CONVENZIONE DI ISTANBUL, LE TRE “P” IN DIFESA DELLE DONNE
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CONVENZIONE DI ISTANBUL, LE TRE “P” IN DIFESA DELLE DONNE
PRIMO PIANO / 64 convenZione di iStAnBuL, Le tre “p” in difeSA deLLe donne federicA moGherini Parlamentare Pd I l primo atto di iniziativa parlamentare che la Camera ha approvato, in questa nuova e strana legislatura, è stata la legge di ratifica della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Non è stato un caso, ma il frutto di un lavoro lungo e faticoso che con tenacia abbiamo portato avanti fin dalla scorsa legislatura, e che ha consegnato al Paese un risultato importante, non scontato. Aver creduto fortemente nella possibilità di raggiungerlo, aver perseverato anche quando l'obiettivo sembrava fuori portata, è stato il primo - importantissimo - passo: solo un anno fa, infatti, l'Italia non aveva neanche firmato la Convenzione, e sembrava del tutto visionario credere che sarebbe stata tra i primi P O L I T I C A paesi a ratificarla. Questa è una di quelle "success stories" che ci fa bene ricordare, tenere a mente, perché ci insegna che lavorare con tenacia per obiettivi importanti, anche quando sembrano lontani o irraggiungibili, può portare a risultati preziosi. Ripercorriamo questa storia allora, cerchiamo di capire a che punto siamo, e cosa resta ancora da fare per prevenire e contrastare la violenza domestica e sulle donne. Il cammino della Convenzione di Istanbul è iniziato nell'ambito del Consiglio d'Europa: con l'adozione nel 2002 della Raccomandazione sulla protezione delle donne dalla violenza; il varo nel 2005 del piano d'azione e della campagna europea sulla violenza contro le donne; l'istituzione di una task force che, valutando le legislazioni nazionali in C U L T U R A PRIMO PIANO / 65 materia, ha raccomandato l'adozione di uno strumento complessivo - giuridicamente vincolante - per prevenire e contrastare questo fenomeno. Così è nata la Convenzione di Istanbul, completata nel 2010 ed aperta alla firma di tutti i paesi (non solo gli stati membri, fatto di per sé innovativo) nel maggio 2011. Entrerà in vigore dopo che 10 paesi - di cui almeno 8 membri del Consiglio d'Europa - l'avranno ratificata. L'Italia è stato il quinto, dopo la Turchia, l'Albania, il Montenegro ed il Portogallo. Ma solo un anno fa, come ricordavamo, la ratifica da parte del nostro paese sembrava lontanissima, quasi impossibile: l'Italia non aveva neanche firmato, e quando insieme alle associazioni e alle reti dei centri antiviolenza si discuteva di come portare avanti la ratifica della Convenzione, la sensazione era quella di avere di fronte una montagna altissima da scalare, e di non avere altro che le nostre mani nude e la nostra determinazione per farlo. Abbiamo scavato l'ostinata indifferenza (o forse sarebbe meglio dire "diffidenza") del corpo del nostro paese come una goccia scava la pietra: con tenacia, nel tempo, senza farsi scoraggiare dalla resistenza della materia. Abbiamo scritto al ministro degli Esteri, P O L I T I C A competente per la firma - era Terzi , al ministro con delega alle Pari opportunità - allora era la Fornero -, al Presidente del Consiglio - Monti. Abbiamo presentato mozioni ed interrogazioni parlamentari, chiamato il governo in commissione, raccolto firme in giro per il paese, insieme alle tante reti di associazioni e centri antiviolenza che sanno per esperienza diretta che la solitudine uccide, e che l'assenza di risposte da parte delle istituzioni è la migliore garanzia di perpetuazione della violenza. Abbiamo lavorato con l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa per promuovere la conoscenza della Convenzione in Italia, fare pressione sulle nostre istituzioni, arrivare alla firma. Che è finalmente arrivata, nel settembre del 2012. Il giorno stesso, abbiamo depositato alla Camera la proposta di legge di ratifica - con firme bipartisan e la speranza di riuscire ad approvarla prima della fine della scorsa legislatura. Non abbiamo fatto in tempo, ed allora - il giorno stesso di insediamento delle nuove Camere - abbiamo ripresentato il disegno di legge di ratifica, che è stato il primo ad essere esaminato dalla Commissione Esteri, ed il primo ad essere portato al voto dell'Aula di Montecitorio, nel tempo record di C U L T U R A PRIMO PIANO / 66 una settimana. Un'ottima discussione, un ottimo voto unanime, un altrettanto ottimo e veloce passaggio al Senato, per l'adozione della ratifica in via definitiva. Racconto le tappe di questo lungo percorso per restituire il senso di fatica del lavoro che abbiamo fatto, ed il valore non retorico, non banale, del risultato che ci ha consegnato. Un lavoro fatto sempre insieme alle reti dei centri anti-violenza, alle associazioni che si occupano - spesso sole, senza sostegno e senza fondi - di prevenire il dramma, accompagnare e proteggere le donne ed i bambini le cui vite vengono travolte e distrutte da quel che subiscono, da quel che vedono, da quegli incubi da cui non riescono ad uscire. Un lavoro che ha portato ad un risultato importante, che certamente andrà concretizzato con scelte successive - a partire dall'allocazione di fondi per la prevenzione e le reti di protezione, speriamo già dalle prossime scelte di bilancio -, ma che non dobbiamo sminuire. Ci sono diversi motivi per non farlo. Innanzitutto, perché il fatto di essere arrivati ad un'approvazione rapidissima ed unanime della ratifica indica un passo avanti enorme rispetto alla fatica con la quale, per mesi, abbiamo combattuto per arrivare semplice- P O L I T I C A mente alla firma della Convenzione. Ha contato molto la composizione del nuovo Parlamento, con una presenza femminile finalmente degna di un paese civile (grazie soprattutto a quel 40% di donne elette dal Pd) ed una differente maggioranza politica (a promemoria del fatto che no, non siamo tutti uguali). In secondo luogo, perché la ratifica da parte di un paese importante - e non scontato - come l'Italia apre la strada ad altre importanti e non scontate ratifiche, contribuendo così in modo significativo all'entrata in vigore della Convenzione. In terzo luogo, perché stiamo palando di uno strumento internazionale estremamente innovativo, il primo giuridicamente vincolante, che sancisce alcuni principi fondamentali. Innanzitutto, che la violenza sulle donne è una violazione dei diritti umani (banale, lo so, ma anche le cose banali finché non vengono esplicitate non lo sono affatto). Poi, che prevenzione e contrasto di questo dramma non possono prescindere dalla promozione di un'effettiva parità tra uomini e donne. Perché quel che chiamiamo "femminicidio" non è che la punta di un iceberg immenso, ancora sommerso e che fatichiamo a vedere, a riconoscere: le C U L T U R A PRIMO PIANO / 67 mille forme di violenza che attraversano la vita di ogni donna - nessuna esclusa. Omicidio, violenza fisica, sessuale, psicologica. Matrimoni forzati o combinati, mutilazioni genitali. Atti persecutori, stalking. Disparità di accesso al mondo del lavoro, discriminazione nel trattamento contrattuale e salariale. Scelte forzate tra maternità e carriera - non è violenza, dover rinunciare ad un figlio per il lavoro, o al lavoro per un figlio? L'elenco è quasi infinito. La Convenzione di Istanbul ci dice che è impossibile agire efficacemente contro la violenza se non se ne riconoscono le forme molteplici, se non si inizia a chiamarle col loro nome, se non si capisce che le loro radici affondano in un modo di costruire, vivere e rappresentare le relazioni tra uomini e donne del tutto sbilanciato, e che è da lì che bisogna cominciare. Per questo è giusto dire che non siamo di fronte ad un fenomeno emergenziale, ma strutturale. Lo si vede chiaramente guardando la stratificazione delle diverse forme di violenza che attraversano la vita delle donne, ce lo dicono i dati: una donna uccisa ogni due giorni, quest'anno - al nord come al sud, di età diverse, in grandi città e piccoli centri, di differenti condizioni economiche e sociali. È un fenomeno P O L I T I C A che investe il paese tutto intero, e che come tale va affrontato: con misure organiche, strutturali, di lungo periodo. Ci sbagliamo, se pensiamo che la soluzione sia, possa essere, l'inasprimento delle pene, magari assunto sull'onda dello shock emotivo che nasce dall'ennesimo caso di cronaca nera - con la relativa morbosità mediatica, che descrive tutto della vittima e nulla del carnefice, come se il cuore del problema fossero le donne, e non i loro figli, padri, mariti, colleghi. Come se il problema fosse "semplicemente" punire i colpevoli quelle sono misure che arrivano quando ormai è troppo tardi. Per questo la Convenzione di Istanbul ci chiede di lavorare su tre direttrici - le tre P: prevenzione, protezione delle vittime (donne ma anche bambini, di cui troppo spesso ci dimentichiamo, ed è il più grave degli errori perché chi assiste ad una violenza domestica nell'infanzia è molto più esposto al rischio di diventare a sua volta, nella vita adulta, oggetto o soggetto di violenza), e solo da ultimo persecuzione dei reati e la punizione di chi li commette. Il vero obiettivo, se vogliamo curare la piaga, è prevenire la violenza, in ogni sua forma. Per farlo, abbiamo bisogno di sinergie, di un approccio integrato, onnicompren- C U L T U R A PRIMO PIANO / 68 sivo. Abbiamo bisogno di non far mancare neanche un anello alla catena di interventi e misure che lo Stato può mettere in campo - dalle campagne di educazione alla formazione degli operatori (dalle forze dell'ordine al personale socio-sanitario, dalla magistratura alla scuola), dalla semplificazione dei passaggi della denuncia all'efficacia della rete di protezione e di accompagnamento in una nuova fase della propria vita. Abbiamo bisogno, banalmente, di trovare risorse per finanziare queste misure, e sarà necessario farlo da subito, anche in questi tempi di crisi dura. Abbiamo bisogno, lasciando da ultimo la cosa più importante, di capire che prevenire e contrastare la violenza domestica e sulle donne non è "solo" a vantaggio delle donne, ma di tutta la nostra società - e se servissero motivazioni molto concrete per farlo, basterà pensare che la violenza ci costa 555 euro pro capite l'anno. È un lavoro profondo, di lungo periodo, da fare innanzitutto con e per gli uomini. Perché è la loro dignità a morire, ogni volta che muore una donna. P O L I T I C A C U L T U R A