciliazione per le controversie sul diritto di autore di cui all’art. 71quinquies, d.lgs. n. 68 del 2003. 2.3. - I mezzi alternativi eteronomi nell’ordinamento giuridico italiano: la mediazione. - Peraltro, è importante rilevare che l’esigenza evidenziata a livello comunitario di attuare politiche deflattive del contenzioso civile ha trovato ulteriore e pieno riscontro nella Legge n. 69/2009 (contenente disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile) con la quale il Parlamento ha delegato il Governo (art. 60) ad adottare uno o più decreti legislativi proprio in materia di mediazione e di conciliazione in ambito civile e commerciale.9 All’esercizio della delega il Governo ha provveduto con il decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, costituente attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione, definizione e prevenzione delle controversie civili e commerciali. Il Consiglio Superiore della Magistratura, con delibera datata 11 marzo 2009, ha espresso il proprio parere sulla delega contenuta nell’art. 39 del disegno di legge n. 1441 bis C, norma sostanzialmente recepita nell’art. 60 della legge delegata n. 69/2009. Successivamente, alla seduta del 4 febbraio 2010, ha approvato il parere in ordine allo schema di decreto legislativo di attuazione. 19 Nel corpo di tali delibere, ricostruita la cornice normativa vigente in materia e chiariti i principi ispiratori delle forme alternative di risoluzione della controversia, il Consiglio ha dato favorevolmente atto dell’introduzione del nostro sistema giudiziario della possibilità di ricorrere in via generale, per la risoluzione delle controversie civili e commerciali relative a diritti disponibili, ad uno strumento alternativo rispetto alla giurisdizione, strumento che era stato fino a quel momento previsto in precedenti interventi normativi, ma sempre limitatamente a determinati settori ovvero a specifiche materie. L’organo di governo autonomo aveva espresso una valutazione complessiva assolutamente positiva di tale innovazione, riconoscendone la sua rispondenza alle esigenze della società civile e del sistema economico, nonché la perfetta coerenza con le scelte in tale direzione già compiute dall’Unione europea.10 Il decreto legislativo n. 28 del 4 marzo 2010, nell’interpretare e fare applicazione dei criteri e principi espressi nella legge di delegazione, aveva ritenuto di introdurre nel sistema normativo, oltre alle fattispecie di mediazione facoltativa - su richiesta delle parti - e di quella su sollecitazione del giudice, anche l’istituto della mediazione obbligatoria; tale procedura era stata prevista quale condizione di procedibilità - la cui mancanza poteva essere eccepita dal convenuto o rilevata dal giudice - della domanda giudiziale in una pluralità di materie elencate all’art. 5. Sennonché l’impianto normativo delineato dal Governo ha da subito formato oggetto di forti contestazioni da parte dell’avvocatura, specie in ordine al profilo dell’obbligatorietà della mediazione e, quindi, del relativo esperimento quale condizione di procedibilità dell’azione, da molti ritenuto lesivo del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. Com’è noto, peraltro, quell’impianto ha ricevuto una battuta d’arresto con la sentenza della Corte costituzionale n. 272/2012 che a dichiarato l’illegittimità costituzionale del D. Lgs. 28/2010 nella parte in cui aveva introdotto l’istituto della cd “mediazione obbligatoria”. 20 Tale dichiarazione di incostituzionalità è stata pronunciata dalla Corte sulla base di un motivo di carattere formale. Infatti, sono state ritenute fondate le censure di illegittimità costituzionale sollevate, in riferimento agli artt.. 76 e 77 Cost., da quasi tutte le ordinanze di rimessione, nei confronti dell’art. 5, comma 1, d.lgs n. 2872010, con particolare riguardo al carattere obbligatorio che detta norma, in asserita violazione delle legge delega, attribuiva al preliminare esperimento della procedura di mediazione, previsto come condizione di procedibilità della domanda in relazione a varie classi di controversie. Sono state così espunte dal testo normativo, oltre al comma 1 dell’art. 5, che disciplinava in via diretta l’istituto, anche, in via consequenziale, tutte le ulteriori disposizioni - collocate negli artt. 5, 6, 7, 8, 11, 13, 17 e 24 del decreto legislativo - che sarebbero rimaste prive di significato e giustificazione in assenza di esso Conseguentemente le questioni più scottanti sollevate dalle censure di incostituzionalità delineate nelle ordinane di rimessione sono rimaste escluse dall’attenzione della Consulta, in quanto ritenute assorbite dal primo motivo di incostituzionalità. In altri termini, attribuendo prevalenza al motivo formale, avente carattere assorbente, la Consulta non ha statuito sulla questione inerente l’asserita violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. da parte di un sistema che prevedeva, per numerose classi di controversie, il passaggio obbligatorio in mediazione, da svolgersi innanzi a mediatori potenzialmente privi di preparazione di carattere giuridico Dopo un articolato iter legislativo, con la pubblicazione della legge n. 98 del 9 agosto 2013 (in Gazzetta Ufficiale n. 194 del 20 agosto 2013, S.O. n. 63) di conversione del Dl “fare” (Dl 69/2013) la mediazione civile è giunta ad un nuovo approdo. 21 Un approdo cui il legislatore è pervenuto riscrivendo alcuni dei punti cardine dell’originario impianto di cui al Dlgs n. 28/2010 soprattutto con riguardo alla mediazione quale condizione di procedibilità dell’azione giudiziale. Il dibattito sviluppatosi dopo la sentenza della Corte costituzionale (n. 272/2012) che ha scalfito il sistema della mediazione obbligatoria per l’accertato eccesso di delega legislativa ha condotto dapprima a talune modifiche introdotte con il Dl 69/2013 (mai entrate in vigore in quanto l’efficacia delle stesse era stata ab origine – opportunamente - ancorata alla legge di conversione) e poi alla legge 98/2013 che ha ulteriormente innovato nell’apprezzabile tentativo di rispondere alle diverse indicazioni pervenute in particolare dall’avvocatura e dalla magistratura. Il decreto legge in commento, non vincolato dai limiti della delega legislativa del 2009, sostanzialmente ripristina l’istituto della mediazione obbligatoria reintroducendo, con le innovazioni di cui si dirà, tutte le disposizioni normative oggetto di caducazione con la sentenza 272/2012. Il principale oggetto del nuovo intervento normativo è, quindi, la riaffermazione, anche se per ora in via sperimentale e temporanea (per quattro anni), della scelta di introdurre nell’ordinamento la fattispecie obbligatoria della mediazione, almeno in una serie di materie che rappresentano una rilevante percentuale dell’intero contenzioso civile. Infatti, il Decreto Fare introduce il comma 1 bis all’art 5, il quale dispone che “l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. La presente disposizione ha efficacia per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore…”. Questa disposizione risponde ad una duplice apprezzabile esigenza: alleggerire medio tempore il numero delle sopravvenienze in materia civile e rinviare al termine della sperimentazione quadriennale la scelta – da effettuare in base ai risultati raggiunti- – di conservare la mediazione obbligatoria accanto alla mediazione volontaria. 22 In realtà l’opzione del carattere obbligatorio della mediazione è stata, fin dal tempo dell’adozione del D.lgs.vo 28 del 2010, oggetto di intenso dibattito sotto il profilo, oltre che della regolarità formale rispetto alla delega, della correttezza culturale e funzionalità effettiva. Il Consiglio Superiore, da parte sua, nella delibera di parere alla legge di delega e, in maniera più articolata, in quella concernente lo schema di decreto legislativo adottata il 4 febbraio 2010 aveva espresso perplessità in ordine alla scelta osservando che: “il tentativo di conciliazione può avere successo solo se è sostenuto da una reale volontà conciliativa e non se è svolto per ottemperare ad un obbligo. In questo caso si trasforma in un mero adempimento formale, che ingolfa gli uffici preposti, ritardando la definizione della controversia e sottraendo energie allo svolgimento dei tentativi di conciliazione seriamente intenzionati. Pertanto, la facoltatività del ricorso alla mediazione sembra poter meglio garantire il raggiungimento delle finalità cui lo strumento stesso è preordinato”. L’organo di governo autonomo della magistratura aveva sottolineato come il sistema del “doppio binario” per l’accesso alla mediazione – imperniato sulla distinzione tra controversie civili per le quali il procedimento di mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda e quelle per le quali, al contrario, la scelta di ricorrere a tale procedimento è rimessa alla discrezionalità delle parti – “non trovi giustificazione nel testo della legge delega e, soprattutto, non appaia razionale avuto presente l’ampio ed eterogeneo elenco delle materie per le quali è stato configurato l’obbligo di ricorrere preventivamente alla mediazione.” Le considerazioni richiamate devono oggi essere riponderate, alla luce del complessivo nuovo contesto ordinamentale, nonché del consapevole – ed efficace – coerente indirizzo di politica giudiziario assunto dal legislatore. 23 In primo luogo bisogna prendere atto che, per il limitato periodo in cui ha avuto corso, la mediazione obbligatoria è apparsa produrre risultati non irrilevanti. Dai dati disponili presso Direzione Generale di statistica del Ministero della Giustizia, risulta infatti che tra il 21 marzo 2011 ed il 20 giugno 2012 nelle materie in cui la mediazione è prevista quale condizione di procedibilità, ed in cui ha avuto effettivamente corso, vi è stato una non elevata partecipazione alla procedura delle parti – nel 64,2 per cento dei casi la parte convenuta non si è infatti presentata davanti al mediatore indicato - ; d’altra parte, però, quando tale partecipazione si è verificata, nel 46,4% delle ipotesi è stato raggiunto l’accordo che ha evitato il procedimento contenzioso. I dati indicati paiono dimostrare che esiste una radicata diffidenza da parte dei cittadini nei confronti dell’istituto, fondata probabilmente sulle esperienze precedenti di insuccesso di analoghi meccanismi, nutrita dal timore che un nuovo investimento di energie in sede stragiudiziale provochi soltanto un ulteriore spreco di tempo e di risorse in meccanismi avvertiti come inutili e burocratici, comunque prodromici al contenzioso giudiziale ritenuto ineluttabile, con il suo gravoso carico morale e materiale. Ciò spiega la scarsa propensione delle parti ad affidarsi spontaneamente alla mediazione. Il fatto che però in quasi la metà dei casi l’esito sia stato quello dell’accordo stragiudiziale, dimostra che le resistenze culturali sono frutto di una percezione errata, e comunque superabile, che quindi vale la pena di ulteriormente contrastare. L’istituto ha dimostrato cioè di avere una capacità di effettività benefica molto superiore alle attese, smentendo l’assunto che, una volta pervenute alla determinazione di affrontare il giudizio, le parti non avrebbero manifestato alcuna disponibilità a rivedere le proprie posizioni e, soprattutto che ciò non sarebbe potuto accadere attraverso un meccanismo imposto, contro la loro volontà. 24 Che si tratti di un resistenza culturale pregiudiziale è dimostrata dai dati relativi all’esperimento, sempre nel periodo marzo 2011 – giugno 2012, della mediazione facoltativa, su iniziativa volontaria delle parti o su invito del giudice: essa ha trovato luogo soltanto, rispettivamente, nel 16% e nel 2,8 degli affari in cui sarebbe stata possibile.11 Così, appare oggi ragionevole e condivisibile la scelta del legislatore di ulteriormente insistere per la introduzione nel sistema dell’istituto, che ha dimostrato di avere un notevole potenziale di successo, costringendo le parti, anche contro la loro volontà, a confrontarsi con una ipotesi alternativa al giudizio che, se pure in premessa non ricercata, è in grado infine di attrarre per la sua idoneità a procurare elevatissimi benefici e risparmi a ciascun cittadino, coinvolto nel contenzioso, ed al sistema nel complesso, Ciò allo scopo, a regime, di farne una prospettiva di definizione del contenzioso concreta e generalmente praticata, fornendo un indispensabile contributo di funzionalità e di effettività del sistema giudiziario civile, che versa in eccezionali difficoltà operative a causa dell’enorme domanda di giustizia che è chiamato a fronteggiare. La conciliazione, d’altra parte, appare utile non solo a realizzare un effetto deflattivo del contenzioso civile ma perché rappresenta uno strumento di ampliamento dell’area della tutela, vale a dire “uno dei diversi mezzi di risoluzione delle controversie disponibile in una società moderna, che può essere il più idoneo per alcuni tipi di controversie, ma certamente non per tutte” (cfr. paragrafo 1.1.4 della relazione di accompagnamento alla proposta di direttiva europea in tema di mediazione in materia civile e commerciale). La mediazione (come più in generale tutte le forme alternative di risoluzione della controversia), invero, può divenire uno strumento importante per una trasformazione della giustizia civile ed una sua evoluzione verso un sistema più flessibile e più attento alle caratteristiche del caso concreto, nell’ambito di un sistema integrato di giustizia che tenda sempre più a 25 specializzare la funzione dei vari strumenti di definizione, articolando non solo gli strumenti alternativi alla decisione ma anche la gamma di quelli decisionali in senso stretto. Non sfugge, infatti, che la mediazione ha il pregio di consentire “la continuazione dei rapporti tra le parti” e, pertanto, evita quel clima di agone proprio del ricorso alla giurisdizione, che determina inevitabilmente la conflittualità di tali rapporti e, dunque, ostacola la possibilità stessa di conciliare la controversia. E quindi necessario concludere che l’affermazione nel panorama ordinamentale della mediazione passa necessariamente per un cambiamento di prospettiva culturale prima ancora che tecnico-giuridica. Tale obiettivo, essenziale prima di tutto per provocare una inversione di tendenza rispetto al progressivo esponenziale aumento del carico di lavoro degli uffici giudiziari civili realizzatosi negli ultimi decenni, è oggetto peraltro di sollecitazioni operate al Paese anche in sede europea, come si legge nella Raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea n. 362 del 2013 “sul programma nazionale di riforma 2013 dell’Italia e che formula un parere del Consiglio sul programma di stabilità dell’Italia 2012-2017” per la quale “a seguito della sentenza della Corte costituzionale dell’ottobre 2012 sulla mediazione, è necessario intervenire per promuovere il ricorso a meccanismi extragiudiziali di risoluzione delle controversie”, e richiede all’Italia di adottare provvedimenti per “abbreviare la durata dei procedimenti civili e ridurre l’alto livello di contenzioso civile, anche promuovendo il ricorso a procedure extragiudiziali di risoluzione delle controversie”. Se si considera che l’atto è stato adottato dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha demolito soltanto il modulo obbligatorio di mediazione, senza incidere sugli altri vigenti, è evidente che ad esso deve intendersi riferita la sollecitazione ad adottare ulteriori provvedimenti. 26 Sulla base di quanto precede deve essere espresso in termini incondizionatamente favorevoli il giudizio generale sulla scelta direttiva di fondo assunta dal legislatore. La nuova normativa si incardina nella disciplina contenuta nel d.lgs.vo 28 del 2010 antecedentemente alla pronuncia della Consulta, sostanzialmente reinserendo le disposizioni che ne erano state espunte, con alcune modificazioni. In primo luogo l’ambito delle materie è stato ristretto, eliminando la previsione della mediazione quale condizione di procedibilità nelle cause per risarcimento del danno da circolazione stradale. Il motivo di tale esclusione risiede non solo probabilmente nella considerazione che procedure conciliative nel settore sono già previste dal codice delle assicurazioni private. D’altra parte, la circostanza che le determinazioni delle parti private in tali vicende contenziose siano fortemente condizionate dalla presenza delle imprese private di assicurazione, in ultima analisi arbitre delle soluzioni economiche, fa sì che i meccanismi individuali di conciliazione risultino meno efficaci. Occorre però rilevare che la esclusione di un così numericamente rilevante settore di contenzioso contrasta con la tendenza generale perseguita alla massima diffusione ed espansione dell’istituto; tenuto anche conto che si tratta di affari in cui la litigiosità riguarda spesso profili di non particolare complessità tecnica, quali la liquidazione del danno, suscettibili di utile componimento stragiudiziale sulla base di un mero bilanciamento di costi e benefici. Il Dl del fare, convertito dalla legge n. 98/2013, apprezzabilmente risolve poi anche un problema presente nel Codice Civile sorto in sede di prima applicazione della mediazione obbligatoria in materia di diritti reali. Viene inserita (dall’art. 84 bis del c.d. decreto del fare) una disposizione specifica (al n. 12-bis dell’articolo 2643, comma 1, del Codice civile) che permette la 27 trascrivibilità dell’accordo di mediazione che attesta l’usucapione con la sottoscrizione autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. Inoltre, perfettamente coerente con gli obiettivi perseguiti con la nuova disciplina della mediazione obbligatoria orientata alla diffusione e penetrazione nella pratica comune dell’istituto è la modifica dell’articolo 5 comma 2 del D.lgs.vo 28 del 2010 – nel testo precedente l’intervento della Consulta - per cui la mediazione facoltativa su invito del giudice durante il procedimento è sostituita da una nuova ipotesi di procedura conciliativa (cd. mediazione obbligatoria ex officio) che il giudicante può imporre disponendone l’esperimento a pena di improcedibilità della domanda giudiziale12. Nella precedente versione del d.lgs. 28/10 era prevista, invece, la mediazione giudizialmente sollecitata. Si prevedeva, infatti, che il giudice potesse solo invitare le parti ad iniziare un procedimento di mediazione (con chiara differenza con la conciliazione giudiziale, nella quale è lo stesso giudice a svolgere in ambito endoprocessuale le funzioni conciliative). Effettuata questa valutazione di opportunità (sulla via conciliativa) da parte del giudice, la scelta spettava però alle parti, che potevano aderire o meno all’invito giudiziale. Con la modifica apportata, quindi, il giudice che ravvisi, anche in appello, uno spazio di praticabilità della definizione transattiva della controversia non deve più raccogliere il consenso delle parti al tentativo di mediazione ma può disporre direttamente l’esperimento del procedimento di mediazione. Utile è la precisazione, in una questione che aveva dato luogo ad incertezze interpretative, che la disciplina della mediazione obbligatoria e della mediazione giudiziale non trova applicazione nei procedimenti di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, di cui all’articolo 696bis del codice di procedura civile, in analogia con quanto previsto dall’art. 5 comma 4 per i procedimenti urgenti e sommari13. 28 Con questa modifica normativa il legislatore ha positivamente recepito l’orientamento che si era formato sul punto nella giurisprudenza di merito secondo cui la consulenza tecnica preventiva (art. 696 bis c.p.c.) e la mediazione (d.lgs. 28/2010) perseguono la medesima finalità, introducendo entrambi gli istituti un procedimento finalizzato alla composizione bonaria della lite, così da sembrare tra loro alternativi e, quindi, apparendo le norme di cui al d.lgs. 28/2010 logicamente incompatibili con il procedimento di cui all’art. 696 bis c.p.c. (cfr. Tribunale di Varese, sez. I, 21 aprile 2011, in Guida al diritto 2011, 44, 8 e in Il civilista 2011, 11). Del resto, da tempo la prevalente giurisprudenza di merito aderisce ha aderito alla tesi dottrinaria che annovera l’istituto dell’art. 696 bis c.p.c. nell’alveo della alternative dispute resolution. A fronte di una marcata scelta di espansione e rafforzamento dell’area della praticabilità della mediazione anche in assenza di volontà espressa dalle parti, il testo normativo contiene una ulteriore serie di disposizioni finalizzate a bilanciarne il portato, da un lato attenuando l’effetto di appesantimento procedurale ed economico per le parti e, dall’altro orientando la disciplina procedimentale alla massima valorizzazione della funzionalità operativa e dell’effettività. Così, il limite massimo di durata della mediazione è stato ridotto da quattro a tre mesi. In considerazione della natura non processuale del procedimento di mediazione, il termine in questione non è soggetto alla sospensione feriale dei termini (art. 6) neppure quando il procedimento di mediazione trovi origine da una rimessione dovuta al giudice. Tale soluzione appare assolutamente condivisibile perché idonea ad impedire ulteriori ritardi nell’eventuale accesso al giudice. 29 Nondimeno deve rilevarsi che, in alcuni casi, il termine di tre mesi può risultare oggettivamente insufficiente, specie nelle controversie con molteplici parti da convocare, come spesso accade nelle cause relativi ai diritti reali Sempre per la sua natura non processuale, il detto termine non rileva neppure ai fini della valutazione della ragionevole durata del processo e della consequenziale applicazione della legge 89/2001 (c.d. legge Pinto) per la richiesta di risarcimento danni allo Stato (art. 7). Tale previsione appare un giusto punto di equilibrio tra l’esigenza di celerità del processo e la finalità di implementazione dei metodi alternativi di risoluzione delle controversi. Nondimeno alcuni commentatori, partendo dalla considerazione che nelle ipotesi di mediazione obbligatoria con conciliazione fallita il processo subisce inevitabilmente un oggettivo slittamento e che risulta prolungato il tempo complessivo per ottenere il provvedimento giudiziale, hanno evidenziato una possibile non conformità alla Costituzione ed alla CEDU della disposizione contenuta nell’art. 7, che potrebbe essere, in ipotesi, letta come una limitazione gli obblighi assunti dall’Italia a livello internazionale. Altrettanto coerenti con la finalità di incentivazione dell’istituto risultano le previsione di costi contenuti per la mediazione e di gratuità per i soggetti non abbienti che nel procedimento giudiziario avrebbero diritto al gratuito patrocinio, previsioni connotate dall’evidente scopo di eliminare un incentivo economico a preferire il contenzioso. Il nuovo articolo 8 del d.lgs.vo 28/2010, specificando la generica disciplina precedente, impone lo svolgimento di un incontro preliminare tra le parti ed il mediatore, finalizzato alla individuazione di una strategia di intervento conciliativo flessibile e modellata sul caso concreto. Tale prima occasione di contatto, che deve avvenire entro trenta giorni dal deposito della domanda di conciliazione, appare utile, attraverso il libero ed ampio confronto tra i protagonisti della vicenda, a consentire una verifica preliminare della 30 praticabilità del percorso conciliativo, permettendo, ove se ne ravvisi l’impossibilità, l’immediata interruzione che ne eviti l’inutile prolungamento, oppure una idonea programmazione e strutturazione secondo le peculiarità del caso concreto. Il testo di nuova proposizione rimedia inoltre ad una evidente lacuna del decreto 28/2010, inserendo la necessità della partecipazione al procedimento conciliativo anche del difensore tecnico delle parti. Infatti, al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l'assistenza dell'avvocato. Il compito dell’avvocato, quindi, è divenuto preminente nel procedimento di mediazione: 1) le parti devono essere necessariamente assistite da un legale durante tutta la procedura, fin dal primo incontro; 2) se c’è un accordo conciliativo tra le parti, l’avvocato può certificare la conformità dell’accordo stesso alle norme imperative e all’ordine pubblico, attribuendogli così efficacia esecutiva per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. In questo modo l’accordo può trasformarsi in titolo esecutivo. In caso di mancanza della sottoscrizione degli avvocati è necessaria l’omologazione del presidente del tribunale. L’innovazione introdotta appare assolutamente condivisibile in quanto riconosce l’indispensabilità del coinvolgimento della difesa tecnica, prima di tutto con riferimento all’aspetto dell’assistenza professionale qualificata del professionista alle parti della singola vicenda concreta, la cui soluzione normalmente necessita la definizione di questioni tecniche. D’altra parte, dal punto di vista generale ed istituzionale di sistema, è impossibile immaginare che il radicale mutamento di prospettiva culturale per la composizione delle controversie civili che il legislatore cerca di realizzare possa effettivamente essere perseguito senza il coinvolgimento immediato e la adesione convinta dell’avvocatura, che costituisce lo snodo professionale ed il presidio 31 istituzionale deputato alla affermazione dei diritti dei cittadini – da un lato – nonché un ingranaggio fondamentale del funzionamento del sistema di giustizia. Nella stessa direzione milita anche l’ulteriore previsione contenuta nel decreto secondo cui a tutti gli avvocati iscritti all’albo è diritto riconosciuta la qualifica di mediatori, in ragione – evidentemente – della specifica competenza professionale e del ruolo istituzionale di promotore dell’effettività dei diritti dei cittadini. Da ultimo e senza soffermarsi sulle singole fasi del procedimento, deve esprimersi favorevole apprezzamento anche per le disposizioni volte a disciplinare l’incidenza del procedimento di mediazione sulla decisione della causa e sulla determinazione del regime delle spese di lite. Quanto al primo aspetto merita menzione l’ art. 8, comma 4 bis, d.lgs. n. 28/10 (inserito dall'art. 84, co. 1, lett. i), D.L. n. 69/2013 convertito, con modificazioni, dalla L. n. 98/2013) secondo cui dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell'articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. In merito poi alle decisioni sulle spese di lite l'art. 13 del menzionato D.lgs. stabilisce che quando il provvedimento che definisce il giudizio civile corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa, il giudice, ferma restando l'applicabilità degli artt. 92 e 96 c.p.c.: a) esclude la ripetizione delle spese (comprese, eventualmente, quelle per l'indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all'esperto, se nominato) della parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, relativamente al periodo successivo alla stessa; b) condanna tale parte al pagamento delle spese processuali di controparte (comprese, eventualmente, quelle, già indicate, per il mediatore e l'esperto); c) condanna sempre questa parte al versamento di un’ulteriore somma, di importo corrispondente al contributo unificato dovuto. 32 Anche tali disposizioni risultano assolutamente coerenti con l’intento deflattivo del contenzioso giudiziario posto alla base della riforma in quanto connotate da una duplice finalità: una finalità incentivante, perchè induce le parti a provare comunque la via della mediazione ed una sanzionatoria/deflattiva, in quanto consente al giudice di tenere conto del comportamento immotivatamente ostruzionistico di una parte nella definizione della lite in sede stragiudiziale. In conclusione, pur con le doverose cautele imposte dal necessario bilanciamento tra la finalità deflattiva del contenzioso e il fondamentale diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., può sostanzialmente esprimersi apprezzamento per la scelta di fondo del Legislatore di attribuire alla mediazione una collocazione più rilevante e centrale all’interno del sistema, rispetto a quella, decisamente secondaria, assunta fino ad oggi, sia nella prospettiva di una migliore diffusione della cultura della soluzione amichevole dei conflitti sia, e soprattutto, di un efficace decongestionamento dei ruoli giudiziari in linea con principi delineati a livello comunitario14 2.4. I mezzi alternativi eteronomi nell’ordinamento giuridico italiano: l’arbitrato. - Come anticipato in premessa, altra fondamentale strada eteronoma di risoluzione dei conflitti è quella dell’arbitrato, che rappresenta un istituto conosciuto dalla quasi totalità degli ordinamenti giuridici in quanto estrinsecazione dell’autonomia negoziale delle parti. Per individuare i tratti distintivi dell’arbitrato dagli altri strumenti alternativi, va innanzitutto evidenziato che nell’arbitrato la manifestazione e l’incontro della volontà delle parti avviene ex ante e si concretizza in un patto compromissorio (in una convenzione di arbitrato), che contiene la rinuncia alla giurisdizione dello Stato e, al contempo, la devoluzione della controversia e il conferimento del potere di deciderla agli arbitri. 33 L’intervento degli arbitri, quindi, è postumo e si sostanzia nel decidere la controversia in virtù del potere ad essi conferito dalle parti nel patto compromissorio e in base al criterio di giudizio – diritto, equità – che le stesse parti hanno preventivamente stabilito o che risulta fissato in un precetto di legge cui le stesse non hanno voluto o, in alcuni casi, potuto derogare. Rispetto alla mediazione, pertanto, dove il mediatore non ha un potere decisionale e si limita ad coadiuvare le parti nel raggiungimento di un accordo, con l’arbitrato le parti non attendono che il terzo offra loro una soluzione intermedia, ma tendono ad una soluzione giusta, secondo diritto o secondo equità. In altri termini agli arbitri, che sono dei privati, viene attribuito il potere di rendere una decisione su uno specifico thema decidendum, all’esito di un giudizio che si articola secondo forme procedimentali e con la garanzia del contraddittorio. Del resto, una volta rotto il collegamento inscindibile tra sovranità e giurisdizione il fatto che oggettivamente emerge è la positiva coesistenza, accanto alla giurisdizione statale, di forme di giustizia non statale tra le quali certamente rientrano le manifestazioni del fenomeno arbitrale. Il modello di arbitrato attualmente disciplinato dal nostro codice di rito ha subito, nella storia dell’istituto, variazioni che hanno dato luogo a più “modelli” arbitrali, sempre e comunque rientranti nel genus unitario dell’istituto. All’interno di questo genus il legislatore ha opportunamente previsto un modello generale di arbitrato e ne ha disciplinato oltre che il “rito” e gli “effetti”, come per il giudizio di cognizione ordinario innanzi ai giudici togati, anche la nomina, i diritti, gli obblighi, la responsabilità e la ricusazione degli arbitri, i rapporti tra questi e l’autorità giudiziaria, la forma e il contenuto della decisione arbitrale (lodo). Accanto a tale modello di arbitrato cd rituale, disciplinato dagli artt. 806 ss. c.p.c., la creazione di modelli alternativi è stata, soprattutto il frutto di libere 34 scelte dei privati che, nell’ambito della loro autonomia, hanno dato luogo al c. d. arbitrato “libero”o “irrituale”, oggi previsto e regolamentato dall’articolo 808 ter c.p.c. .(con un’apposita disciplina che concerne le norme applicabili al procedimento arbitrale, il regime di efficacia del lodo ed i mezzi di impugnazione avverso la decisione degli arbitri) In questa sede si procederà all’analisi generale soprattutto dell’arbitrato rituale e di quello irrituale senza affrontare la disamina di altri modelli e procedimenti c.d. speciali di arbitrato di fonte legislativa, costituiti come varianti rispetto al modello di diritto comune, modelli il cui ambito di applicabilità è diversificato in ragione della natura delle controversie di volta in volta devolute agli arbitri ed in relazione ai quali la legge speciale detta particolari disposizioni. L’arbitrato rituale è quello inderogabilmente assoggettato alle norme contenute nel titolo VIII del codice di procedura civile ed è idoneo a sfociare in un lodo che, oltre al proprio effetto naturale di vincolo tra le parti, produce tutti gli ulteriori effetti previsti dal. Codice di rito. Avverso tale lodo arbitrale è esperibile presso la competente Corte di appello soltanto l’impugnazione per nullità, la revocazione c.d. straordinaria (nelle ipotesi previste nei nn. 1,2,3 e 6 dell’art. 395 del c.p.c., e l’opposizione di terzo. Il c.d. arbitrato irrituale è quello che, sebbene finalizzato anch’esso al giudizio alla decisione della controversia, è svincolato dalla necessaria osservanza delle norme che disciplinano l’arbitrato rituale, è insuscettibile di essere assoggettato alle impugnazioni processuali previste dal codice di rito ed è inidoneo ad acquistare esecutorietà tramite il procedimento giudiziale di exequatur. Il. D.lgs. 2 febbraio 2006, n.40 ha introdotto una norma ad hoc dedicata all’arbitrato irrituale, la cui ragion d’essere era stata sottoposta a discussione critica dalla dottrina. Il primo comma dell’art. 808 ter c.p.c. recita che”le parti possono, con disposizione espressa per iscritto, stabilire che, in deroga a quanto disposto dall’art. 824 bis, la controversia sia definita dagli arbitri mediante 35 determinazione contrattuale. Altrimenti si applicano le disposizioni del presente titolo”. Il predetto articolo è completato, al secondo comma, dalla previsione della disciplina dell’impugnazione dei lodi irrituali pronunciati all’esito di procedimenti che traggano origine da patti compromissorio. Sussistono elementi comuni ed aspetti differenziali dell’arbitrato rituale e di quello irrituale. L’elemento comune è offerto essenzialmente, come detto, dalla funzione unitaria dei due istituti: in quanto entrambe le parti vogliono, con una paritaria posizione e determinazione, far decidere da arbitri le cause tra loro insorte e che questa decisione venga assunta con un giudizio compiuto sulla base di un criterio vincolato all’esito di un vero e proprio processo privato (identità di funzione tra arbitri rituali e arbitri liberi). L’elemento differenziale era ed è rappresentato da una scelta compiuta dalle parti in relazione alle possibilità offerte dall’ordinamento positivo e cioè a seconda che esse optino per un giudizio arbitrale che si concluda con un lodo avente “gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria “ovvero con gli effetti propri di una”determinazione contrattuale”con la conseguente necessità di osservare determinati requisiti di forma e di contenuto. La determinazione dell’oggetto del giudizio arbitrale si sviluppa e si articola in tre momenti o fasi successive e cioè: 1) la stipulazione del patto compromissorio, che di regola è la fonte del giudizio arbitrale ( le parti scelgono l’arbitrato quale forma di definizione della controversia) e del duplice rapporto tra le parti e gli arbitri e contiene l’ambito oggettivo della cognizione compromessa in arbitri; 2) l’atto di accesso, che può contenere la proposizione della domanda o delle domande sottoposte alla cognizione degli arbitri; 3) La formulazione dei quesiti è, nell’ambito di questi, specifica azione e precisazione delle domande e delle conclusioni, assurte queste ultime requisito necessario del lodo in base al novellato articolo 823, comma 2°, n. 4,c.p.c. 36 Delicati problemi si sono posti con riguardo: ai limiti oggettivi di arbitrabilità e cioè di compromettibilità per arbitri delle controversie; in ordine alla legittimazione e capacità per la stipulazione della convenzione di arbitrato e capacità di essere parte del patto compromissorio; alla natura dell’ufficio di arbitro; alla responsabilità degli arbitri. Sul primo aspetto il nuovo testo dell’art. 806 c.p.c., così come sostituito dal D.lgs. n. 40/2006, ha positivamente dettato i requisiti generali di arbitrabilità delle controversie indipendentemente dalla forma del patto compromissorio. La norma sancisce il principio della generale arbitrabilità di ogni controversia il cui oggetto ricada nell’area della disponibilità dei diritti, principio cui può derogarsi solo in presenza di un’espressa disposizione di legge. Per condurre un’indagine corretta sul problema delle controversie compromettibili per arbitri bisogna rifarsi alla previsione degli articoli 806 e 808 c.p.c., antecedente alla riforma del 2006. Dal contenuto delle predette disposizioni era, infatti, desumibile un triplice elemento individuatore dell’ambito delle controversie compromettenti per arbitri: quoad officium, quoad obiectum e quoad effectum. Il primo determinato con riferimento all’attività del ”decidere”; il secondo determinato in negativo, per esclusione, con riferimento a tre categorie di controversie e cioè quelle previste dagli articoli 409 (controversie individuali di lavoro) e 442 c.p.c. (controversie in materia di previdenza assistenza obbligatorie) e quelle che concernenti questioni di stato e di separazione personale tra i coniugi e, infine, il terzo (quoad effectum) con riferimento a tutte le controversie che non possono formare oggetto di transazione. Rispetto a siffatto regime previgente, l’intervento legislativo di cui al d.lgs. n. 40/2006, con previsione certamente apprezzabile sul piano sistematico ha, in via generale, subordinato l’arbitrabilità delle controversie in materia di lavoro di cui all’articolo 409 c.p.c. alla espressa previsione da parte di leggi speciali o di contratti collettivi di lavoro (art. 806, comma 2°,c.p.c.), previsione che, per 37 effetto della legge 183/2010, è oggi contenuta nell’articolo 412 quater c.p.c., che consente, se previsto nei contratti collettivi, l’inserimento nei contratti individuali di lavoro di clausole compromissorie. Relativamente al secondo aspetto concernente le parti, in seguito alle modifiche legislative introdotte con il d.lgs. n.40/2006 risulta identico, per tutte le convenzioni di arbitrato, il criterio di capacità, ossia di legittimazione a compromettere che è ormai riferito unicamente al potere di disporre in relazione al rapporto controverso. In sostanza con tale riforma il legislatore ha coerentemente inteso assoggettare il potere di stipulazione del compromesso e della clausola compromissoria ad un unico regime, consistente, come detto, nella capacità di disporre del rapporto controverso. Per quanto riguarda poi la natura dell’”ufficio” di arbitro la dottrina dominante ritiene che gli arbitri, per effetto dell’atto di nomina posti in essere dalle parti, vengono investiti della titolarità di un ufficio che, per la fonte di tale investitura e per la funzione per i poteri - doveri che gli arbitri sono chiamati ad esercitare, ha natura privata. Questa conclusione sembra oggi suffragata dal nuovo articolo 813 c.p.c. che, al secondo comma sancisce espressamente che agli arbitri”non compete la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio”. Relativamente, infine, alla responsabilità degli arbitri il d.lgs n. 40/ 2006 ha condivisibilmente recepito buona parte dei risultati cui la dottrina e la giurisprudenza erano giunti. Il nuovo articolo 813 ter c.p.c. ha, infatti, introdotto con riguardo agli arbitri il riferimento alla condotta dolosa o gravemente colposa ed ha altresì previsto espressamente una forma di responsabilità in caso di errore inescusabile in relazione agli errores in procedendo e in giudicando degli arbitri. La stessa disposizione al primo comma prevede che sono fonte di responsabilità degli arbitri: la dichiarazione di decadenza, determinata dal dolo o colpa grave 38 dell’arbitro, per aver omesso o ritardato il compimento di atti dovuti; l’ipotesi in cui l’arbitro, con dolo o colpa grave, abbia omesso impedito la pronuncia dell’otto entro il termine fissato a norma dell’articolo 820 c.p.c.; la rinuncia all’incarico senza giustificato motivo. Al di fuori di tali ipotesi gli arbitri, rispondendo esclusivamente per dolo o colpa grave entro i limiti previsti dall’articolo 2, commi secondo e terzo,.1. 13 aprile 1988, n. 117, riguardante la responsabilità civile dei magistrati, ossia nel caso di grave violazione di legge determinata da negligenze inescusabile, di affermazione di un fatto la cui inesistenza incontrastabilmente esclusa dagli atti del giudizio. Delineati i fondamentali tratti comuni e distintivi dei principali Alternative Dispute Resolutions già presenti nel nostro ordinamento, merita da ultimo evidenziare che con il recente decreto legge n. 132 del 12 settembre 2014 il Governo ha predisposto ulteriori misure normative finalizzate all’implementazione del fenomeno della c.d. degiurisdizionalizzazione. In attesa della legge di conversione, solo all’esito della quale sarà consentita un’analisi approfondita delle singole misure, è comunque possibile sin da ora evidenziare che, nell’ottica del rafforzamento degli strumenti extragiurisdizionali per la risoluzione dei conflitti, i punti principali del provvedimento si rinvengono nei Capi I-IV del citato decreto e possono così sintetizzarsi: - decisioni delle cause pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria mediante trasferimento alla sede arbitrale (art. 1); - procedura di negoziazione assistita da un avvocato (artt. 2-5); - negoziazione assistita nelle cause di separazione e divorzio (art. 6); - ulteriore semplificazione dei procedimenti di separazione o divorzio mediante accordo ricevuto dall’ufficiale dello stato civile (art. 12). Evidenziati, sia pure sinteticamente, i più recenti ed apprezzabili interventi normativi in subiecta materia, può concludersi ribadendo, ancora una volta, un giudizio assolutamente positivo sulla scelta del legislatore di favorire il ricorso 39 a strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, con l’auspicio che augurabili futuri interventi legislativi volti ad implementarne ulteriormente il ruolo non prescindano dal coinvolgimento di tutti gli attori del processo, e quindi non solo delle parti, cui si richiede una solida fiducia nella possibilità di trovare una sistemazione del conflitto che prescinda dall’intervento del giudice statale, ma anche e soprattutto della classe forense, chiamata a stimolare la propensione alla conciliazione delle parti in conflitto, che il nostro ordinamento assegna all’avvocato come fisiologico ruolo funzionale alla piena realizzazione della tutela dei diritti. Redatto dal Cons. dott. Vittorio CORASANITI 1 Comoglio, Commento all’art. 24 della Costituzione, in Commentario alla Costituzione (a cura di G. Branca), Zanichelli-Il Foro It., Bologna-Roma, 1981, p. 1 ss. 2 Cf. Relazione del 6 maggio 2013 al convegno “L’arbitrato: un’altra strada”. 3 Un terzo scelto dalle parti le assiste nel tentativo di raggiungere un accordo, ma non rende una decisione. 4 Con il termine trial, negli ordinamenti di common law, si intende definire la fase processuale che comprende l’assunzione delle prove, la discussione ovvero il dibattimento e la decisione del processo. La funzione del pre-trial consiste nel rendere possibile alle parti l’esposizione delle proprie difese, ovvero argomentazioni (pleadings). Consiste ancora nella tecnica procedurale della discovery, negli interrogatories e nelle inspection, prima che abbia luogo il trial ovvero la decisione. Il pre-trial assolve alla funzione di definire la lite prima del trial, mediante una transazione ovvero mettendo comunque fine al procedimento. Nella fase della discovery, il materiale probatorio viene messo a disposizione delle parti attraverso lo scambio dell’elenco dei documenti e l’esibizione degli stessi.Il mini-trial, prendendo spunto dalla fase processuale del pretrial consiste in un processo simulato nel quale un advisor neutrale tenta la conciliazione e, se questa fallisce, rende un parere non vincolante. Nell’ambito del pre-trial la discovery intende garantire le parti impedendo alle stesse di produrre prove non conosciute dall’altra parte. 5 Risoluzione di questioni di fatto da parte di un esperto 6 si tratta di un processo simulato con una giuria che emana un advisory verdict. 7 I difensori delle parti presentano le loro posizioni a un collegio di terzi imparziali che rendono un parere non vincolante. 8 Un terzo imparziale – scelto da un’istituzione (banca, università, Ente pubblico) – indaga su lamentele e disservizi denunciati da cittadini. 9 Questi i principi e i criteri direttivi cui attenersi nell’esercizio della delega: a) prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l'accesso alla giustizia; b) prevedere che la mediazione sia svolta da organismi professionali e indipendenti, stabilmente destinati all'erogazione del servizio di conciliazione; c) disciplinare la mediazione, nel rispetto della normativa comunitaria, anche attraverso l'estensione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e in ogni caso attraverso l'istituzione, presso il Ministero della giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, di un Registro degli organismi di conciliazione, di seguito denominato «Registro», vigilati 40 dal medesimo Ministero, fermo restando il diritto delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura che hanno costituito organismi di conciliazione ai sensi dell'articolo 2 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, ad ottenere l'iscrizione di tali organismi nel medesimo Registro; d) prevedere che i requisiti per l'iscrizione nel Registro e per la sua conservazione siano stabiliti con decreto del Ministro della giustizia; e) prevedere la possibilità, per i consigli degli ordini degli avvocati, di istituire, presso i tribunali, organismi di conciliazione che, per il loro funzionamento, si avvalgono del personale degli stessi consigli; f) prevedere che gli organismi di conciliazione istituiti presso i tribunali siano iscritti di diritto nel Registro; g) prevedere, per le controversie in particolari materie, la facoltà di istituire organismi di conciliazione presso i consigli degli ordini professionali; h) prevedere che gli organismi di conciliazione di cui alla lettera g) siano iscritti di diritto nel Registro; i) prevedere che gli organismi di conciliazione iscritti nel Registro possano svolgere il servizio di mediazione anche attraverso procedure telematiche; l) per le controversie in particolari materie, prevedere la facoltà del conciliatore di avvalersi di esperti, iscritti nell'albo dei consulenti e dei periti presso i tribunali, i cui compensi sono previsti dai decreti legislativi attuativi della delega di cui al comma 1 anche con riferimento a quelli stabiliti per le consulenze e per le perizie giudiziali; m) prevedere che le indennità spettanti ai conciliatori, da porre a carico delle parti, siano stabilite, anche con atto regolamentare, in misura maggiore per il caso in cui sia stata raggiunta la conciliazione tra le parti; n) prevedere il dovere dell'avvocato di informare il cliente, prima dell'instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell'istituto della conciliazione nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione; o) prevedere, a favore delle parti, forme di agevolazione di carattere fiscale, assicurando, al contempo, l'invarianza del gettito attraverso gli introiti derivanti al Ministero della giustizia, a decorrere dall'anno precedente l'introduzione della norma e successivamente con cadenza annuale, dal Fondo unico giustizia di cui all'articolo 2 del decretolegge 16 settembre 2008, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181; p) prevedere, nei casi in cui il provvedimento che chiude il processo corrisponda interamente al contenuto dell'accordo proposto in sede di procedimento di conciliazione, che il giudice possa escludere la ripetizione delle spese sostenute dal vincitore che ha rifiutato l'accordo successivamente alla proposta dello stesso, condannandolo altresì, e nella stessa misura, al rimborso delle spese sostenute dal soccombente, salvo quanto previsto dagli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile, e, inoltre, che possa condannare il vincitore al pagamento di un'ulteriore somma a titolo di contributo unificato ai sensi dell'articolo 9 (L) del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115; q) prevedere che il procedimento di conciliazione non possa avere una durata eccedente i quattro mesi; r) prevedere, nel rispetto del codice deontologico, un regime di incompatibilità tale da garantire la neutralità, l'indipendenza e l'imparzialità del conciliatore nello svolgimento delle sue funzioni; s) prevedere che il verbale di conciliazione abbia efficacia esecutiva per l'espropriazione forzata, per l'esecuzione in forma specifica e costituisca titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale. 10 Si osservava nelle delibera dell’11 marzo 2009 che “Invero, lo sviluppo di metodi alternativi per la risoluzione delle controversie (per usare la terminologia dell’art. III-269, n. 2 lett. g) del trattato costituzionale europeo) è una delle politiche dell’Unione europea nel settore della giustizia civile. Questa politica si è tradotta in numerosi interventi; tra i principali vanno senza dubbio annoverati: a) le conclusioni del Consiglio europeo di Tampere del 15 e 16 ottobre 19993; b) il Libro Verde relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie, presentato il 19 aprile 20024; c) il Codice europeo di condotta per i mediatori5, presentato a Bruxelles il 2 luglio 2004; d) la proposta di direttiva sulla mediazione6 del 21 ottobre 2004; e) la scelta di campo a favore degli strumenti alternativi contenuta in molte direttive (tra tutte, a titolo esemplificativo, l’art. 17 della direttiva 2000/31 sul commercio elettronico7); f) la Direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008 relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale, che ha sostanzialmente recepito la proposta di direttiva di cui alla precedente lett. d), 41 limitandone tuttavia l’applicazione alle controversie transfrontaliere”. Successivamente alle delibere citate ulteriori atti comunitari hanno consolidato e rafforzato tale generale indirizzo; a titolo di esempio da ultimo vale la pena citare la Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 12 marzo 2013 sulla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori, recante modifica del regolamento (CE) n. 2006/2004 e della direttiva 2009/22/CE (direttiva sull'ADR per i consumatori) 11 Si tratta sempre di dati offerti dalla Direzione Generale di statistica del Ministero della Giustizia 12 Art. 5, comma, 2, d.lgs. 28/10: “fermo quanto previsto dal comma 1-bis e salvo quanto disposto dai commi 3 e 4, il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell'istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l'esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso, l'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello. Il provvedimento di cui al periodo precedente è adottato prima dell'udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista, prima della discussione della causa. Il giudice fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all'articolo 6 e, quando la mediazione non è già stata avviata, assegna contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione 13 Art. 5, comma 4,D.Lgs. n. 28/2010, aggiornato al D.L. n. 138/2011 e successivamente al D.L. n. 69/2013 (Legge di conversione n. 98/2013) i commi 1-bis e 2 non si applicano: a) nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l'opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione; b) nei procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento del rito di cui all'articolo 667 del codice di procedura civile; c) nei procedimenti di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, di cui all'articolo 696-bis del codice di procedura civile; d) nei procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all'articolo 703, terzo comma, del codice di procedura civile; e) nei procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all'esecuzione forzata; f) nei procedimenti in camera di consiglio; g) nell'azione civile esercitata nel processo penale. 14 Cfr. Direttiva 2008/52/CE del 21 maggio 2008 il cui obbiettivo è quello di facilitare l’accesso alla risoluzione alternativa delle controversie e di promuovere la composizione amichevole delle medesime incoraggiando il ricorso alla mediazione e garantendo un equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario. 42