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RASSEGNA STAMPA
giovedì 23 luglio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SPETTACOLO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da il Tirreno del 22/07/15
Al circolo Botteghino tolte le bandiere Solo
per una mostra
L’Arci: la decisione sarà presa dopo l’assemblea dei soci Alla
discussione parteciperanno alcuni membri del No Tav
PONTEDERA. Una mostra di foto ha risolto la questione. Ma solo momentaneamente. Le
bandiere di Cuba e del movimento No Tav sono state tolte dal circolo Arci Il Botteghino,
per far posto agli scatti che fanno parte dell’esposizione. Erano state contestate, nei giorni
scorsi, da alcuni soci. Ma la decisione politica verrà presa solo dopo l’assemblea che verrà
fatta nelle prossime settimane con tutti i soci. E con esponenti del No Tav che arriveranno
dalla Val di Susa. «Verranno a raccontarci com’è la situazione – racconta l’Arci Valdera in
un comunicato - perché spesso su questo tema l’opinione della gente è filtrata e
condizionata dalla rappresentazione mediatica che viene fatta dalla vertenza No Tav:
l’attenzione è più focalizzata sugli scontri».
Spiega ancora l’Arci che la battaglia della Val di Susa ha l’appoggio dell’associazione. Ed
è questo il motivo per il quale «nelle prossime settimane – spiega l’Arci – organizzeremo
un’assemblea di approfondimento in cui inviteremo rappresentanti del No Tav per
accompagnarci nel percorso di analisi, discussione, confronto e formazione. Siamo
un’associazione che non ha paura di affrontare anche temi giudicati scomodi, siamo
convinti che questa sia una opportunità per una crescita collettiva. Siamo orgogliosi di
quanto i nostri luoghi siano ancora vivi, capaci di appassionarsi e anche indignarsi per una
bandiera, perché ogni occasione per noi è una opportunità di confronto e di dibattito».
Sulla questione interviene anche il Partito della Rifondazione Comunista. Dal circolo Karl
Marx di Pontedera chiedono all’Arci del Botteghino di poter assistere alla loro discussione,
quando ci sarà, all’interno dell’assemblea dei soci, sulla questione delle bandiere esposte
e non gradite a tutti. «Dietro quella bandiera – scrivono i comunisti pontederesi, riferendosi
al movimento che lotta contro la Tav – ci sono anni di lotte e di mobilitazioni, che hanno
visto partecipi la quasi totalità della popolazione. Una maggioranza che non è stata
ascoltata né
coinvolta nelle decisioni, eppure l’opera di grande impatto verrà fatta sul loro territorio, in
casa loro e con scarsa utilità generale. Ben venga un’assemblea nella quale si potrà
discutere con i cittadini della Val di Susa in modo da conoscere meglio i problemi per i
quali loro combattono».
http://iltirreno.gelocal.it/pontedera/cronaca/2015/07/22/news/al-circolo-botteghino-tolte-lebandiere-solo-per-una-mostra-1.11818657
Da Lecco Notizie del 22/07/15
Arci e Libera: domenica “Legalitour” tra i beni
confiscati alla mafia
Libera - Tenda della memoria (6) - 25 agosto 2013LECCO – Il Comitato provinciale ARCI
di Lecco e il Coordinamento provinciale di Libera organizzano, la quarta edizione dei
Campi di Lavoro Antimafia: il titolo del campo di quest’anno è “ ATtivaTORI di
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CITTADINANZA” e vedrà il proprio svolgimento dal 24 luglio al 2 agosto presso il CFPP di
via Montessori a Lecco.
L’attività, che si inserisce nel nutrito elenco dei campi di volontariato che Arci organizza in
tutta Italia nell’ambito dell’antimafia sociale e dell’educazione alla legalità democratica, è
realizzata con la collaborazione di numerose realtà del Terzo Settore lecchese e
lombardo: CGIL, AUSER, cooperativa ALMA FABER, Consorzio Consolida, la COOP
Lombardia.
Oltre alle attività creative e di formazione che quest’anno coinvolgeranno circa venti
giovani del territorio di Lecco e non solo, sono previsti anche alcuni eventi pubblici, cui
tutta la cittadinanza è invitata a partecipare, che realizzeremo a Lecco e in provincia.
Il primo di questi verrà svolto domenica 26 luglio e consisterà in un “LEGALITOUR”, ossia
un giro di conoscenza dei beni confiscati e non solo presenti sul territorio. La partenza del
tour è prevista per le ore 09.00, presso la sede di realizzazione del campo (CFPP, via
Montessori, Lecco). Al rientro, pranzo sociale a offerta libera. L’iniziativa è realizzata in
collaborazione con il Comune di Lecco, Arci Lombardia e CGIL Lombardia.
http://www.lecconotizie.com/attualita/arci-e-libera-domenica-legalitour-tra-i-beni-confiscatialla-mafia-255215/
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Da Redattore Sociale del 22/07/15
Riforma terzo settore rimandata a settembre:
si rischiano tempi lunghissimi
Poco tempo e troppa concorrenza: ufficializzato al Senato lo slittamento
a dopo la pausa estiva delle votazioni sul ddl delega: scadenza
emendamenti al 7 settembre. Conclusione inevitabile dopo i ritmi delle
ultime settimane. E anche in autunno la partita non si annuncia
semplice
ROMA – Alla fine si sono arresi: troppo poco tempo a disposizione, anche solo
semplicemente per avviare la votazione sugli emendamenti. Slitta ancora, e stavolta
definitivamente a dopo l’estate, l’esame in Commissione Affari costituzionali del Senato
del ddl delega di riforma del terzo settore: il termine per la presentazione degli
emendamenti, che era stato inizialmente fissato al 9 luglio e poi prorogato al 21 luglio, è
stato posticipato alle ore 13 di lunedì 7 settembre, dunque alla riapertura di Palazzo
Madama dopo la pausa estiva. Un rinvio che nelle ultime settimane era ormai nell’aria e
che è stato ufficializzato per decisione della presidente della Commissione, Anna
Finocchiaro.
E’ un rinvio, però, che potrebbe costare ancora più caro, perché con i tempi che si dilatano
si avvicina sempre più la sessione di bilancio, che dal 15 ottobre in poi monopolizzerà
l’esame dei provvedimenti in Parlamento, alle prese fra gli altri con la redazione e
votazione della legge di stabilità. I tempi per l’approvazione insomma potrebbero perfino
slittare di mesi, fino a sconfinare nella peggiore delle ipotesi nel 2016. Davvero troppo
avanti per una maggioranza e un governo che avevano indicato mesi fa proprio l’estate
2015 come il limite entro il quale riuscire ad approvare la legge di riforma.
La realtà è stata ben diversa. Il governo ipotizzava di chiudere presto contando sul fatto
che il testo approvato alla Camera nello scorso mese di aprile potesse già essere quello
buono, e che la discussione al Senato potesse essere molto più agile e snella di quella
avvenuta a Montecitorio. Nessuno negava ai senatori la possibilità di modificare il testo,
ma dalle parti dell’esecutivo (e non solo) si pensava al più a modifiche minimali, incapaci
di modificare gli equilibri del testo e soprattutto tali da rendere poi la terza lettura alla
Camera ugualmente snella e rapida. Fin da subito, invece, è apparso chiaro che quello al
Senato non sarebbe stato un passaggio formale: la Commissione Lavoro e la Affari
Costituzionali hanno litigato per contendersi il testo, il relatore Lepri (Pd) ha presentato
una relazione che incide nel merito in molti dei punti qualificanti della legge, un gruppo di
organizzazioni sono state chiamate per essere nuovamente ascoltate sul testo. Insomma,
tutti segnali che la partita non era affatto chiusa e che la discussione non poteva essere
rapida e indolore.
Il resto l’ha fatto l’ingorgo dei lavori in Senato e in particolare proprio nella prima
commissione, che fra i tanti provvedimenti all’ordine del giorno ne ha uno di una
importanza capitale per le sorti stesse del governo: il disegno di legge di revisione della
parte II della Costituzione. Sulla riforma costituzionale l’esecutivo e la maggioranza si
giocano una bella fetta della loro credibilità, e la maggioranza ha scelto di dare la
precedenza a quel testo, che sarà votato nella prima settimana di agosto per approdare in
Aula, comunque, non prima della ripresa a settembre. Il terzo settore, e tutti gli altri
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provvedimenti, devono attendere a dopo l'estate, quando l'ingorgo istituzionale non si
annuncia però meno forte di quello attuale.
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ESTERI
del 23/07/15, pag. 5
L’accordo, poi elezioni. Ecco il piano di
Tsipras
Grecia. Il premier gioca d’anticipo: prima il terzo pacchetto di aiuti, poi
lo show down nel partito e il voto anticipato, il 13 o il 20 settembre.
Obiettivo: «Un nuovo inizio per Syriza»
Angelo Mastrandrea
Il governo Tsipras 2.0 era atteso ieri a un decisivo “crash test” che ne avrebbe determinato
la possibilità di durare oltre l’autunno. Invece la sorpresa è arrivata prima del voto sul
secondo pacchetto di riforme: si va dritti verso una Syriza 2.0 e verso il voto anticipato, già
a settembre. Il premier, sulla graticola da giorni, ha giocato d’anticipo come gli capita
spesso, ribaltando il tavolo da gioco alla velocità che abbiamo imparato a conoscere e
dando appuntamento a settembre per lo show down finale sul suo governo e all’interno del
partito di cui è tuttora presidente.
Criticato per la scelta di aver firmato un accordo-resa senza prendere in considerazione il
piano B della Grexit (nella versione Varoufakis del default nell’Eurozona o in quella più
radicale della Piattaforma di sinistra, con progressivo ritorno alla dracma), nel mirino per
non aver voluto incontrare il Comitato centrale del partito, accusato dalla sinistra interna di
voler traghettare il governo e Syriza su posizioni moderate, messo in discussione per aver
accettato i voti dell’opposizione che ora lo ricatterebbe sulle iniziative da prendere, Tsipras
ha lanciato il suo guanto di sfida. «Non nascondetevi dietro la mia firma sotto l’accordo»,
ha detto, annunciando un congresso «per chiarire gli obiettivi e la strategia del partito, e le
caratteristiche del governo di sinistra nelle nuove circostanze», non prima però di aver
portato la barchetta greca lontano dai marosi. L’obiettivo, ora, è ottenere nel negoziato di
agosto «il miglior risultato possibile», poi il premier proverà a sfruttare il successo per fare
il pieno nelle urne.
A puntualizzare è stata in seguito la nuova portavoce del governo Olga Gerovasili: «Syriza
siamo tutti noi, questa è la verità», ha mandato a dire al leader della Piattaforma di sinistra
Panagiotis Lafazanis che aveva rivendicato una sorta di primazia ideologica. Una battuta
alla quale l’ex ministro dell’Energia ha risposto ribadendo le sue posizioni: «La Grecia non
ha futuro nell’Eurozona, ma come paese progressista e orgoglioso che, nonostante le
difficoltà, combatte contro l’austerità». Gerovasili è stata molto chiara sulle possibilità di un
«divorzio» tra le due anime di Syriza: «Ci sono strategie diverse, differenti punti di vista.
Sarà difficile restare insieme, forse impossibile. Non è possibile andare avanti così».
Lo scenario che si apre è dunque il seguente: voto in nottata sul nuovo codice di
procedura civile e sulla direttiva bancaria (probabilmente con qualche defezione in meno
nella maggioranza rispetto alla scorsa settimana), avvio dei negoziati per l’accesso al
Fondo salva-stati (da chiudere entro il 20 agosto) con fine dell’emergenza finanziaria,
congresso di Syriza ed elezioni anticipate, il 13 o il 20 settembre. Con l’obiettivo, spiega la
portavoce del governo, di un «nuovo inizio» per la sinistra radicale greca.
In questo quadro, il voto di ieri è passato un po’ in sordina, anche perché la discussione è
cominciata solo alle 20, dopo che le 900 pagine da sottoporre al voto dei deputati (quanti
avranno avuto il tempo di leggerle con attenzione?) erano passate al vaglio delle
commissioni parlamentari. Non fosse stato per i dolori di Syriza, la discussione sarebbe
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andata più liscia rispetto a quella per il primo pacchetto di riforme. Cancellato l’aumento di
tasse per gli agricoltori a causa dell’opposizione di Nea Democratia e degli alleati dell’Anel
(ieri il ministro della Difesa Panos Kammenos ha incontrato Tsipras e, uscendo, ha detto ai
giornalisti che i contadini non sarebbero stati toccati) e rinviata la legge sulle pensioni,
sono andate al voto le meno controverse riforme bancaria e della giustizia civile. Nel primo
caso, si trattava di ratificare la direttiva europea sulle banche già approvata dagli altri
parlamenti continentali (Italia inclusa), che prevede la garanzia dei conti correnti bancari
fino a 100 mila euro ma con eventuali perdite scaricate sugli azionisti e non sullo Stato.
Nel secondo, invece, la finalità è quella di snellire i processi civili, con l’eliminazione dei
testimoni, tra le altre cose, e la velocizzazione della confisca dei beni.
C’era solo un punto dolente: la possibilità da parte delle banche di requisire le case
pignorate e metterle all’asta. Per questo ieri mattina Alexis Tsipras ha convocato il vertice
dell’associazione dei banchieri chiedendo loro di non applicare questa norma almeno fino
alla fine dell’anno, per dare al governo il tempo di poter intervenire sospendendo il
provvedimento. È un esempio di quello che il premier intendeva dire quando annunciava
battaglia e misure compensative per smussare gli angoli più spigolosi dell’accordo: c’è una
riforma imposta, praticamente dettata dalla troika senza il tempo di metterci su le mani,
che prevede tra le altre cose la vendita delle abitazioni dei morosi, e l’unico modo per
intervenire è aggirarla non applicandola nei fatti. Il problema, semmai, sorgerà se il
governo dovesse cambiare e il nuovo non dovesse deciderne la sospensione.
Dopo il “crash test” notturno depotenziato, le prossime misure dovrebbero riguardare la
lotta alla corruzione e il pagamento delle frequenze televisive (un punto centrale del
programma di Salonicco con il quale Syriza ha vinto le elezioni), mirato a eliminare il
monopolio e i privilegi dei boss delle tv private.
Per questa mattina invece il premier ha convocato al Megaro Maximou, il palazzo del
governo, la presidente del Parlamento Zoe Konstantopoulou, che anche ieri ha chiesto di
votare no alle riforme. È possibile che, venuto a mancare il rapporto fiduciario con il
governo, le chiederà di farsi da parte, cosa che getterebbe benzina sul fuoco delle
polemiche interne a Syriza in quanto Kostantopoulou, ex avvocato per i diritti civili, è uno
dei personaggi più popolari dell’opposizione da sinistra a Tsipras.
Del 23/07/2015, pag. 11
Grecia, altre 2 riforme giustizia e banche Sale
la liquidità Bce
Voto nella notte. Tsipras: non è il nostro piano ma vinceremo. Restano
fuori le baby-pensioni
ETTORE LIVINI
MILANO Alexis Tsipras lancia il guanto di sfida ai dissidenti di Syriza e porta a casa salvo improbabili sorprese - il secondo successo ai punti nella difficilissima partita per
salvare la Grecia dal default. Le riforme sulla giustiza civile e il sistema bancario erano
ancora in discussione nella tarda serata di ieri in Parlamento, mentre alcuni manifestanti a
piazza Syntagma lanciavano bottiglie e bombe carta all’indirizzo della polizia.
Il risultato del voto era scontato. «Abbiamo accettato il compromesso perché non avevamo
altre scelte, non è il nostro piano. Ma vinceremo» ha ribadito Tsipras. Il governo dovrebbe
aver portato a casa l’ok grazie ai voti dell’opposizione di Nd, Pasok e Nea Demokratia.
L’unica incertezza era la quantificazione del dissenso interno al suo partito. Ben 39
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deputati avevano votato contro il primo pacchetto di misure d’austerity una settimana fa,
limando a 123 voti (su 300) il consenso dell’esecutivo in aula. Se si fosse scesi sotto i 120
- soglia minima per superare un voto di fiducia - Tsipras potrebbe persino pensare alle
dimissioni per dare il via libera a un governo di scopo. Il rischio però era limitato. Il
presidente del Consiglio, per non esacerbare le tensioni, aveva cancellato dall’ordine del
giorno l’ok alle nuove norme sulle baby pensioni e sulla riforma fiscale dell’agricoltura.
Provvedimenti indigesti non solo alla sinistra radicale ma anche a molti parlamentari
dell’opposizione eletti nelle aree rurali. E questo “lifting” l’ha reso molto più accettabile per
l’inedito governo. Qualunque cosa succeda, la partita - dopo il voto di stanotte cambia
copione. Il campo resta Atene, ma archiviati i passaggi parlamentari necessari a far partire
i negoziati, oggi iniziano sotto il Partenone le discussioni in vista del terzo piano di
salvataggio del paese. «Dobbiamo chiudere entro la seconda metà di agosto», ha detto il
Commissario economico della Ue Pierre Moscovici. Entro il 20 Atene, del resto, deve
rimborsare altri 3,5 miliardi alla Bce e senza nuovi aiuti - il memorandum prevede 86
miliardi di prestiti - il paese rischierebbe il default. Le trattative non saranno semplici e
Tsipras cercherà di accompagnare queste nuove misure d’austerità a un attacco deciso a
evasori e oligarchi e a misure umanitarie per proteggere la fascia più debole della società.
In questi giorni l’esecutivo avrebbe avviato centinaia di ispezioni fiscali sulle categorie più
a rischio di infedeltà all’erario. E forse già questa settimana approderà in Parlamento la
nuova legge sulle frequenze tv, il primo vero colpo al potere delle grandi famiglie che da
decenni controllano (e guidano attraverso gli schermi delle loro tv) l’economia e la politica
nazionale. A dare una mano al Governo è arrivata la Bce. Eurotower ha aumentato di altri
900 milioni le linee di credito d’emergenza per Atene. Garantendo in sostanza la liquidità
per tenere aperti i bancomat e le agenzie ancora una settimana. La giornata di ieri ha
confermato come Tsipras sia intenzionato ad andare al redde rationem con la Piattaforma
di sinistra e i 39 deputati che hanno votato contro il compromesso a Bruxelles. «Una
scissione nel partito è probabilmente inevitabile » ha ieri chiaro e tondo Olga Gerovasili, la
nuova portavoce del Governo. Lo stesso premier come spesso accade ad Atene ha
affidato il suo pensiero sul tema a un verbale ufficioso di una riunione di partito fatto
circolare dal suo entourage: «C’è gente che si trincera dietro la mia firma per farsi i suoi
interessi avrebbe detto il primo ministro a settembre dovremo sederci attorno a un tavolo e
fare chiarezza » L’obiettivo è chiaro:firmare il nuovo memorandum e poi arrivare al redde
rationem in Syriza. In questo summit Tsipras avrebbe richiesto ai dissidenti senza risultato
- di mettere sul tavolo le loro alternative. Ribadendo che quelle viste fino a ora sono il
sequestro delle riserve della Banca di Grecia e il pagamento delle pensioni con valute
parallele: «Le stesse messe sul tavolo da Schaeuble», ha detto sferzante. La frattura è
ormai conclamata. Iskra, il portale dei dissidenti, ha apertamente criticato il premier. Zoe
Konstantopoulou, la presidente della Camera, ha scritto addirittura al primo ministro e al
presidente della Repubblica contestando la costituzionalità del voto di ieri sera. Tsipras la
vedrà oggi a mezzogiorno. Ma ricucire lo strappo non sarà davvero facile.
Del 23/07/2015, pag. 11
E ad Atene torna la Troika,colpo per il premier
MILANO
A volte ritornano. Il 25 gennaio, sembra un secolo fa, Alexis Tsipras aveva recitato il de
profundis. «Il popolo greco ha fatto la storia – aveva annunciato da palco dei Propilei nel
comizio dopo il trionfo elettorale - . La Troika appartiene al passato». Si sbagliava. La
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Troika è viva e lotta insieme a lui. E dopo un semestre di confino a Bruxelles sotto falso
nome (“le istituzioni” il più gettonato) Ue, Bce e Fmi hanno fatto ieri un ritorno trionfale ad
Atene. Il mondo, nel frattempo, è cambiato. Fino a un mese fa, nell’era di Yanis
Varoufakis, i tecnici del trio di cani da guardia dell’austerity erano relegati nelle stanze di
un albergo, in attesa perenne di documenti dai ministeri che spesso arrivavano sul loro
tavolo in gravissimo ritardo e rigorosamente in greco. Oggi Rasmus Ruffer (Bce), Declan
Costello (l’ambasciatore Ue che qualche mese fa cercò di bloccare le leggi umanitarie di
Tspras) e la new entry Delia Velculescu ( Fmi ha sostituito Rishi Goyal) hanno carta
bianca e porte spalancate. Stamattina dovrebbero avere un primo incontro all’Ufficio
bilancio di Atene per verificare i danni collaterali causati dai controlli sui capitali. Ed entro
pochi giorni dovrebbero produrre un primo bilancio del disastro economico dell’ultimo
mese, che servirà da base dei negoziati per il terzo piano di salvataggio. La ricomparsa
sotto il Partenone delle istituzioni è uno dei bocconi più amari da mandare giù per Syriza. I
primi mesi di mandato di Tsipras se ne sono andati proprio in estenuanti discussioni per
rimuovere il “vulnus” di un paese guidato in sostanza da un gruppo di tecnocrati non eletti
in grado di fare il bello e il cattivo tempo nei ministeri nazionali. La sostanza, in realtà, non
è mai cambiata. Più semplicemente la regia degli interventi è stata spostata fuori dai
confini ellenici e il nome troika è stato abolito, per rispettare la suscettibilità ellenica, da
tutti i documenti ufficiali della Ue. Ora però il tempo stringe e il controllo a distanza
dell’economia di Atene non è più possibile. L’ha capito anche Tsipras, costretto a dare il
semaforo verde – con buona pace delle promesse elettorali – all’arrivo degli inviati di Ue,
Bce e Fmi nella capitale. Probabile, vista la situazione, che i tecnici del terzetto tengano
questa volta un profilo molto basso. Anzi, è possibile che a loro sia affidata pure la regia
degli interventi “umanitari” necessari nelle prossime settimane per bilanciare la nuova cura
lacrime e sangue imposta alla Grecia.
del 23/07/15, pag. 15
Turchia, dopo l’attentato funerali blindati
e rappresaglie
Marta Ottaviani
A tre giorni dall’attentato a Suruç, costato la vita a 32 persone, in maggioranza studenti
curdi e aleviti che volevano portare aiuti a Kobane, la Turchia è un Paese sull’orlo della
crisi di nervi e con una certezza: l’Isis è un nemico e adesso è anche in casa e parla la sua
stessa lingua.
Le indagini degli inquirenti hanno portato a una scoperta-choc: il kamikaze che ha
provocato la strage è un ragazzo turco di 20 anni. Si chiama Seyh Abdurrahman Alagoz,
studente, proveniente da Adiyaman, nel sud-est del Paese e non troppo distante da Suruç.
Il padre del ragazzo ha raccontato al quotidiano «Hurriyet» di avere denunciato la sua
scomparsa tre mesi fa.
Stando alle prime indiscrezioni, sembra che il giovane avesse subito l’influenza di un
predicatore in una sala da tè della cittadina e che con il suo fratello maggiore avesse
deciso di lasciare la famiglia e l’università per entrare a far parte delle truppe dello Stato
Islamico. Le indagini si stanno concentrando anche su una, forse due donne, che lo
avrebbero aiutato a compiere la strage e che potrebbero essere turche anche loro.
Armati di pistole e Ak47
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La tensione si taglia con un coltello e inizia a assumere connotati insoliti persino per la
turbolenta quotidianità turca. Ieri i funerali di alcune vittime alevite, che sono stati celebrati
nel quartiere di Sultan Gazi, a Istanbul, sono stati seguiti da una manifestazione protetta
da uomini armati di pistole e kalashnikov. Anche il Pkk ha reagito alla strage, anche se in
modo anomalo, sequestrando e uccidendo due poliziotti turchi, una rappresaglia per la
«complicità» di Ankara nell’attentato dell’Isis.
La situazione è stata esacerbata ieri dal blocco temporaneo di Twitter, durato poche ore,
dopo che la magistratura aveva proibito la diffusione delle immagini dell’attentato.
Il social network - che ha rimosso, come richiesto dalle autorità di Ankara, foto e video dei
momenti successivi alla strage - in questi giorni era utilizzato anche da associazioni e
collettivi per organizzare manifestazioni contro il governo islamico-moderato e il presidente
Recep Tayyip Erdogan, da sempre accusati di tenere una linea troppo morbida e ambigua
nei confronti di Isis.
Domenica a Istanbul ci sarà un grande corteo organizzato dall’Hdp, il Partito curdo e in
molti temono una nuova, dura repressione da parte della polizia.
del 23/07/15, pag. 7
Proteste contro il governo, Erdogan blocca
internet
Turchia. Pkk rivendica l’omicidio di 2 poliziotti, uccisi nella città di
confine con la Siria di Ceylanpinar
Giuseppe Acconcia
La meglio gioventù turca è stata colpita nell’attentato di Suruç. Secondo le autorità di
Ankara, l’attentatore suicida sarebbe Seyh Abdurrahman Alagoz. Il ventenne avrebbe
passato gli ultimi sei mesi in Siria unendosi allo Stato islamico.
I genitori dei socialisti kurdi turchi che hanno partecipato ai funerali delle 32 vittime con il
pugno chiuso, le immagini dei cadaveri delle giovani donne che si tenevano per mano e
dei ragazzi che pranzavano felici prima dell’attentato nel giardino del centro Amara di
Suruç hanno fatto il giro del mondo e creato un moto anti-governativo in Turchia senza
precedenti. In particolare ai funerali di Ismet Seker e Cemil Yildiz nel quartiere di
Sultangazi a Istanbul, alcuni uomini hanno sparato in aria colpi di kalashnikov. Martedì
mattina la stazione di polizia locale era stata attaccata da uomini armati.
Le proteste sono andate avanti anche ieri nonostante l’annunciata repressione delle forze
dell’ordine. Sono almeno 49 (molti acciuffati nella manifestazione di Kadikoy nel centro di
Istanbul e sulla strada verso la sede del partito di Erdogan, Akp) i contestatori arrestati; la
polizia ha sequestrato bombe e bottiglie molotov. Per evitare che si ripeta il tam tam che
portò alle contestazioni di Gezi Park di due anni fa, la magistratura turca ha subito
disposto il blocco preventivo di Twitter dove circolano centinaia di immagini e video dei
minuti dell’attentato contro i giovani che portavano aiuti a Kobane.
Dopo due ore, Twitter ha ricominciato a funzionare. Sono stati bloccati però i siti internet
che hanno link alle immagini. I magistrati turchi hanno in particolare chiesto e ottenuto la
rimozione di 107 foto e 50 articoli. «Avreste dovuto fare sforzi per salvaguardare la
sicurezza nazionale invece di bloccare Twitter», ha subito reagito il leader del partito
kemalista (Chp), Kemal Kilicdaroglu, impegnato in complicati colloqui per la formazione di
un governo di coalizione con Akp.
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Il leader del partito della sinistra kurda (Hdp), Selahattin Demirtas, ha avvertito che è alto il
rischio di nuovi attacchi suicidi per il comportamento negligente di uomini dell’Intelligence
e della Sicurezza. Demirtas ha chiesto ai cittadini che vivono al confine con la Siria e alle
istituzioni di prendere misure precauzionali contro possibili e imminenti attacchi dello Stato
islamico.
Hdp ha anche imposto un controllo meticoloso di tutti gli edifici del partito. Solo ieri sono
arrivate le rassicurazioni del premier in pectore, Ahmet Davutoglu, che ha condannato
l’attacco. «Daesh non raggiungerà mai i suoi obiettivi», ha detto il politico islamista
moderato contestando le accuse di aver lasciato carta bianca ai jihadisti in funzione antikurda, mossa a Erdogan da molti politici e intellettuali turchi.
Non è mancata neppure una rappresaglia contro due poliziotti (uno dei due lavorava per il
nucleo anti-terrorismo) nella città di confine con la Siria di Ceylanpinar. I corpi sono stati
rinvenuti nella loro abitazione. Il partito dei lavoratori kurdi (Pkk), fuorilegge in Turchia e
nella lista dei gruppi terroristici, ha rivendicato il blitz definendolo una vendetta per la
connivenza tra polizia e Stato islamico nell’attacco di Suruç.
Le accuse al governo turco arrivano anche dall’Egitto. Secondo la stampa locale le
relazioni tra i due paesi, deterioratesi dopo il colpo di stato militare duramente contestato
da Erdogan, non sono mai state tanto incrinate. In particolare il Cairo ha mosso accuse
durissime alle autorità turche di aver favorito l’ascesa dello Stato islamico nel Sinai
lasciando passare su territorio turco i jihadisti, diretti verso la Siria. Questo fuoco di fila
contro Erdogan arriva nella fase più delicata della sua ascesa politica quando sembra
difficile la formazione di un nuovo governo e sempre più vicino il ritorno alle urne mentre la
vittoria elettorale di Hdp e gli attacchi di Isis stanno esasperando ancora una volta le
divisioni tra i kurdi turchi.
Del 23/07/2015, pag. 1-27
IL PUNTO
In cerca di un ruolo nel Mediterraneo
NELLA visita di Renzi in Israele si è intravista la trama di una politica
estera in grado di abbracciare Mediterraneo e Medio Oriente.
STEFANO FOLLI
SOLO una trama, per la verità, o meglio un’intuizione, perché il cammino è impervio. Da
un lato, il presidente del Consiglio sconta ancora la sua relativa inesperienza sulla scena
internazionale; dall’altro, l’Italia deve risalire la china e riguadagnare quel rango di potenza
regionale, cioè di medio livello, che in passato aveva saputo interpretare e che oggi invece
è assai appannato. La novità è che Renzi si è mosso dopo l’accordo nucleare sull’Iran e
ha scelto di andare a Gerusalemme per esprimere amicizia a Israele e rassicurare lo Stato
ebraico. Lo ha fatto nel colloquio con il premier Netanyahu e con un discorso alla Knesset,
il Parlamento, denso di elementi politici e anche emotivi. Ha confermato, è ovvio, che
l’Italia appoggia con convinzione l’accordo, ma ha insistito sulla sicurezza di Israele come
componente essenziale della sicurezza dell’Europa e del mondo occidentale. In sostanza,
non si è allontanato dal solco tradizionale della nostra politica estera, compreso l’auspicio
che la questione palestinese si risolva nella formula “due popoli, due Stati”, ma ha usato
toni e accenti apprezzati dagli israeliani in un momento molto difficile delle relazioni con
l’America di Obama. Ha agito non tanto come mediatore — non avrebbe la forza e la
credibilità — quanto come “facilitatore” dei rapporti per superare una seria incomprensione
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fra antichi alleati. Compito non semplice che richiede sensibilità, ma dimostra un punto
cruciale: in Israele Renzi non è andato per una “photo opportunity”, come spesso è
capitato ai politici italiani. È andato, primo fra i leader europei dopo la firma degli accordi di
Vienna, per tessere un filo. Nel quale la priorità è la stabilità dell’area mediterranea e una
strategia condivisa contro il terrorismo legato in varie forme al fondamentalismo e allo
Stato islamico. È un tema su cui gli israeliani sono logicamente molto sensibili, come lo
sono i palestinesi di Abu Mazen e, nei territori della Cisgiordania, la stessa Hamas.
È qui che si vede il reticolo di una politica estera con elementi innovativi. Una politica che
si sviluppa nella cornice delle relazioni consolidate, in primo luogo con gli Stati Uniti, ma
che si sforza di non essere solo passiva. Renzi è arrivato a Gerusalemme all’indomani del
rapimento dei quattro italiani in Libia, consapevole che l’Italia paga e pagherà il prezzo più
alto al caos che imperversa fra Tripoli e Tobruk nonostante gli sforzi dell’inviato dell’Onu.
Stabilizzare è il solo obiettivo che può interessare al governo di Roma in questo frangente.
Un obiettivo che l’amicizia di Israele può avvicinare, al pari di quella con l’Egitto di Al-Sisi.
Non a caso il presidente del Consiglio è stato pochi mesi fa al Cairo e ha pronunciato un
discorso impegnativo contro il terrorismo. Non tutti nel mondo politico e diplomatico
italiano sono d’accordo con questa impostazione, alcuni ne vedono i rischi rispetto alla
disgregazione libica e preferirebbero maggiore equidistanza fra le fazioni in lotta. Ma
Renzi sembra muoversi sull’asse Gerusalemme- Il Cairo, nella convinzione che
all’indomani dell’intesa con l’Iran questa è anche l’opzione preferita dagli americani. Se è
così, i contorni dell’iniziativa italiana cominciano a delinearsi. C’è bisogno, senza dubbio,
anche di una disponibilità all’uso coordinato della forza militare, se e quando fosse
necessaria; e infatti anche su questo aspetto Renzi ha aperto qualche spiraglio, sia pure
con la doverosa cautela. C’era un tempo in cui l’Italia della Prima Repubblica, da Andreotti
a Craxi, tendeva a sottostimare il rapporto con Israele e a privilegiare le relazioni politiche,
ma anche affaristiche, con il mondo arabo. Oggi, nel momento in cui l’accordo con l’Iran
modifica i parametri della questione mediorientale, Renzi si muove partendo da Israele e
dalla necessità di ricomprendere lo Stato ebraico nel disegno della sicurezza
mediterranea. È un inizio interessante, utile a dare uno “status” all’Italia in un quadro
regionale che dovrebbe vederla protagonista. Ed è anche una prospettiva che dovrebbe
sollecitare una convergenza non occasionale fra la maggior parte delle forze parlamentari
anche d’opposizione.
Del 23/07/2015, pag. 7
Il giallo degli scafisti le due versioni di Alfano
“Il governo non tratta”
Il ministro non esclude lo scambio con i rapiti, poi smentisce Mattarella:
“Ferita aperta, speriamo in una soluzione rapida”
GIUSEPPE FILETTO
ROMA. «Ci hanno rasserenato, ci hanno garantito che stanno lavorando, e noi ci fidiamo
ciecamente delle persone con cui abbiano parlato», si limita a dire Gino Del Medico,
nipote di Gino Pollicardo, giunto a Roma da Monterosso al Mare, insieme a Ema Orellana,
alla moglie del tecnico della Bonatti. Alle 19,15 di ieri i familiari dei quattro italiani rapiti in
Libia lasciano la Farnesina. Con i Pollicardo ci sono i parenti di Filippo Calcagno, arrivati
da Piazza Armerina, di Salvatore Failla (Carlentini) e di Fausto Piano (Capoterra).
«Bisogna fidarsi della capacità dell’Intelligence».
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Per il resto, oltre a raccomandare prudenza, vige la consegna del silenzio: «Per ragioni di
sicurezza». Ma se la Farnesina blinda la vicenda, dall’altra il Viminale lascia intendere che
sul rapimento incombe la richiesta di scambio con scafisti libici detenuti in Italia. «Non
credo che possiamo escludere alcuna pista», ammette nel primo pomeriggio il ministro
dell’Interno. Angelino Alfano fa capire, indirettamente, che l’ipotesi, in un primo momento
alquanto inverosimile, potrebbe essere il segnale di una trattativa già in corso. E poco più
tardi il ministro torna sull’argomento: «In ogni caso, il governo non tratta». Sembra la
risposta ad un contatto già avuto con i rapitori, anche se ufficialmente fino alla tarda serata
non è giunta alcuna rivendicazione.«È evidente — promette Alfano — che faremo di tutto
per liberare i quattro italiani ». Già, perché lievitano, invece, l’angoscia e la paura nelle
case dei rapiti. Da domenica sera non si sa altro, se non le notizie che si sono accavallate
ieri. Precedute da un intervento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in
visita a Malta. «Speriamo in soluzione rapida, perché il caso dei cittadini italiani rapiti è per
noi una ferita aperta. Si sta cercando di capire cosa sia successo e in che modo
intervenire, c’è un impegno molto forte, anche di altri Stati».
Come “Fajr Libya”, la milizia islamista che ha imposto un governo parallelo a Tripoli e
starebbe cooperando con il Viminale. Qualche speranza, infatti, arriva dalle parole del suo
portavoce, Al Queek: «Non siamo stati noi a rapirli, non conosciamo gli autori del
sequestro, ma presto saranno liberi». La risposta è successiva alla notizia che i presunti
rapitori potrebbero fare parte di alcune formazioni islamiste legate a “Fajr Libya”, e che il
sequestro sia un messaggio politico all’Italia, in particolare sul piano di pace discusso in
Marocco, sotto l’egida dell’Onu. E che non piace a “Fajr Libya”. Intanto, secondo il
racconto dell’autista che doveva portare gli italiani al compound di Mellitah, sarebbero
state violate le procedure di sicurezza: viaggiavano su un’auto senza scorta armata. E
Alfano sottolinea: «Non possiamo imprigionare gli italiani che si trovano all’estero, c’è
un’assunzione di responsabilità individuale quando decidi di spostarti, attraversando zone
pericolosissime ». L’autista dei dipendenti della Bonatti ha raccontato di essere arrivato
dalla Tunisia e che a 5 chilometri dal campo Eni si sarebbe accorto che dietro c’era
un’auto, che li ha costretti a fermarsi e deviare verso Sud. E potrebbe avere un filo logico
la notizia diffusa dal sito locale Akhbar Libya 24 , secondo la quale «i rapiti sarebbero stati
condotti in una zona desertica del Paese, dove è facile nasconderli». Secondo quanto
riferiscono fonti di Sebrata, i rapitori hanno costretto gli italiani a scendere dall’auto, hanno
gettato i loro telefonini, nel timore che potessero essere rintracciati dal segnale. Notizie
che però non trovano conferme. Come quella sostenuta dal governo di Tripoli: il rapimento
sarebbe opera di Jeish al Qabail (Esercito delle Tribù), alleati del generale Khalifa Haftar,
quello di Tobruk. Il portavoce della milizia Fajr Libya: “Non siamo stati noi e non
conosciamo i responsabili ma presto gli italiani saranno liberi” Ancora nessuna
rivendicazione ma si fa strada l’ipotesi di un contatto già in corso con i sequestratori
del 23/07/15, pag. 6
Il mullah: «Giù le mani dall’Afghanistan»
Afghanistan. Dopo l’accordo nucleare iraniano, i Talebani avvallano i
colloqui: per difendersi dall’avanzata del Califfato e dal cambiamento
degli equilibri regionali
Giuliano Battiston
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«Freniamo gli entusiasmi», «per ora nessuna svolta», «vedremo nelle prossime
settimane», «dei Talebani non mi fido». Dall’Afghanistan arrivano messaggi chiari:
qualsiasi entusiasmo è prematuro. È vero, il comunicato con cui il mullah Omar, il leader
della guerriglia talebana, ha dichiarato che il negoziato è legittimo è un passaggio
importante. Segna una svolta. Avalla i colloqui informali e non che si sono svolti negli
ultimi mesi.
E si somma alla notizia, confermata nei giorni scorsi dal Consigliere per la sicurezza
nazionale, Hanif Atmar, che il secondo incontro ufficiale tra i rappresentanti del governo e
quelli dei barbuti si terrà il 30 luglio. Ma prima che gli incontri e le dichiarazioni producano i
loro effetti sul terreno di battaglia ci vorrà del tempo. I tempi della diplomazia. Lunghi in
ogni caso. E particolarmente in quello afghano, dove sia il fronte governativo sia quello
anti-governativo sono frammentati. Qualcuno a Kabul azzarda letture perfino meno
ottimistiche: il messaggio dell’Amir-ul-Momineem, il «comandante dei credenti», non
sarebbe tanto un segno di forza, quanto un sintomo di debolezza. Una reazione, più che
una decisione vera e propria. L’ultimo tentativo della vecchia guardia dei Talebani, la
shura di Quetta, il consiglio legato all’Emirato islamico d’Afghanistan (il governo rovesciato
dagli americani nel 2001), di rimanere in sella. Di continuare a esercitare egemonia politica
all’interno di una galassia sempre meno coesa. E di rispondere alle insidie rappresentate
dalla presenza in Afghanistan degli uomini dello Stato islamico.
La disputa in atto
La disputa tra Talebani e Stato islamico non riguarda tanto le questioni ideologiche o
dottrinarie (le differenze ci sono, rilevanti), ma il denaro. Gli uomini di Abu Bakr alBaghdadi arrivano con soldi veri, «pesanti». Quelli che i paesi del Golfo hanno deciso di
tagliare ai Talebani, un investimento poco produttivo, e di dirottare sul Califfo, un marchio
in espansione.
Nel paese centroasiatico i seguaci del Califfo — pochi per ora — hanno comprato alcuni
comandanti talebani. Sono arrivate le scomuniche, i combattimenti, gli scontri feroci. E i
comunicati. Il 16 giugno mullah Akhtar Mohammad Mansour, il vice del mullah Omar,
l’uomo che in assenza del gran capo guida il Consiglio della leadership, ha reso pubblica
una lettera in cui si rivolgeva al Califfo.
Toni pacati, messaggio chiaro: «giù le mani dall’Afghanistan», «non portate divisione nella
guerriglia», «il fronte rimanga unico». Poi è arrivato il comunicato del mullah Omar. Con un
messaggio ancora una volta rivolto ad al-Baghdadi, in modo implicito ma evidente:
«abbiamo sollecitato tutti i nostri mujaheddin a preservare la loro unità e a prevenire
energicamente tutti quegli elementi che provano a creare differenze, danneggiare il jihad,
disperdere i mujaheddin». Un mullah Omar in difesa dunque. Che chiama a raccolta i suoi
militanti. Che respinge i tentativi di infiltrazione dello Stato islamico.
Una mossa obbligata
Che prova a dimostrare che alla guida del jihad in Afghanistan c’è lui, e solo lui. E
soprattutto che è ancora vivo. Una mossa obbligata: nelle ultime settimane gli uomini dello
Stato islamico e delle fazioni talebane antagoniste hanno messo in piedi una vera e
propria campagna mediatica. Obiettivo, dimostrare che il mullah Omar è morto. O che non
conta più nulla, perché nelle mani dei servizi pakistani.
Nei social network dei militanti islamisti si sono moltiplicati gli appelli: «se ci sei, batti un
colpo». Mullah Omar (molto più probabilmente chi per lui) si è fatto vivo. Non con un
messaggio audio o video, che avrebbe potuto dimostrare che davvero è ancora vivo, ma
con il solito comunicato, scritto in occasione dell’avvicinarsi della fine del Ramadan. Il
risultato? Uscendo allo scoperto, mullah Omar rassicura i comandanti più fedeli, ma
conferma paradossalmente la propria debolezza. Quella di chi non detta l’agenda, ma è
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costretto a inseguire. Una debolezza che peserà molto sul tavolo negoziale. Quando
diventeranno evidenti le spaccature interne al movimento talebano.
Le stesse esplose alla vigilia delle elezioni presidenziali dello scorso anno. Quando i
barbuti si sono spaccati tra quanti (i duri e puri alla Haqqani) pensavano soltanto a
sabotare il processo elettorale con attentati efferati; il gruppo pronto a sostenere il
candidato pashtun Ashraf Ghani; coloro che ritenevano invece che la vittoria del candidato
tagiko Abdullah Abdullah avrebbe favorito la mobilitazione dei pashtun, incrementando le
fila dei combattenti. All’epoca, il movimento è uscito dall’impasse con le ossa un po’ rotte,
ma con una mossa pragmatica: sostegno indiretto a Ghani, considerato un interlocutore
più malleabile in vista del negoziato di pace. Oggi quel negoziato si avvicina.
È il momento della caparra
I Talebani provano a riscuotere la «caparra» versata in quell’occasione. E il messaggio del
mullah Omar finisce per rafforzare proprio il governo di Kabul. Paralizzato
dall’antagonismo tra il presidente Ghani e il quasi «primo ministro» Abdullah, lontano dal
soddisfare le aspettative che aveva suscitato all’inizio, il governo afghano potrà vendere
l’apertura di Omar al dialogo come un proprio successo. Uno dei pochi, finora. Ma sul
tavolo rimangono molti aspetti critici, oltre alle divisioni interne ai due fronti. Tra questi,
proprio il «doppio passo» — combattimenti e insieme negoziato — rivendicato dal mullah
Omar. Senza un cessate il fuoco immediato — chiesto la scorsa settimana da Mutasim
Agha, già ministro delle Finanze talebane — si rischia che aumenti lo stillicidio della
popolazione civile.
Perché più si picchia sul campo di battaglia — così pensa una delle fazioni dei barbuti —
più si ottiene al tavolo negoziale. Nelle ultime settimane nel paese c’è stato un incremento
notevole degli attacchi, degli scontri, delle vittime civili. In almeno 26 delle 34 province del
paese. Dal nord a sud, da est a ovest.
Tra gli attacchi più sanguinosi, quello del 12 luglio a Khost. Un attentato suicida contro un
checkpoint della polizia, fuori Camp Chapman, la base militare che ospita alcune unità
delle Forze speciali degli Stati Uniti. L’obiettivo non era casuale: quel checkpoint è gestito
dagli uomini della Khost Protection Force, un’unità militare che, addestrata dalla Cia, ha la
responsabilità delle operazioni di contro-terrorismo lungo il confine pakistano. Il confine più
poroso del paese, lungo il quale viaggiano militanti, armi, soldi, droga.
Il confine più poroso
Fin dal primo jihad contro gli invasori sovietici, è sempre stato fondamentale nella partita
afghana. Oggi lo è ancora di più. I rifugi dei talebani afghani in Pakistan, nel Waziristan del
nord e del sud, non sono più così sicuri come una volta. Per due ragioni. La prima è che il
governo pakistano — preoccupato del mostro incontrollabile che ha nutrito finora, una
minaccia per la stessa stabilità interna — vuol dar segno di aver archiviato la tradizionale
politica di sostegno ai barbuti islamisti, e ogni tanto invia truppe speciali e unità d’assalto.
La seconda è che alcune frange dei Talebani afghani guardano con sospetto a Islamabad.
Sanno di poter essere vendute. I più radicali ritengono inoltre che il negoziato di pace non
possa portare nulla di buono.
Per questo hanno cominciato a trasferire uomini e armi dai vecchi rifugi pakistani alle
province orientali dell’Afghanistan. È un segnale di una tendenza più generale: i rapporti
tra i Talebani e i tradizionali sponsor regionali sono cambiati. Se una parte
dell’establishment pakistano ha cambiato orientamento, i cinesi hanno smesso di
finanziare i Talebani. I paesi del Golfo – come abbiamo visto – hanno dirottato i soldi verso
lo Stato islamico.
Gli iraniani ne hanno preso il posto, ma solo in parte e con prudenza. I Talebani sono a
secco, o quasi. Nel suo comunicato il mullah Omar ha chiesto «a tutti i musulmani del
mondo e specialmente alle pie masse afghane di aumentare il sostegno fisico e finanziario
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ai mujaheddin». La guerra sarà pure santa, ma gli uomini – incluso l’Amir-ul-Momineem,
mullah Omar — rimangono dei grandi peccatori.
del 23/07/15, pag. 6
Afghanistan: la guerra continua, tutti i giorni,
e colpisce ovunque
Giuliano Battiston
Nelle settimane scorse il presidente Ashraf Ghani si è recato a Khost, provincia orientale
dell’Afghanistan, al confine con il Pakistan.
Ha incontrato i familiari delle vittime dell’attentato del 12 luglio, che ha provocato la morte
di 27 civili, inclusi 12 bambini, e quella di 6 uomini delle forze di sicurezza afghane.
Si è congedato rassicurando la popolazione: «garantiremo la vostra sicurezza». Il giorno
successivo il vice-presidente ed ex warlord Abdul Rashid Dostum, fondatore del partito
Jumbesh-e-Milli, ha preso un volo per la provincia nord-occidentale del Faryab.
Con sé, ha portato alcuni uomini della sua «milizia» personale. Ha promesso che in pochi
giorni riporterà la calma in quell’area, dove la presenza delle forze anti-governative si fa
ogni giorno più ingente e minacciosa.
I due episodi raccontano lo stato delle cose in Afghanistan: la guerra continua, tutti i giorni,
e colpisce ovunque. A rimetterci, i civili. Secondo i dati delle Nazioni Unite (Unhcr), il
conflitto ha costretto un milione di persone (circa il 3% della popolazione) a migrare
all’interno del paese.
Lo scorso anno, sarebbero state 180.000 le persone costrette ad abbandonare la propria
casa, il numero più alto da quando la guerra è cominciata, nel 2001, e destinato ad
aumentare quest’anno.
La maggior parte di questi spostamenti riguarda l’area del nord-est. La provincia più
colpita, quella settentrionale di Kunduz, al confine con il Tajikistan.
Secondo l’ultimo rapporto della missione delle Nazioni Unite a Kabul, anche quest’anno il
numero delle vittime civili (feriti e morti) è superiore a quello dell’anno precedente.
del 23/07/15, pag. 7
Attacco suicida a Falluja, 22 vittime
Iraq/Siria. Due attacchi suicidi in città uccidono 22 soldati. Chi prende la
provincia di Anbar, prende l'Iraq. In Siria, morto in un raid il leader
qaedista al-Fadhli, a capo di un'unità che conoscono solo gli Usa
Chiara Cruciati
Fallujah non trova pace: da anni epicentro del conflitto globale che si combatte in Iraq, ha
resistito all’occupazione statunitense e cercato di fare altrettanto con le imposizioni
politiche di Washington e della nuova Baghdad. Oggi è ancora teatro bellico perché è la
porta di accesso a Ramadi e alla provincia di Anbar.
Nessuno può permettersi di perdere Fallujah, né lo Stato Islamico né il governo centrale.
Per il premier al-Abadi la riconquista dell’Anbar è alla base di qualsivoglia piano futuro:
senza la provincia più instabile e centrale del paese (confinante con Arabia saudita,
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Giordania e Siria), è pretenzioso immaginare di poter vincere la macchina da guerra
islamista.
Tanto fondamentale per Baghdad da accettare e indirettamente promuovere la
partecipazione delle milizie tribali sunnite richieste dagli Stati Uniti: Obama ha portato a
3.500 i consiglieri militari nella locale base di Habbaniyah per addestrare e armare i sunniti
contro l’Isis, per poi lamentare un numero troppo basso di volontari.
Per ora a combattere sono soprattutto gli sciiti: alla controffensiva dei volontari delle
Hashed al-Shabi e delle truppe governative gli islamisti rispondono negli scontri di terra
ma anche, con viltà, con i kamikaze. Ieri due auto e gli uomini alla guida, imbottiti di
esplosivo, hanno ucciso 22 persone tra soldati e miliziani sciiti a est di Fallujah. Non erano
due auto qualsiasi, ma due veicoli blindati Humvee di fabbricazione Usa, confiscati in
precedenti raid in basi militari irachene.
L’attacco giunge nel mezzo della più ampia operazione per la ripresa della provincia
sunnita di Anbar, varata lo scorso 13 luglio: le truppe di Baghdad cercano di tagliare
definitivamente le vie di rifornimento usate dall’Isis per trasportare uomini e armi verso
Ramadi, il capoluogo, e Fallujah. Villaggi occupati, cittadine circondate: così il governo
spera di isolare del tutto i due centri.
Per piegare l’Isis il primo ministro al-Abadi ha spedito anche l’aviazione che bombarda
Fallujah da giorni: ieri 17 miliziani sono morti dopo un raid contro una moschea. Accanto a
quei 17 combattenti hanno perso la vita, però, anche 7 civili. Morti che non aiutano di certo
la causa anti-settaria promossa da Baghdad: buona parte della popolazione di Anbar teme
lo stesso destino di quella di Tikrit, liberata dall’Isis grazie al sostegno fondamentale delle
milizie sciite e oggi modello negativo di repressione interna.
Ma Fallujah non è Tikrit: è più strategica. Per questo la caduta di Ramadi lo scorso maggio
in mano all’Isis e l’occupazione di buona parte dell’Anbar potrebbe essere utilizzata dalle
comunità sunnite per ottenere da Baghdad armi e quindi potere.
In Siria Assad e Usa contro lo stesso nemico
Forze sciite nel mirino anche nella vicina Siria: secondo le Nazioni Unite, la battaglia in
corso a Zabadani (città al confine con il Libano, lungo l’autostrada Beirut-Damasco) tra le
forze di Assad e i qaedisti di al-Nusra ha provocato una distruzione e un numero di morti
senza precedenti. Dito puntato sul presidente siriano, accusato dall’inviato Onu per la
Siria, Staffan de Mistura, di aver sganciato le famigerate bombe barile contro la città.
Certo è che l’asse sciita ha allargato martedì il proprio controllo sulla città di Zabadani e
sui villaggi vicini. Le poche sacche di islamisti ancora nel centro città sono state costrette
alla resa, fa sapere al-Manar Tv, l’emittente legata al movimento sciita libanese. Liberate
anche una serie di comunità nella vicina regione di Qalamoun.
E mentre Damasco combatte al Qaeda a ovest del paese, a nord è la coalizione anti-Isis
guidata dagli Usa a colpire, a dimostrazione che il nemico è lo stesso: il Pentagono, in un
comunicato, ha rivelato che due settimane fa in un raid aereo sarebbe stato ucciso Muhsin
al-Fadhli, noto leader di al Qaeda su cui pendeva una taglia da 7 milioni di dollari.
Sarebbe stato il responsabile del cosiddetto Gruppo Khorasan formato da una cinquantina
miliziani di lungo corso, provenienti da Afghanistan e Pakistan. Un’unità che secondo molti
non esiste (né in arabo esisterebbe il suo nome), ma è una creazione degli Stati uniti
secondo i quali il gruppo è responsabile di ordire attacchi contro l’Occidente.
Non esiste nemmeno per il leader di al-Nusra, il braccio siriano di al Qaeda, Abu
Muhammad al Jolani. Lo ha detto nella nota intervista ad Al Jazeera dello scorso maggio:
«Non esiste nulla chiamato Gruppo Khorasan. Lo hanno inventato gli americani per colpire
al-Nusra».
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Del 23/07/2015, pag. 14
Brescia-jihad: la cellula che studiava
l’attentato
di Davide Milosa
Vivono nel profondo nord d’Italia. Permesso di soggiorno regolare. Lavoro regolare.
Famiglia, amici. Integrati nella ricca Lombardia. Tra Manerbio, Saronno e Brescia, a un
passo dal lago di Garda. Ma la loro è una vita d’apparenze, di verità nascoste. Perché
sotto a tutto c’è un’adesione profonda alla jiahd e allo Stato Islamico. È questo
l’impressionante identikit ricostruito dalla procura di Milano. Inchiesta lampo, quella istruita
dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli. Ieri due arresti di peso: Lassaad Briki,
tunisino classe ‘80 e Muhammad Waqas, pachistano di 27 anni. Entrambi sono accusati di
appartenere all’Is con lo scopo, scrive il giudice nella sua ordinanza d’arresto, “di
commettere atti di violenza e con finalità di terrorismo sul territorio italiano”.
Questa la novità, rispetto alla precedente indagine, sempre della Digos di Milano, su Maria
Giulia Sergio, alias Fatima, la giovane napoletana convertita al Califfato e partita per la
Siria. Anche qui, i due progettavano la partenza verso le terre occupate dall’Is. Prima però
volevano lasciare il segno. Tra i loro obiettivi: le forze dell’ordine, chiese e soprattutto la
base militare di Ghedi in provincia di Brescia. Al di fuori del lavoro e della famiglia, la loro è
una vita dedicata completamente ad Allah.
“Io – dice intercettato Briki – ho solo voglia di fare la jiahd e se Allah mi dà la possibilità di
farlo lo faccio”. Risponde Waqas: “Io aderisco a settembre”. E ancora: “La guerra sarà più
urbana, come ad esempio in Assasin’s Creed o un altro gioco famoso della playstation”.
Dice Briki: “Io quando lavoro ho sempre la testa lì”. Il tunisino risulta il più convinto “tanto –
scrive il gip – che si segnala il suo giuramento di fedeltà al califfo Abu Bakr Al Baghdadi”.
L’indagine milanese nasce nell’aprile scorso dopo che la Polizia postale intercetta 230
tweet dal profilo Omar Moktar nel quale compare l’hashtag Islamic State in Rome.
Vengono postate frasi e fotografie. Foglietti con la scritta Islamic State in Rome riprese
davanti al Duomo di Milano, in metropolitana, lungo le autostrade, a Roma. E poi le frasi.
“Ora agiamo con le foto nelle vostre strade, presto agiremo con i coltelli affilati. Ci
metteremo sul vostro trono”.
Lame e jiahd. “Siamo già a Roma, i nostri coltelli sono pronti per la macellazione”. In
poche settimane, la polizia associa quei tweet a un nome e a un volto. È quello di Briki.
L’indagine entra nel vivo a fine aprile. Le intercettazioni aiutano a costruire il profilo
svelando anche il secondo indagato. I due si vedono nella casa di Manerbio dove abita il
pachistano. Discutono solo di jiahd. Di arruolarsi e di colpire in Italia. Studiano sul manuale
intitolato “How to survive in the west”, guida al combattente che vive in Occidente.
Progettano di acquistare armi a Saronno e individuano nella base di Ghedi l’obiettivo
principale da colpire. “Io – dice Briki – voglio fare una cosa prima di partire”. Waqs: “Io odio
tanto i carabinieri”. Briki: “Qui c’è una base militare”. L’attacco alla base Nato “è una
grande porta per il jennah (paradiso, ndr)”. Di più: Waqs rivela di avere un amico che entra
nella base. Dice il tunisino: “Basta ammazzare e se non ammazzo brucio un aereo perché
io prendo una molotov”. A giugno viene intercettata una conversazione su Facebook tra
Briki e un mujaheddin attivo in Siria. Entrambi sono della città di Kairouan. Il combattente
lo esorta: “Vieni allo Stato, lascia il paese della miscredenza, qui troverai la tua dignità”.
Briki è in contatto anche “con soggetti contigui agli attentati commessi in Tunisia”. La
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strage del Bardo (18 marzo) e quella di Sousse del 26 giugno. Pochi giorni dopo, il 3
luglio, il tunisino è sulla spiaggia del massacro a scattare fotografie.
del 23/07/15, pag. 15
La Cina ridà il passaporto ad Ai Weiwei
Ai Weiwei ha riavuto dalle autorità cinesi il passaporto ed è libero di tornare a viaggiare
dopo lo stop forzato di quattro anni. Lo ha annunciato direttamente l’artista, sempre critico
verso le politiche di Pechino, postando il documento ricevuto sul suo account
Instagram.«Oggi, ho ottenuto il mio passaporto» - ha scritto Ai, ricevendo in poche ore più
di 6.000 «mi piace» e 750 commenti dai suoi sostenitori. La riconsegna del passaporto,
confiscatogli nel 2011 a cui sono seguiti 81 giorni di prigione senza capi d’imputazione, gli
darà la possibilità di recarsi in Germania dove suo figlio di 6 anni vive da un anno e poi a
Londra, per partecipare a una mostra alla Royal Academy of Arts. Prima della detenzione,
Ai aveva dato visibilità a scandali nazionali, come la morte di studenti in scuole mal
costruite crollate nel terremoto del 2008, attirandosi l’ira delle autorità che da quel
momento gli hanno fatto terreno bruciato intorno. In segno di protesta, Ai mise un mazzo
di fiori nel cestino della bici fuori dal suo studio di Pechino fino ad oggi quando ha
riconquistato il diritto a viaggiare
del 23/07/15, pag. 15
I paesi ricchi si sfilano e sperano nei
«mecenati»»
Finanziare lo Sviluppo . Dopo la Conferenza di Addis Abeba, Renzi (tra i
pochi capi di governo presenti) ha promesso di aumentare il ridicolo
0,2% dell'Italia. Ma il documento finale della Conferenza presenta
moltissime ombre
Raffaele K Salinari
Si è conclusa ad Addis Abeba la Conferenza mondiale sulla Finanza per lo Sviluppo. Sul
tavolo i mezzi per finanziare i cosiddetti «Obiettivi per lo sviluppo sostenibile» che, dal
novembre di quest’anno saranno il quadro di riferimento globale per i prossimi quindici
anni.
L’Italia, fanalino di coda Ue con il suo derisorio 0,2% del Pil, è stata rappresentata da
Renzi che, tra i pochissimi Capi di Stato e di Governo presenti, ha enfatizzato la necessità
di legare cooperazione, sviluppo e gestione dei flussi migratori in ambito comunitario
attraverso nuove regole di accoglienza, anche cercando di gestire il problema alla radice,
creando cioè opportunità di lavoro nei Paesi di provenienza, nonché dichiarando la
correlata necessità che il nostro Paese, in linea con le decisione Ue, incrementi la quota di
PIL dedicata a queste attività. Vedremo.
Ma, al di la della posizione italiana, in generale le Ong internazionali presenti al vertice
hanno emesso un comunicato congiunto molto critico su alcuni punti cruciali del
documento finale sottolineando come, in particolare, la proposta di un organismo
intergovernativo sotto egida Onu, auspicata tra l’altro anche dagli stati africani riuniti nel
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cosiddetto Gruppo del G77, non è passata; è stata, infatti, prevista una diversa modalità di
selezione per il comitato di esperti, che saranno indicati dai governi e nominati dal
Segretario generale dell’Onu. Una mediazione dalla quale si è di fatto dissociato il gruppo
del G77, che nello statement finale a cura del Sud Africa, ha richiamato il fatto che la
costituzione di un vero e proprio organismo intergovernativo in tema di cooperazione
rimane una questione aperta. La reazione complessiva delle organizzazioni della società
civile mette in evidenza anche la mancanza di progressi significativi in altre aree cruciali,
dai volumi di aiuto pubblico allo sviluppo, a nuovi meccanismi per affrontare le crisi del
debito e alla democratizzazione delle istituzioni finanziarie internazionali.
Al di la di queste critiche, che già gettano una ipoteca sulla volontà reale dei paesi più forti
di pareggiare le opportunità con quelli fornitori di materie prime, in particolare africani, nel
documento finale per la prima volta in questo tipo di accordo, viene nominata, accanto
all’onnipresente settore privato, una figura che sembrava relegata al passato, quasi
ottocentesca, quella cioè del «mecenate». Si legge infatti al punto 10 che: «I partenariati
multilaterali, le risorse, le conoscenze e il saper fare che possiedono il settore privato, la
società civile, la comunità scientifica ed universitaria, i mecenati, e le fondazioni avranno
una funzione importante, che consisterà nel mobilitare e scambiare conoscenze, risorse
tecniche e risorse finanziarie, per accompagnare l’azione dei Governi ed appoggiare così
la realizzazione degli obiettivi di sviluppo durevoli, particolarmente nei Paesi in via di
sviluppo».
Ora, se consideriamo che, secondo il Global Wealth Report 2014, del Credit Suisse, la più
attendibile ricerca del settore, la ricchezza dei privati a livello globale ha raggiunto nel
2013 la cifra di 263 mila miliardi di dollari, cioè più del doppio dei 117 mila miliardi del
2000, e che la concentrazione di queste ricchezze private, che sono per inciso di molto
superiori a quelli di tutti gli Stati e Governi messi insieme, vede nelle mani dell’1% della
popolazione ben il 41% di questa cifra, mentre un altro 10% ne detiene un restante 86%, e
soltanto l’1% è nelle mani della metà più povera del pianeta, ebbene appare chiaro come il
richiamo ai privati e alle loro Fondazioni, e ai mecenati, sia la vera novità di questa fase,
che incardina tutto l’impianto sviluppista nella compassione dei Rockerduck di turno,
ovviamente tutti molto interessati a determinare ulteriormente il modello di crescita
globale.
Non a caso il Papa ha voluto separare concettualmente crescita e sviluppo, individuando
nella malintesa centralità della quantità la fonte delle ineguaglianze. Un altro passo verso
la privatizzazione delle politiche estere, con gli Stati e Governi come garanti di questa
deriva? Il rischio è attuale e la vigilanza, specie da parte delle sinistre, deve essere
all’altezza di questa nuova sfida.
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INTERNI
del 23/07/15, pag. 2
Sindaci sfiduciati e da Sud «trivellano»
Matteo
Come Sara Biagiotti a Sesto Fiorentino salta anche Vantini nel
Veronese. E Molfetta è un caso
Ernesto Milanesi
Un doppio ko in Toscana in poco più di un mese. Altre diserzioni sparse per l’Italia. E ora
anche la «trivellazione» da Sud che bersaglia il governo.
Il Pd versione Matteo Renzi comincia ad assomigliare troppo alla «ditta» precedente.
Soprattutto in periferia, che però era la stessa dell’onda trionfale nelle Europee e del
riformismo nuovo, giovane e smart.
È recentissima la clamorosa bocciatura di Sara Biagiotti, sindaca ultra-renziana di Sesto
Fiorentino, prima donna presidente di Anci Toscana, coordinatrice nella campagna delle
primarie 2012. Sfiduciata da 20 consiglieri (8 Pd «ribelli», 4 Sel, 1 M5S, 2 Fi, 1 misto) con
appena cinque fedelissimi. Biagiotti al capolinea prima del termine naturale è davvero una
bruttissima notizia. Era una delletre primedonne di Matteo, all’inizio dell’avventura, con
Maria Elena Boschi e Simona Bonafè.
Fa il paio con il tonfo elettorale di Arezzo a metà giugno: Matteo Bracciali, 31enne,
prototipo non solo anagrafico del renzismo amministrativo: dal 2011 capogruppo Pd in
Comune, presidente nazionale dei Giovani Acli, battuto per 608 voti nel ballottaggio,
gettando alle ortiche un migliaio di voti rispetto al primo turno in cui aveva nove punti di
vantaggio…
Giubilato malamente anche un altra punta di diamante della «rottamazione locale». A San
Giovanni Lupatoto (Verona) il sindaco Federico Vantini — classe 1978, laurea in
architettura al Politecnico di Milano — aveva vinto le elezioni a giugno 2012, espugnando
un feudo leghista. Membro della direzione nazionale Pd, alle Europee aveva collezionato
41 mila preferenze in Veneto alle spalle di Alessandra Moretti e Flavio Zanonato. Ma è
decaduto: nove consiglieri si sono dimessi contemporaneamente, azzerando la
maggioranza di centrosinistra. E il quotidiano L’Arena ha connesso le polemiche politiche
con il blitz della Guardia di finanza nella società che commercializza il metano: irregolarità
amministrative per spese di rapprentanza, pubblicità e sponsorizzazioni.
Da Molfetta, invece, rimbalza un’altra voce di esplicito dissenso. Paola Natalicchio, eletta
sindaco due anni fa, venerdì scorso ha messo sul tavolo le dimissioni. Suonano come una
drastica presa di distanza dal Pd, che contratta poltrone e alleanze snaturando la
coalizione «dal basso» che aveva conquistato il municipio. E Natalicchio rincara la dose:
parla di «rappresaglia» del Pd; bolla il governatore Emiliano come «non abbastanza
incisivo»; evidenzia il caso Molfetta direttamente a Debora Serracchiani, vice di Renzi.
È già un bel ginepraio. Ma dal Sud si moltiplicano le prese di posizione contro il premiersegretario. In gioco, le trivelle a caccia di petrolio che mobilitano le piazze. Così perfino il
neo-governatore della Campania Vincenzo De Luca e il super-renziano Marcello Pittella in
Basilicata fanno rullare i tamburi di guerra. Il primo, ad Acerra, ha esplicitamente scandito
la sua contrarietà alle trivellazioni. L’altro si è «convertito» fino a partecipare il 15 luglio alla
manifestazione a Policoro al fianco del pugliese Emiliano e del calabrese Mario Oliverio.
Fischi e urla durante gli interventi dei tre governatori. Vincenzo Folino, deputato
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autosospeso e «civatiano» di Lucania, è più che pronto a sostenere il referendum
popolare.
Insomma, Renzi sembra aver perso il controllo. Ma conta sul reset della riforma
istituzionale per dribblare gli annunciati ricorsi alla Corte costituzionale sulle trivellazioni in
Adriatico. Né si preoccupa delle ricadute sui municipi della manovra fiscale.
Del 23/07/2015, pag. 12
De Luca resta governatore. “Un danno
sospenderlo”
CAMPANIA IL TRIBUNALE DÀ RAGIONE AL PRESIDENTE IN ATTESA CHE LA
CONSULTA SI PRONUNCI SULLA LEGGE SEVERINO
DARIO DEL PORTO
NAPOLI. Per il tribunale Vincenzo De Luca può continuare a guidare la Regione
Campania. Sulla legge Severino deve ancora esprimersi la Corte Costituzionale e, se
sospeso, il governatore subirebbe «un danno non riparabile né risarcibile ». Può dirsi
dunque concluso il braccio di ferro politico giudiziario iniziato dopo il successo dell’ex
sindaco di Salerno alle primarie del Pd, sceso in campo nonostante una condanna in
primo grado per abuso d’ufficio, ed esploso all’indomani delle elezioni del 31 maggio.
La prima sezione civile (presidente Umberto Antico, giudice a latere Raffaele Sdino,
relatore Anna Scognamiglio) ha sospeso l’efficacia del decreto adottato dal premier Matteo
Renzi (peraltro già congelato nei giorni scorsi con un provvedimento d’urgenza) e ha
inviato gli atti alla Consulta, che dovrà valutare la questione proposta dagli avvocati di De
Luca, Lorenzo Lentini, Antonio Brancaccio e Giuseppe Abbamonte. Il giudizio riprenderà
solo dopo la definizione delle questioni di legittimità costituzionale. Esulta De Luca, che
elogia «la grande sensibilità giuridica del collegio partenopeo. È una bella pagina di
giustizia a tutto merito della magistratura napoletana, cui rendo onore». L’avvocato Lentini
parla di «decisione che ripristina il circuito democratico in linea con la volontà degli
elettori». Secondo gli avvocati Oreste Agosto e Stefania Marchese, che hanno assistito il
Movimento 5 Stelle, invece «l’accoglimento provvisorio della domanda cautelare non
risolve in ogni caso le ragioni di tutela dell’Istituzione regionale». Ma ora il dibatitto sulla
legge Severino si sposta davanti alla Consulta. Anche Forza Italia, con il coordinatore
regionale Domenico De Siano, è soddisfatta: «Sono state confermate le nostre tesi
sull’uso strumentale fatto nei confronti di Berlusconi». La prima sezione civile sottopone al
vaglio della Corte quattro aspetti della normativa: innanzitutto, la disposizione che prevede
la sospensione dalla carica del presidente della Regione «a seguito di condanna non
definitiva », rilievo che viene giudicato «estremamente significativo» dall’avvocato Antonio
Brancaccio; poi, il passaggio che «non prevede la sospensione solo per sentenze di
condanna relative a reati consumati dopo l’entrata in vigore » della norma; quindi
l’applicazione retroattiva della legge; infine, la «evidente, palese e ingiustificata disparità di
trattamento» rilevata dai giudici laddove la norma non prevede per la sospensione dalle
cariche regionali in caso di condanna per abuso d’ufficio la soglia di pena superiore a due
anni fissata invece per i parlamentari nazionali ed europei. Su questo punto, il tribunale
sottolinea: «Non vi è ragione alcuna per trattare più severamente gli organi locali rispetto a
quelli nazionali, essendo semmai necessario il contrario, attesa la maggiore estensione
del mandato elettorale e avendo comunque anche gli organi regionali funzioni legislative ».
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Del 23/07/2015, pag. 12
Crocetta all’attacco “Niente dimissioni
Non mi interessa quel che dice Renzi”
Il Governatore: “Se vuole il Pd mi sfiduci” La Cassazione: la procura dia
chiarimenti
LA POLEMICA
EMANUELE LAURIA
PALERMO . Un memoriale di due pagine, interviste a radio, tv e siti web, un riferimento ad
attacchi omofobi («Si colpisce il presidente gay») e una sfida a Renzi: «Mi vuole far cadere
a settembre? Non me ne frega nulla». Non risparmia le esternazioni, il governatore
siciliano Rosario Crocetta, alla vigilia delle comunicazioni più attese: stamattina, nell’aula
dell’Assemblea regionale, Crocetta riferirà sul caso Tutino, esploso con la pubblicazione
delle intercettazioni sull’ambiguo ruolo del chirurgo plastico e di altri componenti del
cosiddetto “cerchio magico” del presidente sulla Sanità dell’Isola. Esploso, soprattutto, con
le dimissioni di Lucia Borsellino, che se n’è andata denunciando “il coacervo di interessi”
che l’hanno condizionato, e con l’intercettazione – smentita da diverse procure – di una
frase che il medico Matteo Tutino, oggi agli arresti domicialiari per truffa, abuso e falso,
avrebbe detto allo stesso Crocetta: «La Borsellino deve saltare come suo padre».
Il governatore, in un drammatico crescendo, continua a escludere categoricamente le
dimissioni e dice che «la montagna di menzogne» si ritorcerà contro i suoi «carnefici».
Rivelando che, dopo la pubblicazione dell’intercettazione da parte dell’Espresso, aveva
pensato di suicidarsi. «Avevo trovato su Internet un modo veloce e sicuro per farlo visto
che non possiedo armi dice Crocetta a Radio 24- . Se non fosse intervenuta la smentita di
Lo Voi, un procuratore che si batte per la verità, uno apolitico ,sarei un uomo morto,
infangato e forse tra qualche anno si sarebbe scoperto che avevano assassinato un
innocente ». Crocetta chiede una commissione d’inchiesta sul caso e fa una difesa totale
del suo operato nella Sanità, negando di essere stato influenzato nelle scelte politiche da
Tutino e dagli altri componenti della sua cerchia di fedelissimi.
Ma per il Pd, soprattutto dopo le parole della Borsellino, restano “le ombre inquietanti” di
cui ha parlato il responsabile Sanità Federico Gelli. E le bocche sono cucite in attesa
proprio delle comunicazioni di Crocetta, cui seguirà un summit al Nazareno. Di certo,
prima dell’intervento all’Ars, il presidente non abbozza ma anzi rilancia la sfida al suo
partito: «Renzi parla di exit strategy e di una mia uscita a settembre? Non me ne frega
niente, non lascio per accuse inconsistenti. Gli attuali esponenti del Pd non mi pare che
proposero la sfiducia di Cuffaro (l’ex governatore in carcere per mafia, ndr). Anzi, ricordo
che quando si presentò per dimettersi qualcuno di loro si mise a piangere. Quando uno
viene infamato senza motivo- dice il presidente - i partiti di solito danno la loro solidarietà.
In questa vicenda ho avuto attacchi dal fuoco amico e solidarietà da chi è considerato mio
nemico». E ancora: «Resto nel Pd, fino a prova contraria. Se non mi vogliono mi devono
espellere. Ma per statuto si può espellere solo un condannato, non sono un criminale solo
perché lo dice un giornale». Parole che, fra i dem, vengono lette come la minaccia di un
“governo del presidente”, con maggioranze variabili, cementato dalla scarsa voglia dei
deputati siciliani di votare una sfiducia a Crocetta e andare tutti a casa. In questo senso
andrebbe la scelta del presidente di rafforzare il Megafono, la sua creatura politica, e la
possibile sostituzione dell’assessore dimissionario Linda Vancheri con un fedelissimo,
Antonio Fiumefreddo. L’affaire politico che sta arroventando l’estate palermitana vivrà oggi
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un altro momento caldo. Nella vicenda è intervenuto ieri il procuratore generale della
Cassazione Pasquale Ciccolo, che ha chiesto informazioni al pg di Palermo, Roberto
Scarpinato, sulla presunta intercettazione del dialogo fra Crocetta e Tutino. Ciccolo è
titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati. La richiesta di una relazione al
collega del capoluogo siciliano rientrerebbe nella normale prassi seguita in vicende
analoghe. È slittata a martedì, invece, la decisione del comitato di presidenza del Csm,
sulla richiesta del laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin, di aprire una pratica sul caso.
Del 23/07/2015, pag. 14
La corsa Nella coalizione che sostiene l’attuale sindaco la corsa per la
candidatura è partita con un anno di anticipo. Il nodo delle primarie.
Spuntano i nomi di De Bortoli e Sala. Il primo cittadino: “Il premier qui
non può e non vuole perdere”
La grande lotteria del centrosinistra per il
dopo Pisapia e la guida di Milano
CARLO VERDELLI
MILANO
MENTRE grandina sulle giunte variamente rosse di Roma e Sicilia, nella Milano del lungo
addio di Giuliano Pisapia è tornata la pace. Durerà, se durerà, lo spazio di un’estate.
Comunque, dopo una settimana di fuoco non solo meteorologico, l’emergenza sembra
rientrata. L’uomo forte della giunta, la signora Ada Lucia De Cesaris, che si era dimessa
con grande sconquasso per una questione ai più indecifrabile come l’area cani di un
quartiere periferico, è stata prestamente sostituita sia come vicesindaco (con la conciliante
e beneamata Francesca Balzani,valente velista e accorto assessore al Bilancio) sia come
responsabile dell’Urbanistica (con il professor Alessandro Balducci, prorettore del
Politecnico e già collaboratore della giunta Moratti). E poi è stata frenata la foga
intempestiva di iscritti alla primarie: già tre candidati ufficiali del Pd, più altri cinque o sei
cognomi di peso che hanno dichiarato di “non escluderlo”, che è molto diverso dal dire “no
grazie”; più una carta segreta, forse segreta anche all’interessato, che però potrebbe far
saltare il banco dei tanti, troppi, volonterosi pretendenti.
Comunque, essendo che le famose e per qualcuno famigerate primarie non si terranno
prima del gennaio 2016 e calcolando che le elezioni saranno il maggio successivo, cioè tra
10 mesi, nei vari palazzi dell’arcobaleno meneghino (Pd, Sel, movimenti civici) si è deciso
di fischiare la fine della ricreazione: basta coi rodei, niente fiere della vanità, non
facciamoci confondere con il pasticciaccio di Roma, noi che non abbiamo preso neanche
un avviso di garanzia. Silenzio e buone vacanze a tutti.
Resta il fatto che se Pisapia, a fine marzo, aveva deciso di annunciare che non si sarebbe
ricandidato proprio per ricompattare una maggioranza che sentiva tentata dai
personalismi, e poi perché, via dalla scena lui, il timore di perdere le elezioni avrebbe,
sempre secondo i suoi calcoli, rinsaldato il fronte, ecco, a guardare la scena oggi,
l’auspicio sembra rimasto tale. A Milano è in corso, ancorché momentaneamente in pausa,
una battaglia di posizione che prescinde da chi sarà l’avversario del centrodestra. Sarà
una volata lunga e tutta interna allo schieramento di chi deve difendere il bastione
conquistato nel 2011, volata dove non mancheranno sorprese, gomiti alti e sgambetti.
Qualcosa s’è già intravisto. «Renzi non può perdere Milano, e lo sa benissimo visto come
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si sono messe le cose nel Nord dopo le ultime Regionali. E siccome, pur non venendo
dalle sue stesse esperienze, mi affascina la sua vena di divertente follia, credo che si
inventerà qualcosa per scongiurare il rischio». Ada Lucia De Cesaris, figlia del
democristiano ex presidente delle Ferrovie Benedetto De Cesaris, “Ada” o “vice” nei
messaggini che per quattro anni ha ricevuto dal suo sindaco, di cui è stata seconda vela,
“spiccia faccende”, spalla infaticabile, aspra ma leale fino all’ultimo secondo («e anche
adesso: se mi chiedesse di buttarmi, lo farei, vengo dal centralismo democratico, lui è il
mio capo per sempre »), dice che da due giorni sta pensando di tornare al mestiere di
prima, avvocato amministrativo. Dice anche di essere fiera delle sue dimissioni, che ha
riportato a casa la sua integrità, che è assolutamente serena, anche se a vederla non lo
sembra poi così tanto. La consolano le migliaia di messaggi di solidarietà ricevuti su
Facebook e via mail (Cino Zucchi, architetto: «Non posso pensare alla mia città senza di
te»), trova divertente il “bella ciao” con cui la Lega l’ha salutata in consiglio comunale, un
po’ meno il fatto che il suo capo Giuliano non l’abbia trattenuta. «Per lui tutti devono
andare d’accordo. La mia uscita, visto che risulto un po’ ingombrante, gli toglie conflitti ».
Perdoni, ma dimettersi per una delibera da 20 mila euro su un’area cani nel parco
Trapezio del quartiere Santa Giulia sembra obiettivamente un colpo di testa o di caldo.
«Santa Giulia, che la destra aveva ridotto a una landa abbandonata e pure sotto
sequestro, è stata la prima inaugurazione della giunta Pisapia. E’ un pezzo di città rinata.
Per noi, per me, ha un valore simbolico e di principio. E su tutto si tratta, tranne che sui
principi. La verità è che mi hanno fatto un’imbosca- ta e la mia maggioranza mi ha votato
contro. Quando Pisapia ha annunciato il passo indietro, o a lato, gliel’avevo detto: stai
abbandonando la città, e anche me. Ho passato sei mesi sulla graticola. Se restavo, mi
sfracellavano». E ora che è fuori, rientrerà in partita? Sbuffa . «Renzi non può perdere
Milano. Se avrà la genialità di andare oltre le ruggini personali, ha l’uomo giusto a cui
rivolgersi: Ferruccio De Bortoli, qui, vince a mani basse».
La carta coperta, posto che l’ex direttore del Corriere della Sera mostri un’ombra di
disponibilità e il premier sia così indulgente e astuto da porgere l’altra guancia dopo le
critiche a schiaffo ricevute da quello che dovrebbe rappresentarlo nella sfida locale più
importante del 2016, è comunque sotto un discreto mazzetto di carte già girate o lì lì per
essere spillate. Per esempio, spilla Ivan Scalfarotto, sottosegretario Pd e attivista per i
diritti civili. «Dopo l’uscita di Lupi, sono l’unico milanese al governo», dice. “Residente”
sarebbe più preciso, visto che è nato a Pescara, è stato consigliere comunale a Foggia e
coordinatore del Pd pugliese, oltre che manager nella City londinese: milanese acquisito,
ecco, niente di male. Spilla e commissiona qualche sondaggio anche Umberto Ambrosoli,
figlio di un eroe borghese e milanese come Giorgio Ambrosoli, attualmente capo
dell’opposizione in Regione: ha dalla sua riconosciute qualità etiche, culturali, umane ma il
neo non trascurabile di aver perso la battaglia contro una Lega, quella di Maroni, che
veniva dai tracolli morali del dopo Bossi. Anche Stefano Boeri, protagonista con Pisapia e
Onida delle primarie record (65 mila votanti) del 2010, pur allontanato dall’attuale giunta
due anni fa “in modo spiacevole”, ha continuato a vivere il Pd ed è tra quelli che “non lo
escludo”. Nel frattempo ha ripreso a pieno ritmo a fare l’architetto, con il suo Bosco
verticale, il grattacielo dietro la stazione Garibaldi, ha vinto premi mondiali, ha appena
aperto una sede in Cina. «Sono seriamente combattuto, anche perché ci sarebbe molto da
fare. Milano diventerà una città metropolitana, ha bisogno di un sindaco come a Londra,
Parigi o Barcellona, una persona che conosca le lingue, che sia ambasciatore
internazionale e in più che regga il collasso post Expo, che ci sarà e non sarà facile da
dipanare. Non so se le candidature in gioco finora siano le più adatte».
Tra chi è già in gioco, Roberto Caputo, Pd, carriera politica locale, un noir “Obiettivo Expo”
non transitato tra i bestseller; Emanuele Fiano, ancora Pd ma con incarichi nazionali,
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unico superstite di una famiglia azzerata dal nazismo, 52 anni, già presidente della
comunità ebraica di Milano, ex veltroniano passato con Franceschini e quindi con Renzi,
solido e ragionevole, inizio di campagna pre-elettorale puntato sulla sicurezza, in modo da
togliere una freccia dall’arco della destra (un sondaggio prematurissimo lo darebbe
vincente contro Salvini, peccato che Salvini non commetterà l’errore di correre da
sindaco). Ultimo ma non ultimo, Piefrancesco Majorino, assessore alle politiche sociali,
uno che si è iscritto agli allora giovani del Pci quando aveva 14 anni e che adesso, a 42,
dovesse mai vincere (ed è uno che, per l’eccellenza raggiunta da Milano nell’assistenza
agli ultimi, qualche carta ce l’ha), diventerebbe il più giovane sindaco della capitale del
Nord, secondo solo a Tognoli che ci riuscì a 38 anni. Di lui si è parlato, l’ha scritto Roberto
Rho su Repubblica, come la possibile ala sinistra di un ticket con Giuseppe Sala, il
manager avvezzo al mondo e attuale sindaco di Expo. Majorino non lo esclude a priori, ma
mette una condizione: «Sala mi deve prima battere alle primarie. Poi, perché no,
parliamone». Ma le primarie sono proprio una delle cose che non commuovono Sala, e
neanche Renzi . Inoltre ci sarebbe il problema dei biglietti venduti: molta sinistra
rimprovera al commissario straordinario una gestione non trasparente delle cifre. «Non c’è
nessun mistero. Puntiamo a 20 milioni di ingressi, poi ci sono tante variabili, magari
arriviamo a 18, dov’è il dramma? ». Nessun dramma. Si candida? «Vorrei continuare a
fare qualcosa di utile al Paese, darò anche la mia disponibilità direttamente al premier.
Certo, la Milano che verrà sarà più larga, ci saranno problemi urgenti di servizi e mobilità
da affrontare. Io me la sentirei, ho l’esperienza per questi processi. Ma è la vicenda delle
consultazioni preventive nella coalizione che fatico a capire, così come il comitato degli 11
saggi, rispettabilissimi, da Gad Lerner a don Rigoldi, che deve stabilire le regole per
candidarsi. Mi chiedo: dobbiamo vincere o essere i più bravi nelle regole? Certo, un ticket
con Majorino mi interesserebbe, mi garantirebbe dove sono più debole e viceversa…». Ma
è un po’ combattuto. «Spaventato, direi. E poi queste liti nel centro sinistra: è musica che
la gente non vuole più sentire. Servono, fatti, piani, progetti realizzabili, visioni ed
esecuzione».
Il più tranquillo in questo maremoto annunciato è proprio Giuliano Pisapia, l’uomo che l’ha
sollevato. «Pentito? Ma no. Abbiamo soltanto superato un momento difficile. Certo, certe
candidature avrei preferito che arrivassero un po’ dopo. Come mai mi sarei aspettato la
decisione di Ada, il mio vice, tra le persone più capaci in assoluto che conosca. Carattere
dirompente ma ampiamente compensato da una dedizione al lavoro unica, nelle zone,
nelle assemblee più dure, anche la sera tardi. Lei candidato sindaco dopo di me? Sarebbe
stato giusto per la continuità». Sarebbe stato. Paura di perdere a maggio 2016? «Vista da
oggi, la destra mi sembra messa peggio di noi. Con Passera in campo si andrà al
ballottaggio. Molto dipende dal senso di unità che riusciremo a dare, ci siamo anche sentiti
con Renzi sul tema. Ne riparleremo ». Quanto a unità, non parrebbe che la partenza sia
così incoraggiante. «Beh, sicuramente ci vuole un nome che unisca, rispettabile e
rispettato». Dopo i ripetuti scontri con il premier, l’idea di Ferruccio de Bortoli la ritiene
praticabile? «Il presidente del Consiglio non può né vuole perdere Milano». Il dodicesimo
sindaco della città, sorridendo, si sistema il ciuffo.
Del 23/07/2015, pag. 16
La minoranza insorge “No a regole da Soviet”
Il premier vuole la stretta
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D’Alema: “Le tasse si riducono partendo dai poveri Verdini?Attorno al
Pd un mondo che fa riflettere”
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA. Alla fine, dicono gli ottimisti, Renzi non darà seguito al nuovo regolamento
disciplinare contro i dissidenti del Pd. «Il codice penale» lo definisce Nico Stumpo, «uno
strumento degno di Grillo» secondo Alfredo D’Attorre che rimanda alle espulsioni dei
5stelle, «una roba sovietica» dice l’altro bersaniano Davide Zoggia. Il capogruppo del Pd
alla Camera Ettore Rosato non cerca lo scontro ma non si sottrae. E conferma: lo Statuto
del gruppo parlamentare cambierà, «ci vogliono delle regole per stare insieme», non
succederà più che alcuni deputati non votino la fiducia senza che succeda alcunchè. Si
rifà a un precedente illustre, Rosato: «Ai tempi della legge Mammì, Mattarella si dimise dal
governo e poi voto la fiducia al nuovo governo Andreotti». Così si sta nel Pd. Oppure non
si sta nel Pd. La terza via non esiste. «Ho paura che qualcuno cerchi solo un pretesto per
rompere», aggiunge soffiando sul fuoco. Il conflitto è rimandato a settembre. Ma il premier
e Rosato, a dispetto delle critiche, non vogliono fare dietrofront. Si arriverà al giro di vite
che prevede anche l’arma estrema dell’espulsione. Il capogruppo costituirà nei prossimi
giorni un comitato di 10 deputati per stilare una bozza di Statuto. Saranno presenti i
renziani e le varie minoranze. Dopo la pausa estiva, il testo verrà discusso da tutto il
gruppo e infine, emendato e sviluppato, messo in votazione. Renzi pensa di aver fatto
tutto il possibile per venire incontro alla sinistra Pd. Come? Rimandando all’autunno il voto
sulla riforma costituzionale aprendo così a modifiche, confermando tutti i presidenti di
commissione par-lamentari ribelli, compresi quelli che non hanno votato la fiducia
(Epifani). Gesti distensivi, segnali di una volontà di tenere unito il partito. «Chi non li vuole
cogliere pensa a prospettive politiche diverse», osserva Rosato. Ma la minoranza su
questo punto sembra piuttosto incavolata. Roberto Speranza ha riunito senatori e deputati
della sua corrente. Si sono sentite parole pesanti, accuse forti a Renzi. «Proprio lui che ha
manovrato i suoi per non far votare Marini alla presidenza della Repubblica...». Stumpo,
esperto di regole e statuti, sentenzia: «Stiamo parlando di un comitato e di una bozza che
ancora non ci sono. Ma dev’essere chiaro: tocca al segretario cercare un modo per stare
insieme. Quello che ho sentito all’assemblea del Pd è un leader che parla solo alla sua
fazione. Speriamo che cambi rotta ». Sta montando una reazione furiosa sulla stretta
disciplinare. Massimo D’Alema resta in disparte: «Essendo fuori dal Parlamento,
fortunatamente posso non occuparmene». Preferisce commentare altro: «Sulle tasse
bisogna cominciare dai più poveri. Verdini in maggioranza? Confluisce attorno al Pd un
mondo che fa riflettere e che dovrebbe essere all’opposizione». E proprio oggi a Roma
Denis Verdini e Silvio Berlusconi a pranzo si vedono per la resa dei conti. Dopo le uscite di
Fassina e Civati, la questione disciplinare rischia di alimentare di nuovo le voci di
scissione. «Siamo al Partito sovietico, a Roma. Perché poi a livello locale c’è un’anarchia
totale, mai vista prima», dice Zoggia. «Persino il modo in cui il capogruppo Rosato ha
gestito l’assemblea, con una sorta di ramanzina, quasi che la riconferma dei nostri
esponenti in commissione fosse una concessione o uno scambio, ha dell’incredibile ».
Nella riunione con Speranza, molti hanno ricordato la vicenda Marini, altri hanno chiesto di
consultare gli iscrittii, altri hanno denunciato un clima invivibile nel Pd, dunque mettendosi
con un piede fuori. «Per il momento non se ne va nessuno », precisa D’Attorre. Per il
momento. «Basta con la storia di Marini, è una strumentalizzazione - ribatte Rosato - .
Furono gli emiliani di Bersani a non votarlo ».
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Del 23/07/2015, pag. 1-2
La verità sul patto tra neofascisti e servizi
deviati
PIERO COLAPRICO
MILANO. Qualcuno dunque è stato. Oppure: qualcuno dunque è Stato, con la S
maiuscola. Quarantuno anni dopo, le mani che piazzarono la bomba a piazza della Loggia
a Brescia sono visibili, in mostra davanti a tutti. Mani «nere», mani da ergastolo.
Lo stabilisce, per la prima volta, una sentenza. Ed è una sentenza, quella di ieri a Milano,
davanti alla seconda corte d’assise d’appello presieduta da Anna Conforti, che potrebbe,
con il tempo, diventare storica.
Sin da subito, sin dagli anni Settanta, chi cerca la verità sulle stragi s’imbatte in vari nemici
non dichiarati ufficialmente, dall’oscurità dei servizi segreti (allora Sid) alla complessità
delle trame sovranazionali. Ma dopo tante assoluzioni, dopo lacrime e contestazioni, dopo
l’arroganza che non pochi imputati hanno esibito, ieri la parola «colpevole» viene
pronunciata in un’aula di giustizia ed è un inedito nell’Italia spesso senza sanzioni su
quanto riguarda la strategia della tensione, aperta ufficialmente con la valigetta al plastico
che scoppiò a Milano, nella Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a duecento metri dal
Duomo, il 12 dicembre. Si obietterà che a vedersi precipitare nell’ergastolo, nel «fine pena
mai», non sono i protagonisti principali di quell’epoca lontana e insanguinata. Eppure i
condannati non sono due comparse. Sono anzi «riassunti » concretamente umani di alcuni
di quei mondi impazziti che si scontrarono seminando vittime spesso innocenti.
Uno è Maurizio Tramonte, 64 anni, «fonte Tritone» per l’ufficio Affari Riservati, al quale,
nipote di un poliziotto, collaborava come informatore retribuito sin da giovanissimo. È
accusato di aver partecipato alle riunioni organizzative della Strage. Sapeva, spiava, ha
taciuto. L’altro è il medico neonafascista Carlo Maria Maggi, ai tempi una sorte di
proconsole al Nord di Pino Rauti, il fondatore di Ordine Nuovo, gruppo messo fuori legge
nel 1973. A ottantun’anni, malato, ma non tanto da ottenere ancora sospensioni del
processo, Maggi rappresenta l’ingranaggio principale della catena di comando che porterà
la gelignite da una trattoria a due passi da piazza San Marco sino a Brescia. Dopo il
sangue versato, esortava i camerati: «Brescia non può restare un fatto isolato».
Era il 28 maggio del 1974. Metà mattina, dodici minuti dopo le 10, Cgil Cisl e Uil avevano
organizzato a Brescia una manifestazione contro «il rinascere della violenza fascista».
Pioveva in piazza della Loggia e aveva preso la parola il sindacalista Franco Castrezzati
quando un cestino dei rifiuti si trasformò in un cannone micidiale.
Le indagini andarono sin da subito nella direzione giusta, la destra eversiva. Ma sin da
subito anche i depistaggi, una costante del periodo, funzionarono perfettamente: per far
sparire indizi e testimoni. Per questo ci sono voluti decenni di calvario per vittime e
familiari. Per questo è servita l’astuzia investigativa dell’allora giudice istruttore Guido
Salvini, il quale indagando su piazza Fontana riuscì a disseppellire «fonti» d’informazioni
preziose e inedite (come Carlo Digilio); e c’è stato bisogno della caparbietà di Maria
Grazia Pradella e molti colleghi, come Spataro, e i bresciani Di Martino e Piantoni; tutti
magistrati, a dispetto di visioni diverse, che non hanno mai mollato. Dai silenzi ai
depistaggi,quattro decenni di assoluzioni. Così i magistrati di Milano sono riusciti per la
prima volta a provare le responsabilità degli autori della strage
Ma, una volta enucleata «la storia», e la veridicità della storia, c’è voluto un sentiero
processuale tortuoso per trasformarla in sentenza. La corte d’assise d’appello di Brescia
sugli stessi fatti e con gli stessi elementi di prova dopo 167 udienze aveva assolto tutti, ma
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la Cassazione aveva stracciato quell’insufficienza di prove ritenendola «caratterizzata da
valutazione parcellizzata e atomistica degli indizi». Così la prima udienza del nuovo
processo s’è tenuta qui a Milano, il 26 maggio. E al ritmo di quattro udienze a settimana,
s’è arrivati al «ribaltone»: questo processo, che Maggi aveva tentato di snobbare come
«bolla di sapone», è invece diventato la sua palla di piombo. Certo, altri protagonisti della
stagione infernale sono usciti di scena, come Delfo Zorzi, il nazista della provincia veneta
diventato Hagen Roi in Giappone. Ma un fatto da ieri esiste: l’amara cantilena delle stragi
italiane, il «non ci sono prove », subisce un importante reset in un paese che non ha una
memoria storica condivisa. Difficile, da ieri, far finta di niente rispetto al tentativo che, sotto
lo scudo del cardinal Carlo Maria Martini, i gesuiti milanesi e alcuni criminologi portano
avanti per aprire un dialogo di verità tra il mondo dei terroristi e quello delle vittime. E non
sembra un caso, a proposito, che mentre brigatisti e «rossi» abbiano cominciato a
rileggere e rimasticare gli anni di piombo, da destra pochissime voci si sono levate verso
una riconciliazione: troppi misteri, troppi segreti. E troppi «patti del diavolo», vigenti ancora
oggi.
Del 23/07/2015, pag. 5
“Militari come gli 007” ma è scontro sulla
legge per i poteri speciali
Missioni all’estero, emendamento del renziano Latorre al ddl Casson
pronto a dare battaglia: “Sarebbe anticostituzionale”
LIANA MILELLA
ROMA . Dieci righe per dare al presidente del Consiglio, Matteo Renzi in questo momento,
il potere eccezionale di trasformare in 007 chi fa parte dei reparti speciali delle forze
armate, con tanto di segreto di Stato garantito e potere di non rispondere di eventuali
crimini commessi. Dieci righe firmate dal senatore pugliese Pd Nicola Latorre,
notoriamente renziano. Che lui difende strenuamente. Ma che oggi, durante la riunione del
Copasir, il Comitato di controllo sui servizi segreti, il segretario Dem Felice Casson si
prepara ad attaccare. «Ho letto il testo e intravedo seri rischi di costituzionalità. Esporrò i
miei dubbi al sottosegretario Minniti». Replica Latorre: «Dubbi infondati. Qui si dà solo la
possibilità agli 007 di usare i reparti speciali, ma ciò non configura affatto la nascita di una
struttura parallela». Un Pd contro l’altro. E su una materia, quella degli agenti segreti e
delle coperture di cui godono, che da sempre suscita preoccupazioni. Partiamo
dall’emendamento Latorre allora, il numero 18.0.1, che aggiunge un paragrafo all’articolo
18 del ddl Cirielli sulle missioni internazionali all’estero. Dopo il via libera della Camera
adesso ha ottenuto anche quello della commissione Difesa del Senato. Compresa la
norma Latorre, votata da tutti, con l’astensione di M5S. Leggiamo insieme, perché in
quelle righe c’è da un lato la ragione di Latorre e dall’altro la contrarietà di Casson, l’ex
giudice istruttore di Venezia considerato da sempre un esperto in materia di servizi segreti.
Dice il testo: «Il presidente del Consiglio dei ministri emana, sentito il Copasir (inciso
proposto da M5S e accolto, ndr. ), disposizioni per l’adozione di misure di intelligence di
contrasto, anche in situazioni di crisi o di emergenza all’estero che coinvolgano aspetti di
sicurezza nazionale o per la protezione di cittadini italiani all’estero, con la cooperazione
altresì di assetti della difesa». Spiega Latorre: «Si consente l’utilizzo dei reparti speciali
delle forze armate in operazioni di intelligence finalizzate a tutelare la sicurezza nazionale
e quella di nostri connazionali in grave difficoltà». Che tipo di utilizzo? «Per operazioni
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specifiche». Si rischia una struttura di 007 paralleli? «No, sarebbe una follia». Rivivono i
vecchi Sios aboliti dalla riforma dei servizi del 2007? «Neanche per l’anticamera del
cervello». Quindi che super poteri avrà il premier? «In casi specifici, un sequestro di
persona, la notizia di un attentato, una grave minaccia alla nostra sicurezza, potrà
autorizzare i reparti speciali ad eseguire missioni di intelligence. Dopo la missione i reparti
rientrano nei ranghi». Ma non bastano gli attuali 007? «No, perché servono quantità
numeriche e capacità operative che i servizi non hanno». Tutto in regola? Casson non la
pensa affatto così. E oggi metterà in fila le sue numerose perplessità di fronte al
sottosegretario con delega ai servizi Marco Minniti. A partire da due avverbi - «anche» e
«altresì» - contenuti in quelle prime righe dell’emendamento Latorre che acuirebbero la
sua «pericolosità». Dice Casson: «Le due parole cambiano tutto. Perché “anche” vuol dire
che questi nuovi 007 potranno essere utilizzati non solo in casi di crisi, ma tutte le volte
che il premier lo ritenga necessario. “Altresì” invece darebbe la possibilità di dare la
qualifica di agente segreto anche a strutture che non sono dell’esercito». Che rischi vede?
«Quello di creare un sistema di intelligence parallelo, non meglio individuato, e soprattutto
con le coperture che, in via del tutto eccezionale, la legge del 2007 ha riconosciuto agli
agenti dei servizi segreti. Parliamo delle garanzie funzionali, della clausola di non punibilità
per gli eventuali reati commessi durante una missione, della possibilità di opporre il
segreto di Stato alle indagini della magistratura». Quale sarebbe l’anomalia visto che già i
servizi godono di questi privilegi? Risponde Casson: «La differenza è enorme. La legge
sui servizi del 2007, che è costata mesi e mesi di discussioni, dice che le funzioni di Dis,
Aisi e Aise “non possono essere svolte da nessun altro ente, organismo o ufficio”. Si
trattava dunque di un potere eccezionale concesso a un numero ben individuato e limitato
di agenti, in quanto si tratta di un potere eccezionale. Qui invece siamo di fronte a
un’estensione chiaramente incostituzionale». Né, a convincere Casson, bastano le
argomentazioni di Latorre sul rischio di attentati e sequestri all’estero. L’ex magistrato
chiede che l’emendamento sia riscritto. Via gli «anche» e gli «altresì», e tutto quello che
può consentire di dare a chiunque la qualifica di 007 per qualsiasi missione. Latorre replica
secco: «Il caso non esiste. Tant’è che hanno votato tutti a favore».
Del 23/07/2015, pag. 26
LE TASSE E LA SINISTRA
NADIA URBINATI
SI DICEVA anni fa, “non lasciamo la patria alla destra”. La competizione tra destra e
sinistra riguardava allora la visione di comunità politica. In quel caso, la sinistra
democratica sviluppò, grazie anche alla lungimiranza di intellettuali visionari come Jürgen
Habarmas, l’idea di “patriottismo costituzionale”. La patria non era una comunità identitaria
che escludeva e discriminava, ma una comunità politica di condivisione di diritti eguali e di
dignità. Si trattò di una grande competizione, che liberò la sinistra dalle maglie strette della
classe e la legittimò a governare la società liberale. Oggi lo stesso discorso sembra
doversi fare sulla questione delle tasse. Si dice, “non lasciamo la battaglia per meno tasse
alla destra”. Ovviamente la destra della lotta alle tasse non è quella comunitaria che
voleva monopolizzare la patria. È invece quella che mette al centro l’individuo in funzione
anti-sociale. Competere con una destra iper-liberale non è lo stesso che competere con
una destra comunitaria e nazionalista.
Dalla fine degli anni ’70 la rinascita neoliberale o liberista è avvenuta sul terreno della
contestazione della spesa sociale e quindi nel nome di “meno stato più mercato” — la
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premessa per giustificare il taglio delle tasse. La filosofia di Margaret Thatcher fu in questo
rivoluzionaria e occupò il Palazzo d’Inverno per mettere in pratica il suo programma
organico di smantellamento del welfare state: deregolamentando e privatizzando. La
ridefinizione del pubblico fu tutt’uno con la politica di taglio delle tasse. Alla base di quella
riscossa vi era una ridefinizione generale degli obblighi che gli individui riconoscono gli uni
agli altri; vi era una filosofia dell’individuo che considerava gli altri o come ostacoli o come
agenti competitivi e la società come un’astrazione, se identificata con qualcosa di più di
un’aggregazione di egoisti competitori votati al massimo profitto con il minimo sforzo.
Dicendo che non esiste la società ma esistono solo gli individui, la Iron Lady intendeva
dire che nessuno ha obblighi verso gli altri mentre tutti hanno solo diritti e, in relazioni a
questi, obblighi legali. Al centro vi era il diritto al perseguimento della felicità individuale e
quindi alla conquista dei mezzi materiali per la realizzazione dei propri piani di vita.
Il liberalismo economico aveva una radicale connotazione individualistica, e questo lo
rendeva forte nell’affermazione dei diritti civili, nella convinzione che questi avrebbero
sgretolato la cultura autoritaria e paternalista ed espanso l’orizzonte di possibilità per il
singolo. Non tutto quel che il liberalismo economico proponeva era dunque negativo. Nella
mezza verità liberista c’era un granello di verità, quello del valore propulsivo dei diritti
individuali. Fu del resto questa sua interna complessità a rendere il discorso liberista
egemonico, capace di conquistare consensi anche a sinistra. La quale, nell’era liberista,
ha dovuto rivedere parte del suo armamentario ideologico per riuscire a contestare la
destra sul terreno della redistribuzione e della giustizia sociale, accogliendo invece il
messaggio liberatorio e liberante dei diritti, soprattutto nella sfera della morale soggettiva e
dei comportamenti individuali. Si trattava quindi non di rifiutare l’individualismo, ma di
interpretarlo in modo da separare la questione morale e giuridica dei diritti da quella
sociale delle opportunità o di giustizia redistributiva.
Non lasciare la questione della diminuzione della pressione fiscale alla destra deve essere
inscritto in questa prospettiva — senza sposare l’individualismo egoistico ma interpretando
l’individualismo in chiave democratica, come ricettivo rispetto agli altri, cooperatore e
disposto a condividere costi e benefici in cambio di solidarietà sociale e contenimento del
conflitto. A questa visione emancipatrice dell’individualismo corrisponde una visione di
eguaglianza che è proporzionale, e quindi progressiva: a questa visione la politica fiscale
dovrebbe essere connessa, come del resto propone la nostra Costituzione. Una visione
che respinge la logica liberista della flat tax la quale tratta tutti indistintamente come
identici, e che è attenta alle condizioni delle singole persone, per cui chi più ha più contribuisce, non tanto o soltanto perché questo è quanto l’etica della solidarietà chiede, ma
anche perché chi più ha da perdere chiede anche più in termini di protezione dei diritti alla
società e allo Stato. Progressività e proporzionalità sono le coordinate di una politica
redistributiva che riesce a tagliare le tasse proprio perché vuole fare giustizia della
pressione sproporzionata e ingiusta. Non tutte le prime case sono eguali nel valore e negli
oneri che impongono alla società — trattarle come identiche è una semplificazione molto
ingiusta. La politica fiscale è quindi una straordinaria opportunità per marcare il territorio
ideologico tra destra e sinistra, tra un individualismo radicale che racconta la favola del
trickle down (detassiamo chi più ha affinché investa e porti giovamento a chi meno ha) e
un individualismo che ha invece un profondo rispetto per la specificità delle persone, di
quel che hanno e producono, che sa essere proporzionale nel valutare obblighi e oneri,
che insomma pensa alla società come a un coordinamento di diversi, una grande impresa
cooperativa nella quale gli individui non sono identici benché eguali nei diritti.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 23/07/15, pag. 5 (Roma)
Scioglimento, la terza via della Bindi
La presidente della commissione Antimafia chiede un decreto «per
trattare il caso di Roma»
Niente scioglimento per mafia, ma neppure un «non scioglimento». Semmai,.una forma di
«tutoraggio» da parte dello Stato che «non primi i cittadini del governo della loro città» ma
che «accompagni le amministrazioni, con scelte governative, fino a che non viene
ripristinata la legalità». È la mossa di Rosy Bindi, presidente della commissione Antimafia
per risolvere il «caso Roma» e superare le discrepanze tra le due relazioni prefettizie:
quella dei tecnici nominati da Giuseppe Pecoraro (molto dura, conclusioni: scioglimento) e
quella di Franco Gabrielli (molto dura anche questa, conclusioni: non scioglimento). Per
vicende come questa, quando cioè si tratta di un Comune molto grande che può essere
infiltrato parzialmente dalla mafia (che, come dimostra l’inchiesta della Procura, ha
interessi soprattutto su sociale, urbanistica, lavori pubblici, ambiente), secondo la
presidente Bindi «serve una norma ad hoc da parte del governo, sotto forma di decreto
legge» che dia il via libera ad una forma di «tutoraggio da parte dello Stato». In questo
modo, ha spiegato l’ex ministro della Salute durante le sue «comunicazioni» alla
commissione ieri sera, «non si privano i cittadini di una guida politica ma si realizza un
affidamento temporaneo fino a che non venga ripristinata la legalità, attraverso misure
amministrative decise dal governo».
Sembra la «mossa del cavallo» per superare anche i dissidi interni. Nel Pd, infatti,
l’iniziativa della Bindi è stata vissuta con grandi mal di pancia. Il capogruppo, Franco
Mirabelli, ha giudicato «inopportuno l’intervento: la commissione non va politicizzata» e
fino all’ultimo ha provato a far slittare le comunicazioni della presidente. «Non avete i
numeri per farlo», ha replicato la Bindi (servono i due terzi per votare lo spostamento di
una seduta già convocata), che ha tirato dritta per la sua strada. Del resto, la presidente
ha agito secondo i dettami della commissione, che deve appunto proporre iniziative sul
piano legislativo. E il decreto, che metterebbe Marino «sotto tutela», lo è.
Ernesto Menicucci
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 23/07/15, pag. 1/9
L’idea di Renzi sui migranti: dare più poteri ai
primi cittadini
di Francesco Verderami
«Bisogna togliere un po’ di potere ai prefetti e darne di più ai sindaci». A Renzi non
interessa se la sua sortita «alimenterà polemiche» tra i funzionari dello Stato. A
preoccuparlo semmai sono le immagini che quotidianamente i telegiornali trasmettono
sulla gestione degli immigrati, l’esasperazione dei cittadini su cui «si innestano le
strumentalizzazioni politiche», che finiscono per incidere sull’umore profondo del Paese,
oltre che sugli indici dei sondaggi. E se è vero che considera «l’accoglienza un dovere
morale», è altrettanto convinto che «certe scene nelle città italiane non sono più
accettabili».
«Bisogna cambiare modello sui migranti», dice il premier, che la scorsa settimana aveva
affrontato l’argomento con il ministro dell’Interno, prima di farne cenno all’Assemblea
nazionale del Pd: «Dobbiamo fare di più e meglio. Occorre un meccanismo diverso nella
gestione dell’accoglienza». Era un messaggio che preannunciava la prossima mossa del
governo, deciso a superare il corto-circuito politico e istituzionale che si è innescato
sull’emergenza: l’atteggiamento di alcuni governatori del Nord — contrari ad ospitare altri
immigrati sul proprio territorio — ha amplificato le difficoltà dei prefetti, che in certi casi
hanno mostrato imperizia. I fatti di Quinto di Treviso e la decisione dell’esecutivo di
rimuovere la funzionaria, ne sono la prova.
Dinanzi a una situazione di impasse che rischia di mandare in tilt il rapporto tra lo Stato e i
cittadini, Alfano stava già predisponendo una soluzione con i tecnici del Viminale, che si
muove proprio sulla linea enunciata da Renzi: «Togliere un po’ di potere ai prefetti e darne
di più ai sindaci». Nell’ambito del Sistema di protezione per i richiedenti asilo e per i
rifugiati (lo Sprar) verrà indetto un bando per diecimila posti che sarà rivolto ai Comuni: per
assicurarsi una forte adesione dei sindaci, oltre allo stanziamento di fondi, si sta studiando
anche un possibile allentamento del patto di Stabilità interna. Insomma, tramite gli
«incentivi» il governo confida di ottenere la disponibilità di molti primi cittadini. E avrebbe
con loro un rapporto diretto, che verrebbe gestito dal dipartimento Immigrazione del
ministero dell’Interno.
In un colpo solo, si scavalcherebbero così i veti dei governatori — additati da Alfano — e
la mediazione dei prefetti, contro i quali il premier punta il dito, e non da oggi. Quel Renzi
che appena entrato al Nazareno aveva detto «bisogna chiudere le prefetture», e che
appena entrato a Palazzo Chigi aveva detto «bisogna dimezzare le prefetture», si era
infine fatto convincere dal titolare del Viminale a non affondare il colpo. Ma le parole
pronunciate l’altro ieri dal prefetto di Lecce Palomba, che è a capo del maggior sindacato
di rappresentanza, quell’attacco al governo «che ci ha lasciati soli e fa di noi i capri
espiatori» dell’emergenza, hanno rinsaldato il premier nei suoi convincimenti, a proposito
di una struttura «corporativa e superata»: «Avevo ragione sui prefetti...».
L’offensiva del funzionario-sindacalista ha colpito il ministro dell’Interno, e la sua
meraviglia è stata pari al disappunto, non solo per l’assenza di tatto istituzionale del
prefetto ma anche per la sua avventatezza: in un colpo solo ha fornito un assist a Renzi e
ha commesso un autogol per la sua categoria, rischiando di mandare in fumo un anno di
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trattative con il presidente del Consiglio. Perché non c’è dubbio che Renzi veda nei prefetti
uno dei punti di falla dell’attuale sistema di accoglienza, ed è per questo che ha più volte
sottolineato la necessità di «cambiare modello», togliendo loro — in questo contesto —
una parte dei poteri.
Ecco cosa ha spinto ieri Alfano a reagire duramente. A parte il commento tranciante rivolto
a chi «se non ce la fa può andar via o lo sostituiamo» e a parte i complimenti misti a
censura sul «compito difficile che hanno e che non contempla i party in prefettura», vale il
messaggio lanciato sul ruolo e sul destino dei funzionari di Stato: «Come governo e come
maggioranza abbiamo dato loro una grande prova di fiducia, garantendo una carriera
speciale e confermandoli a presidio del territorio, mentre altri partiti vorrebbero abolirli.
Devono però scegliere: o si rendono conto di far parte dell’eccellenza dello Stato, e si
comportano di conseguenza, o dicano se vogliono sindacalizzarsi».
È evidente a cosa si riferisse il ministro dell’Interno, perché la riforma che riguarda (anche)
i prefetti — quella sulla Pubblica amministrazione — è ancora all’esame della Camera e
dovrà poi passare al vaglio del Senato: è stato complicato assicurare l’appartenenza dei
funzionari all’albo speciale come gli ambasciatori, ed è stato complesso evitare un taglio
radicale delle prefetture. Ma in Parlamento gli equilibri potrebbero mutare sotto i colpi di
una polemica così virulenta. Il modo in cui sono intervenuti i prefetti di Roma, di Milano, di
Palermo, di Bologna — cioè delle città sentinella sul fronte dell’immigrazione — evidenzia
la presa di distanza dal collega, che ieri sera al Tg5 ha corretto (in parte) il tiro.
Nel bel mezzo di un (legittimo) scontro politico che fa da contesto a un’emergenza senza
precedenti, è inammissibile un conflitto aperto da apparati dello Stato contro il governo. «È
istituzionalmente poco serio che un prefetto commenti le parole di un ministro», ha
commentato infatti Gabrielli. Manco fosse ancora a capo della Protezione civile...
del 23/07/15, pag. 8
Il canto libero dei migranti di Ventimiglia
Immigrazione. Prosegue nell'indifferenza generale la clamorosa protesta
dei profughi africani che dal 9 giugno sono accampati davanti agli
scogli sul confine tra Italia e Francia. L'altra sera, con Vauro e la band
Tetes de Bois, festa in musica con un ritornello inventato da un profugo
di sedici anni. Da domani a domenica tre giorni di iniziative organizzate
dai ragazze e dai ragazzi del presidio permanente No Border
Luca Fazio
MILANO
I migranti sugli scogli sono abbandonati ma non sono soli. Meriterebbero molto di più.
Ventimiglia potrebbe diventare la capitale vetrina di questa Europa che non funziona,
respinge e uccide. Lo è già ma solo per quei pochi che se ne sono accorti. Quei cinquanta
metri di lungomare, tra gli scogli dei Balzi rossi e il confine francese, sarebbero lo scenario
perfetto per guardare in faccia quella realtà che la sinistra si limita ad analizzare nei
meeting e nelle raffinate analisi del giorno dopo, quando i fatti e le tragedie lasciano
sgomenti.
La situazione sta precipitando e l’accademia dell’antirazzismo non funziona più, è troppo
distante dai luoghi dove le cose accadono con tutte le loro contraddizioni. In una periferia
romana o in un quartiere di Treviso, quando si mostrano, si mostrano sempre con gli
stessi volti, sono razzisti, sono fascisti, è «gente esasperata». Sembra che non ci sia altro
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da dire e da fare. Ecco perché Ventimiglia è una eccezione clamorosa che dopo più di
cinquanta giorni è già un’occasione persa, per tutti. Se in Italia esistesse ancora un
movimento organizzato sinceramente antirazzista, ma anche pezzi disarticolati capaci di
mettere a fuoco la situazione, quell’ultimo tratto di via Aurelia diventerebbe il posto dove
essere presenti, ogni giorno, per mettere seriamente in difficoltà i governi d’Europa. Gli
unici ad averlo capito, testardi, determinati, a modo loro anche ben organizzati, sono quei
cinquanta migranti africani che dal 9 giugno si danno il cambio sugli scogli per chiedere al
mondo di poter oltrepassare il confine e dirigersi verso nord. Di poter vivere.
La Francia li rispedisce indietro e l’Italia continua a comportarsi come se non esistessero,
ma loro ogni giorno provano a varcare il confine. Per il governo sono fantasmi, molto meno
di una seccatura. Il via vai tra il centro di accoglienza della stazione e la pineta di fronte al
mare è continuo. I migranti, profughi sudanesi ed eritrei, mostrano una pazienza infinita.
Quasi ogni giorno accade qualcosa a tenere viva la speranza. Può essere una partita a
calcio, una pastasciutta, le chiacchiere con i ragazzi del Presidio permanente No Borders,
una presenza fondamentale e discreta. Con fatica stanno cercando di fare rete con altre
realtà organizzate: «Vorremmo che l’esistenza di questo luogo, oltre che essere uno
strumento di supporto per gestire il flusso dei migranti, potesse servire anche per creare
un movimento diffuso capace di battersi contro la logica dei confini e per la libera
circolazione delle persone», spiega Lorenzo.
Dall’inizio è accampato in pineta, ci sono da organizzare lunghe giornate dove non accade
quasi niente e non è facile abbozzare un programma. Sono i migranti a decidere cosa
fare. E sarà così anche per le tre giornate di mobilitazione che cominceranno domani. «Ci
aspettiamo un contributo da chi si occupa di immigrazione in varie parti d’Italia — spiega
— parleremo di legislazione europea e assistenza legale. Poi dovremo attrezzarci per
continuare, non ce ne andremo fino a quando i migranti decideranno di stare qui,
Ventimiglia resterà sempre un punto di passaggio».
La sera, promette, ci sarà anche da divertirsi. Come l’altro ieri, anche se quella è stata una
serata speciale. La comunità di San Benedetto del Porto (quella di don Gallo) martedì è
andata a trovarli e insieme ai volontari si sono presentati anche Vauro e la band dei Tetes
de Bois. I migranti hanno improvvisato un ritmo irresistibile percuotendo pentole e bastoni
su un ritornello «scritto» da Ibrahim, 16 anni. Quel canto di libertà è stato inciso dal gruppo
e adesso vogliono farne una canzone. Gli arrangiamenti verranno, ma il testo si può già
canticchiare: We are not going back (non torneremo indietro). Andrea Satta, il cantante, ha
spiegato che l’avevano pensata solo «come una suonata per voce e fisarmonica da tenere
sugli scogli per accompagnare la spedizione di derrate alimentari». Poi l’intuizione: «È un
messaggio di speranza e battaglia che abbiamo voluto riprendere perché come artisti
abbiamo il dovere di farlo conoscere e portare in giro per il mondo. Ne faremo una
canzone, una storia da raccontare che quest’estate porterà Ventimiglia in tournée».
del 23/07/15, pag. 7 (Roma)
Al campo profughi restano gli stranieri
Casale San Nicola, «nessun razzismo con i rifugiati». E CasaPound
torna con i residenti
Quattro rifugiati appena usciti dall’ex scuola Socrate a Casale di San Nicola camminano
sotto i pini guardandosi intorno. I residenti del complesso residenziale li osservano in
silenzio, anche quelli del presidio di protesta contro la loro presenza. Poi i quattro ragazzi
raggiungono la Braccianese e la stazione La Storta.
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Piccole, timide prove di integrazione dopo le polemiche e gli scontri dei giorni scorsi. Gli
abitanti hanno deciso di continuare a oltranza le manifestazioni contro il centro
d’accoglienza gestito dalla cooperativa Isolaverde, vincitrice del bando della Prefettura
valido fino al 31 dicembre prossimo. E CasaPound ha annunciato ieri che sarà ancora nonostante i dissidi con alcuni abitanti per gli incidenti con la polizia di venerdì scorso - al
fianco dei cittadini. Ma a Casale di San Nicola prosegue la mobilitazione
nell’accampamento per i profughi italiani aperto a fine maggio proprio davanti all’ex scuola
dove ora si trovano 59 rifugiati. Un’area con tende da campeggio, gazebo ma senza
servizi igienici, nè acqua, «su un’area che appartiene a noi - sottolinea Simonetta
Lanciani, presidente dell’Isolaverde onlus - e per questo ho già presentato denuncia ai
carabinieri per violazione di domicilio». Nel campo - allestito da «Nessuno tocchi il mio
popolo» movimento della destra sociale fondato da Alfredo Iorio - sono rimaste alcune
delle 30 famiglie iniziali. «A molte abbiamo trovato un alloggio in altre strutture a Boccea,
Nemi e Cerveteri - spiega Daniele, uno dei volontari -, ma qui ne sono rimaste ancora,
anche con bambini piccoli».
Adesso però fra gli accampati non ci sono solo italiani, ma anche stranieri, da anni a
Roma. E raccontano storie di immigrazione come quelle di chi arriva oggi in Italia. Come
Lina Victoria, colombiana di Calì, da 15 anni nel nostro Paese, «prima ad Ancona, poi a
Roma. Ho anche dei figli che però ho preferito farli restare a casa. Non voglio che
debbano affrontare tutte queste difficoltà». Il caldo torrido delle ultime settimane ha
complicato la situazione, anche se di giorno gran parte di chi vive in tenda è in giro a
lavorare. «Nelle canadesi è molto difficile restare con queste temperature», dice ancora
Lina: «Non ce l’ho con i rifugiati, non ci ho nemmeno parlato. Non è una questione di
razzismo nei loro confronti, ma lo Stato italiano dovrebbe pensare anche a chi stava qui
prima di loro». Lo stesso pensiero di Roger Falcones, un operaio ecuadoregno, «sfrattato
perché non riuscivo a pagare l’affitto. Mia moglie e mia figlia sono in una casa famiglia.
Qualcuno ci aiuti». Drammatica anche la situazione di Emanuela Rocco: «Non ci sono
bagni, quindi con mia figlia siamo costrette ad andare al centro commerciale. Spero finisca
tutto presto, ma le autorità devono intervenire».
Rinaldo Frignani
del 23/07/15, pag. 7 (Roma)
Infernetto, arrivano 80 immigrati
Raccolta di firme per spostarli
La zona si divide tra pro e contro. Ma viene fatto il presidio
Da Casale San Nicola all’Infernetto, si estende la protesta anti-immigrati. Circa quaranta
persone, riunite dai locali esponenti di CasaPound, si sono date appuntamento ieri in via
Ennio Porrino all’Infernetto, quartiere residenziale alle porte di Ostia, dove da due
settimane sono stati trasferiti un’ottantina di migranti. I profughi, tutti adulti di varie
nazionalità, sono inseriti nel piano di accoglienza coordinato da Prefettura e ministero
dell’Interno. Si tratta di migranti presenti sul territorio italiano già da diversi mesi, identificati
e sottoposti sia ai controlli sanitari che di polizia. La struttura che li ospita, un complesso di
tre palazzine di proprietà comunale, era da anni già utilizzato per l’assistenza alloggiativa
a famiglie – italiane e non – in difficoltà.
L’improvviso arrivo dei migranti ha però fatto salire la tensione nel quartiere; già a
novembre 2014 all’Infernetto erano stati trasferiti 15 minori stranieri senza famiglia e le
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proteste non erano mancate. Luca Marsella, responsabile del gruppo CasaPound di Ostia,
scoperta la presenza dei profughi, ha subito convocato il presidio per chiedere lo
spostamento del centro di accoglienza. Scarsa però l’adesione al sit-in, corredato solo da
qualche bandiera italiana. Secondo quanto raccontato dai residenti, non si è registrato
alcun problema di convivenza. «Vorremmo solo esserne stati informati prima – spiega il
coordinatore di Fratelli d’Italia per il X Municipio, Monica Picca intervenuta al presidio – in
questo modo i cittadini sono impreparati e si sentono presi in giro. Chiediamo di sapere i
dettagli, quanto resteranno qui gli immigrati e se è prevista l’apertura di nuovi centri
profughi sul litorale. Questo è un territorio che ha già tanti problemi, pensiamo a risolvere
prima questi». A margine della manifestazione CasaPound ha dato il via ad una raccolta
firme per chiedere lo spostamento dei profughi dall’Infernetto.
Val. C.
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
del 22/07/15, pag. 4
La legge va avanti ma piano piano
Unioni civili. Il ddl verrà discusso dall’aula del Senato nella prima
settimana di agosto
Carlo Lania
ROMA
Dopo la condanna della corte europea per i diritti umani all’Italia per la mancanza di una
legge che riconosca le unioni omosessuali, a spingere perché si arrivi all’approvazione del
ddl Cirinnà ieri è stata anche Laura Boldrini.«Il tempo è scaduto, l’attesa per la nuova
legge sulle unioni civili si sta prolungando oltremodo» ha detto la presidente della Camera
riferendosi al testo fermo da mesi al Senato. A complicare le cose ci si è messo però il
ministero dell’Econpmia. Da giorni infatti la commissione Bilancio di Palazzo Madama
aspetta la relazione che quantifica i possibili costi per lo Stato di misure come la
reversibilità della pensione per il partner e gli assegni familiari. Atteso inizialmente per
martedì sera, il documento è slittato a ieri mattina per essere infine annunciato, forse, per
oggi. La relazione è già stata consegnata dal Mef al minitro della Giustizia Andrea
Orlando, che a sua volta l’ha trasmessa ai Rapporti con il parlamento per il via libera
finale. E salvo sorprese potrebbe davvero arrivare oggi a palazzo Madama.
Il ritardo però ha scatenato le critiche di Sel e M5S, che accusano il governo di voler
«perdere tempo». «Alla fine la verità viene sempre a galla. E la verità sui diritti civili è che il
governo frena sul riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali» ha detto Nicola
Fratoianni. Il coordinatore di Sel se l’è presa anche con il viceministro alle Riforme Ivan
Scalfarotto, protagonista in passato di uno sciopero dell fame a sostegno del ddl. «Invece
di fare tweet si impegni a sbloccare questa situazione».
Seppure lentamente, qualcosa comunque si muove. La capigruppo di ieri ha fissato per la
prima settimana di agosto la discussione in aula del testo. Il che significa che non appena
la Bilancio avrà licenziato il testo, la commissione Giustizia sarà costretta a un tour de
force per licenziare in tempo il provvedimento. Con 1.600 emendamenti da discutere,
quasi tutti presentati dal Ncd, sarà difficile che ci riesca ma l’aver calendarizzato il ddl per
l’aula significa comunque averlo indirizzato verso la fine del suo iter al Senato. Cosa che
fa essere ottimista Sergio Lo Giudice: «Una cosa è certa: dopo quasi trent’anni dalla prima
proposta di legge sulle coppie di fatto — ha commentato il senatore del Pd — per la prima
volta un ddl sulle nuove coppie entra nel calendario di un’aula parlamentare».
Tutto bene dunque? La prudenza quando si affrontano certi temi non è mai troppa. Primo
perché è da quando è diventato segretario del Pd che Renzi promette una legge sulle
unioni civili, salvo poi fermarsi sempre di fronte ai diktat del Ncd. E poi perché le forze in
campo contro la legge che porterebbe finalmente all’equiparazione dei diritti per le coppie
omosessuali sono pesanti. Ieri hanno fatto sentire di nuovo la loro voce i vescovi: «L’unica
cosa che stiamo chiedendo al governo è di essere attento ai bisogni dei singoli ma non
fare del bisogno dei singoli la misura e il quadro per dover poi regolare il bene comune»
ha detto il segretario generale delle Cei, monsignor Nuncio Galantino. Mentre per la
maggioranza Alfano ha ricordato come le unioni civili «non fanno parte del patto di
governo».
Di certo questa volta sarà difficile per chiunque sottrarsi. Sia nelle commissioni che in aula
c’è infatti già una maggioranza alternativa composta da Pd, Sel, M5S più che sufficiente
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per approvare la legge senza problemi. Voti ai quali non è escluso si aggiungano anche
quelli di molti senatori di Forza Italia. Ieri Danilo Toninelli, tra i senatori 5 Stelle più
preparati, se l’è presa con quanti insinuano che alla fine i grillini potrebbero tirarsi indietro,
arrivando perfino alle minacce fisiche: «Il prossimo che sento dire che il M5S dice sempre
e solo no lo prendo a schiaffi», ha scritto su Facebook. «Si parla delle necessitò di votare
in fretta ma non si parla del fatto che il M5S è pronto da mesi a votare il testo fermo al
Senato». Siamo al rush finale, per dirla con le parole di Lo Giudice. La speranza è di
riuscire a tagliare finalmente il traguardo.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 22/07/15, pag. 2
L’allarme di Franceschini e ambientalisti
“Si rischia di autorizzare dei veri scempi”
Francesca Schianchi
Il presidente nazionale di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza, dice che «chiamarlo
silenzio assenso è un modo elegante per dire deregulation». Il Consiglio superiore dei beni
culturali, organo consultivo del ministero della Cultura, lo definisce «uno strumento rozzo e
pericoloso». Addirittura, il ministro in persona, Dario Franceschini, ha inviato una lettera
alla collega Marianna Madia, responsabile della Pubblica amministrazione, per chiederle di
cambiare la legge. Invano: «Con questa regola non abbassiamo il livello di guardia sui
beni culturali: al contrario, lo alziamo», garantisce la Madia.
Scatena paure e allarmi la norma contenuta nell’articolo 3 della riforma della Pa, al
momento in terza e (auspica il governo) ultima lettura in Senato. Il cosiddetto silenzio
assenso: per evitare attese bibliche per un parere o un nullaosta, si introduce un termine
oltre il quale se un’amministrazione non risponde a un’altra, la mancata risposta diventa
un via libera. Trenta giorni il termine generale, novanta quando riguarda interessi sensibili
(salute, ambiente, beni culturali, paesaggio), salvo i casi in cui leggi speciali prevedano
termini più lunghi (120 giorni).
«Il silenzio assenso corrisponde a un’assoluta deresponsabilizzazione degli uffici, visto
che nessuna sanzione è prevista per il funzionario che non risponde in tempo – lamenta
Cogliati Dezza – se va bene, si rischia che verranno autorizzate opere inutili. Se va male,
saranno scempi». La paura che molti hanno rappresentato agli uffici del ministero della Pa
- tra chi ha espresso preoccupazione per la norma, sigle come il Wwf, il Fai, Italia nostra è proprio questa: la possibilità che, causa mancata risposta, corrano verso sicura
realizzazione orrori tipo l’invasione delle coste di cemento. Un timore che ha attraversato
anche chi, tra i dem, ha una storia di militanza ambientalista, come il presidente della
Commissione Ambiente, Ermete Realacci: «Il rischio che questa regola possa produrre
effetti negativi c’è – concede – e infatti la situazione andrà monitorata, ma non c’è dubbio
che bisognava intervenire per dare ai cittadini certezza dei tempi». Lui ha votato sì,
aggiungendo però alla legge un ordine del giorno che invita il governo a rimpinguare il
personale delle Soprintendenze.
Perché proprio questo – la carenza di organico - è una delle ragioni che potrebbe portare
gli uffici a non dare risposta in tempo: e allora, ha spiegato il ministro Madia, ragioniamo
sulle situazioni di oggettiva difficoltà e cerchiamo di risolvere quei singoli problemi. Ma non
si parli di deregulation, sospira il ministro («sarebbe vero se avessimo cambiato le regole
per le autorizzazioni, ma non è così»), che prevede invece risposte più rapide e certe delle
amministrazioni. E quindi più controllo. «Le Soprintendenze saranno spinte a rispondere in
tempi brevi: altrimenti, saranno loro, con la loro mancata risposta, a prendersi la
responsabilità di consentire che vadano avanti procedimenti sbagliati». Il nodo chiave,
secondo il governo, è proprio la responsabilità: perché oggi se, a richiesta di
un’amministrazione, ad esempio un comune, la Soprintendenza non risponde, il comune
può procedere ugualmente. Ma siccome ne sarebbe completamente responsabile, i lavori
puntualmente si fermano.
Per venire incontro alle critiche, i tempi del silenzio assenso sono stati alzati alla Camera.
Ora la riforma è tornata al Senato. E, parola di premier, non si tocca più.
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Del 23/07/2015, pag. 20
Dalla curia ai politici la rete per far riaprire la
Tirreno Power
Savona, il pressing dei dirigenti per il dissequestro “La Guidi ha chiesto
un consiglio a Clini, che è con noi”
MARCO PREVE
GENOVA . C’era chi si rivolgeva al viceministro, chi ai politici amici del Pd, e chi anche al
clero. Il deposito degli atti relativi all’inchiesta sulla centrale a carbone Tirreno Power di
Vado Ligure, racconta, secondo la procura di Savona, i tentativi dell’azienda di ottenere
dal Ministero dell’Ambiente e dalla Regione procedure di favore per poter così scavalcare i
provvedimenti di sequestro dei gruppi a carbone disposti dal gip su richiesta dei pm.
Nell’inchiesta sono indagati a vario titolo per disastro ambientale, omicidio colposo ed
abuso d’ufficio, 87 persone: politici, tecnici, funzionari ministeriali, sindaci ed altri
amministratori, e una quarantina di manager di Tp che all’epoca delle contestazioni
rivestivano cariche anche in Sorgenia (società da cui a marzo è uscita la Cir della famiglia
De Benedetti), azionista di riferimento di Energia Italiana che, insieme a Gdf-Gaz de
France controlla la centrale.
IL VICEMINISTRO
Claudio De Vincenti (che non è indagato), oggi sottosegretario alla presidenza del
Consiglio e fino a pochi mesi fa viceministro dello Sviluppo Economico ha frequenti
contatti telefonici con Andrea Mangoni già ad di Sorgenia e consigliere di Tp.
Mangoni nel luglio 2014 al telefono alla sua segreteria annuncia una «mail di Claudio (De
Vincenti, ndr) che è … spunti per velocizzare...».
Pochi giorni dopo De Vincenti parla con Mangoni della centrale: «Come siamo messi con
Tirreno Power fammi capire?». E Mangoni «eh male…». I due fissano un appuntamento
per parlare. Che non va benissimo visto che ai primi di agosto Mangoni confida ad un
interlocutore: «Abbiamo avuto uno scazzo... una discussione come dire… molto virile». Ma
il giorno stesso manda a De Vincenti un sms conciliante: «Abbiamo bisogno di regole
certe, se puoi fai uscire il provvedimento quanto prima. Ps: prova a riposarti». La risposta
arriva a settembre. De Vincenti scrive: «Scusa il ritardo… confido nella tua amicizia… so
che stanno emanando l’Aia. Sentiamoci». Pochi giorni dopo Mangoni parla con un altro
indagato, Francesco Dini, all’epoca direttore generale della Cir e oggi nei cda di Gruppo
Espresso ed Ansa per informarlo che «De Vincenti ha fissato una riunione col ministero
della Salute e il ministero dell’Ambiente che c’è questo studio dell’Istituto Superiore di
Sanità che diciamo… fortemente critico verso le perizie (della procura, ndr ) e le invalida…
e a quel punto il Ministero dell’Ambiente ne tenga conto». Una perizia che secondo la
procura di Savona verrà “ripudiata” dagli stessi firmatari che ascoltati come testi spiegano
di non aver potuto visionare tutta la consulenza della procura. Nel maggio del 2014 un
pranzo al ristorante tra Mangoni, il direttore generale della centrale Massimiliano Salvi e lo
stesso De Vincenti, per gli inquirenti potrebbe nascondere «un’attività corruttiva». La
procura vorrebbe monitorare con delle “cimici” il colloquio ma il gip non ritiene vi siano
sufficienti elementi a sostegno di un’accusa di corruzione e nega l’autorizzazione ad
installare le microspie nel ristorante. Quanto a Dini compare in un’altra intercettazione in
cui spiega ad un dirigente di Tp che «ho finito adesso di parlare con Clini (Corrado ex
ministro dell’Ambiente poi tornato al ministero come dirigente, ndr ) e si era già mossa con
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lui la Guidi (ministro dello sviluppo economico, ndr ) per chiedergli un consiglio… hanno
una riunione lunedì. Lui è assolutamente d’accordo che la soluzione migliore sia quella
che abbiamo proposto noi». Era il 22 maggio del 2014 e pochi giorni dopo Clini finiva agli
arresti domiciliari per peculato.
IL SOSTEGNO DEL PD
La procura evidenzia anche il nome di Rossana Revello, contitolare di un agenzia di
pubbliche relazioni «in relazione ai contatti che la stessa ha con il direttore generale di Tp
Giovanni Gosio, e poi anche con il successore Massimiliano Salvi. I contatti sono volti alla
facilitazione degli incontri tra azienda e istituzioni soprattutto a livello locale con il
presidente della Regione Claudio Burlando, con l’assessore all’ambiente Renzo Guccinelli
(entrambi Pd, ndr )… capacità di relazione determinate dalla conoscenza confidenziale
con il deputato del Pd Anna Giacobbe… al fine di agevolare l’azienda nell’ottenimento
delle autorizzazioni necessarie».
LA CURIA
Ma c’è anche chi cerca sostegno nel clero. La moglie di Pasquale D’elia ex capo della
centrale racconta ad un’amica suora di aver chiesto un appuntamento (che otterrà) per
suo marito con il vescovo di Savona Vittorio Lupi: «È un’idea nata su due piedi, abbiamo
un’amica che conosce bene la segretaria del vescovo, Pasquale ci vuole andare a titolo
personale… per affrontare questa battaglia lavorativa da buon cristiano».
Del 23/07/2015, pag. 6
Le riunioni di De Vincenti per frenare i
magistrati
L’accusa: una riunione organizzata dal vice-ministro Claudio De Vincenti per mostrare uno
studio dell’Istituto Superiore della Sanità che “invalida” la perizia dei pm. Quella che parla
di 440 morti per la centrale di Vado.
Governatori, sindaci, sindacati, perfino vescovi. I manager Sorgenia e Tirreno Power le
provano tutte. Ma il loro asso nella manica, secondo i pm, è De Vincenti (ci sono anche
passaggi sul ministro Federica Guidi, nessuno dei due è indagato).
I magistrati savonesi avevano chiesto di registrare i suoi colloqui: “In un ristorante di Roma
verrà organizzato un incontro tra” i vertici Cir-Sorgenia “Andrea Mangoni, Francesco
Claudio Dini e De Vincenti…”, si richiede la registrazione del “colloquio che lascia ben
presupporre l’organizzazione di attività corruttiva”. Ma il gip boccia la richiesta.
Pranzi, telefonate, sms e mail. Il vice di Renzi è in stretto contatto con la società. Il
passaggio più scomodo: “Claudio (De Vincenti) ha fissato una riunione con il ministero
della Salute e quello dell’Ambiente… per fare in modo, insomma, il ministero della Salute
dica che c’è questo studio dell’Istituto Superiore della Sanità che… diciamo così…
fortemente critico verso le perizie e le invalida… e che a quel punto auspicabilmente il
ministero dell’Ambiente ne tenga conto”.
Per i pm la politica a livello locale (con pressioni sull’Istituto Tumori) e a livello nazionale
(Istituto Superiore della Sanità) mira a minimizzare i dati tragici della perizia. A parlare, il
14 luglio scorso, è Andrea Mangoni, all’epoca ad di Sorgenia e nel cda di Tirreno Power.
Un manager vicino al centrosinistra che lo sostenne ai vertici Acea e Fincantieri. All’altro
capo del filo Francesco Claudio Dini, direttore Affari Generali del Gruppo Cir e oggi nei cda
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Ansa ed Espresso. Entrambi sono indagati. Il 28 luglio ancora Mangoni cita una mail di De
Vincenti che parlerebbe di “spunti per velocizzare…”. Il vice-ministro si riferiva alla
centrale?
A luglio 2014 Mangoni parla con De Vincenti di Tirreno Power, ma non vuole usare il
telefono. Perché? “Vorrei parlartene a quattr’occhi, non per questa via”. Il 4 agosto c’è un
incontro e Mangoni alla sua collaboratrice racconta di un documento da inviare: De
Vincenti “suggeriva indirizzari ancora più impegnativi… tipo Renzi, Del Rio”. L’incontro,
soprattutto sulla questione del mercato elettrico, è “molto virile” (parole di Mangoni). Il
manager smorza in un sms: “Abbiamo idee diverse, ma da quando sei arrivato tu le
politiche sono decisamente cambiate (in meglio)”. De Vincenti: “Confido nella tua amicizia
cui tengo moltissimo”.
Colloqui frequenti, come quello in cui Mangoni arriva a parlare in prima persona del Pd: “A
noi ci viene da lì… a livello istituzionale ma anche parlamentare di collegi… intendo dire
nostre… di Pd una richiesta di avere un segnale da parte del Governo”. Il manager pare
chiedere a De Vincenti di tenere calmi i politici liguri. Il vice-ministro risponde: “Fammi
sentire Claudio Burlando (governatore della Liguria, Pd, ndr)… tieni conto che come
spesso fanno i parlamentari devono mettersi in mostra… devo evitare di dare
l’impressione di ingerenza”.
Burlando (indagato con tutta la sua giunta) riferisce a una collaboratrice: “Mi ha chiamato
De Vincenti dice di convocare una riunione”. Il 14 ottobre Mangoni parla con Massimiliano
Salvi (Tirreno Power): De Vincenti “mi ha detto… per noi sarebbe di importanza capitale,
per potervi dare tutto l’appoggio necessario, far sopravvivere i gruppi a gas”.
Ma c’è anche un passaggio sul ministro Guidi e sull’ex collega Corrado Clini: “Dini riferisce
che la Guidi e Clini sarebbero d’accordo per la soluzione proposta dall’azienda”. La stessa
Guidi che incontrò Paola Severino, ex ministro e legale Tirreno Power. Ma i vertici della
società si incontrano anche con pezzi grossi dei sindacati con cui concordano la strategia.
E addirittura la moglie di Pasquale D’Elia, uno dei responsabili della centrale di Vado,
parla con una suora e chiede un appuntamento con il vescovo.
del 22/07/15, pag. 19
Ilva, il governo blinda gli altiforni
Se oggi la Camera voterà la fiducia sul decreto, il ricorso dei pm sarà
nullo
Paolo Baroni
È uno scontro tra poteri senza precedenti: procura contro governo, governo contro
procura. Per l’Ilva di Taranto questo sono giorni decisivi. Salvo contrordini entro domani
l’azienda deve comunicare al custode giudiziario il programma relativo allo spegnimento
dell’altoforno 2, dove un mese fa si è verificato un incidente mortale.
Produzione a rischio
Spegnere Afo2, però, in questa fase, visto che altri tre altoforni sono fermi per lavori,
significherebbe lasciare l’Ilva con un solo impianto in attività. Il che significherebbe la
fermata completa la produzione, un altro colpo a quello che un tempo era la più grande
acciaieria d’Europa e che ancora oggi occupa 15mila persone. Per questo ai primi di luglio
il governo ha emanato un decreto per evitare lo spegnimento. La Procura di Taranto lo ha
però impugnato davanti alla Corte costituzionale continuando ad insistere per la fermata.
Il governo a sua volta ha studiato una contromossa stralciando le norme salva-Ilva nel
decreto legge sui fallimenti su cui oggi la Camera vota la fiducia e rendendo in questo
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modo nullo il ricorso alla Consulta della Procura che eventualmente dovrebbe presentare
una nuova istanza. Ieri a Lecce si è svolto un vertice tra il procuratore generale Giuseppe
Vignola, il procuratore di Taranto Franco Sebastio, l’aggiunto Pietro Argentino ed il pm
Antonella De Luca che il 18 giugno ha disposto il sequestro di Afo2. «Ho chiesto la
massima urgenza: ognuno di noi ha espresso il proprio orientamento per un
provvedimento che, sebbene spetti alla Procura di Taranto, sarà adottato con la
convergenza piena di tutti per andare incontro a quelle che sono le due esigenze primarie:
il diritto alla salute e il mantenimento del posto di lavoro», ha spiegato Vignola. Dunque, si
fa intendere, «nessun accanimento giudiziario» nei confronti dell’Ilva e piena disponibilità
ad ascoltare e vagliare le richieste dell’azienda.
Ore decisive
«La situazione sembra essersi un poco rasserenata - spiega il segretario della Fim
provinciale, Mimmo Panarelli -. Ma al momento l’ordine di spegnimento non è stato
ritirato». Il tempo però gioca a favore del superamento di questa nuova crisi considerando
che fine mese ripartirà Afo1.
Intanto per oggi, sempre a Taranto, sono attese le richieste di rinvio a giudizio per i 50
accusati di disastro ambientale. Tra di loro Nicola e Fabio e l’ex governatore della Puglia
Nichi Vendola.
Del 23/07/2015, pag. 36
Energia ’O Sole bio
Nel 2040 più della metà della potenza elettrica verrà da fonti non fossili.
Ecco come si stanno preparando alla rivoluzione i grandi gruppi,con
l’italiana Eni in prima fila,e quali sono le nuove frontiere della ricerca
ANTONIO CIANCIULLO
Celle fotovoltaiche che fanno a meno del silicio e utilizzano materiali organici.
Concentratori solari luminescenti per la produzione di energia elettrica. Biocarburanti di
seconda generazione che usano materiali agricoli di scarto senza entrare in competizione
con le colture alimentari. Sono alcune delle possibilità tecnologiche aperte dalla
triangolazione tra Eni, Politecnico di Milano e Massachusetts Institute of Technology (Mit).
Un’accelerazione della ricerca legata anche al quadro disegnato nei giorni scorsi da
Bloomberg New Energy Finance: nei prossimi 25 anni il 60 per cento della nuova potenza
elettrica installata verrà dalle rinnovabili; entro il 2040, il mix elettrico sarà dominato al 56
per cento delle fonti non fossili. Una rivoluzione che,anche in vista del summit Onu sul
clima di dicembre,ha spinto l’Eni - assieme ad altre cinque tra le maggiori compagnie
petrolifere - a firmare un appello a favore dell’introduzione di sistemi di tariffazione
delleemissionidiCO2perottenereun quadro normativo stabile, in modo da poter pianificare
meglio gli investimenti.
Se dunque le previsioni dei principali istituti di analisi e dell’International Energy Agency
concordano nel considerare le rinnovabili l’energia del futuro, sulle singole tecnologie
vincenti il margine di incertezza resta alto, perché l’evoluzione della ricerca è veloce. Vale
dunque la pena osservare le novità che emergono dagli studi condotti dal Politecnico di
Milano e dell’Istituto Donegani su alcune filiere. Ad esempio i concentratori solari
luminescenti: sono lastre trasparenti in materiale polimerico o vetroso in grado di assorbire
una parte della luce e di concentrarla sui bordi, dove celle fotovoltaiche producono
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elettricità; possono servire per costruire coperture, pensiline, pareti, serre che generano
energia.
Un’altra delle tecnologie considerate molto promettenti è il solare a concentrazione:
utilizza parabole che rimandano l’energia a un tubo con un fluido che raggiunge
temperature molto alte e alimenta generatori di elettricità. «Il nostro sforzo è stato lavorare
per abbassare i costi avvicinando questa tecnologia alla piena competitività », spiega
Vittorio Chiesa, direttore dell’Energy&Strategy Group del Politecnico di Milano.«Parliamo
di macchine che hanno ampliato la fascia del possibile utilizzo riducendo in modo
significativo la dimensione delle parabole,che è scesa a un paio di metri. È una tecnologia
che può produrre elettricità, calore e fresco, con un grande potenziale di sviluppo in tutto il
Mediterraneo».
Poi ci sono le celle fotovoltaiche che utilizzano materiali organici o polimerici,
caratterizzate dalla leggerezza e dalla flessibilità e quindi dalla adattabilità alle superfici.
Sono basate sull’uso delle nanotecnologie:strati polimerici estremamente sottili che
vengono depositati su pellicole flessibili attraverso tecnologie mutuate dalla stampa a
rotocalco, con un ridottissimo consumo di materiali nel loro ciclo produttivo.
«È una frontiera interessante e ancora più interessante è l’ibrido tra questa tecnologia e
quella tradizionale », aggiunge Flavio Lucibello, presidente di Hypatia, un consorzio di
ricerca nato dalla collaborazione tra l’università romana di Tor Vergata, l’Istituto nazionale
di fisica nucleare, il Cnr e alcune imprese del settore che fa da interfaccia tra enti pubblici
e aziende. «Stiamo sperimentando un sistema fotovoltaico che utilizza sia componenti
organiche che inorganiche per prendere il meglio di queste due possibilità: stabilità,
rendimento, flessibilità d’uso. Credo che nel giro di 2 o 3 anni si possa arrivare alla fase
produttiva e le prospettive di sviluppo sono notevoli». Infine c’è il settore dei biocarburanti,
che ha un discreto trend di crescita: si stima un aumento del 3,9 per cento annuo a livello
europeo per il periodo 2011-2035, rispetto a una flessione dell’1,4 per cento annuo
prevista per i carburanti di origine fossile. In particolare si scommette su quelli di seconda
generazione che utilizzano biomasse di scarto come i residui agricoli e forestali, colture a
basso impatto ambientale e rifiuti urbani. Un’altra possibilità in questo campo sono le
microalghe in grado di produrre oli chimicamente equivalenti a quelli vegetali:possono
essere coltivate in vasche in ambienti aperti e alimentate con l’anidride carbonica
proveniente da centrali per la produzione di energia elettrica (un impianto pilota è stato
creato presso la raffineria di Gela, in Sicilia). O l’olio che si ottiene da un trattamento
termico a 300 gradi effettuato sulla frazione umida dei rifiuti (ha proprietà chimico fisiche
analoghe a quelle di un olio pesante di origine fossile).
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INFORMAZIONE
del 23/07/15, pag. 2
Cda Rai, la Gasparri piace a tutti
Riforma. Boschi annuncia un maxiemendamento in senato. Il
sottosegretario Giacomelli la corregge ma la sostanza resta: la legge
passa quando vorrà Renzi. Forza Italia e M5S pronti a prendersi i posti
nel «consiglio transitorio»
Andrea Colombo
Rallentando per poi accelerare. Il senato avrebbe dovuto iniziare ieri a votare gli
emendamenti sulla riforma Rai. Tutto rinviato: a data da destinarsi quanto all’inizio delle
votazioni in aula. Certissimo invece l’arrivo: il prossimo 31 luglio. Significa che quasi
certamente l’aula di palazzo Madama dovrà lavorare anche di venerdì e lunedì. «Un
contingentamento di fatto dei tempi», chiosa Loredana De Petris, Sel, e nessuno potrebbe
darle torto. In effetti la stessa cosa hanno ripetuto per oltre un’ora, in aula, i senatori di tutti
i gruppi d’opposizione, chiedendo al presidente Grasso di impedire un contingentamento
che strangolerà il dibattito su un tema tanto nevralgico quanto la libertà di informazione e il
controllo della politica sul servizio pubblico. Ma si sa che in questi casi palazzo Chigi può
sempre contare sulla piena complicità, pardon solidarietà, del secondo cittadino dello
Stato. La data ordinata da Renzi non si tocca.
La legge sembrava dover tornare al Senato riscritta da un maxiemendamento del governo.
Questo aveva annunciato l’ineffabile ministra Boschi di fronte alla conferenza dei
capigruppo di palazzo Madama. O questo almeno avevano capito tutti i presenti. «Sarà
sostitutivo, ma non interamente», aveva anche chiarito la ministra. In serata, invece, il
sottosegretario Giacomelli correggeva, o forse ingranava la retromarcia: «La ministra è
stata fraintesa. Voleva in realtà dire che non ci sarà nessun maxiemendamento e nessun
voto di fiducia. Il governo presenterà emendamenti specifici, senza toccare l’impianto della
legge».
In realtà, il giallo è inesistente. Se anche fosse stato presentato, il maxiemendamento in
questione avrebbe modificato qualche particolare della legge e sarebbe servito solo a
falcidiare gli emendamenti, al momento un migliaio e passa. In parte l’obiettivo verrà
raggiunto comunque con i nuovi emendamenti, e se non basterà si troverà qualche altra
strada. Ma sul voto nei tempi ordinati da Matteo Renzi di dubbi non ce ne sono.
Subito dopo, il testo passerà alla Camera, dove Renzi non ha mai nulla da temere. In ogni
caso, l’approvazione non arriverà in tempo per le nuove nomine dei vertici di viale Mazzini,
scadute già a metà maggio. Ma non è questione di calendario: ci fosse la volontà politica
di applicare subito la nuova governance, una via si troverebbe. La scelta di nominare i
prossimi vertici con le norme dettate dalla Gasparri è politica, frutto di un accordo con Fi al
quale sembra guardare senza troppa antipatia anche l’M5S.
Da palazzo Chigi ammettono a mezza bocca: sì i nuovi vertici saranno nominati con la
Gasparri, ma potrebbero essere «transitori». Chiacchiere. L’inconfessato accordo serve a
garantire una maggiore presenza delle forze d’opposizione nel prossimo cda ma deve
anche permettere al governo di usare i posti a disposizione per accontentare gli alleati
minori. La transitorietà non sarà breve.
Il senso dell’operazione è palese. Le principali forze d’opposizione incamereranno un
consigliere d’amministrazione e avranno la quasi certezza di non affrontare le prossime
elezioni politiche, che arrivino nel 2018 o l’anno prima, senza una Rai ancora più
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governativa di come era ai tempi indimenticati di Ettore Bernabei. In cambio ridurranno a
miagolio i ruggiti d’opposizione promessi. Gli stessi pentastellati erano pronti a spingersi
più in là nella trattativa con il governo. «In fondo — confessava in privato uno di loro — per
noi l’importante sarebbe soprattutto rivedere le norme sulle nomine dei consiglieri e in
particolare l’importanza dei curricula». Non che si tratti di un capitolo secondario, per
carità. Però trattandosi di una riforma che consegna il servizio pubblico al governo non
sembra trattarsi precisamente della discriminante.
A proposito di curricula: se c’è un particolare che su questa riforma dice tutto, è proprio
che mentre i suddetti saranno necessari per scegliere direttori e funzionari vari,
l’amministratore delegato, in pratica una specie di superdirettore con poteri quasi assoluti,
potrà farne a meno. Il solo requisito davvero necessario sarà l’essere considerato
completamente affidabile da parte del governo.
Un ritorno a prima del 1975, come sostiene l’ex sottosegretario Vincenzo Vita? In parte sì.
Ma potrebbe anche andare peggio. Ettore Bernabei, per quanto di totale fedeltà allo
scudocrociato, capiva di televisione e la sua Rai, fatta salva l’informazione di regime, era
di qualità invidiabile. Non è affatto detto che il prossimo plenipotenziario possa vantare le
stesse competenze. L’aria che tira (e i nomi che si sussurrano) indicano invece la volontà
di individuare un aziendalista, di quelli che sanno sforbiciare a volontà, esperti nel
management ma digiuni di media e tv. Sarebbe la ciliegina sulla torta. L’estremo passo
necessario per assassinare il servizio pubblico.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 23/07/15, pag. 10
Ngugi wa Thiong’O
Le parole spezzate della gabbia coloniale
Intervista. Parla lo scrittore keniota, considerato una delle voci più
autorevoli dell’Africa. Autore del saggio «Decolonizzare la mente» (Jaca
Book), rivendica la scelta di non scrivere più i suoi romanzi in inglese,
ritenuta la lingua di un imperialismo postcoloniale e culturale che tiene
ancora in scacco un intero continente
Marco Dotti
«Nella vecchia scuola, gli insegnanti ci parlavano di re africani, come Shaka e Cethswayo.
Accennavano alla conquista e all’occupazione bianca in Sudafrica e Kenya. Invece ora
l’accento cade su esploratori bianchi come Livingstone. Impariamo che i bianchi avevano
scoperto il monte Kenya e molti dei nostri laghi, compreso il lago Victoria. Nella vecchia
scuola il Kenya era un paese di neri. In quella nuova, si dice che il Kenya, così come il
Sudafrica, era scarsamente popolato prima dell’arrivo dei bianchi e perciò i bianchi
avevano occupato aree disabitate. I bianchi avevano portato la medicina, il progresso, la
pace». In Sogni in tempo di guerra, autobiografia sugli anni dell’adolescenza che lo
avvieranno, primo della sua famiglia, agli studi superiori e poi all’università, Ngugi wa
Thiong’O racconta del passaggio delle logiche imperialiste all’interno di una mente
integralmente colonizzata. Non è un caso, allora, che uno dei più importanti lavori di Ngugi
porti il titolo Decolonising the Mind: The Politics of Language in African Literature.
Ngugi, romanziere e saggista keniota, classe 1938, tra le voci più autorevoli della
letteratura africana, lo elaborò a partire da alcune conferenze tenute nel 1984, in
occasione del centenario della Conferenza di Berlino, che segnò la spartizione dell’Africa a
vantaggio dell’Europa coloniale. La pubblicazione in volume avvenne nel 1986, tre anni
prima del crollo del Muro, sempre di Berlino. Da allora, il lavoro di Ngugi non ha perso
attualità, avendo nel frattempo suscitato una riflessione, con tanto di letteratura critica sul
tema, anche fuori dai circoli degli africanisti. Nella traduzione di Maria Teresa Carbone,
Decolonizzare la mente. la politica della lingua nella letteratura africana (pp. 125, euro 14)
è adesso disponibile anche per i tipi delle edizioni Jaca Book.
Abbiamo incontrato Ngugi nel corso di una presentazione milanese di questo suo
importante lavoro.
La lingua — leggiamo nelle prime pagine di «Decolonizzare la mente» — è da
sempre al centro di una contesa che attraversa tutta la questione africana nel XX
secolo. Imperialismo e asservimento, da un lato. Tentativi di autocoscienza
dall’altro. In un certo senso, dal paraocchi imposti ai lavoratori africani, per piegarli
sull’aratro e farli lavorare senza che potessero vedere alcun orizzonte, siamo
passati a paraocchi molto più raffinati, che ognuno si mette da sé…
Se vuoi assoggettare i corpi, usa catene e cannoni. Ma i cannoni e le catene non bastano,
ti serve qualcosa come una calamita, che anche da un lato respinge, dall’altro
subdolamente attrae, a seconda di come la volti. Qualcosa che se allontanata
retoricamente da te, rimane concretamente dentro di te. La conquista dell’Africa è stata
fatta con i cannoni, ma per rendere eterna tale conquista dovevano intervenire sulle
scuole, sulla formazione delle élites, trasformare la pluralità in una sorta di monoglottismo
del capitale. Dovevano incantare l’anima e la mente, asservendole silenziosamente.
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Per questa ragione, si presenta con urgenza la necessità di decolonizzarle, partendo dal
mezzo più potente di cui si è servito l’imperialismo coloniale e ancora si serve
l’imperialismo postcoloniale: il linguaggio. In Africa, il portoghese, il francese e l’inglese
sono state le lingue del potere, le lingue del governo e di tutta l’amministrazione. Sono
state le lingue della classe media e della borghesia e di chi poteva permettersi di
«studiare». La borghesia acculturata è così entrata di fatto a far parte di una comunità
basata su uno standard europeo di cultura. Questo fatto ha avuto un impatto sull’assetto
geopolitico e geoculturale dell’Africa. In questa prospettiva imperialista, studiare significa,
allora, entrare in quel sistema linguistico e di valori, un sistema molto selettivo e riduttivo,
che riproduce perpetuamente le stesse logiche di dominio da cui è partito. Premesse e
conclusioni non differiscono e nel mezzo c’è sfuttamento dell’altro, non meno che
autosfruttamento di sé. La povertà culturale non è meno devastante di quella linguistica.
Proprio perché la lingua è invece strumento per mediare fra me e gli altri, fra la mia e le
altre identità, e crea diversità come ricchezza. E siccome la ricchezza piace molto a
sistema del capitalismo, pre e post coloniale, hanno deciso di prosciugare i pozzi.
Non è cambiato nulla, rispetto al passato, nemmeno con la decolonizzazione.
Eppure, in venti anni — tanti ne sono passati dalla prima edizione in lingua inglese
del suo lavoro — si è acceso un dibattito…
Oggi, il dibattito sulla lingua africana e sulla «lingua» delle classi medie è molto vivo,
esistono esperienze virtuose, di intellettuali e scrittori che vivono negli Stati Uniti o in
Europa e mantengono connessioni con intellettuali o scrittori che lavorano e scrivano nelle
lingue locali. Però, dobbiamo prestare molta attenzione. Dietro la maschera, la realtà è
ben diversa. Mai come oggi, infatti, la borghesia africana subisce l’influenza della lingua
inglese, vietando ai propri figli di apprendere, parlare, scrivere in una delle lingue africane.
La classe media pensa che i propri figli, i figli dei borghesi di oggi, saranno i borghesi di
domani. La futura classe dirigente deve così perpetuare il monolinguismo, la sudditanza,
lo svuotamento. La loro mente è colonizzata, una mente colonizzata dalla lingua
dominante. Per questa ragione, il futuro dell’Africa mi preoccupa molto. Mi preoccupa
l’abbandono, non più imposto con la sola coercizione fisica, ma da una sorta di
disciplinamento delle anime. Sono strategie sottili, che l’imperialismo conosce molto bene,
perché l’imperialismo è un serpente, striscia e si insinua dove meno te ne accorgi. Oggi
questo imperialismo si è incanalato per vie che non sono solo quelle delle braccia o delle
schiene ricurve dalla fatica. È un imperialismo che è arrivato a lambire la coscienza,
trasformando in falsa coscienza quello che viene però proclamato come autocoscienza.
Intendo dire, che di questo imperialismo è intrisa l’aria che si respira e sottrarsi, oggi, è
difficile, per via delle catene immateriali che legano anima e mente.
In tutto questo, chi ha tenuto vive lingue e tradizioni, rinnovandole, sono state le
popolazioni povere, i contadini dei villaggi…
La borghesia non dico piccola, ma piccolissima, i contadini, i braccianti e la gente povera
hanno continuato a parlare nelle lingue africane, a pensare nelle lingue africane, a vivere
con le lingue africane. Questo ha fatto sì che fosse mantenuta viva un’altra comunità,
parlante le lingue locali. Questa comunità parlava ma non scriveva in queste lingue. La
lingua dei colonizzatori è diventata una prigione linguistica. Infatti, i conquistatori sono stati
conquistati. Alienazione e conquista della nuova lingua hanno creato il dispositivo del
dominio indiretto: la padronanza dell’inglese costituiva il titolo d’accesso all’élites dei
domesticati.
Questo non è accaduto ad alcuni autori di lingua francese, penso a Aimé Césaire,
accusato di «rovinare la lingua dominante,» fatto che comunque rispondeva a una
precisa strategia, una vocazione minoritaria per dirla con Gilles Deleuze. Non a
caso, i francesi parlarono di «petit nègre», qualificando così il gergo e il francese
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parlato dagli ex schiavi, originari dell’Africa ma oramai «impiantati» nelle colonie
d’Oltreoceano…
Dobbiamo fare due distinzioni. Gli africani deportati come schiavi sulle isole caraibiche o in
America hanno avuto l’esperienza di una lingua bandita. Non hanno più potuto utilizzare la
loro lingua, perdendo tutte le connessioni col continente. Hanno così creato una nuova
lingua o delle nuove lingue, mischiando ricordi delle loro lingue d’origine con i frammenti di
quello che stavano imparando delle lingue nuove. Questa ibridazione che conduce a un
linguaggio nuovo l’abbiamo vista anche a livello musicale, pensiamo alla nascita del jazz o
del blues che, a loro volta, hanno avuto un’influenza sullo sviluppo della letteratura. Altra,
invece, è la situazione di chi è rimasto in Africa e si è trovato imprigionato nelle nuove
lingue coloniali. Questi africani che hanno abbandonato, almeno da un punto di vista
culturale, la loro lingua per parlare e scrivere lingue coloniali si trovano di fronte alla vera
grande sfida, la sfida di tornare a casa, di riconnettersi con le lingue locali e da qui potrà
iniziare la seconda parte della grande sfida: creare nuovi rapporti con le altre lingue e le
altre culture europee e mondiali.
Lei ha scelto di non scrivere più in inglese…
Ho scelto di non scrivere più, se non per la forma-saggio, in una lingua che cresce sulla
morte delle altre lingue. Come lingua di comunicazione la uso, ovviamente. Ma una lingua
non è solo comunicazione, è molte cose altre — stratificazione di immagini in un
immaginario, ad esempio, come scrivo in Decolonizzare la mente.
La mia decisione di scrivere in lingua kikuyu la presi in prigione, in una cella di massima
sicurezza. Venni arrestato il 31 dicembre 1977 e liberato il 12 dicembre del 1978. La
ragione del mio arresto era legata al lavoro che stavo facendo, nel teatro di una comunità
locale. Rappresentavamo un testo che avevo scritto e quel testo era in gikuyu. Scrivere e
fare teatro in una comunità locale era possibile solo servendosi della lingua di quella
comunità. Il 16 novembre del 1977, il governo vietò la rappresentazione di Ngaahika
Ndeenda (Mi sposerò quando vorrò), questo il titolo della mia pièce. Questo
provvedimento e la successiva carcerazione mi portarono a riflettere, in maniera più
approfondita, sul rapporto diseguale fra lingue locali e lingua coloniale. Da questa
riflessione nasce la mia decisione di scrivere in gikuyu.
Gli scrittori che hanno fatto qualcosa per la loro lingua sono fonte di continua ispirazione
per me. Penso a Dante, sul quale spesso ritorno. In epoca di latino imperante, Dante
scelse il toscano e in quella lingua inscrisse il futuro. A chi gli rimproverava di non scrivere
in latino, lingua dell’universale, Dante replicava – in latino – che il toscano era una scelta
consapevole, meditata, precisa.
Anche io, nel mio piccolo, ho fatto la mia scelta. Posso parlare in inglese, come sto
facendo ora, tenere lezioni, scrivere ancora saggi in inglese, ma non è questo il punto.
Il gikuyu fa di me un combattente. Ho combattuto così contro le politiche del governo,
violente, intolleranti o semplicemente dettate dall’inerzia. Ma la mia lingua ha fatto di me
quello che sono: un guerriero consapevole, un combattente pragmatico che difende le sue
scelte. Amo le lingue, la differenza nelle lingue. Da Petali di sangue in poi, ho deciso che
la mia narrativa l’avrei scritta solo in gikuyu. Lo stesso era accaduto per il teatro e la
poesia. Questo non ha impedito la circolazione dei miei lavori. Proprio questo ha fatto sì
che venissi tradotto, là dove prima «semplicemente» scrivevo.
«Decolonizzare la mente» è comunque scritto in inglese, non è una contraddizione?
Continuo a scrivere in inglese la mia saggistica, per ragioni pragmatiche e strategiche. In
questo periodo, sto scrivendo soprattutto poesia. Ho pubblicato un lungo poema in lingua
gikuyu con il testo a fronte in inglese. Quando mi chiedono di scrivere qualcosa per i paesi
africani, un saggio o una commemorazione – ne ho scritte per Nelson Mandela e Nadine
Gordimer – al testo in inglese aggiungo sempre una poesia in gikuyu, pretendendo che il
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testo gikuyu rimanga, accanto alla traduzione inglese. Voglio che il gikuyu, anche in
traduzione, lasci una traccia, sia una pietra d’inciampo, faccia in qualche modo da
segnavia, ricordando: ecco da dove siamo partiti, ecco dove siamo arrivati, ecco dove
stiamo andando.
Lei dirige un importante centro di letteratura comparata, conosce bene anche il
lavoro sulla traduzione…
La traduzione è la lingua comune delle lingue. Se esistesse una lingua universale-plurale,
questa lingua non si chiamerebbe «inglese», «francese» o quant’altro, si chiamerebbe,
semplicemente, «traduzione». La traduzione ha contribuito a forgiare le diverse lingue del
mondo. Pensiamo al Rinascimento, quando in Europa si accese una vera e propria gara a
tradurre nella propria lingua i grandi libri della tradizione. Si passava dal latino alla lingua
locale, ma con un procedimento di apertura, non di chiusura. La traduzione è questo
processo che apre.
Oggi, per le lingue africane e «minoritarie» in genere, il problema può essere molto
pratico: un editore non trova sul suo territorio qualcuno che sia debitamente
formato per tradurre oppure può trovare il percorso troppo dispendioso. Si stanno
moltiplicando, anche in Italia, i casi di traduzione di traduzione…
Come ha detto, il discorso può essere molto pratico. Ma da pratico tende a farsi educativo
e politico costituendo, di fatto, un’altra trappola per il linguaggio. Questo vale anche per le
lingue africane, non esistono scuole di formazione – ecco un altro lascito del periodo
coloniale – per la traduzione dalle lingue europee alle lingue africane. Le lingue africane
venivano semplicemente date per perse. I grandi scrittori locali, che scrivono in inglese,
non sono tradotti nelle lingue africane, e questo è un grande paradosso se vogliamo
parlare di letteratura africana. Provate a rivolgervi a un’ambasciata o a un centro culturale
istituzionale per chiedere: «mi può segnalare un traduttore dal gikuyu?». Vi risponderanno
terrorizzati e sdegnati al contempo. Basterebbe questo piccolo esperimento, per capire
che la questione è fortemente politica, non solo tecnica. Coloro che conoscono davvero e
a fondo le lingue africane sono i missionari. Altri sono africani emigrati in Italia, che hanno
imparato l’italiano, io stesso ne conosco almeno due, ma fanno tutt’altro mestiere. Questo
ci riporta alla nostra questione: abituati come siamo a pensare e concepire in maniera
fissa, irrevocabile, l’asse del mondo, vorremmo a parole aprirci alle differenze ma non le
sappiamo cogliere anche se sono a portata di mano.
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