Sara muore a Qiriat Arbà (Hebron) e lì Abramo
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Sara muore a Qiriat Arbà (Hebron) e lì Abramo
Pagina 63 Hajjé Sarah LA VITA DI SARA FU DI CENTOVENTISETTE ANNI e morì Sara a Kiriat Arbà è [cioè] Hevron in terra di Canaan e venne Abramo a seppellirla e a piangerla ** Sara muore a Qiriat Arbà (Hebron) e lì Abramo le dà degna sepoltura, acquistando dall’ittita Efron la migliore grotta, in un suolo dove si afferma il suo primo titolo di perfetta proprietà nella terra promessa, a garanzia simbolica di un diritto storico del popolo ebraico nella terra di Israele. La città era infatti abitata da una popolazione ittita. Gli ittiti compaiono spesso nella Bibbia, dove sono identificati genealogicamente come i discendenti di Het, figlio di Canaan, figlio a sua volta di Ham, uno dei tre figli di Noè, che già conosciamo, ma anche per la lingua non pare camita. L’identificazione storica è di un popolo, dal nome Hattu o Khattu, fissatosi in Anatolia, attuale Turchia, dove era giunto da oriente, sovrapponendosi ad una popolazione indigena dal nome già simile. La capitale era Hattusas. Fondarono un vasto impero, che fu in competizione, politica e bellica, con l’Egitto per il dominio della Siria, passando per la terra di Canaan o Palestina. Gli ittiti elaborarono una civiltà giuridica e a loro si attribuisce l’iniziativa dei trattati fra stati. Gli ittiti presenti nella terra di Canaan, nominati al versetto 20 del capitolo 15 di Genesi, tra le diverse genti del paese, con il nome hittim, erano una propaggine, diciamo diasporica (non sono solo gli ebrei a conoscere la diaspora) di questo popolo numeroso. Probabilmente erano una propaggine precocemente staccata dal grosso del popolo che, provenendo da oriente, Pagina 64 pervenne in Anatolia. Ai tempi della monarchia ebraica la componente ittita del paese entrerà a farne parte con un buon contributo militare, se si pensa che ittita sarà il fedele e valoroso generale Uria, ahimé non compensato dal re David, troppo innamorato della sua fascinosa moglie Betsabea (secondo libro di Samuele, capitolo 11). Hebron era abitata da ittiti o prevalentemente da ittiti. Abramo, dopo avere evidentemente perlustrato la campagna in periferia della città, individuato il terreno più adatto con grotta per la sepoltura, con spazio ed alberi dintorno, ed essersi informato su chi ne fosse il proprietario, precisamente Efron figlio di Zohar, viene nella centrale piazza, dove i maggiorenti ittiti si riunivano. Si qualifica straniero residente (gher toshav) e chiede di poter ottenere, presso di loro, un sepolcro per la sepoltura di una cara persona morta. Gli ittiti gli si rivolgono con signorile accoglienza, definendolo un principe del Signore (nesì Elohim) e prontamente gli accordano la sepoltura del caro morto nel migliore terreno che a lui piaccia, assicurandolo che nessuno di loro glielo negherà. Abramo non desidera soltanto la concessione di una sepoltura ma l’acquisto del terreno che ha identificato, e, prostrandosi in atto di rispettoso omaggio, davanti al popolo della terra (la gente del paese), chiede loro di intercedere presso Efron figlio di Zohar per poter da lui acquistare la grotta all’estremità del suo campo, un vasto campo di cui acquisterà una congrua porzione. Notiamo che compare questo classico termine, am ha – arez, che avrà anche il diverso significato di gente del popolo, di base, delle campagne, rustica, senza cultura. Efron, che era ben presente tra i concittadini, si dichiara pubblicamente disponibile concedergli a grotta e terreno per la sepoltura: <<No, mio signore, ascoltami, il campo e la grotta che vi è compresa io ti do, davanti ai figli del mio popolo (bené ammì) te la do, seppellisci il tuo morto>>. Il no vuol dire che non c’è bisogno di denaro, ma può essere inteso come un complimento, da uomo di mondo, a premessa di un affare, ed è comunque da apprezzare la sua piena disponibilità, suscettibile di un rischio se lo straniero, senza far complimenti, lo accettasse, piazzandosi un po’ in casa sua, con la tomba della moglie e le visite per venirla a trovare e onorare. Gli ha offerto, per giunta, il campo e non solo una sepoltura. Invero, da uomo esperto del mondo, troverà il modo di disimpegnarsi da un ospite eventualmente invasivo, e ha compreso l’interesse di Abramo allo specifico acquisto. Abramo, trattato da principe, aprirà la borsa per aver quel terreno, poiché gli ittiti si Pagina 65 saranno, a loro volta, informati delle abbondanti greggi e di dipendenti, facoltà di quel pastore straniero, provisto di che vive sobriamente nella tenda. Abramo, uomo dalle idee chiare e leale negoziatore, insiste che vuol comprare il campo e Efron spara disinvolto la bella cifra di 400 sicli di argento, un prezzo da amatore per un buon terreno con capace grotta e begli alberi : <<Ascoltami, o signore, un terreno da 400 sicli d’argento, fra me e te, che cos’è? Seppellisci il tuo morto>>. Abramo, senza esitare, paga la somma richiesta, di ben quattrocento sicli di argento, moneta pregiata, corrente tra i mercanti, e diviene proprietario del terreno con la grotta per i sepolcri del casato, primo titolo di legittimità e punto di riferimento per il popolo ebraico nella terra che sarà di Israele. Se si pensa alle plurisecolari esclusioni degli ebrei dalla proprietà terriera ed immobiliare, alla soddisfazione raggiunta con l’emancipazione negli investimenti immobiliari e fondiari, meglio risalta la civile disponibilità degli ittiti ad accordarla tra loro ad Avraham avinu, il ragguardevole straniero, cui è valso l’acquisto per la sepoltura all’amata sposa e per la sicurezza di un possesso, un ubi consistam ai discendenti. Oggi non vi sono più gli ittiti, ma si ha a che fare con gli arabi e con la religione musulmana, che si rifà anch’essa ad Abramo, in situazione di contesa e in speranza di coesistenza e di pace. Vajakam sdeh Efron asher bammakpelah asher lifné Mamré hasadeh vehammearah asher bo vekol haez asher basadeh asher bekol ghevulò saviv le Avraham lemiknah “Il campo di Efron, che è in Macpelah, che è di fronte a Mamre, la campagna e la grotta che è (compresa) in esso, e ogni albero che è nel campo. Lungo tutto il confine dintorno, venne in proprietà ad Abramo>>. foscolianamente, La prima sicura sede di questa gens ebraica è dunque, intorno ad un sepolcro; la tomba della sposa, tardivamente ma intensamente madre, che allude in lettura anagogica alla Shekinah, la materna immanenza divina, nello speciale sentore della terra promessa, mentre Abramo simboleggia, nella mistica cabalistica, la sefirah Hesed. Pagina 66 Abramo ha coltivato i rapporti con le popolazioni di Canaan, ma la moglie per suo figlio deve venire dalla terra dei caldei, che chiama con possessivo di prima persona, affettivo, la terra mia nativa: moledtì (24, 4). L’incarico è dato al sovrintendente, identificato dalla tradizione in dopo tutto servo anziano, il Eliazar di Damasco, raccomandandogli di trovare lì la moglie a suo figlio ma di non lasciare andar lì suo figlio, perché l’avvenire della stirpe deve essere nella terra promessa da Dio. ^ Giacobbe, fuggendo dall’ira di Esaù e intraprendente di temperamento, andrà di persona a trovar moglie nel paese dei caldei, mentre Abramo, vecchio, si tiene stretto Isacco dopo il trauma del monte Moria. Eliazar compie egregiamente la missione e conduce a Canaan la bella Rebecca, attraverso la vicenda magistralmente narrata nel capitolo 24, in un misto di aiuto divino, di saggia diplomazia, di parentale ritrovamento, di lungimiranti interessi, di nuziale giovanile freschezza. La narrazione biblica, a volte rapidamente sommaria, qui indugia nel ricamo di particolari e nello scandire le parole di Abramo, poi riferite fedelmente dal provetto servitore, sovrintendente della casa, tornato al luogo da dove era partito con il suo signore. Si introduce nel teatro biblico la pragmatica figura di Labano, che ora marita la sorella e un giorno mariterà le figlie al figlio della sorella. Ma le matriarche contano, dicono la loro: Rebecca, interpellata se vuole andare sposa nel paese lontano, risponde decisa “Andrò” (Elekh). “Chiamiamo la fanciulla e domandiamo alla sua bocca e disse Andrò <<Nikrà lannearah venishalah et piah vattomer ‘elekh’>> Quando giunge a destinazione, Rebecca salta agilmente dalla groppa del cammello. Saputo dal servo che l’uomo che le viene incontro, camminando nella campagna, è Isacco, lo sposo promesso, si copre modestamente il volto. Nei meditativi passi campestri del patriarca sul volger della sera (24, 63) la tradizione ebraica ravvisa l’inizio della preghiera pomeridiana di Minhah, attribuendo già ad Abramo la preghiera mattutina (Shakrit), con riferimento a Genesi, 19, 27, e a Giacobbe la serale (Arvit), con riferimento a 28,11. Pagina 67 Prima di congedarci dal fedele e capace servo Eliazar, segretario, maggiordomo, inviato speciale di Abramo, desidero ricordare che il suo nome fu assunto nell’alto Medioevo, come nome ebraico, da un singolare proselita, il diacono Bodo, uomo di nobile discendenza, confessore privato di Ludovico il Pio, figlio di Carlomagno. Bodo fu un singolare proselita perché era un ecclesiastico cattolico e perché in quell’epoca, come in generale prima che si affermasse la libertà religiosa, era severamente proibita la conversione all’ebraismo. Convintosi della unitaria dottrina monoteistica, tramandata e professata dagli ebrei, nell’anno 838 lasciò la Corte con un seguito, adducendo la partenza per un pellegrinaggio, ma si recò in Spagna con il nipote (la vicenda ricorda il viaggio di Abramo con Lot) e sulla strada, presso qualche comunità ebraica, si convertì all’ebraismo. Egli scelse per umiltà in nome del fedele servitore di Abramo, per denotare la modestia dell’uomo non nato ebreo che entra, umilmente e fedelmente, a far parte del popolo di Abramo. Chiese al califfo di Cordova di influenzare i sudditi cristiani, per rimuoverli dalla dottrina della Chiesa e far loro abbracciare la fede monoteistica nella versione ebraica o magari perciò una controversia con il cristiano Paolo Alvaro. musulmana. Ne nacque Do al riguardo due riferimenti bibliografici: la recensione di Raoul Elia ad un libro di André Neher sui proseliti, apparsa nella “Rassegna Mensile di Israel” del 1951, e la voce relativa al personaggio, curata da Cecil Roth, nella Encyclopaedia Judaica. ** Il fermo proposito di Abramo, di non far sposare il figlio con una donna straniera e di non farlo tornare alle sedi originarie in Mesopotamia, mandando però, e perciò, il fedele servitore a trovargli la sposa laggiù presso il parentado, deve esser stato letto con attenzione dagli ebrei che tornarono da Babilonia in Erez Israel, sionisti dell’epoca, mentre tanti altri ebrei restarono in quella terra lontana, organizzandovi una grande comunità e delle celebri accademie di studio; era comunque di monito all’endogamia nazionale e religiosa, se si pensa alla grave questione dei matrimoni misti che avvenivano e che Esdra, a dire il vero con dura intransigenza, retroattivamente proibì. La vita dei reduci non fu davvero facile, tra le insidie delle popolazioni che erano rimaste nel paese o che vi erano state portate dai conquistatori stranieri. Erano avvenuti parecchi matrimoni misti e Esdra obbligò a congedare le mogli straniere. Lo sappiamo dai libri Esdra e Neemia. Bisognava anche fare i conti con le autorità persiane, che avevano consentito il ritorno, ma comprendevano Erez Israel nel loro Pagina 68 impero, come avverrà sotto il mandato britannico dopo la Dichiarazione Balfour. E’ comprensibile che certi fossero tentati di lasciare Erez Israel, o per tornare in Babilonia o per andare in Egitto, dove altri ebrei risiedevano e anche prosperavano. La tenacia di Abramo e l’aliah di Rebecca furono una suggestiva lezione, che esortava a restare nella patria ritrovata e a sposare donne ebree. Ebbene, il professor Alexander Rofè, docente dell’Università ebraica di Yerushalaim, nel libro di alta critica biblica, Introduzione alla letteratura della Bibbia ebraica, Edizione italiana Paideia 2911 (l’originale è in ebraico), ritiene, specialmente in base all’esame linguistico del lessico, ma anche per altre caratteristiche, che il racconto della missione del servo di Abramo e del fidanzamento di Isacco sia stato composto in epoca relativamente tarda, durante il dominio persiano, suonando come autorevole messaggio di fedeltà alla terra di Israele e di campagna contro i matrimoni misti (vol. I, pp. 221 – 224). Nel riportare e nel considerare con molto interesse l’argomentazione del professor Rofè, esprimo il rispetto per i lettori credenti nella mosaica integrità di composizione della Torah per mano di Mosè, ispirato dal Signore. D’altronde il racconto si colloca coerentemente nella generale narrazione di Abramo e della sua famiglia. La tradizione relativa al fidanzamento di Isacco e Rebecca può essersi tramandata dall’antichità, dando più tardi luogo alla composizione. La Torah ha, ad ogni modo, la sua unità e coerenza al di sopra degli strati cronologici di composizione e di elaborazione redazionale, fino al momento in cui ricevette dai maestri il suggello del canone. ** Isacco conduce la sposa nella tenda di Sara, la quale aveva evidentemente conservato una propria personale dimora. Egli vuole con ciò che Rebecca prenda il posto dell’amata madre. Frattanto Abramo, dopo avere pensato a fare sposare il figlio, si sposa di nuovo anch’egli, così inoltrato nell’età, con una donna di nome Keturah e genera da lei ben sei nuovi figli. Ma chi è Keturah? Vi sono, riguardo a lei, due versioni: che ella sia davvero la terza sua donna o che sia sotto nuovo nome la ritrovata Agar, fatta uscire, con dolore di Abramo, dalla sua casa. Alla versione della terza donna si accompagna una leggenda che la vuole di stirpe giapetica, in modo che il nostro capostipite abbia conosciuto nell’amore i tre rami Pagina 69 dell’umanità secondo l’antropologia biblica: la semita Sara, la camita Agar, la giapetica Keturà. Tra i sostenitori dell’identificazione con Agar è stato il grande commentatore Rashì, che dà ad Agar il merito di non essersi unita ad altro uomo, dopo essere stata cacciata, e di essere tornata fedelmente con Abramo. Il nuovo nome, che Agar avrebbe preso, sarebbe connesso a ketoret, l’incenso, per il profumo di incenso che la sua virtù spandeva. Con Keturah Abramo generò sei figli: Zimran, Jokshan, Medan, Midian, Ishbac e Shuach. Incontreremo i discendenti di Midian nell’Esodo, con Itrò, sacerdote, suocero di Mosè, con i suoi figli Zipporah (moglie di Mosè) e Khovav, e poi nello scontro con midianiti alleati ai moabiti e nella vicenda delle donne midianite che avrebbero sedotto degli ebrei. Un gruppo di origine midianita viene identificato nei keniti, presso i quali si sarebbe formata la corrente essenica. Abramo dà dei doni, diremmo dei legati, a questi nuovi figli, avviandoli verso oriente, mentre lascia la principale eredità e la successione patriarcale ad Isacco, il figlio tanto atteso ed avuto da Sara. Nel primo libro delle Cronache (Divré Yamim), al versetto 32, Keturah è definita pilgheshet, ossia concubina di Abramo. Vi è nel profondo Neghev un kibbutz di orientamento masortì (conservative), che rievoca nel nome Keturah, abbastanza vicino ai kibbutzim progressivi Jael e Lothan. Dopo tante vicende ed aver generato otto figli, Abramo si spegne, in serena vecchiezza, e si riunisce alla sua gente. Il sepolcro è, in realtà, fino al momento della morte di Abramo, solo quello della moglie, con tanta cura acquistato e mantenuto. Isacco ed Ismaele lo seppelliscono insieme nella grotta di Macpelà, e questo incontro fraterno è invito alla concordia tra due civiltà che ad Abramo risalgono. Il fatto che non figuri accanto a loro il primogenito di Keturah è un argomento a favore dell’identificazione di costei con Agar, perché il primogenito di questo connubio è appunto Ismaele, che dà sepoltura al padre insieme con Isacco, ma si può controbattere con il fatto che la terza unione è restata marginale rispetto alle prime due e che sarebbe stato pletorico far seppellire il patriarca da tre figli. “E lo seppellirono Isacco ed Ismaele suoi figli” Vaikberù otò izhak veIshmael banav. Pagina 70 Abramo manda lontano, verso oriente, i figli avuti da Keturah per non farli interferire con la vita e gli interessi di Isacco. Giuseppe Flavio, nell’opera Antichità giudaiche, dice che i figli avuti da Keturah erano pronti alla fatica e dotati di ingegno acuto. Aggiunge che li mandò a fondare colonie. Fornisce i nomi dei loro figli e riferisce, come dicevo, la versione dello storico Alessandro Polistore, che attinse, a sua volta, da un profeta Cleodemo, detto anche Malco, autore di una storia dei giudei, in un’area culturale eclettica: eclettica nel senso che congiungeva le culture, i personaggi e gli eventi di diversi popoli, inserendo quindi la storia ebraica in un contesto mediterraneo e del Medio Oriente, trovando o immaginando connessioni. Ebbene, da Giuseppe Flavio e da questi altri autori, le cui opere si sono in gran parte perdute, apprendiamo che i discendenti di Abramo e Keturah si espansero a oriente nell’Arabia Felix e sulle coste del Mar Rosso, e ad occidente in Libia, sicché un Eofren, personaggio della seconda generazione, avrebbe dato il nome all’Africa. I discendenti del terzo connubio di Abramo si sarebbero uniti, in conquiste e in matrimoni, con Eracle (Ercole), l’eroe della mitologia greca, etrusca e romana. *** La haftarah è tratta dal primo libro dei Re. Narra la vecchiaia di re Davide, in analogia con la vecchiaia di Abramo, e la premura, avvertita dai cortigiani, di dargli ancora una donna, una giovane donna, così come Abramo ancora ha goduto di un ultimo amore. Nel caso di Davide l’unione è motivata con il freddo che egli sentiva ed il tepore che la giovane gli avrebbe dato riscaldandolo con la sua vicinanza fisica. Ma, a differenza di Abramo, che si unì sessualmente a Keturah e generò altri figli, David non si unì alla bella Avishag, sunamita (della stessa città e gente della nobile signora cui Eliseo ottenne di avere un figlio, risuscitandolo o rianimandolo quando cadde malato). Ecco l’inizio: “Il re Davide era vecchio, avanzato negli anni, e per quanto lo coprissero con indumenti, non riusciva a riscaldarsi. Allora coloro che erano al suo servizio gli dissero: si cerchi per il re, nostro signore, una ragazza vergine”. Pagina 71 Hammelekh David zaken bàjomim vaikassuhu babagdav ve lo iham Vaiomrù avdav ievakshuhu laadonì hammelekh naarah vetulah ** Sara di UR Un libro di Josè Jimenez Lozano La Bibbia, oltre ad essere stata commentata e liberamente integrata in molti midrashim, è inesauribile fonte di ispirazione letteraria per molte visitazioni e reinvenzioni. Ne segnalo una, letterariamente profana, su Sara, in preludio al commento della parashah, che da lei prende nome, nella circostanza della sua morte. Riandiamo alla sua vita con il romanzo Sara di Ur dello scrittore spagnolo Josè Jimenez Lozano, poeta, narratore, saggista, in edizione italiana Roma, Biblioteca del Vascello, 1993. Lo recensì, a suo tempo, mio figlio Valerio nella <<Rassegna Mensile di Israel>>, (LX,n. 1 – 2. Gennaio – agosto 1993, pp. 249- 253). Sara aveva un carattere forte ed era creatura praticamente e maternamente terrestre, ma nella condizione di bella donna, desiderata dai potenti, poteva apparire involata e lieve, pensandoci gli angeli, con altrettanta leggerezza, a difenderla nell’onore. Sara ha sofferto la sterilità ed ha avuto finalmente il figlio, ha compreso e ha sofferto il gran rischio da lui patito nella vicenda della Akedah: un viatico di ansietà nell’appressarsi alla morte. Ora riposa in pace nel degno sepolcro procuratole dal premuroso integerrimo sposo. Ma questa donna ha saputo anche ridere, sicché il figlio porta inciso il suo sorriso nel nome. Lozano, perdonate la fantasia del letterato, immagina un altro misterioso suo riso, al ritorno dal faraonico rapimento. Non si è forse dedicata una giornata europea all’umorismo ebraico? Lozano inventa che il Faraone, tolta ad Abramo la sorella, lo abbia voluto distrarre e compensare in una sala del palazzo reale con il diversivo erotico di dieci snelle concubine. Abramo, uscito dalla sala dell’incantesimo, vede venire incontro la bella moglie, tintinnante di anelli e braccialetti, ed arrossisce dalla vergogna, quando lei, sollevato il velo, lo guarda e lo bacia sulla guancia sinistra, perdonandolo, senza inquisire, per quel che può averlo rallegrato durante l’attesa. Ma ora lui, comprensibilmente geloso, vuol sapere di lei, in un interrogatorio serrato su quel che è avvenuto in altre stanze del Faraone. Sara lo tiene sulle spine e scoppia allegramente a ridere. Abramo le chiede Perché ridi?, e Sara, così tintinnante di braccialetti e monili, dà, in anticipo, all’amato marito la risposta che torna per l’angelo: “Io non ho riso”. Il riso e la smentita erano una perla, che non poteva non attrarre la fantasia di uno scrittore per trasferirla ad una precedente fase dell’avventurosa biografia, sciogliendo in allegria la suspense del ratto. Luzano interviene nel racconto di Sara, a distanza di tempo dalla perigliosa esperienza egiziana, per un'altra variante: è stata lei a progettare per prima la missione del servo presso il parentado lontano, dopo essersi informata della prole di Betuel, per dare al figlio una sposa della stessa stirpe. Non ha vissuto abbastanza per goder l’arrivo di Rebecca, ma è in grazia della sua iniziativa che la nuora occuperà degnamente la sua tenda, succedendole nel matriarcato.