CONVENZIONE DI ISTANBUL, LE TRE “P” IN DIFESA DELLE DONNE

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CONVENZIONE DI ISTANBUL, LE TRE “P” IN DIFESA DELLE DONNE
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convenZione di iStAnBuL, Le tre “p”
in difeSA deLLe donne
federicA moGherini
Parlamentare Pd
I
l primo atto di iniziativa parlamentare che la Camera ha approvato, in questa nuova e strana
legislatura, è stata la legge di ratifica
della Convenzione di Istanbul sulla
prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la
violenza domestica. Non è stato un
caso, ma il frutto di un lavoro lungo
e faticoso che con tenacia abbiamo
portato avanti fin dalla scorsa legislatura, e che ha consegnato al Paese un
risultato importante, non scontato.
Aver creduto fortemente nella possibilità di raggiungerlo, aver perseverato anche quando l'obiettivo
sembrava fuori portata, è stato il
primo - importantissimo - passo:
solo un anno fa, infatti, l'Italia non
aveva neanche firmato la Convenzione, e sembrava del tutto visionario
credere che sarebbe stata tra i primi
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paesi a ratificarla. Questa è una di
quelle "success stories" che ci fa bene
ricordare, tenere a mente, perché ci
insegna che lavorare con tenacia per
obiettivi importanti, anche quando
sembrano lontani o irraggiungibili,
può portare a risultati preziosi.
Ripercorriamo questa storia allora,
cerchiamo di capire a che punto
siamo, e cosa resta ancora da fare per
prevenire e contrastare la violenza
domestica e sulle donne.
Il cammino della Convenzione di
Istanbul è iniziato nell'ambito del
Consiglio d'Europa: con l'adozione
nel 2002 della Raccomandazione
sulla protezione delle donne dalla
violenza; il varo nel 2005 del piano
d'azione e della campagna europea
sulla violenza contro le donne; l'istituzione di una task force che, valutando le legislazioni nazionali in
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materia, ha raccomandato l'adozione
di uno strumento complessivo - giuridicamente vincolante - per prevenire e contrastare questo fenomeno.
Così è nata la Convenzione di Istanbul, completata nel 2010 ed aperta
alla firma di tutti i paesi (non solo gli
stati membri, fatto di per sé innovativo) nel maggio 2011. Entrerà in vigore dopo che 10 paesi - di cui
almeno 8 membri del Consiglio d'Europa - l'avranno ratificata. L'Italia è
stato il quinto, dopo la Turchia, l'Albania, il Montenegro ed il Portogallo.
Ma solo un anno fa, come ricordavamo, la ratifica da parte del nostro
paese sembrava lontanissima, quasi
impossibile: l'Italia non aveva neanche firmato, e quando insieme alle
associazioni e alle reti dei centri antiviolenza si discuteva di come portare
avanti la ratifica della Convenzione,
la sensazione era quella di avere di
fronte una montagna altissima da
scalare, e di non avere altro che le nostre mani nude e la nostra determinazione per farlo. Abbiamo scavato
l'ostinata indifferenza (o forse sarebbe meglio dire "diffidenza") del
corpo del nostro paese come una
goccia scava la pietra: con tenacia,
nel tempo, senza farsi scoraggiare
dalla resistenza della materia. Abbiamo scritto al ministro degli Esteri,
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competente per la firma - era Terzi , al ministro con delega alle Pari opportunità - allora era la Fornero -, al
Presidente del Consiglio - Monti.
Abbiamo presentato mozioni ed interrogazioni parlamentari, chiamato
il governo in commissione, raccolto
firme in giro per il paese, insieme alle
tante reti di associazioni e centri antiviolenza che sanno per esperienza
diretta che la solitudine uccide, e che
l'assenza di risposte da parte delle
istituzioni è la migliore garanzia di
perpetuazione della violenza. Abbiamo lavorato con l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa per
promuovere la conoscenza della
Convenzione in Italia, fare pressione
sulle nostre istituzioni, arrivare alla
firma. Che è finalmente arrivata, nel
settembre del 2012. Il giorno stesso,
abbiamo depositato alla Camera la
proposta di legge di ratifica - con
firme bipartisan e la speranza di riuscire ad approvarla prima della fine
della scorsa legislatura. Non abbiamo
fatto in tempo, ed allora - il giorno
stesso di insediamento delle nuove
Camere - abbiamo ripresentato il disegno di legge di ratifica, che è stato
il primo ad essere esaminato dalla
Commissione Esteri, ed il primo ad
essere portato al voto dell'Aula di
Montecitorio, nel tempo record di
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una settimana. Un'ottima discussione, un ottimo voto unanime, un
altrettanto ottimo e veloce passaggio
al Senato, per l'adozione della ratifica
in via definitiva.
Racconto le tappe di questo lungo
percorso per restituire il senso di fatica del lavoro che abbiamo fatto, ed
il valore non retorico, non banale, del
risultato che ci ha consegnato. Un lavoro fatto sempre insieme alle reti dei
centri anti-violenza, alle associazioni
che si occupano - spesso sole, senza
sostegno e senza fondi - di prevenire
il dramma, accompagnare e proteggere le donne ed i bambini le cui vite
vengono travolte e distrutte da quel
che subiscono, da quel che vedono,
da quegli incubi da cui non riescono
ad uscire. Un lavoro che ha portato
ad un risultato importante, che certamente andrà concretizzato con
scelte successive - a partire dall'allocazione di fondi per la prevenzione e
le reti di protezione, speriamo già
dalle prossime scelte di bilancio -, ma
che non dobbiamo sminuire. Ci sono
diversi motivi per non farlo. Innanzitutto, perché il fatto di essere arrivati ad un'approvazione rapidissima
ed unanime della ratifica indica un
passo avanti enorme rispetto alla fatica con la quale, per mesi, abbiamo
combattuto per arrivare semplice-
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mente alla firma della Convenzione.
Ha contato molto la composizione
del nuovo Parlamento, con una presenza femminile finalmente degna di
un paese civile (grazie soprattutto a
quel 40% di donne elette dal Pd) ed
una differente maggioranza politica
(a promemoria del fatto che no, non
siamo tutti uguali). In secondo luogo,
perché la ratifica da parte di un paese
importante - e non scontato - come
l'Italia apre la strada ad altre importanti e non scontate ratifiche, contribuendo così in modo significativo
all'entrata in vigore della Convenzione. In terzo luogo, perché stiamo
palando di uno strumento internazionale estremamente innovativo, il
primo giuridicamente vincolante,
che sancisce alcuni principi fondamentali.
Innanzitutto, che la violenza sulle
donne è una violazione dei diritti
umani (banale, lo so, ma anche le
cose banali finché non vengono
esplicitate non lo sono affatto). Poi,
che prevenzione e contrasto di questo dramma non possono prescindere dalla promozione di un'effettiva
parità tra uomini e donne. Perché
quel che chiamiamo "femminicidio"
non è che la punta di un iceberg immenso, ancora sommerso e che fatichiamo a vedere, a riconoscere: le
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mille forme di violenza che attraversano la vita di ogni donna - nessuna
esclusa. Omicidio, violenza fisica,
sessuale, psicologica. Matrimoni forzati o combinati, mutilazioni genitali.
Atti persecutori, stalking. Disparità
di accesso al mondo del lavoro, discriminazione nel trattamento contrattuale e salariale. Scelte forzate tra
maternità e carriera - non è violenza,
dover rinunciare ad un figlio per il lavoro, o al lavoro per un figlio?
L'elenco è quasi infinito. La Convenzione di Istanbul ci dice che è impossibile agire efficacemente contro la
violenza se non se ne riconoscono le
forme molteplici, se non si inizia a
chiamarle col loro nome, se non si
capisce che le loro radici affondano
in un modo di costruire, vivere e rappresentare le relazioni tra uomini e
donne del tutto sbilanciato, e che è da
lì che bisogna cominciare. Per questo
è giusto dire che non siamo di fronte
ad un fenomeno emergenziale, ma
strutturale. Lo si vede chiaramente
guardando la stratificazione delle diverse forme di violenza che attraversano la vita delle donne, ce lo dicono
i dati: una donna uccisa ogni due
giorni, quest'anno - al nord come al
sud, di età diverse, in grandi città e
piccoli centri, di differenti condizioni
economiche e sociali. È un fenomeno
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che investe il paese tutto intero, e che
come tale va affrontato: con misure
organiche, strutturali, di lungo periodo. Ci sbagliamo, se pensiamo che
la soluzione sia, possa essere, l'inasprimento delle pene, magari assunto
sull'onda dello shock emotivo che
nasce dall'ennesimo caso di cronaca
nera - con la relativa morbosità mediatica, che descrive tutto della vittima e nulla del carnefice, come se il
cuore del problema fossero le donne,
e non i loro figli, padri, mariti, colleghi. Come se il problema fosse "semplicemente" punire i colpevoli quelle sono misure che arrivano
quando ormai è troppo tardi. Per
questo la Convenzione di Istanbul ci
chiede di lavorare su tre direttrici - le
tre P: prevenzione, protezione delle
vittime (donne ma anche bambini, di
cui troppo spesso ci dimentichiamo,
ed è il più grave degli errori perché
chi assiste ad una violenza domestica
nell'infanzia è molto più esposto al rischio di diventare a sua volta, nella
vita adulta, oggetto o soggetto di violenza), e solo da ultimo persecuzione
dei reati e la punizione di chi li commette. Il vero obiettivo, se vogliamo
curare la piaga, è prevenire la violenza, in ogni sua forma. Per farlo,
abbiamo bisogno di sinergie, di un
approccio integrato, onnicompren-
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sivo. Abbiamo bisogno di non far
mancare neanche un anello alla catena di interventi e misure che lo
Stato può mettere in campo - dalle
campagne di educazione alla formazione degli operatori (dalle forze dell'ordine al personale socio-sanitario,
dalla magistratura alla scuola), dalla
semplificazione dei passaggi della denuncia all'efficacia della rete di protezione e di accompagnamento in
una nuova fase della propria vita. Abbiamo bisogno, banalmente, di trovare risorse per finanziare queste
misure, e sarà necessario farlo da subito, anche in questi tempi di crisi
dura. Abbiamo bisogno, lasciando da
ultimo la cosa più importante, di capire che prevenire e contrastare la
violenza domestica e sulle donne
non è "solo" a vantaggio delle donne,
ma di tutta la nostra società - e se
servissero motivazioni molto concrete per farlo, basterà pensare che la
violenza ci costa 555 euro pro capite
l'anno. È un lavoro profondo, di
lungo periodo, da fare innanzitutto
con e per gli uomini. Perché è la loro
dignità a morire, ogni volta che
muore una donna.
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