Diario balcanico – Quaderno serbo

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Diario balcanico – Quaderno serbo
28 febbraio
Lasciare l'Italia è un po' come prendere una profonda boccata d'aria. Ovunque tu vada e qualsiasi
cosa ti attenda, non potrai mai dimenticare ciò che ti lasci alle spalle! E mentre, sdraiato su questa
scomoda panca in acciaio, approfitto del poco tempo che rimane prima del volo, l'Italia mi saluta
esattamente come accoglie le migliaia di stranieri che qui sbarcano ogni ora. La stessa immagine di
benvenuto/arrivederci: una folla confusa si muove per i gate dell'aeroporto. Davanti ad una tale
creatura ognuno di noi rimane scosso nel profondo e non riesce più a decidere se scappare e salvare
la pelle, oppure farsi congestionare e diventare un tutt'uno con questo mistico serpente umano di cui
per vedere la testa bisognerebbe scendere fino al primo piano: zona Ingresso o Departures, per chi
vuol essere più internazionale. Ma io qui sulla panca sono troppo stanco – avessi dormito un poco
sul volo da Linate forse non sarei così ostruzionista – e allora preferisco osservare il grande serpente
e le mille e più di mille persone che lo compongono. Famiglie intere con volti sconsolati affollano
bar e tavole calde che, dimostrando una notevole propensione all'estorsione, impongono prezzi da
mercato nero per generi di prima necessità e panini con nomi degni della fantasia più spinta. Il
panino Colombo è tornato dalle Americhe con due striminzite fettine di pomodoro, e io non credo
che i reali di Spagna ne sarebbero stati soddisfatti. L'Attila invece, sembra tener fede alla sua fama
di barbaro violento a giudicare dalle guance di un bambino paffuto che diventano sempre più rosse
dopo ogni boccone. Libere per un momento da distrazioni di natura parentale, madri e mogli fanno
la spola da un negozio di marca ad un altro per scoprire se è vero che nei duty-free la merce costa di
meno...escono con occhi carichi di speranze e nulla di più. Solo una persona impassibile osserva la
scena con aria da intenditore: è un gigantesco Giorgio Armani dall'alto del suo cartellone in bianco e
nero, questa volta stranamente senza gatto in grembo. Questo sì che vale la pena di essere ricordato
ed esportato al di là dell'Adriatico: un vecchio stilista così affascinante che fa colpo pure con la
pubblicità; lui e l'eleganza del bianco e nero. Vorrei avere lo stesso aplomb di Giorgio e invece, ciò
che vedo mi inquieta, quasi mi fa venire voglia di muovermi ed abbandonare l'invidiabile posizione
che occupo ormai da un'ora. La gente qui passa, si ferma, compra, legge, parla e mangia tutto a gran
velocità, fa eccezione solo una coppia di piccioni romani penetrata non si sa bene come nella sala
d'aspetto. Passeggiano con finta noncuranza sufficiente perché nessuno presti loro attenzioni
durature. Chissà, forse anche loro hanno deciso di emigrare in cerca di più attraenti prospettive.
Questo mi rimane dell'Italia a pochi minuti dalla partenza. Questo e naturalmente il ricordo del mio
compagno di viaggio sul volo Linate-Fiumicino: un signore antico, con lunghi capelli bianchi e
occhi azzurro intenso, un non più nuovo Borsalino calcato in testa ed uno strano anello stile
Massoneria. Lasciato l'aereo le nostre strade si sono divise. Lui si fermava a Roma mentre io
proseguivo per Belgrado. Ho fatto in tempo a sentirgli pronunciare poche parole, non ne ho inteso il
significato ma credo fosse dialetto, antico almeno quanto lui. Ecco un'altra cosa che per lungo
tempo mi mancherà.
[...]
3 marzo
Malessere domenicale. Massima fatica: andare al mercato per comprare miele, uova e succo di
frutta. Deve essere davvero evidente il fatto che io sia straniero, sono l'unica persona a cui nessuno
chiede l'elemosina o cerca di vendere qualcosa! Il mercato qui ha ancora quel sapore esotico di
incontro/scontro che ben si addice ad un luogo simile. Battibecchi feroci tra il pollame vivo, ancora
per poco, in attesa di un acquirente, ma battibecchi ancora più feroci tra banchi vicini, soprattutto se
vendono merci differenti! E qui onestamente io mi perdo, qualcuno mi aiuti se può: un conflitto
selvaggio scoppia tra macellaio e fruttarolo piazzati l'uno di fronte all'altro alla distanza di tre metri
circa, per un quarto d'ora buono vanno avanti a darsi nomi a beneficio della piccola folla accorsa per
gustarsi la scenata. Ora, io avrei potuto comprendere una simile tenzone tra macellaio e
pescivendolo, da sempre rivali sia in pace che in guerra, ma qui me ne sfugge completamente il
senso. Non c'è concorrenza tra i due e, a meno che il popolo serbo non sia quotidianamente costretto
ad un'ardua scelta tra carne e patate, io credo possano beneficiare entrambi di discreti guadagni
trovandosi in una posizione privilegiata al centro della piazza – a proposito, il mercato ricorda
vagamente il cortile di un carcere (reti metalliche e filo spinato) e noi giriamo intorno a spirale quasi
fosse l'ora d'aria→temo per la mia incolumità e non so se riuscirò mai ad uscire! E invece no,
sembra quasi che lo scontro abbia antiche radici e, se ad alcuno sorgessero dubbi sulla corretta
interpretazione di questa vicenda dato il mio serbo inesistente, mi limito ad asserire che le gote
rosse del macellaio possono essere causate solo o da una buona dose di rakija, e non mi stupirei
fosse ubriaco già alle 10 del mattino, o da una rabbia funesta, e che in nessuna cultura tirarsi
addosso delle cipolle è considerato un gesto di cortesia. E, parlando di cipolle, la vecchietta davanti
a me inganna l'attesa addentandone una con voracità – ci vuole del coraggio per mangiare cipolla
cruda a quest'ora! Un bel respiro e mi immergo in questo vortice di vera tradizione balcanica, lascio
che l'onda umana di pensionati e massaie agguerrite mi trascini via forse verso l'uscita, forse verso
la libertà! Come vorrei che anche ad Acqui il mercato del martedì fosse così.
[...]
4 marzo
Quello serbo è un popolo a cui senza dubbio l'Occidente ha fatto del male. Lo si vede ovunque: lo si
vede nei palazzi sventrati dai bombardamenti NATO del 1999 che rimangono orgogliosamente
rivolti verso il cielo azzurro, squarciati, violati, bruciati, ormai abbandonati se non fosse per qualche
vagabondo che lì cerca riparo la notte quando nessuno guarda o vuole più guardare, rimangono così
come sono – una ferita di guerra sul volto di Belgrado; lo si vede sulle indicazioni delle vie dove le
scritte in alfabeto latino vengono ostinatamente coperte, rimane la scritta in cirillico e rimane il
desiderio di essere serbi con il proprio passato e le proprie tradizioni – serbi e ortodossi; lo si vede
negli occhi della gente che qui guarda il visitatore europeo con il sospetto e la diffidenza dell'istinto,
in fin dei conti che motivo avrebbero di riporre fiducia in chi li ha bollati come responsabili del
disastro balcanico – una distanza che sembra incolmabile scavata con l'odio nell'animo di un
popolo. Ma allora mi chiedo: come fa la memoria di Kosovo Polje a vivere fianco a fianco con un
enorme McDonald's?! Come fa questa gente a camminare quotidianamente verso ovest, quando in
realtà non vorrebbe fare nient'altro che fuggire ad est tra le amorevoli, forse oggi non poi così tanto,
braccia di Santa Madre Russia?! Se oggi mi chiedessero di descrivere il popolo serbo...beh, mi
verrebbe in mente una foto sul mio vecchio libro di Storia, il capitolo sulla caduta del Muro di
Berlino: Piazza Rossa, un ufficiale sovietico sventolava in alto la sua amata bandiera incurante dei
numerosi manifestanti vicini a lui che ineggiavano alla perestrojka di Gorbaciov. Quel militare
ostinato rimaneva lì a parlare di un mondo che ormai aveva cessato di esistere, la gente lo osservava
ma niente, nessuno osava avvicinarglisi quasi fosse un malato irrecuperabile portatore di una sana
follia. Il popolo serbo, un po' come quell'ufficiale, guarda il mondo con gli occhi del passato senza
rendersi conto che la zattera su cui sta andando alla deriva è legata da una lunga corda sottile al
transatlantico Europa – viaggio di sola andata verso la globalizzazione. Come entrare a far parte di
questa nuova realtà? Questa sì che è una bella domanda! È possibile dare un taglio netto a ciò che è
stato e "ricominciare da tre" – poiché senza tradizione, ortodossia e Belgrado non esisterebbe la
Serbia – o l'unica soluzione è quella di farsi avanti in punta di piedi, ospite sgradito, invitato a
tavola per mera formalità, che guarda ad est con false speranze in attesa di una chiamata che tanto
non arriverà? Forse sono contraddizioni comuni a tanti altri popoli ma sembra che qui a Belgrado
abbiano una voce molto più forte e far finta di non sentirle è quasi impossibile. Oggi al Centro
Culturale Italiano mi domandavo il perché della "pulizia etnica": perché in una terra che affonda le
sue radici nella diversità, improvvisamente per la gente sia diventato giusto e sacro battersi per
cancellare quella stessa diversità!? Probabilmente la multiculturalità era solo un'imposizione calata
dall'alto e, quando la comunità serba si è sentita schiacciata ed oppressa, ha reagito con violenza e
ferocia. Prima o poi per tutto bisogna pagare un prezzo! Quella pulizia etnica che i serbi hanno
esportato ed insegnato, quasi un marchio di fabbrica, in giro per i Balcani negli anni Novanta, oggi
in Kosovo sono gli albanesi a farla, e pare la facciano maledettamente bene (chiese ortodosse date
alle fiamme e villaggi interi che si tingono di paura quando cala la notte→dal bosco arrivano i lupi)
– odio genera odio; violenza genera violenza; se non sei sicuro di vincere, non colpire mai per
primo. Oggi la Serbia cerca il suo posto nel mondo dopo essersi svegliata e aver scoperto che nei
Balcani non c'è più una regina, cerca un futuro e per farlo cerca di dimenticare gli ultimi 25 anni –
una sconfitta morale molto più grave della sconfitta reale. Esiste una Serbia giovane e forse anche
grande, ma per il momento è ancora troppo giovane ed inesperta perché possa dire la sua a proposito
del futuro. Che passino altri 25 anni, che questa Serbia possa trovare le giuste parole ed insieme a
queste la sua strada verso il futuro!
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7 marzo
Incontro con gatto NERO! Di gatti ne ho visti davvero pochi da quando sono arrivato e mi stupisce
averne incontrato proprio uno tutto nero, dev'essere un sopravvissuto! Mi ha guardato per un attimo
con aria di sfida e poi ha proseguito tagliandomi allegramente la strada, per la serie "essere
superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male".
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12 marzo
Belgrado intera aspetta insieme a me l'autobus alla stazione. Una lunga attesa, a quanto pare infatti
sono arrivato con incomprensibile anticipo – cosa non da me, tanto da rimanerne stupefatti
conoscendomi. La giornata è uggiosa, forse anche un po' triste come un impiegato torinese che alle
7 del mattino si affretta verso l'ufficio o come uno dei protagonisti nei racconti di Kafka – ognuno
scelga liberamente il paragone che preferisce! –, punzecchiata da una persistente pioggerellina che
crea mille perle sui volti dei passanti e muove un ultimo sorriso. Seduti sulle panchine i miei,
presumo, compagni di viaggio s'ingozzano con la colazione al sacco portata da casa. A guardarli
mentre tirano fuori da ogni dove pane, prosciutto, formaggi vari e vasetti di cetriolini sott'aceto un
poco mi vergogno, nel mio tascapane han trovato spazio con difficoltà una bottiglietta d'acqua, un
panino al miele e due banane alquanto ammaccate. Incredibilmente, e me ne accorgo solo ora, non
esiste alcun bar all'interno della stazione. Per fare acquisti ci sono solo le inquietanti bancarelle
all'esterno e ciò mi fa pensare che il sindacato di questi negozianti sia potente e pericoloso – potrei
forse essere il primo giornalista italiano capace di strappare un'intervista al Jimmy Hoffa serbo o
forse, più facilmente, finirei soltanto per essere schiavizzato ed arruolato a forza nell'esercito di
ambulanti che qui fanno avanti e indietro cercando di vendere a tutti i loro fiori appassiti→addio
viaggio in autobus, addio Sarajevo, ma soprattutto addio Italia! L'arrivo dell'autista scaccia dalla
mia mente queste volatili fantasie. Cosa buona: il viaggio lo farò seduto comodamente, siamo infatti
poco più di venti diretti a Sarajevo e per grazia di Dio c'è spazio per tutti – un pensiero corre però a
coloro che saliranno alle fermate successive→poveri cristi, ho pena per voi! Cosa giusta: per i
bagagli paghiamo tutti la stessa cifra, un obolo simbolico di 500 dinari, lo stesso che anche Caronte
esigeva dai suoi passeggeri! Si accende il motore e tempo un secondo ci immergiamo nel traffico
cittadino che porta verso l'autostrada – collegamento Belgrado-Zagabria, se non sbaglio, l'unico
tratto stradale a pagamento dei Balcani. Quando in volo l'aereo si preparava all'atterraggio dissi che
tutto mi sembrava così estremamente freddo e distaccato, una capitale grigia avvolta da una nebbia
ancor più grigia, oggi finalmente posso correggermi. Belgrado è timida come un bambino che dalla
vita ha ricevuto in dono solo schiaffi. Preferisce mostrare i denti a chi non conosce mantenendo le
distanze ed osservando con diffidenza piuttosto che svelare il profondo del proprio animo, mostrarsi
debole, timorosa ed insicura. Chi vuole provi a guardare oltre, provi a squarciare quel velo spesso
che nasconde la realtà e, se ha fortuna, assapori quei rari ma intensi momenti in cui si manifesta un
mondo nuovo forse un po' più serbo, forse un po' più vero! Sono sprazzi, situazioni inaspettate dalla
breve durata, ma quante cose raccontano! Raccontano la solitudine, la sensazione di rimanere
inascoltati, disperatamente intenti a spiegare la propria storia, i propri perché, senza che a nessuno
gliene freghi niente davvero. Raccontano del limbo in cui si è rifugiato chi si sentiva terribilmente
europeo, talvolta anche più che europeo – ultimo cavaliere cristiano sulla frontiera del Danubio.
Raccontano la vita con parole belgradesi che forse solo un serbo sa e vuole ascoltare. Un mondo
serbo percorso da figli di Serbia!
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