PRESENTAZIONE DI R. MANDROU L`opera di Robert Mandrou

Transcript

PRESENTAZIONE DI R. MANDROU L`opera di Robert Mandrou
PRESENTAZIONE DI R. MANDROU
L’opera di Robert Mandrou, che qui si presenta al lettore italiano, ha
un precedente immediato, nella stessa collezione «Peuples et Civilisations», di cui costituisce il volume X, presso le Presses Universitaires de
France. La stessa collezione, allora presso l’Editore Félix Alcan, aveva
avuto una prima incarnazione, presentando anch’essa, come volume X di
quella, che era ed. è, in sostanza, una storia universale per collaborazione
multipla il volume La prépondérance française, Louis XIV (1661-1715),
Paris.1935, ad opera di A. de Saint-Léger e di Philippe Sagnac, due nomi,
allora, in prima linea nella storiografia francese.
Già molto significativo il mutamento del titolo: è lasciato cadere il concetto di preponderanza, che nella prima edizione aveva costituito il filo direttivo, e non solo in questo volume, per due secoli di storia europea, dal
1559 al 1763, nel succedersi delle preponderanze spagnola, francese e inglese. Che è come dire che la prima edizione era stata concepita non dirò
alla vecchia maniera, perché è una maniera ancor viva, ma essenzialmente
come storia statuale politico-diplomatico-militare, come storia d’Europa
(al mondo extra-europeo, asiatico e americano, era dato appena qualche
accenno e solo in quanto vi si riflettevano ambizioni e interessi, in sostanza
coloniali, di Stati europei) di un’Europa alla ricerca di un equilibrio che
contrastasse, appunto, la preponderanza francese. Per quanto la parte dei
due autori, de Saint-Léger e Sagnac, non fosse rigorosamente delimitata,
tuttavia si avvertiva che era uscita dalla penna del primo soprattutto la trattazione della politica generale, della diplomazia, delle guerre; del secondo,
372
ERNESTO SESTAN
i capitoli minori (minori anche per estensione di pagine) dedicati alle condizioni interne dei vari paesi e soprattutto della Francia, alla storia delle
idee politiche, del pensiero filosofico e scientifico.
Tutt’altra aria in questo volume del Mandrou, non so se più o meno balsamica; ma certo un’altra aria: la histoire-bataille, per adoperare un motto
testa di turco dei dioscuri fondatori delle «Annales», è molto molto ridotta,
talora al minimo, ma pur sempre in misura sufficiente, perché il lettore
possa rendersi conto anche di questi aspetti della situazione. L’economico
e il sociale vi hanno, questi sì, la preponderanza. Dire che le «Annales»
non sono passate invano è, probabilmente, restringere il fatto a un filone
soltanto, per quanto importante, mentre questa tendenza a centrare sull’economico e il sociale, a portare su di essi l’interesse, che già si suppone
vivo nel lettore, risponde a più generali situazioni culturali, che non sono
soltanto della Francia, ma del mondo culturale direi universale, e non solo
per derivazione marxistica, ma per riflesso del fatto, di constatazione quotidiana, che l’economico e il sociale sono elementi fondamentali della nostra vita. È diventata oramai abitudine mentale generale di reagire, quasi
automaticamente, ad ogni fatto, cercandone la spiegazione attraverso l’analisi della situazione sociale ed economica in cui si è prodotto. E questo non
soltanto negli scritti di storici e di politici, ma nelle interpretazioni, spesso
disinvolte e non sempre attendibili della letteratura giornalistica, nell’atteggiamento mentale di ogni persona appena colta. Oggi, fra i più, è quasi
impensabile che si possa – per citare il caso di uno degli astri della storiografia otto-novecentesca, Leopold von Ranke – introdurre una storia della
Germania nell’età della Riforma, senza un preambolo sulla situazione economica e sociale, e non soltanto quella politico-religiosa, come fa il Ranke.
A ragione o a torto, o un po’ a ragione e un po’ a torto, le spiegazioni d’ordine essenzialmente psicologistico o irrazionale-religioso dei personaggi e
delle folle, sono cadute in discredito.
Nella produzione storica, enormemente inflazionata in questi ultimi
anni, non c’è quasi angolino storico che non sia stato sottoposto ad ispezione sotto questi punti di vista. La ricerca monografica, anche molto circoscritta, acquista un valore finora non sempre riconosciuto, come tassello
in un mosaico che si cerca di costruire. Opere storiche considerate un
tempo fondamentali sono lasciate cadere nell’oblio come poco oramai significanti o al più circondate da una reverenza piuttosto formale. Si badi
alla bibliografia a piè dei singoli paragrafi di quest’opera del Mandrou:
PRESENTAZIONE DI R. MANDROU
373
piuttosto di rado vi appare uno studio, un’opera, una ricerca che risalga più
in là di quindici o vent’anni. Solo per la storia detta un tempo «coloniale»
si nota una ancor scarsa «modernizzazione». Utile lezione di modestia agli
storici: le loro opere invecchiano rapidamente, rapidamente sono superate
o assorbite in opere successive, nelle quali, citate o non, sono presenti come
uno stadio, al suo tempo nuovo o comunque utile e talora indispensabile,
ma ora riplasmato nella nuova costruzione. Certo è che senza questi lavori
preliminari alcuni importanti capitoli di quest’opera di Mandrou non sarebbero potuti nascere. Mi riferisco, ad esempio, ad alcuni capitoli più
nuovi, il IV del libro I sull’assoggettamento al potere monarchico della società francese, il I e il II del libro II sul governo regio nel periodo della vecchiezza, una vecchiezza veramente precoce, secondo le misure nostre
moderne, cominciando già sulla quarantina del Re; e sul declino di Versailles rispetto a Parigi, quale centro animatore della vita francese.
Un’altra nota caratteristica di quest’opera di Mandrou, rispetto a similari di una generazione fa e che è in relazione con questo preminente interesse per l’economico e il sociale, è che situazioni e sviluppi storici sono
visti, altrimenti che un tempo, non solo con l’occhio dei governanti, come
comportava necessariamente la storia politico-diplomatica, ma anche con
quelli dei governati. Non tuttavia, nel senso che la storia la «facciano» i governati; la continuano a fare le élites governanti, le quali, tuttavia, sono
condizionate dalle situazioni, dalle resistenze, dalle pressioni, dalle aspirazioni, dagli interessi, dalle volontà anche dei governati. Gli esempi non
mancano.
Il quadro che il Mandrou ci presenta dell’economia francese, rurale,
artigiana, manifatturiera, commerciale negli anni ’60, al tempo della diretta presa di governo da parte di Luigi XIV, è molto molto fosco e descritto con il tono commiserante, catastrofico, che è d’uso in questi casi.
Ci si meraviglia come la Francia non sia regredita permanentemente al livello dei paesi più poveri, senza avvenire. Il Mandrou, così sapientemente
ferrato di dati su tutti gli aspetti della vita sociale ed economica, stranamente concede un po’ poco alla demografia, che nella storiografia quantistica ora di moda è, forse, la faccia che meno mentisce. Verrebbe fatto di
supporre che in quelle condizioni disastrose la popolazione diminuisse,
benché la miseria possa accompagnarsi con la prolificità. Il Mandrou, sempre aperto alla più varia e interessante problematica, non approfondisce
questo punto né istituisce dei rapporti con altri paesi, se fossero in con-
374
ERNESTO SESTAN
dizioni migliori o peggiori, perché anche la miseria è un concetto relativo.
Si diceva dell’Albania di un tempo che lì il padrone di cento pecore era un
gran signore, un principe. Resta il fatto che il Regno di Francia è con i
suoi venti milioni circa di abitanti lo Stato più popoloso d’Europa. Che
cosa questo significhi ai fini del peso politico-militare è, più che spiegato,
lasciato alla intuizione del lettore. Ma rimane il fatto che questi venti milioni di francesi riescono in qualche modo a campare e sono, per una percentuale imprecisabile, dei contribuenti; e forse, paradossalmente, si può
dire che il Regno di Francia, per quanto povero, è il Regno più ricco d’Europa, quello che proprio per la sua consistenza demografica, più dà alle
casse dello Stato e rende possibili quelle costose guerre estenuanti che caratterizzano il Regno di Luigi XIV. Guerre costosissime, certamente; ma
resta a vedere quanto di quelle spese gravasse negativamente sulla bilancia commerciale con altri paesi e quanto, invece, tornasse a circolare nell’economia del paese stesso.
Il principio che regge il sistema sociale è quello della più profonda, radicale disparità, diciamo pure dello sfruttamento: non certo un caso singolare francese, ma situazione universale allora, e non soltanto allora. I
produttori della ricchezza, lavoratori della terra, allevatori di bestiame,
pescatori, lavoratori delle miniere, i trasformatori delle materie prime in
prodotti manufatti, sono anche allora gli sfruttati di coloro che via via appartengono a strati sociali successivamente superiori: dal piccolo o grande
che sia proprietario delle terre, ai ceti professionistici e burocratici, ai mercanti, agli organizzatori del lavoro altrui, con impiego non molto grande
di capitale, data l’arretratezza tecnologica industriale (fanno eccezione i
costruttori ed armatori di navi), gli speculatori, i fornitori dell’esercito e
della marina, i banchieri, i mediatori fra i contribuenti e le casse dello
Stato. Fa grande impressione leggere nel Mandrou che gli appaltatori delle
imposizioni fiscali, su 85 milioni di lire versate loro dai contribuenti, se ne
tenessero per sé ben 54. E mettiamo pure che una parte scivolasse nelle tasche dei minori, intermedi agenti fiscali; ma chi teneva in capo le redini di
tutto doveva avere dei profitti enormi; per cui alla paurosa miseria si contrapponeva una altrettanto, per diversa ragione, paurosa ricchezza, in un
numero misurato di mani.
Da Voltaire in poi, sorvolando con la sovrana indifferenza dell’uomo di
lettere su queste impressionanti differenze sociali, si è posto l’accento su
lo splendore delle arti e delle scienze e del pensiero, come titolo di onore,
PRESENTAZIONE DI R. MANDROU
375
di apprezzamento largamente positivo, del «secolo» di Luigi XIV, posto
sulla linea di tre altri momenti splendenti della storia umana, l’età di Pericle, di Augusto, di Leone X. Ora, è evidente che gli splendori della Francia sotto il Regno di Luigi XIV sono stati possibili solo grazie a quella
radicale, impressionante differenziazione sociale. Quelle costruzioni fastose, come Versailles, quello stuolo di artisti e letterati, economicamente
dei parassiti viventi all’ombra protettrice della corte, quelle guerre di magnificenza, sono stati resi possibili solo dal concentramento nelle casse
reali di somme grandissime, risultato del succhiamento delle risorse prodotte dai ceti più bassi. C’è da domandarsi se sia alta civiltà soltanto questa tagliata sul filo dell’apprezzamento abnorme degli splendori delle arti
e delle scienze, misurata sul metro ormai convenuto proposto o imposto
dai letterati e dagli storici, non solo dai Voltaire o dai Burckhardt in poi,
ma da ben prima, dalla millenaria cultura classica. O proponendo, timidamente, una revisione, un minore e meno unilaterale apprezzamento del
concetto di civiltà, si fa peccato di neo-illuminismo antistoricistico? Il
Mandrou raccoglie dalle ricerche particolari di uno stuolo di storici dati
molto interessanti sulla politica culturale di Luigi XIV o effettuata in suo
nome, e a sua gloria. D’altra parte non si può tacere che, per una astuzia
della storia, in questa vivificazione della vita intellettuale, promossa e favorita da quella profonda disuguaglianza sociale ed economica, nacquero,
accanto agli incensamenti dei letterati cortigiani, idee sovvertitrici, nate
ed alimentate proprio in quei ceti di intellettuali, che vivevano anch’essi
a spese di quelle disuguaglianze sociali.
Giustamente, il Mandrou fa notare che nel quadro della miseria generale delle classi inferiori fanno spicco Inghilterra e Paesi Bassi olandesi,
non perché anche qui la miseria non visiti le classi inferiori, inferiori più
per la loro miseria che per qualità, giudicata inferiore, del loro operare, ma
perché la ricchezza da un lato è principalmente il prodotto non dello sfruttamento della proprietà agraria, bensì di attività commerciali internazionali e dall’altro lato perché questa ricchezza non si concentra in una corte;
per cui qui il ceto intellettuale non orbita attorno ad una reggia, ma può
vivere indipendentemente su una base sociale più vasta ed autonoma, e
quindi, politicamente, più sciolta dalle suggestioni di una corte. Rimane,
però, da spiegare come l’Olanda del ’600, il paese più ricco d’Europa, e
forse anche il più colto, essendo quasi ignoto l’analfabetismo, non abbia
poi prodotto, fuori dalla pittura, una grandissima pittura, né una grande
376
ERNESTO SESTAN
letteratura nazionale, né, tranne Spinoza, e non è poco, un fermento di
idee innovatrici, pur dovendosi ammettere di avere coltivato nel suo seno,
ma come qualche cosa di estraneo, tuttavia, il fermento dei rifugiati francesi, tipo Bayle, e in misura minore, anche inglesi, tipo Locke (Cartesio in
Olanda appartiene alla prima metà del secolo). Ma anche in Francia la situazione culturale stava a poco a poco perdendo le caratteristiche di una
cultura prevalentemente di corte; ciò che il Mandrou illustra molto efficacemente in uno dei capitoli più interessanti, quello dedicato al sottentrare di Parigi a Versailles quale centro focale della cultura francese. È
motivo generale fra gli storici – né si può fare carico al Mandrou di condividerlo – questa tendenza ad indulgere pur di esaltare i prodotti eccelsi
(quando sono eccelsi) dello spirito, stendendo un velo compassionevole
sull’humus sociale nel quale hanno potuto manifestarsi. D’altra parte, che
gioverebbe ad insistere su geremiadi per una situazione che era quella che
era e che lo storico deve constatare, come appunto fa egregiamente il Mandrou? Non pare sia compito dello storico, ma piuttosto del sociologo, di
accertare, in linea generale, se solo contraddizioni sociali così profonde
possano dare vita a quei prodotti dello spirito, a quei lussi dell’intelligenza
e della fantasia artistica.
Se mai, resta a vedere se e che cosa sia stato fatto in quel mezzo secolo
anche se non programmaticamente, che abbia introdotta qualche modificazione nelle condizioni economico-sociali. Non pare che il Colbertismo
– questo, in definitiva, il pensiero del Mandrou – nonostante l’abilità e si
direbbe, in certi casi, la genialità e la fantasia del suo promotore più che
inventore, abbia accresciuto la ricchezza della Francia, rimasta fondamentalmente feudale, e soprattutto, se aumento di ricchezza ci fu, non
l’abbia traslocata da una classe sociale ad altre: chi già aveva continuò ad
avere, e chi non aveva continuò a non avere. Ci si potrebbe domandare se
le molte intraprese ed iniziative commerciali e manufatturiere del Colbertismo abbiano aperte nuove possibilità di lavoro, se ci sia stato in qualche misura un trasferimento dai ceti rurali, miserrimi, verso attività di altro
tipo e accompagnato da un movimento demografico dalla campagna verso
le città o più semplicemente a luoghi di più accentrato agglomerato che
non quello del villaggio rurale. La domanda non ha una precisa risposta,
che se mai pare debba essere piuttosto negativa.
L’autore dedica due capitoli estremamente interessanti alle questioni
religiose che agitarono la Francia, nei due periodi in cui egli vede distinta
PRESENTAZIONE DI R. MANDROU
377
quella storia, e non soltanto sotto l’aspetto religioso prima e dopo il 1685.
È l’anno della revoca dell’editto di Nantes e di questo malaugurato provvedimento non è difficile vedere le relazioni con tanti altri aspetti della
vita francese, quelli economici soprattutto, che il Mandrou illustra egregiamente. Ma delle altre agitazioni e polemiche religiose si può dire qualche cosa di analogo? O sono beghe che interessano una cerchia ristretta
di ecclesiastici e di laici: devoti, e, al più, i rapporti con la Curia romana?
O hanno intaccato nel profondo l’anima del popolo francese? La disputa
giansenista in Francia è certamente interessante, ma ci si può domandare
se sia stata anche storicamente importante, cioè se incubasse in sé qualche
futuro, se non fosse in se stessa non più di un episodio temporaneo di vita
religiosa o se rappresentasse, nella Chiesa di Francia, una tendenza verso
qualche cosa di diverso, di non perituro. Probabilmente il giansenismo è
da vedere, come fa il Mandrou, insieme con gli altri coevi fenomeni di vita
e di politica religiose di questo tempo: il quietismo, le tendenze gallicane,
le persecuzioni contro i dissidenti religiosi, gli Ugonotti, i Camisards. È
pur significativo che nessuno, né fra i giansenisti né fra i quietisti abbia alzato una voce in difesa dei perseguitati ugonotti. In fondo, tranne ovviamente questi ultimi, tutti erano d’accordo col Re nel postulare
innanzitutto l’unità cattolica della Francia, anche se poi non si escludevano differenze entro questa unità, come appunto mostravano queste dispute. Nelle quali nessuno solleva in Francia il principio della tolleranza
religiosa: questa bisogna andare a cercarla in Inghilterra, è qui, non nel
giansenismo o nel quietismo, che agiscono idee e rivendicazioni gravide di
futuro. Ciò non toglie, naturalmente, che lo storico, registratore dei fatti,
non ne debba parlare, perché furono questioni che turbarono le coscienze
di molti o pochi Francesi, toccando punti delicati che sempre hanno
scosso i cristiani circa il modo di assicurarsi la salvazione eterna e col quietismo, di titillare specialmente la psicologia religiosa. Non ci si sottrae all’impressione che in queste dispute, non di rado furibonde, fosse, non dirò
sprecato, ma impiegato un po’ a vuoto, un enorme sforzo di pensieri, di
sottigliezze casistiche, di razionalità attorno a problemi di pura fede, la
grazia, la predestinazione, per la loro natura male riportabili a motivi razionali. Ma ci furono, appassionando gli animi di alcune generazioni, che
si dilaniarono su tali questioni, e lo storico deve tenerne conto come di
un colore, per nulla affatto trascurabile, nel quadro del tempo, come retaggio di posizioni di pensiero e di psicologia d’impostazione medievali-
378
ERNESTO SESTAN
stica, ma che non per ciò si devono considerare anacronistici e però superati e abbandonati definitivamente nel pensiero e nel sentimento moderni. Può essere che questo richiamo alla interiorità della fede, che è alla
radice del giansenismo e del quietismo, contro il lassismo gesuitico, sia testimone di una vitalità delle coscienze, che per allora trovava quegli sbocchi, ma che in avvenire poteva cercarne e trovarne altri, nella vita politica;
e che in tutti i casi, deve essere valutato positivamente in confronto ad
un’inerzia spirituale accomodante e disposta ad acquietarsi nella situazione di fatto; cioè, ammettere che in quei fenomeni fosse, latente, uno
spirito innovatore, in sostanza, nel senso etimologico della parola, rivoluzionario. Non era, naturalmente, nei compiti del Mandrou di indagare su
questi possibili sviluppi, che l’avrebbero portato fuori dei termini cronologici del suo assunto. Ma queste considerazioni alla buona vanno forse
fatte per non scivolare, per un troppo unilaterale realismo razionalistico,
in un giudizio di quei fenomeni religiosi quasi fossero, su un piano molto
più elevato, analoghi ai fenomeni della superstizione, della magia, della
stregoneria, i quali, del resto, come fenomeni diffusi dell’anima religiosa
popolare e non meritano largamente l’attenzione dello storico.
Entrano maggiormente nel solco della storiografia tradizionale i bene informati e bene meditati capitoli dedicati alla politica diplomatico-militare,
alle lunghe guerre che segnarono il mezzo secolo e più di governo diretto
di Luigi XIV. L’esposizione è condotta con grande maestria attraverso
un’analisi perspicua dei molteplici e complessi elementi che caratterizzarono quella politica, presente sempre e contemporaneamente su molti scacchieri. Sorge qui, ancora una volta, la domanda circa le ragioni della mai
intermessa tendenza di Luigi XIV all’egemonia. Una ragione banalmente
meccanica, quasi automatica: che il Regno di Francia, trovandosi ad essere
se non il più ricco, certo il più popoloso d’Europa (una ventina di milioni
di abitanti, come si è detto, contro i sette, forse, dell’Inghilterra e i meno
ancora della Spagna; non parliamo dell’Impero, che non è uno Stato omogeneo, guidato da un’unica volontà politica) tendesse naturalmente all’espansione, non persuade. La densità relativa della popolazione francese,
che si può calcolare molto approssimativamente a meno di 40 abitanti per
chilometro quadrato, non era tale da fare esplodere il coperchio alla ricerca di una espansione demografica altrove. Gira e rigira, ci si riduce, in
sostanza, a un motivo psicologico, uno di quei motivi psicologici che la storiografia, in sede teorica, sia idealistica che economicistica, vorrebbe esclu-
PRESENTAZIONE DI R. MANDROU
379
dere a priori. Eppure! È la ricerca della gloire l’intima, profonda soddisfazione, anzi il gaudio di sentirsi riconosciuto come il sovrano più splendido,
più circonfuso della gloria bellica delle sue armate, più smagliante di onori
fastosi nell’atmosfera di una corte prostrata ai suoi voleri, celebrante ogni
giorno un cerimoniale quasi chiesastico, ad una altezza quasi sovrumana,
quale nessuno dei sovrani, quasi tutti, o prima o poi da lui foraggiati, poteva dirsi portato né sperare di attingere, nessuno dei quali, tolto per il
clangore del titolo, l’Imperatore, alla cui successione Luigi XIV aspirò, e
forse il Re di Spagna, egli poteva considerare suoi pari in grado, e tanto
meno in potenza. Veramente il Re Sole, fuori di metafora, si sentì in una
specie di sistema copernicano della maestà regia, il centro solare di un sistema in cui rotavano attorno i minori satelliti regali e principeschi; e non
diciamo, fino al 1688, della plebe mercantesca dei governanti delle Provincie Unite. Per Luigi XIV veramente uno Stato, un vero Stato, era concepibile soltanto come monarchia. Gli allori militari non lo attraevano per
se stessi, ma piuttosto come occasione per fastosi spettacoli teatralmente
suggestivi, come l’entrata trionfale in Utrecht o Strasburgo, non da lui personalmente conquistate. Non aveva il gusto del conquistare da sé, alla maniera di Alessandro o di un Carlo Magno, con una sua azione personale di
comando, che preferiva lasciare al genio militare, quando c’era, dei suoi
generali e marescialli; si concludevano, sì, in conquiste territoriali, ma pare
che questo ai suoi occhi fosse, in certo senso, secondario: l’essenziale era
l’avere trionfato, brillato un’altra volta nel firmamento europeo, magari
anche con espedienti di più che dubbia correttezza giuridica, quali le Camere di riunione, o con sistemi di guerra totale, di «terra bruciata», come
nella guerra del Palatinato, sistemi così lontani allora da un modo di guerra
almeno relativamente cavalleresco e che ci riporta ai sistemi brutali di
guerre dei tempi nostri. Certo, quelle conquiste territoriali fatte precipuamente per incastonare nuove gemme nella corona di Francia, costituirono,
in proseguo di tempo, un solido terreno, fino ai Pirenei, fino alle Alpi, fino
al Reno, della potenza francese, anzi della nazione francese, ma non furono
programmate né portate a termine a questo fine, come sognò certa storiografia monarchico-nazionalistica.
Il sovrano egocentrismo, la caratteristica fondamentale della personalità di Luigi XIV, comporterebbe, come logica conseguenza, di attribuire
a lui tutto il bene e di addossare a lui tutto il meno bene e il male del suo
lunghissimo regno. Il Mandrou è molto sottile anche su questo punto: in-
380
ERNESTO SESTAN
siste sulla straordinaria perspicacia del Re nello scegliersi i più immediati
collaboratori, i Colbert, i Louvois, i Vauban ecc. ecc., magari anche il poliziotto parigino d’Argenson. Ma spettava poi a costoro l’abilità di insinuarsi nell’animo del Re, di prospettargli come volontà sua decisioni che
non erano propriamente maturate in lui, ma in questi suoi abilissimi e in
fondo anche fedelissimi collaboratori più che servitori. Data la struttura
relativamente efficiente, burocratico-amministrativa del Regno di Francia, molto doveva camminare da sé, una volta dato l’avvio; ma certe decisioni fuori dell’ordinario, specialmente nel campo religioso, quali la revoca
dell’editto di Nantes, dovevano risalire proprio al Re o ad altre influenze,
magari del suo confessore o di Madame de Maintenon, o certe complicazioni diplomatico-belliche; spettava poi ai collaboratori di sbrigarsela nell’esecuzione. In definitiva, è difficile stabilire un confine fra le volontà
concorrenti nella storia di Francia (e d’Europa) in quel mezzo secolo. Ma
non è detto che la storia debba essere un tribunale delle responsabilità
personali dei «grandi» della storia stessa. È un problema o pseudo problema che si può anche lasciare cadere. Fermiamoci al bel quadro, i cui
motivi ideali e materiali concorrono e si intrecciano, che il Mandrou ha saputo darci e che ben merita di essere presentato ai lettori italiani.
I SARDI IN BILICO TRA SPAGNA E ITALIA (SECOLI XIV-XVIII)
Riprendo imprudentemente, perché non sono uno specialista di storia
sarda (e lo si vedrà presto), riprendo un tema che è forse molto marginale
in questo convegno e al quale accennai quasi trent’anni or sono e che presenta un certo interesse sia come caso specifico dei Sardi, sia, e anche un
po’ più, come caso più generale del formarsi e trasformarsi di una cultura
e di una coscienza nazionali. Da allora, da quasi trent’anni in qua, il problema è stato risollevato solo negli anni ’60, con le opere di Francisco Elias
de Tejada, El pensamiento politico del Reyno hispánico de Cerdeña1 e Cerdeña hispánica, ma specialmente con l’opera di Joaquin Arce, España en
Cerdeña, a cui seguirono le osservazioni critiche di un valoroso storico del
diritto sardo, anche se non solo di questo, e sardo egli stesso, Antonio Marongiu, negli anni 1961 e 19632. Da allora sono uscite parecchie storie generali di Sardegna: di Evandro Putzulu, 1960; di Natale Sanna, 1964; di
Arnaldo Satta, 1970; di Raimondo Carta Raspi, di Leonida Macciotta, di
Giuseppe Struglia, tutte e tre nel 1971; forse troppe, e non tutte di pari
pregio: le compensano i contributi monografici pregevoli di Alberto Bo-
1
F. E. De Teiada, El pensamiento politico de Cerdeña, Sevilla, 1954; Id. Cerdeña hispámica, Sevilla, 1960; J. Arce, España en Cerdeña, Madrid, 1960.
2
A. Marongiu, Sardegna «spagnola» e storie ad usum delphini, in «Rassegna degli archivi di stato», XXI (1961), pp. 185-196; e La Sardegna spagnola. Un conto che… non s’ha
da fare, ibidem, XXIII (1963), pp. 245-261 (anche in Studi storici e giuridici in onore di
Antonio Era, Padova, 1963, pp. 201-220).
382
ERNESTO SESTAN
scolo e della sua scuola. Ma nessuna risollevò, né investi decisamente il
problema, che non pare di poco momento nella storia dell’isola; che è questo: come avviene che una popolazione già ben configurata anche geograficamente per la sua insularità e sostanzialmente omogenea per il suo
linguaggio ben caratterizzato rispetto ad altri della sfera romanza, anche
se con qualche varietà locale, non riesce ad elevarsi al livello di coscienza
e di cultura nazionale, ma pencola per più di mezzo millennio prima verso
la ispanità e poi, definitivamente (sempre nella misura relativa che il definitivo ha nelle imperscrutabili vie della storia) nella italianità? Se bastasse
la maggior vicinanza della Sardegna al continente italiano a spiegare banalmente quell’esito della storia sarda (100 miglia, distanza minima, mentre sono 255 da Alghero a Barcellona), il problema sarebbe risolto; ma
non basta.
L’insularità parrebbe, a priori, una condizione materiale particolarmente adatta per covarvi una propria singolarità nazionale. Così è stato
per l’Inghilterra, ma con la condizione favorevole di avere creato nel proprio seno, prima e specialmente dopo la conquista normanna, un proprio
aggregato statale assolutamente autonomo, del tutto slegato da poteri politici al di fuori dell’isola. Anche i legami con la Normandia si ruppero relativamente presto, per non dire di quelli meramente feudalistico-dinastici
con l’Aquitania; ciò che importa fu che il centro politico rimase sempre
nell’insulare Inghilterra; proprio l’opposto che in Sardegna, salvo il periodo dei Giudicati, ed anche in Corsica, che ebbe un corso storico per
molti aspetti analogo a quello della Sardegna, ma con sbocco nazionale
diverso. Qui viene fatto naturale di fare del comparativismo storico, un
procedimento storiografico piuttosto insidioso e illusorio, da trattare con
molte riserve e cautele, non foss’altro per la incomparabilità e irreperibilità del fatto storico. Si dirà che anche la Sicilia, almeno dal 1415, fu soggetta a un potere politico che aveva il suo centro politico fuori di essa;
eppure la Sicilia non oscillò mai fra Spagna e Italia, ma rimase sempre legata culturalmente e forse sentimentalmente (cosa sempre difficile da verificare) alla nazione italiana. I germi gettati da un Federico II poterono
talora avvizzire, ma non si estinsero mai. E giacché siamo sullo scivolo
comparativistico, vediamo l’isola d’Irlanda, gaelica. Ma il gaelico, sulla
fine del secolo scorso stava spegnendosi: non erano più di 15 mila gli Irlandesi che parlassero solo il gaelico, su 3 milioni e 360 mila circa di Irlandesi, senza contare i milioni emigrati in America; e l’Irlanda aveva dato
I SARDI IN BILICO TRA SPAGNA E ITALIA (SECOLI XIV-XVIII)
383
alla civiltà inglese Swift e Berkeley, Goldsmith e Burke, Thomas Moore e
Samuel Ferguson, fino a Oscar Wilde, a Bernard Shaw, a Yeats, a Joyce.
Non sulla lingua, dunque, si ispirava e si alimentava lo spesso furente
nazionalismo irlandese. E i Sardi? Il loro destino nazionale fu determinato da forze estranee. Mancò ad essi un forte nesso statale unitario, comprendente tutta l’isola.
Il periodo altomedievale dei Giudicati, sostanzialmente autonomi
politicamente, anche se, negli ultimi due secoli molto pervasi da forze politiche e mercantili estranee, pisane a Sud, genovesi a Nord, non rappresentò nemmeno uno sforzo di unità politica. Non si può ammettere, con
Arrigo Solmi, che alla vigilia della conquista aragonese, la Sardegna fosse,
come egli dice, a un pelo dall’assumere come lingua culta l’italiano; ciò
che sarebbe stato soffocato appunto dalla conquista aragonese. Già queste elucubrazioni su ciò che sarebbe potuto avvenire o sarebbe stato lì lì
per avvenire, ma non avvenne, non hanno senso in sede storica: sarebbe
una specie di futurologia a rovescio. Con altrettanto fondamento, ma solo
congetturale, si potrebbe allora dire che stava per imporsi, come lingua
anche letteraria, il volgare sardo, tenuto conto della lingua dei documenti,
delle carte de Logu, dei Condaghi. La realtà è un’altra. La lingua sarda,
non immune del resto da varietà anche di qualche peso nelle varie parti
dell’isola, specialmente dal Campidano al Logudoro, è rimasta lingua popolare, non si è imposta anche letterariamente per ragioni d’ordine sociale: cioè perché la popolazione sarda, quasi interamente dedita ad
attività agricole e pastorali, non ha saputo esprimere da sé un proprio ceto
culturalmente e socialmente superiore (chiamiamolo pure borghese o di
notabili proprietari di mandre e di terre) e convergerlo verso un centro urbano, che divenisse luogo di convivenza duratura e di rapporti continuati
di un ceto omogeneo non meramente agricolo-pastorale.
La disseminazione della popolazione su tutto il territorio isolano in
condizioni di sostanziale isolamento è stata per secoli una delle caratteristiche essenziali della Sardegna; non vale per essa la caratteristica, che gli
stranieri nel Medioevo, e anche poi, notavano subito per l’Italia: terra di
città. Può essere, che in età tardo romana e bizantina la situazione sia stata
alquanto diversa: lo farebbe supporre il numero sproporzionato di diocesi sopravvissute fino in età tardomedievale e moderna e che prendono
nome da località divenute insignificanti, misere borgatelle di qualche centinaio di abitanti. Anche le cosiddette città maggiori, Cagliari, Sassari, Al-
INDICE GENERALE
Introduzione
Un “uomo senza qualità” di Renato Pasta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 11
L’avanzata turca nel Mediterraneo dopo il 1453 e la reazione
europea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Fridericus Rex . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il principe Eugenio «nobile cavaliere» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il Grande Elettore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il primo Re di Prussia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il Re Sergente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Maria Teresa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Significato del «Siècle de Louis XIV» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Prodromi di storicismo nel Settecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il riformismo settecentesco in Italia. Orientamenti politici
generali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La politica veneziana del Seicento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Rinascimento e crisi italiana del Cinquecento nel pensiero di
Federico Chabod . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Sacro Romano Impero ed Europa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Introduzione a G. Ritter, Federico il Grande . . . . . . . . . . . . . . . . .
Introduzione all’edizione italiana di O. Brunner, Vita nobiliare
e cultura europea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
»
»
»
»
»
»
»
»
87
95
107
119
131
145
159
175
221
» 239
» 261
» 285
» 297
» 311
» 323
502
INDICE GENERALE
Scientificismo e storiografia nel Settecento . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ludovico Antonio Muratori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Presentazione di R. Mandrou . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I Sardi in bilico tra Spagna e Italia (secoli XIV-XVIII) . . . . . . . .
Le «Antichità italiche» di Gian Rinaldo Carli due secoli dopo . . .
In margine alle «Rivoluzioni d’Italia» di Carlo Denina . . . . . . . .
Recensione a O. Redlich, Das Werden einer Grossmacht:Oesterreich
von 1700 bis 1740 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Recensione a R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli . . . . . . . . . . .
Recensione a R. Ridolfi, Studi guicciardiniani . . . . . . . . . . . . . . .
p.
»
»
»
»
»
335
353
371
381
397
421
» 461
» 475
» 471