rassegna stampa
Transcript
rassegna stampa
RASSEGNA STAMPA giovedì 23 luglio 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE DIRITTI CIVILI E LAICITA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SPETTACOLO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da il Tirreno del 22/07/15 Al circolo Botteghino tolte le bandiere Solo per una mostra L’Arci: la decisione sarà presa dopo l’assemblea dei soci Alla discussione parteciperanno alcuni membri del No Tav PONTEDERA. Una mostra di foto ha risolto la questione. Ma solo momentaneamente. Le bandiere di Cuba e del movimento No Tav sono state tolte dal circolo Arci Il Botteghino, per far posto agli scatti che fanno parte dell’esposizione. Erano state contestate, nei giorni scorsi, da alcuni soci. Ma la decisione politica verrà presa solo dopo l’assemblea che verrà fatta nelle prossime settimane con tutti i soci. E con esponenti del No Tav che arriveranno dalla Val di Susa. «Verranno a raccontarci com’è la situazione – racconta l’Arci Valdera in un comunicato - perché spesso su questo tema l’opinione della gente è filtrata e condizionata dalla rappresentazione mediatica che viene fatta dalla vertenza No Tav: l’attenzione è più focalizzata sugli scontri». Spiega ancora l’Arci che la battaglia della Val di Susa ha l’appoggio dell’associazione. Ed è questo il motivo per il quale «nelle prossime settimane – spiega l’Arci – organizzeremo un’assemblea di approfondimento in cui inviteremo rappresentanti del No Tav per accompagnarci nel percorso di analisi, discussione, confronto e formazione. Siamo un’associazione che non ha paura di affrontare anche temi giudicati scomodi, siamo convinti che questa sia una opportunità per una crescita collettiva. Siamo orgogliosi di quanto i nostri luoghi siano ancora vivi, capaci di appassionarsi e anche indignarsi per una bandiera, perché ogni occasione per noi è una opportunità di confronto e di dibattito». Sulla questione interviene anche il Partito della Rifondazione Comunista. Dal circolo Karl Marx di Pontedera chiedono all’Arci del Botteghino di poter assistere alla loro discussione, quando ci sarà, all’interno dell’assemblea dei soci, sulla questione delle bandiere esposte e non gradite a tutti. «Dietro quella bandiera – scrivono i comunisti pontederesi, riferendosi al movimento che lotta contro la Tav – ci sono anni di lotte e di mobilitazioni, che hanno visto partecipi la quasi totalità della popolazione. Una maggioranza che non è stata ascoltata né coinvolta nelle decisioni, eppure l’opera di grande impatto verrà fatta sul loro territorio, in casa loro e con scarsa utilità generale. Ben venga un’assemblea nella quale si potrà discutere con i cittadini della Val di Susa in modo da conoscere meglio i problemi per i quali loro combattono». http://iltirreno.gelocal.it/pontedera/cronaca/2015/07/22/news/al-circolo-botteghino-tolte-lebandiere-solo-per-una-mostra-1.11818657 Da Lecco Notizie del 22/07/15 Arci e Libera: domenica “Legalitour” tra i beni confiscati alla mafia Libera - Tenda della memoria (6) - 25 agosto 2013LECCO – Il Comitato provinciale ARCI di Lecco e il Coordinamento provinciale di Libera organizzano, la quarta edizione dei Campi di Lavoro Antimafia: il titolo del campo di quest’anno è “ ATtivaTORI di 2 CITTADINANZA” e vedrà il proprio svolgimento dal 24 luglio al 2 agosto presso il CFPP di via Montessori a Lecco. L’attività, che si inserisce nel nutrito elenco dei campi di volontariato che Arci organizza in tutta Italia nell’ambito dell’antimafia sociale e dell’educazione alla legalità democratica, è realizzata con la collaborazione di numerose realtà del Terzo Settore lecchese e lombardo: CGIL, AUSER, cooperativa ALMA FABER, Consorzio Consolida, la COOP Lombardia. Oltre alle attività creative e di formazione che quest’anno coinvolgeranno circa venti giovani del territorio di Lecco e non solo, sono previsti anche alcuni eventi pubblici, cui tutta la cittadinanza è invitata a partecipare, che realizzeremo a Lecco e in provincia. Il primo di questi verrà svolto domenica 26 luglio e consisterà in un “LEGALITOUR”, ossia un giro di conoscenza dei beni confiscati e non solo presenti sul territorio. La partenza del tour è prevista per le ore 09.00, presso la sede di realizzazione del campo (CFPP, via Montessori, Lecco). Al rientro, pranzo sociale a offerta libera. L’iniziativa è realizzata in collaborazione con il Comune di Lecco, Arci Lombardia e CGIL Lombardia. http://www.lecconotizie.com/attualita/arci-e-libera-domenica-legalitour-tra-i-beni-confiscatialla-mafia-255215/ 3 INTERESSE ASSOCIAZIONE Da Redattore Sociale del 22/07/15 Riforma terzo settore rimandata a settembre: si rischiano tempi lunghissimi Poco tempo e troppa concorrenza: ufficializzato al Senato lo slittamento a dopo la pausa estiva delle votazioni sul ddl delega: scadenza emendamenti al 7 settembre. Conclusione inevitabile dopo i ritmi delle ultime settimane. E anche in autunno la partita non si annuncia semplice ROMA – Alla fine si sono arresi: troppo poco tempo a disposizione, anche solo semplicemente per avviare la votazione sugli emendamenti. Slitta ancora, e stavolta definitivamente a dopo l’estate, l’esame in Commissione Affari costituzionali del Senato del ddl delega di riforma del terzo settore: il termine per la presentazione degli emendamenti, che era stato inizialmente fissato al 9 luglio e poi prorogato al 21 luglio, è stato posticipato alle ore 13 di lunedì 7 settembre, dunque alla riapertura di Palazzo Madama dopo la pausa estiva. Un rinvio che nelle ultime settimane era ormai nell’aria e che è stato ufficializzato per decisione della presidente della Commissione, Anna Finocchiaro. E’ un rinvio, però, che potrebbe costare ancora più caro, perché con i tempi che si dilatano si avvicina sempre più la sessione di bilancio, che dal 15 ottobre in poi monopolizzerà l’esame dei provvedimenti in Parlamento, alle prese fra gli altri con la redazione e votazione della legge di stabilità. I tempi per l’approvazione insomma potrebbero perfino slittare di mesi, fino a sconfinare nella peggiore delle ipotesi nel 2016. Davvero troppo avanti per una maggioranza e un governo che avevano indicato mesi fa proprio l’estate 2015 come il limite entro il quale riuscire ad approvare la legge di riforma. La realtà è stata ben diversa. Il governo ipotizzava di chiudere presto contando sul fatto che il testo approvato alla Camera nello scorso mese di aprile potesse già essere quello buono, e che la discussione al Senato potesse essere molto più agile e snella di quella avvenuta a Montecitorio. Nessuno negava ai senatori la possibilità di modificare il testo, ma dalle parti dell’esecutivo (e non solo) si pensava al più a modifiche minimali, incapaci di modificare gli equilibri del testo e soprattutto tali da rendere poi la terza lettura alla Camera ugualmente snella e rapida. Fin da subito, invece, è apparso chiaro che quello al Senato non sarebbe stato un passaggio formale: la Commissione Lavoro e la Affari Costituzionali hanno litigato per contendersi il testo, il relatore Lepri (Pd) ha presentato una relazione che incide nel merito in molti dei punti qualificanti della legge, un gruppo di organizzazioni sono state chiamate per essere nuovamente ascoltate sul testo. Insomma, tutti segnali che la partita non era affatto chiusa e che la discussione non poteva essere rapida e indolore. Il resto l’ha fatto l’ingorgo dei lavori in Senato e in particolare proprio nella prima commissione, che fra i tanti provvedimenti all’ordine del giorno ne ha uno di una importanza capitale per le sorti stesse del governo: il disegno di legge di revisione della parte II della Costituzione. Sulla riforma costituzionale l’esecutivo e la maggioranza si giocano una bella fetta della loro credibilità, e la maggioranza ha scelto di dare la precedenza a quel testo, che sarà votato nella prima settimana di agosto per approdare in Aula, comunque, non prima della ripresa a settembre. Il terzo settore, e tutti gli altri 4 provvedimenti, devono attendere a dopo l'estate, quando l'ingorgo istituzionale non si annuncia però meno forte di quello attuale. 5 ESTERI del 23/07/15, pag. 5 L’accordo, poi elezioni. Ecco il piano di Tsipras Grecia. Il premier gioca d’anticipo: prima il terzo pacchetto di aiuti, poi lo show down nel partito e il voto anticipato, il 13 o il 20 settembre. Obiettivo: «Un nuovo inizio per Syriza» Angelo Mastrandrea Il governo Tsipras 2.0 era atteso ieri a un decisivo “crash test” che ne avrebbe determinato la possibilità di durare oltre l’autunno. Invece la sorpresa è arrivata prima del voto sul secondo pacchetto di riforme: si va dritti verso una Syriza 2.0 e verso il voto anticipato, già a settembre. Il premier, sulla graticola da giorni, ha giocato d’anticipo come gli capita spesso, ribaltando il tavolo da gioco alla velocità che abbiamo imparato a conoscere e dando appuntamento a settembre per lo show down finale sul suo governo e all’interno del partito di cui è tuttora presidente. Criticato per la scelta di aver firmato un accordo-resa senza prendere in considerazione il piano B della Grexit (nella versione Varoufakis del default nell’Eurozona o in quella più radicale della Piattaforma di sinistra, con progressivo ritorno alla dracma), nel mirino per non aver voluto incontrare il Comitato centrale del partito, accusato dalla sinistra interna di voler traghettare il governo e Syriza su posizioni moderate, messo in discussione per aver accettato i voti dell’opposizione che ora lo ricatterebbe sulle iniziative da prendere, Tsipras ha lanciato il suo guanto di sfida. «Non nascondetevi dietro la mia firma sotto l’accordo», ha detto, annunciando un congresso «per chiarire gli obiettivi e la strategia del partito, e le caratteristiche del governo di sinistra nelle nuove circostanze», non prima però di aver portato la barchetta greca lontano dai marosi. L’obiettivo, ora, è ottenere nel negoziato di agosto «il miglior risultato possibile», poi il premier proverà a sfruttare il successo per fare il pieno nelle urne. A puntualizzare è stata in seguito la nuova portavoce del governo Olga Gerovasili: «Syriza siamo tutti noi, questa è la verità», ha mandato a dire al leader della Piattaforma di sinistra Panagiotis Lafazanis che aveva rivendicato una sorta di primazia ideologica. Una battuta alla quale l’ex ministro dell’Energia ha risposto ribadendo le sue posizioni: «La Grecia non ha futuro nell’Eurozona, ma come paese progressista e orgoglioso che, nonostante le difficoltà, combatte contro l’austerità». Gerovasili è stata molto chiara sulle possibilità di un «divorzio» tra le due anime di Syriza: «Ci sono strategie diverse, differenti punti di vista. Sarà difficile restare insieme, forse impossibile. Non è possibile andare avanti così». Lo scenario che si apre è dunque il seguente: voto in nottata sul nuovo codice di procedura civile e sulla direttiva bancaria (probabilmente con qualche defezione in meno nella maggioranza rispetto alla scorsa settimana), avvio dei negoziati per l’accesso al Fondo salva-stati (da chiudere entro il 20 agosto) con fine dell’emergenza finanziaria, congresso di Syriza ed elezioni anticipate, il 13 o il 20 settembre. Con l’obiettivo, spiega la portavoce del governo, di un «nuovo inizio» per la sinistra radicale greca. In questo quadro, il voto di ieri è passato un po’ in sordina, anche perché la discussione è cominciata solo alle 20, dopo che le 900 pagine da sottoporre al voto dei deputati (quanti avranno avuto il tempo di leggerle con attenzione?) erano passate al vaglio delle commissioni parlamentari. Non fosse stato per i dolori di Syriza, la discussione sarebbe 6 andata più liscia rispetto a quella per il primo pacchetto di riforme. Cancellato l’aumento di tasse per gli agricoltori a causa dell’opposizione di Nea Democratia e degli alleati dell’Anel (ieri il ministro della Difesa Panos Kammenos ha incontrato Tsipras e, uscendo, ha detto ai giornalisti che i contadini non sarebbero stati toccati) e rinviata la legge sulle pensioni, sono andate al voto le meno controverse riforme bancaria e della giustizia civile. Nel primo caso, si trattava di ratificare la direttiva europea sulle banche già approvata dagli altri parlamenti continentali (Italia inclusa), che prevede la garanzia dei conti correnti bancari fino a 100 mila euro ma con eventuali perdite scaricate sugli azionisti e non sullo Stato. Nel secondo, invece, la finalità è quella di snellire i processi civili, con l’eliminazione dei testimoni, tra le altre cose, e la velocizzazione della confisca dei beni. C’era solo un punto dolente: la possibilità da parte delle banche di requisire le case pignorate e metterle all’asta. Per questo ieri mattina Alexis Tsipras ha convocato il vertice dell’associazione dei banchieri chiedendo loro di non applicare questa norma almeno fino alla fine dell’anno, per dare al governo il tempo di poter intervenire sospendendo il provvedimento. È un esempio di quello che il premier intendeva dire quando annunciava battaglia e misure compensative per smussare gli angoli più spigolosi dell’accordo: c’è una riforma imposta, praticamente dettata dalla troika senza il tempo di metterci su le mani, che prevede tra le altre cose la vendita delle abitazioni dei morosi, e l’unico modo per intervenire è aggirarla non applicandola nei fatti. Il problema, semmai, sorgerà se il governo dovesse cambiare e il nuovo non dovesse deciderne la sospensione. Dopo il “crash test” notturno depotenziato, le prossime misure dovrebbero riguardare la lotta alla corruzione e il pagamento delle frequenze televisive (un punto centrale del programma di Salonicco con il quale Syriza ha vinto le elezioni), mirato a eliminare il monopolio e i privilegi dei boss delle tv private. Per questa mattina invece il premier ha convocato al Megaro Maximou, il palazzo del governo, la presidente del Parlamento Zoe Konstantopoulou, che anche ieri ha chiesto di votare no alle riforme. È possibile che, venuto a mancare il rapporto fiduciario con il governo, le chiederà di farsi da parte, cosa che getterebbe benzina sul fuoco delle polemiche interne a Syriza in quanto Kostantopoulou, ex avvocato per i diritti civili, è uno dei personaggi più popolari dell’opposizione da sinistra a Tsipras. Del 23/07/2015, pag. 11 Grecia, altre 2 riforme giustizia e banche Sale la liquidità Bce Voto nella notte. Tsipras: non è il nostro piano ma vinceremo. Restano fuori le baby-pensioni ETTORE LIVINI MILANO Alexis Tsipras lancia il guanto di sfida ai dissidenti di Syriza e porta a casa salvo improbabili sorprese - il secondo successo ai punti nella difficilissima partita per salvare la Grecia dal default. Le riforme sulla giustiza civile e il sistema bancario erano ancora in discussione nella tarda serata di ieri in Parlamento, mentre alcuni manifestanti a piazza Syntagma lanciavano bottiglie e bombe carta all’indirizzo della polizia. Il risultato del voto era scontato. «Abbiamo accettato il compromesso perché non avevamo altre scelte, non è il nostro piano. Ma vinceremo» ha ribadito Tsipras. Il governo dovrebbe aver portato a casa l’ok grazie ai voti dell’opposizione di Nd, Pasok e Nea Demokratia. L’unica incertezza era la quantificazione del dissenso interno al suo partito. Ben 39 7 deputati avevano votato contro il primo pacchetto di misure d’austerity una settimana fa, limando a 123 voti (su 300) il consenso dell’esecutivo in aula. Se si fosse scesi sotto i 120 - soglia minima per superare un voto di fiducia - Tsipras potrebbe persino pensare alle dimissioni per dare il via libera a un governo di scopo. Il rischio però era limitato. Il presidente del Consiglio, per non esacerbare le tensioni, aveva cancellato dall’ordine del giorno l’ok alle nuove norme sulle baby pensioni e sulla riforma fiscale dell’agricoltura. Provvedimenti indigesti non solo alla sinistra radicale ma anche a molti parlamentari dell’opposizione eletti nelle aree rurali. E questo “lifting” l’ha reso molto più accettabile per l’inedito governo. Qualunque cosa succeda, la partita - dopo il voto di stanotte cambia copione. Il campo resta Atene, ma archiviati i passaggi parlamentari necessari a far partire i negoziati, oggi iniziano sotto il Partenone le discussioni in vista del terzo piano di salvataggio del paese. «Dobbiamo chiudere entro la seconda metà di agosto», ha detto il Commissario economico della Ue Pierre Moscovici. Entro il 20 Atene, del resto, deve rimborsare altri 3,5 miliardi alla Bce e senza nuovi aiuti - il memorandum prevede 86 miliardi di prestiti - il paese rischierebbe il default. Le trattative non saranno semplici e Tsipras cercherà di accompagnare queste nuove misure d’austerità a un attacco deciso a evasori e oligarchi e a misure umanitarie per proteggere la fascia più debole della società. In questi giorni l’esecutivo avrebbe avviato centinaia di ispezioni fiscali sulle categorie più a rischio di infedeltà all’erario. E forse già questa settimana approderà in Parlamento la nuova legge sulle frequenze tv, il primo vero colpo al potere delle grandi famiglie che da decenni controllano (e guidano attraverso gli schermi delle loro tv) l’economia e la politica nazionale. A dare una mano al Governo è arrivata la Bce. Eurotower ha aumentato di altri 900 milioni le linee di credito d’emergenza per Atene. Garantendo in sostanza la liquidità per tenere aperti i bancomat e le agenzie ancora una settimana. La giornata di ieri ha confermato come Tsipras sia intenzionato ad andare al redde rationem con la Piattaforma di sinistra e i 39 deputati che hanno votato contro il compromesso a Bruxelles. «Una scissione nel partito è probabilmente inevitabile » ha ieri chiaro e tondo Olga Gerovasili, la nuova portavoce del Governo. Lo stesso premier come spesso accade ad Atene ha affidato il suo pensiero sul tema a un verbale ufficioso di una riunione di partito fatto circolare dal suo entourage: «C’è gente che si trincera dietro la mia firma per farsi i suoi interessi avrebbe detto il primo ministro a settembre dovremo sederci attorno a un tavolo e fare chiarezza » L’obiettivo è chiaro:firmare il nuovo memorandum e poi arrivare al redde rationem in Syriza. In questo summit Tsipras avrebbe richiesto ai dissidenti senza risultato - di mettere sul tavolo le loro alternative. Ribadendo che quelle viste fino a ora sono il sequestro delle riserve della Banca di Grecia e il pagamento delle pensioni con valute parallele: «Le stesse messe sul tavolo da Schaeuble», ha detto sferzante. La frattura è ormai conclamata. Iskra, il portale dei dissidenti, ha apertamente criticato il premier. Zoe Konstantopoulou, la presidente della Camera, ha scritto addirittura al primo ministro e al presidente della Repubblica contestando la costituzionalità del voto di ieri sera. Tsipras la vedrà oggi a mezzogiorno. Ma ricucire lo strappo non sarà davvero facile. Del 23/07/2015, pag. 11 E ad Atene torna la Troika,colpo per il premier MILANO A volte ritornano. Il 25 gennaio, sembra un secolo fa, Alexis Tsipras aveva recitato il de profundis. «Il popolo greco ha fatto la storia – aveva annunciato da palco dei Propilei nel comizio dopo il trionfo elettorale - . La Troika appartiene al passato». Si sbagliava. La 8 Troika è viva e lotta insieme a lui. E dopo un semestre di confino a Bruxelles sotto falso nome (“le istituzioni” il più gettonato) Ue, Bce e Fmi hanno fatto ieri un ritorno trionfale ad Atene. Il mondo, nel frattempo, è cambiato. Fino a un mese fa, nell’era di Yanis Varoufakis, i tecnici del trio di cani da guardia dell’austerity erano relegati nelle stanze di un albergo, in attesa perenne di documenti dai ministeri che spesso arrivavano sul loro tavolo in gravissimo ritardo e rigorosamente in greco. Oggi Rasmus Ruffer (Bce), Declan Costello (l’ambasciatore Ue che qualche mese fa cercò di bloccare le leggi umanitarie di Tspras) e la new entry Delia Velculescu ( Fmi ha sostituito Rishi Goyal) hanno carta bianca e porte spalancate. Stamattina dovrebbero avere un primo incontro all’Ufficio bilancio di Atene per verificare i danni collaterali causati dai controlli sui capitali. Ed entro pochi giorni dovrebbero produrre un primo bilancio del disastro economico dell’ultimo mese, che servirà da base dei negoziati per il terzo piano di salvataggio. La ricomparsa sotto il Partenone delle istituzioni è uno dei bocconi più amari da mandare giù per Syriza. I primi mesi di mandato di Tsipras se ne sono andati proprio in estenuanti discussioni per rimuovere il “vulnus” di un paese guidato in sostanza da un gruppo di tecnocrati non eletti in grado di fare il bello e il cattivo tempo nei ministeri nazionali. La sostanza, in realtà, non è mai cambiata. Più semplicemente la regia degli interventi è stata spostata fuori dai confini ellenici e il nome troika è stato abolito, per rispettare la suscettibilità ellenica, da tutti i documenti ufficiali della Ue. Ora però il tempo stringe e il controllo a distanza dell’economia di Atene non è più possibile. L’ha capito anche Tsipras, costretto a dare il semaforo verde – con buona pace delle promesse elettorali – all’arrivo degli inviati di Ue, Bce e Fmi nella capitale. Probabile, vista la situazione, che i tecnici del terzetto tengano questa volta un profilo molto basso. Anzi, è possibile che a loro sia affidata pure la regia degli interventi “umanitari” necessari nelle prossime settimane per bilanciare la nuova cura lacrime e sangue imposta alla Grecia. del 23/07/15, pag. 15 Turchia, dopo l’attentato funerali blindati e rappresaglie Marta Ottaviani A tre giorni dall’attentato a Suruç, costato la vita a 32 persone, in maggioranza studenti curdi e aleviti che volevano portare aiuti a Kobane, la Turchia è un Paese sull’orlo della crisi di nervi e con una certezza: l’Isis è un nemico e adesso è anche in casa e parla la sua stessa lingua. Le indagini degli inquirenti hanno portato a una scoperta-choc: il kamikaze che ha provocato la strage è un ragazzo turco di 20 anni. Si chiama Seyh Abdurrahman Alagoz, studente, proveniente da Adiyaman, nel sud-est del Paese e non troppo distante da Suruç. Il padre del ragazzo ha raccontato al quotidiano «Hurriyet» di avere denunciato la sua scomparsa tre mesi fa. Stando alle prime indiscrezioni, sembra che il giovane avesse subito l’influenza di un predicatore in una sala da tè della cittadina e che con il suo fratello maggiore avesse deciso di lasciare la famiglia e l’università per entrare a far parte delle truppe dello Stato Islamico. Le indagini si stanno concentrando anche su una, forse due donne, che lo avrebbero aiutato a compiere la strage e che potrebbero essere turche anche loro. Armati di pistole e Ak47 9 La tensione si taglia con un coltello e inizia a assumere connotati insoliti persino per la turbolenta quotidianità turca. Ieri i funerali di alcune vittime alevite, che sono stati celebrati nel quartiere di Sultan Gazi, a Istanbul, sono stati seguiti da una manifestazione protetta da uomini armati di pistole e kalashnikov. Anche il Pkk ha reagito alla strage, anche se in modo anomalo, sequestrando e uccidendo due poliziotti turchi, una rappresaglia per la «complicità» di Ankara nell’attentato dell’Isis. La situazione è stata esacerbata ieri dal blocco temporaneo di Twitter, durato poche ore, dopo che la magistratura aveva proibito la diffusione delle immagini dell’attentato. Il social network - che ha rimosso, come richiesto dalle autorità di Ankara, foto e video dei momenti successivi alla strage - in questi giorni era utilizzato anche da associazioni e collettivi per organizzare manifestazioni contro il governo islamico-moderato e il presidente Recep Tayyip Erdogan, da sempre accusati di tenere una linea troppo morbida e ambigua nei confronti di Isis. Domenica a Istanbul ci sarà un grande corteo organizzato dall’Hdp, il Partito curdo e in molti temono una nuova, dura repressione da parte della polizia. del 23/07/15, pag. 7 Proteste contro il governo, Erdogan blocca internet Turchia. Pkk rivendica l’omicidio di 2 poliziotti, uccisi nella città di confine con la Siria di Ceylanpinar Giuseppe Acconcia La meglio gioventù turca è stata colpita nell’attentato di Suruç. Secondo le autorità di Ankara, l’attentatore suicida sarebbe Seyh Abdurrahman Alagoz. Il ventenne avrebbe passato gli ultimi sei mesi in Siria unendosi allo Stato islamico. I genitori dei socialisti kurdi turchi che hanno partecipato ai funerali delle 32 vittime con il pugno chiuso, le immagini dei cadaveri delle giovani donne che si tenevano per mano e dei ragazzi che pranzavano felici prima dell’attentato nel giardino del centro Amara di Suruç hanno fatto il giro del mondo e creato un moto anti-governativo in Turchia senza precedenti. In particolare ai funerali di Ismet Seker e Cemil Yildiz nel quartiere di Sultangazi a Istanbul, alcuni uomini hanno sparato in aria colpi di kalashnikov. Martedì mattina la stazione di polizia locale era stata attaccata da uomini armati. Le proteste sono andate avanti anche ieri nonostante l’annunciata repressione delle forze dell’ordine. Sono almeno 49 (molti acciuffati nella manifestazione di Kadikoy nel centro di Istanbul e sulla strada verso la sede del partito di Erdogan, Akp) i contestatori arrestati; la polizia ha sequestrato bombe e bottiglie molotov. Per evitare che si ripeta il tam tam che portò alle contestazioni di Gezi Park di due anni fa, la magistratura turca ha subito disposto il blocco preventivo di Twitter dove circolano centinaia di immagini e video dei minuti dell’attentato contro i giovani che portavano aiuti a Kobane. Dopo due ore, Twitter ha ricominciato a funzionare. Sono stati bloccati però i siti internet che hanno link alle immagini. I magistrati turchi hanno in particolare chiesto e ottenuto la rimozione di 107 foto e 50 articoli. «Avreste dovuto fare sforzi per salvaguardare la sicurezza nazionale invece di bloccare Twitter», ha subito reagito il leader del partito kemalista (Chp), Kemal Kilicdaroglu, impegnato in complicati colloqui per la formazione di un governo di coalizione con Akp. 10 Il leader del partito della sinistra kurda (Hdp), Selahattin Demirtas, ha avvertito che è alto il rischio di nuovi attacchi suicidi per il comportamento negligente di uomini dell’Intelligence e della Sicurezza. Demirtas ha chiesto ai cittadini che vivono al confine con la Siria e alle istituzioni di prendere misure precauzionali contro possibili e imminenti attacchi dello Stato islamico. Hdp ha anche imposto un controllo meticoloso di tutti gli edifici del partito. Solo ieri sono arrivate le rassicurazioni del premier in pectore, Ahmet Davutoglu, che ha condannato l’attacco. «Daesh non raggiungerà mai i suoi obiettivi», ha detto il politico islamista moderato contestando le accuse di aver lasciato carta bianca ai jihadisti in funzione antikurda, mossa a Erdogan da molti politici e intellettuali turchi. Non è mancata neppure una rappresaglia contro due poliziotti (uno dei due lavorava per il nucleo anti-terrorismo) nella città di confine con la Siria di Ceylanpinar. I corpi sono stati rinvenuti nella loro abitazione. Il partito dei lavoratori kurdi (Pkk), fuorilegge in Turchia e nella lista dei gruppi terroristici, ha rivendicato il blitz definendolo una vendetta per la connivenza tra polizia e Stato islamico nell’attacco di Suruç. Le accuse al governo turco arrivano anche dall’Egitto. Secondo la stampa locale le relazioni tra i due paesi, deterioratesi dopo il colpo di stato militare duramente contestato da Erdogan, non sono mai state tanto incrinate. In particolare il Cairo ha mosso accuse durissime alle autorità turche di aver favorito l’ascesa dello Stato islamico nel Sinai lasciando passare su territorio turco i jihadisti, diretti verso la Siria. Questo fuoco di fila contro Erdogan arriva nella fase più delicata della sua ascesa politica quando sembra difficile la formazione di un nuovo governo e sempre più vicino il ritorno alle urne mentre la vittoria elettorale di Hdp e gli attacchi di Isis stanno esasperando ancora una volta le divisioni tra i kurdi turchi. Del 23/07/2015, pag. 1-27 IL PUNTO In cerca di un ruolo nel Mediterraneo NELLA visita di Renzi in Israele si è intravista la trama di una politica estera in grado di abbracciare Mediterraneo e Medio Oriente. STEFANO FOLLI SOLO una trama, per la verità, o meglio un’intuizione, perché il cammino è impervio. Da un lato, il presidente del Consiglio sconta ancora la sua relativa inesperienza sulla scena internazionale; dall’altro, l’Italia deve risalire la china e riguadagnare quel rango di potenza regionale, cioè di medio livello, che in passato aveva saputo interpretare e che oggi invece è assai appannato. La novità è che Renzi si è mosso dopo l’accordo nucleare sull’Iran e ha scelto di andare a Gerusalemme per esprimere amicizia a Israele e rassicurare lo Stato ebraico. Lo ha fatto nel colloquio con il premier Netanyahu e con un discorso alla Knesset, il Parlamento, denso di elementi politici e anche emotivi. Ha confermato, è ovvio, che l’Italia appoggia con convinzione l’accordo, ma ha insistito sulla sicurezza di Israele come componente essenziale della sicurezza dell’Europa e del mondo occidentale. In sostanza, non si è allontanato dal solco tradizionale della nostra politica estera, compreso l’auspicio che la questione palestinese si risolva nella formula “due popoli, due Stati”, ma ha usato toni e accenti apprezzati dagli israeliani in un momento molto difficile delle relazioni con l’America di Obama. Ha agito non tanto come mediatore — non avrebbe la forza e la credibilità — quanto come “facilitatore” dei rapporti per superare una seria incomprensione 11 fra antichi alleati. Compito non semplice che richiede sensibilità, ma dimostra un punto cruciale: in Israele Renzi non è andato per una “photo opportunity”, come spesso è capitato ai politici italiani. È andato, primo fra i leader europei dopo la firma degli accordi di Vienna, per tessere un filo. Nel quale la priorità è la stabilità dell’area mediterranea e una strategia condivisa contro il terrorismo legato in varie forme al fondamentalismo e allo Stato islamico. È un tema su cui gli israeliani sono logicamente molto sensibili, come lo sono i palestinesi di Abu Mazen e, nei territori della Cisgiordania, la stessa Hamas. È qui che si vede il reticolo di una politica estera con elementi innovativi. Una politica che si sviluppa nella cornice delle relazioni consolidate, in primo luogo con gli Stati Uniti, ma che si sforza di non essere solo passiva. Renzi è arrivato a Gerusalemme all’indomani del rapimento dei quattro italiani in Libia, consapevole che l’Italia paga e pagherà il prezzo più alto al caos che imperversa fra Tripoli e Tobruk nonostante gli sforzi dell’inviato dell’Onu. Stabilizzare è il solo obiettivo che può interessare al governo di Roma in questo frangente. Un obiettivo che l’amicizia di Israele può avvicinare, al pari di quella con l’Egitto di Al-Sisi. Non a caso il presidente del Consiglio è stato pochi mesi fa al Cairo e ha pronunciato un discorso impegnativo contro il terrorismo. Non tutti nel mondo politico e diplomatico italiano sono d’accordo con questa impostazione, alcuni ne vedono i rischi rispetto alla disgregazione libica e preferirebbero maggiore equidistanza fra le fazioni in lotta. Ma Renzi sembra muoversi sull’asse Gerusalemme- Il Cairo, nella convinzione che all’indomani dell’intesa con l’Iran questa è anche l’opzione preferita dagli americani. Se è così, i contorni dell’iniziativa italiana cominciano a delinearsi. C’è bisogno, senza dubbio, anche di una disponibilità all’uso coordinato della forza militare, se e quando fosse necessaria; e infatti anche su questo aspetto Renzi ha aperto qualche spiraglio, sia pure con la doverosa cautela. C’era un tempo in cui l’Italia della Prima Repubblica, da Andreotti a Craxi, tendeva a sottostimare il rapporto con Israele e a privilegiare le relazioni politiche, ma anche affaristiche, con il mondo arabo. Oggi, nel momento in cui l’accordo con l’Iran modifica i parametri della questione mediorientale, Renzi si muove partendo da Israele e dalla necessità di ricomprendere lo Stato ebraico nel disegno della sicurezza mediterranea. È un inizio interessante, utile a dare uno “status” all’Italia in un quadro regionale che dovrebbe vederla protagonista. Ed è anche una prospettiva che dovrebbe sollecitare una convergenza non occasionale fra la maggior parte delle forze parlamentari anche d’opposizione. Del 23/07/2015, pag. 7 Il giallo degli scafisti le due versioni di Alfano “Il governo non tratta” Il ministro non esclude lo scambio con i rapiti, poi smentisce Mattarella: “Ferita aperta, speriamo in una soluzione rapida” GIUSEPPE FILETTO ROMA. «Ci hanno rasserenato, ci hanno garantito che stanno lavorando, e noi ci fidiamo ciecamente delle persone con cui abbiano parlato», si limita a dire Gino Del Medico, nipote di Gino Pollicardo, giunto a Roma da Monterosso al Mare, insieme a Ema Orellana, alla moglie del tecnico della Bonatti. Alle 19,15 di ieri i familiari dei quattro italiani rapiti in Libia lasciano la Farnesina. Con i Pollicardo ci sono i parenti di Filippo Calcagno, arrivati da Piazza Armerina, di Salvatore Failla (Carlentini) e di Fausto Piano (Capoterra). «Bisogna fidarsi della capacità dell’Intelligence». 12 Per il resto, oltre a raccomandare prudenza, vige la consegna del silenzio: «Per ragioni di sicurezza». Ma se la Farnesina blinda la vicenda, dall’altra il Viminale lascia intendere che sul rapimento incombe la richiesta di scambio con scafisti libici detenuti in Italia. «Non credo che possiamo escludere alcuna pista», ammette nel primo pomeriggio il ministro dell’Interno. Angelino Alfano fa capire, indirettamente, che l’ipotesi, in un primo momento alquanto inverosimile, potrebbe essere il segnale di una trattativa già in corso. E poco più tardi il ministro torna sull’argomento: «In ogni caso, il governo non tratta». Sembra la risposta ad un contatto già avuto con i rapitori, anche se ufficialmente fino alla tarda serata non è giunta alcuna rivendicazione.«È evidente — promette Alfano — che faremo di tutto per liberare i quattro italiani ». Già, perché lievitano, invece, l’angoscia e la paura nelle case dei rapiti. Da domenica sera non si sa altro, se non le notizie che si sono accavallate ieri. Precedute da un intervento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in visita a Malta. «Speriamo in soluzione rapida, perché il caso dei cittadini italiani rapiti è per noi una ferita aperta. Si sta cercando di capire cosa sia successo e in che modo intervenire, c’è un impegno molto forte, anche di altri Stati». Come “Fajr Libya”, la milizia islamista che ha imposto un governo parallelo a Tripoli e starebbe cooperando con il Viminale. Qualche speranza, infatti, arriva dalle parole del suo portavoce, Al Queek: «Non siamo stati noi a rapirli, non conosciamo gli autori del sequestro, ma presto saranno liberi». La risposta è successiva alla notizia che i presunti rapitori potrebbero fare parte di alcune formazioni islamiste legate a “Fajr Libya”, e che il sequestro sia un messaggio politico all’Italia, in particolare sul piano di pace discusso in Marocco, sotto l’egida dell’Onu. E che non piace a “Fajr Libya”. Intanto, secondo il racconto dell’autista che doveva portare gli italiani al compound di Mellitah, sarebbero state violate le procedure di sicurezza: viaggiavano su un’auto senza scorta armata. E Alfano sottolinea: «Non possiamo imprigionare gli italiani che si trovano all’estero, c’è un’assunzione di responsabilità individuale quando decidi di spostarti, attraversando zone pericolosissime ». L’autista dei dipendenti della Bonatti ha raccontato di essere arrivato dalla Tunisia e che a 5 chilometri dal campo Eni si sarebbe accorto che dietro c’era un’auto, che li ha costretti a fermarsi e deviare verso Sud. E potrebbe avere un filo logico la notizia diffusa dal sito locale Akhbar Libya 24 , secondo la quale «i rapiti sarebbero stati condotti in una zona desertica del Paese, dove è facile nasconderli». Secondo quanto riferiscono fonti di Sebrata, i rapitori hanno costretto gli italiani a scendere dall’auto, hanno gettato i loro telefonini, nel timore che potessero essere rintracciati dal segnale. Notizie che però non trovano conferme. Come quella sostenuta dal governo di Tripoli: il rapimento sarebbe opera di Jeish al Qabail (Esercito delle Tribù), alleati del generale Khalifa Haftar, quello di Tobruk. Il portavoce della milizia Fajr Libya: “Non siamo stati noi e non conosciamo i responsabili ma presto gli italiani saranno liberi” Ancora nessuna rivendicazione ma si fa strada l’ipotesi di un contatto già in corso con i sequestratori del 23/07/15, pag. 6 Il mullah: «Giù le mani dall’Afghanistan» Afghanistan. Dopo l’accordo nucleare iraniano, i Talebani avvallano i colloqui: per difendersi dall’avanzata del Califfato e dal cambiamento degli equilibri regionali Giuliano Battiston 13 «Freniamo gli entusiasmi», «per ora nessuna svolta», «vedremo nelle prossime settimane», «dei Talebani non mi fido». Dall’Afghanistan arrivano messaggi chiari: qualsiasi entusiasmo è prematuro. È vero, il comunicato con cui il mullah Omar, il leader della guerriglia talebana, ha dichiarato che il negoziato è legittimo è un passaggio importante. Segna una svolta. Avalla i colloqui informali e non che si sono svolti negli ultimi mesi. E si somma alla notizia, confermata nei giorni scorsi dal Consigliere per la sicurezza nazionale, Hanif Atmar, che il secondo incontro ufficiale tra i rappresentanti del governo e quelli dei barbuti si terrà il 30 luglio. Ma prima che gli incontri e le dichiarazioni producano i loro effetti sul terreno di battaglia ci vorrà del tempo. I tempi della diplomazia. Lunghi in ogni caso. E particolarmente in quello afghano, dove sia il fronte governativo sia quello anti-governativo sono frammentati. Qualcuno a Kabul azzarda letture perfino meno ottimistiche: il messaggio dell’Amir-ul-Momineem, il «comandante dei credenti», non sarebbe tanto un segno di forza, quanto un sintomo di debolezza. Una reazione, più che una decisione vera e propria. L’ultimo tentativo della vecchia guardia dei Talebani, la shura di Quetta, il consiglio legato all’Emirato islamico d’Afghanistan (il governo rovesciato dagli americani nel 2001), di rimanere in sella. Di continuare a esercitare egemonia politica all’interno di una galassia sempre meno coesa. E di rispondere alle insidie rappresentate dalla presenza in Afghanistan degli uomini dello Stato islamico. La disputa in atto La disputa tra Talebani e Stato islamico non riguarda tanto le questioni ideologiche o dottrinarie (le differenze ci sono, rilevanti), ma il denaro. Gli uomini di Abu Bakr alBaghdadi arrivano con soldi veri, «pesanti». Quelli che i paesi del Golfo hanno deciso di tagliare ai Talebani, un investimento poco produttivo, e di dirottare sul Califfo, un marchio in espansione. Nel paese centroasiatico i seguaci del Califfo — pochi per ora — hanno comprato alcuni comandanti talebani. Sono arrivate le scomuniche, i combattimenti, gli scontri feroci. E i comunicati. Il 16 giugno mullah Akhtar Mohammad Mansour, il vice del mullah Omar, l’uomo che in assenza del gran capo guida il Consiglio della leadership, ha reso pubblica una lettera in cui si rivolgeva al Califfo. Toni pacati, messaggio chiaro: «giù le mani dall’Afghanistan», «non portate divisione nella guerriglia», «il fronte rimanga unico». Poi è arrivato il comunicato del mullah Omar. Con un messaggio ancora una volta rivolto ad al-Baghdadi, in modo implicito ma evidente: «abbiamo sollecitato tutti i nostri mujaheddin a preservare la loro unità e a prevenire energicamente tutti quegli elementi che provano a creare differenze, danneggiare il jihad, disperdere i mujaheddin». Un mullah Omar in difesa dunque. Che chiama a raccolta i suoi militanti. Che respinge i tentativi di infiltrazione dello Stato islamico. Una mossa obbligata Che prova a dimostrare che alla guida del jihad in Afghanistan c’è lui, e solo lui. E soprattutto che è ancora vivo. Una mossa obbligata: nelle ultime settimane gli uomini dello Stato islamico e delle fazioni talebane antagoniste hanno messo in piedi una vera e propria campagna mediatica. Obiettivo, dimostrare che il mullah Omar è morto. O che non conta più nulla, perché nelle mani dei servizi pakistani. Nei social network dei militanti islamisti si sono moltiplicati gli appelli: «se ci sei, batti un colpo». Mullah Omar (molto più probabilmente chi per lui) si è fatto vivo. Non con un messaggio audio o video, che avrebbe potuto dimostrare che davvero è ancora vivo, ma con il solito comunicato, scritto in occasione dell’avvicinarsi della fine del Ramadan. Il risultato? Uscendo allo scoperto, mullah Omar rassicura i comandanti più fedeli, ma conferma paradossalmente la propria debolezza. Quella di chi non detta l’agenda, ma è 14 costretto a inseguire. Una debolezza che peserà molto sul tavolo negoziale. Quando diventeranno evidenti le spaccature interne al movimento talebano. Le stesse esplose alla vigilia delle elezioni presidenziali dello scorso anno. Quando i barbuti si sono spaccati tra quanti (i duri e puri alla Haqqani) pensavano soltanto a sabotare il processo elettorale con attentati efferati; il gruppo pronto a sostenere il candidato pashtun Ashraf Ghani; coloro che ritenevano invece che la vittoria del candidato tagiko Abdullah Abdullah avrebbe favorito la mobilitazione dei pashtun, incrementando le fila dei combattenti. All’epoca, il movimento è uscito dall’impasse con le ossa un po’ rotte, ma con una mossa pragmatica: sostegno indiretto a Ghani, considerato un interlocutore più malleabile in vista del negoziato di pace. Oggi quel negoziato si avvicina. È il momento della caparra I Talebani provano a riscuotere la «caparra» versata in quell’occasione. E il messaggio del mullah Omar finisce per rafforzare proprio il governo di Kabul. Paralizzato dall’antagonismo tra il presidente Ghani e il quasi «primo ministro» Abdullah, lontano dal soddisfare le aspettative che aveva suscitato all’inizio, il governo afghano potrà vendere l’apertura di Omar al dialogo come un proprio successo. Uno dei pochi, finora. Ma sul tavolo rimangono molti aspetti critici, oltre alle divisioni interne ai due fronti. Tra questi, proprio il «doppio passo» — combattimenti e insieme negoziato — rivendicato dal mullah Omar. Senza un cessate il fuoco immediato — chiesto la scorsa settimana da Mutasim Agha, già ministro delle Finanze talebane — si rischia che aumenti lo stillicidio della popolazione civile. Perché più si picchia sul campo di battaglia — così pensa una delle fazioni dei barbuti — più si ottiene al tavolo negoziale. Nelle ultime settimane nel paese c’è stato un incremento notevole degli attacchi, degli scontri, delle vittime civili. In almeno 26 delle 34 province del paese. Dal nord a sud, da est a ovest. Tra gli attacchi più sanguinosi, quello del 12 luglio a Khost. Un attentato suicida contro un checkpoint della polizia, fuori Camp Chapman, la base militare che ospita alcune unità delle Forze speciali degli Stati Uniti. L’obiettivo non era casuale: quel checkpoint è gestito dagli uomini della Khost Protection Force, un’unità militare che, addestrata dalla Cia, ha la responsabilità delle operazioni di contro-terrorismo lungo il confine pakistano. Il confine più poroso del paese, lungo il quale viaggiano militanti, armi, soldi, droga. Il confine più poroso Fin dal primo jihad contro gli invasori sovietici, è sempre stato fondamentale nella partita afghana. Oggi lo è ancora di più. I rifugi dei talebani afghani in Pakistan, nel Waziristan del nord e del sud, non sono più così sicuri come una volta. Per due ragioni. La prima è che il governo pakistano — preoccupato del mostro incontrollabile che ha nutrito finora, una minaccia per la stessa stabilità interna — vuol dar segno di aver archiviato la tradizionale politica di sostegno ai barbuti islamisti, e ogni tanto invia truppe speciali e unità d’assalto. La seconda è che alcune frange dei Talebani afghani guardano con sospetto a Islamabad. Sanno di poter essere vendute. I più radicali ritengono inoltre che il negoziato di pace non possa portare nulla di buono. Per questo hanno cominciato a trasferire uomini e armi dai vecchi rifugi pakistani alle province orientali dell’Afghanistan. È un segnale di una tendenza più generale: i rapporti tra i Talebani e i tradizionali sponsor regionali sono cambiati. Se una parte dell’establishment pakistano ha cambiato orientamento, i cinesi hanno smesso di finanziare i Talebani. I paesi del Golfo – come abbiamo visto – hanno dirottato i soldi verso lo Stato islamico. Gli iraniani ne hanno preso il posto, ma solo in parte e con prudenza. I Talebani sono a secco, o quasi. Nel suo comunicato il mullah Omar ha chiesto «a tutti i musulmani del mondo e specialmente alle pie masse afghane di aumentare il sostegno fisico e finanziario 15 ai mujaheddin». La guerra sarà pure santa, ma gli uomini – incluso l’Amir-ul-Momineem, mullah Omar — rimangono dei grandi peccatori. del 23/07/15, pag. 6 Afghanistan: la guerra continua, tutti i giorni, e colpisce ovunque Giuliano Battiston Nelle settimane scorse il presidente Ashraf Ghani si è recato a Khost, provincia orientale dell’Afghanistan, al confine con il Pakistan. Ha incontrato i familiari delle vittime dell’attentato del 12 luglio, che ha provocato la morte di 27 civili, inclusi 12 bambini, e quella di 6 uomini delle forze di sicurezza afghane. Si è congedato rassicurando la popolazione: «garantiremo la vostra sicurezza». Il giorno successivo il vice-presidente ed ex warlord Abdul Rashid Dostum, fondatore del partito Jumbesh-e-Milli, ha preso un volo per la provincia nord-occidentale del Faryab. Con sé, ha portato alcuni uomini della sua «milizia» personale. Ha promesso che in pochi giorni riporterà la calma in quell’area, dove la presenza delle forze anti-governative si fa ogni giorno più ingente e minacciosa. I due episodi raccontano lo stato delle cose in Afghanistan: la guerra continua, tutti i giorni, e colpisce ovunque. A rimetterci, i civili. Secondo i dati delle Nazioni Unite (Unhcr), il conflitto ha costretto un milione di persone (circa il 3% della popolazione) a migrare all’interno del paese. Lo scorso anno, sarebbero state 180.000 le persone costrette ad abbandonare la propria casa, il numero più alto da quando la guerra è cominciata, nel 2001, e destinato ad aumentare quest’anno. La maggior parte di questi spostamenti riguarda l’area del nord-est. La provincia più colpita, quella settentrionale di Kunduz, al confine con il Tajikistan. Secondo l’ultimo rapporto della missione delle Nazioni Unite a Kabul, anche quest’anno il numero delle vittime civili (feriti e morti) è superiore a quello dell’anno precedente. del 23/07/15, pag. 7 Attacco suicida a Falluja, 22 vittime Iraq/Siria. Due attacchi suicidi in città uccidono 22 soldati. Chi prende la provincia di Anbar, prende l'Iraq. In Siria, morto in un raid il leader qaedista al-Fadhli, a capo di un'unità che conoscono solo gli Usa Chiara Cruciati Fallujah non trova pace: da anni epicentro del conflitto globale che si combatte in Iraq, ha resistito all’occupazione statunitense e cercato di fare altrettanto con le imposizioni politiche di Washington e della nuova Baghdad. Oggi è ancora teatro bellico perché è la porta di accesso a Ramadi e alla provincia di Anbar. Nessuno può permettersi di perdere Fallujah, né lo Stato Islamico né il governo centrale. Per il premier al-Abadi la riconquista dell’Anbar è alla base di qualsivoglia piano futuro: senza la provincia più instabile e centrale del paese (confinante con Arabia saudita, 16 Giordania e Siria), è pretenzioso immaginare di poter vincere la macchina da guerra islamista. Tanto fondamentale per Baghdad da accettare e indirettamente promuovere la partecipazione delle milizie tribali sunnite richieste dagli Stati Uniti: Obama ha portato a 3.500 i consiglieri militari nella locale base di Habbaniyah per addestrare e armare i sunniti contro l’Isis, per poi lamentare un numero troppo basso di volontari. Per ora a combattere sono soprattutto gli sciiti: alla controffensiva dei volontari delle Hashed al-Shabi e delle truppe governative gli islamisti rispondono negli scontri di terra ma anche, con viltà, con i kamikaze. Ieri due auto e gli uomini alla guida, imbottiti di esplosivo, hanno ucciso 22 persone tra soldati e miliziani sciiti a est di Fallujah. Non erano due auto qualsiasi, ma due veicoli blindati Humvee di fabbricazione Usa, confiscati in precedenti raid in basi militari irachene. L’attacco giunge nel mezzo della più ampia operazione per la ripresa della provincia sunnita di Anbar, varata lo scorso 13 luglio: le truppe di Baghdad cercano di tagliare definitivamente le vie di rifornimento usate dall’Isis per trasportare uomini e armi verso Ramadi, il capoluogo, e Fallujah. Villaggi occupati, cittadine circondate: così il governo spera di isolare del tutto i due centri. Per piegare l’Isis il primo ministro al-Abadi ha spedito anche l’aviazione che bombarda Fallujah da giorni: ieri 17 miliziani sono morti dopo un raid contro una moschea. Accanto a quei 17 combattenti hanno perso la vita, però, anche 7 civili. Morti che non aiutano di certo la causa anti-settaria promossa da Baghdad: buona parte della popolazione di Anbar teme lo stesso destino di quella di Tikrit, liberata dall’Isis grazie al sostegno fondamentale delle milizie sciite e oggi modello negativo di repressione interna. Ma Fallujah non è Tikrit: è più strategica. Per questo la caduta di Ramadi lo scorso maggio in mano all’Isis e l’occupazione di buona parte dell’Anbar potrebbe essere utilizzata dalle comunità sunnite per ottenere da Baghdad armi e quindi potere. In Siria Assad e Usa contro lo stesso nemico Forze sciite nel mirino anche nella vicina Siria: secondo le Nazioni Unite, la battaglia in corso a Zabadani (città al confine con il Libano, lungo l’autostrada Beirut-Damasco) tra le forze di Assad e i qaedisti di al-Nusra ha provocato una distruzione e un numero di morti senza precedenti. Dito puntato sul presidente siriano, accusato dall’inviato Onu per la Siria, Staffan de Mistura, di aver sganciato le famigerate bombe barile contro la città. Certo è che l’asse sciita ha allargato martedì il proprio controllo sulla città di Zabadani e sui villaggi vicini. Le poche sacche di islamisti ancora nel centro città sono state costrette alla resa, fa sapere al-Manar Tv, l’emittente legata al movimento sciita libanese. Liberate anche una serie di comunità nella vicina regione di Qalamoun. E mentre Damasco combatte al Qaeda a ovest del paese, a nord è la coalizione anti-Isis guidata dagli Usa a colpire, a dimostrazione che il nemico è lo stesso: il Pentagono, in un comunicato, ha rivelato che due settimane fa in un raid aereo sarebbe stato ucciso Muhsin al-Fadhli, noto leader di al Qaeda su cui pendeva una taglia da 7 milioni di dollari. Sarebbe stato il responsabile del cosiddetto Gruppo Khorasan formato da una cinquantina miliziani di lungo corso, provenienti da Afghanistan e Pakistan. Un’unità che secondo molti non esiste (né in arabo esisterebbe il suo nome), ma è una creazione degli Stati uniti secondo i quali il gruppo è responsabile di ordire attacchi contro l’Occidente. Non esiste nemmeno per il leader di al-Nusra, il braccio siriano di al Qaeda, Abu Muhammad al Jolani. Lo ha detto nella nota intervista ad Al Jazeera dello scorso maggio: «Non esiste nulla chiamato Gruppo Khorasan. Lo hanno inventato gli americani per colpire al-Nusra». 17 Del 23/07/2015, pag. 14 Brescia-jihad: la cellula che studiava l’attentato di Davide Milosa Vivono nel profondo nord d’Italia. Permesso di soggiorno regolare. Lavoro regolare. Famiglia, amici. Integrati nella ricca Lombardia. Tra Manerbio, Saronno e Brescia, a un passo dal lago di Garda. Ma la loro è una vita d’apparenze, di verità nascoste. Perché sotto a tutto c’è un’adesione profonda alla jiahd e allo Stato Islamico. È questo l’impressionante identikit ricostruito dalla procura di Milano. Inchiesta lampo, quella istruita dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli. Ieri due arresti di peso: Lassaad Briki, tunisino classe ‘80 e Muhammad Waqas, pachistano di 27 anni. Entrambi sono accusati di appartenere all’Is con lo scopo, scrive il giudice nella sua ordinanza d’arresto, “di commettere atti di violenza e con finalità di terrorismo sul territorio italiano”. Questa la novità, rispetto alla precedente indagine, sempre della Digos di Milano, su Maria Giulia Sergio, alias Fatima, la giovane napoletana convertita al Califfato e partita per la Siria. Anche qui, i due progettavano la partenza verso le terre occupate dall’Is. Prima però volevano lasciare il segno. Tra i loro obiettivi: le forze dell’ordine, chiese e soprattutto la base militare di Ghedi in provincia di Brescia. Al di fuori del lavoro e della famiglia, la loro è una vita dedicata completamente ad Allah. “Io – dice intercettato Briki – ho solo voglia di fare la jiahd e se Allah mi dà la possibilità di farlo lo faccio”. Risponde Waqas: “Io aderisco a settembre”. E ancora: “La guerra sarà più urbana, come ad esempio in Assasin’s Creed o un altro gioco famoso della playstation”. Dice Briki: “Io quando lavoro ho sempre la testa lì”. Il tunisino risulta il più convinto “tanto – scrive il gip – che si segnala il suo giuramento di fedeltà al califfo Abu Bakr Al Baghdadi”. L’indagine milanese nasce nell’aprile scorso dopo che la Polizia postale intercetta 230 tweet dal profilo Omar Moktar nel quale compare l’hashtag Islamic State in Rome. Vengono postate frasi e fotografie. Foglietti con la scritta Islamic State in Rome riprese davanti al Duomo di Milano, in metropolitana, lungo le autostrade, a Roma. E poi le frasi. “Ora agiamo con le foto nelle vostre strade, presto agiremo con i coltelli affilati. Ci metteremo sul vostro trono”. Lame e jiahd. “Siamo già a Roma, i nostri coltelli sono pronti per la macellazione”. In poche settimane, la polizia associa quei tweet a un nome e a un volto. È quello di Briki. L’indagine entra nel vivo a fine aprile. Le intercettazioni aiutano a costruire il profilo svelando anche il secondo indagato. I due si vedono nella casa di Manerbio dove abita il pachistano. Discutono solo di jiahd. Di arruolarsi e di colpire in Italia. Studiano sul manuale intitolato “How to survive in the west”, guida al combattente che vive in Occidente. Progettano di acquistare armi a Saronno e individuano nella base di Ghedi l’obiettivo principale da colpire. “Io – dice Briki – voglio fare una cosa prima di partire”. Waqs: “Io odio tanto i carabinieri”. Briki: “Qui c’è una base militare”. L’attacco alla base Nato “è una grande porta per il jennah (paradiso, ndr)”. Di più: Waqs rivela di avere un amico che entra nella base. Dice il tunisino: “Basta ammazzare e se non ammazzo brucio un aereo perché io prendo una molotov”. A giugno viene intercettata una conversazione su Facebook tra Briki e un mujaheddin attivo in Siria. Entrambi sono della città di Kairouan. Il combattente lo esorta: “Vieni allo Stato, lascia il paese della miscredenza, qui troverai la tua dignità”. Briki è in contatto anche “con soggetti contigui agli attentati commessi in Tunisia”. La 18 strage del Bardo (18 marzo) e quella di Sousse del 26 giugno. Pochi giorni dopo, il 3 luglio, il tunisino è sulla spiaggia del massacro a scattare fotografie. del 23/07/15, pag. 15 La Cina ridà il passaporto ad Ai Weiwei Ai Weiwei ha riavuto dalle autorità cinesi il passaporto ed è libero di tornare a viaggiare dopo lo stop forzato di quattro anni. Lo ha annunciato direttamente l’artista, sempre critico verso le politiche di Pechino, postando il documento ricevuto sul suo account Instagram.«Oggi, ho ottenuto il mio passaporto» - ha scritto Ai, ricevendo in poche ore più di 6.000 «mi piace» e 750 commenti dai suoi sostenitori. La riconsegna del passaporto, confiscatogli nel 2011 a cui sono seguiti 81 giorni di prigione senza capi d’imputazione, gli darà la possibilità di recarsi in Germania dove suo figlio di 6 anni vive da un anno e poi a Londra, per partecipare a una mostra alla Royal Academy of Arts. Prima della detenzione, Ai aveva dato visibilità a scandali nazionali, come la morte di studenti in scuole mal costruite crollate nel terremoto del 2008, attirandosi l’ira delle autorità che da quel momento gli hanno fatto terreno bruciato intorno. In segno di protesta, Ai mise un mazzo di fiori nel cestino della bici fuori dal suo studio di Pechino fino ad oggi quando ha riconquistato il diritto a viaggiare del 23/07/15, pag. 15 I paesi ricchi si sfilano e sperano nei «mecenati»» Finanziare lo Sviluppo . Dopo la Conferenza di Addis Abeba, Renzi (tra i pochi capi di governo presenti) ha promesso di aumentare il ridicolo 0,2% dell'Italia. Ma il documento finale della Conferenza presenta moltissime ombre Raffaele K Salinari Si è conclusa ad Addis Abeba la Conferenza mondiale sulla Finanza per lo Sviluppo. Sul tavolo i mezzi per finanziare i cosiddetti «Obiettivi per lo sviluppo sostenibile» che, dal novembre di quest’anno saranno il quadro di riferimento globale per i prossimi quindici anni. L’Italia, fanalino di coda Ue con il suo derisorio 0,2% del Pil, è stata rappresentata da Renzi che, tra i pochissimi Capi di Stato e di Governo presenti, ha enfatizzato la necessità di legare cooperazione, sviluppo e gestione dei flussi migratori in ambito comunitario attraverso nuove regole di accoglienza, anche cercando di gestire il problema alla radice, creando cioè opportunità di lavoro nei Paesi di provenienza, nonché dichiarando la correlata necessità che il nostro Paese, in linea con le decisione Ue, incrementi la quota di PIL dedicata a queste attività. Vedremo. Ma, al di la della posizione italiana, in generale le Ong internazionali presenti al vertice hanno emesso un comunicato congiunto molto critico su alcuni punti cruciali del documento finale sottolineando come, in particolare, la proposta di un organismo intergovernativo sotto egida Onu, auspicata tra l’altro anche dagli stati africani riuniti nel 19 cosiddetto Gruppo del G77, non è passata; è stata, infatti, prevista una diversa modalità di selezione per il comitato di esperti, che saranno indicati dai governi e nominati dal Segretario generale dell’Onu. Una mediazione dalla quale si è di fatto dissociato il gruppo del G77, che nello statement finale a cura del Sud Africa, ha richiamato il fatto che la costituzione di un vero e proprio organismo intergovernativo in tema di cooperazione rimane una questione aperta. La reazione complessiva delle organizzazioni della società civile mette in evidenza anche la mancanza di progressi significativi in altre aree cruciali, dai volumi di aiuto pubblico allo sviluppo, a nuovi meccanismi per affrontare le crisi del debito e alla democratizzazione delle istituzioni finanziarie internazionali. Al di la di queste critiche, che già gettano una ipoteca sulla volontà reale dei paesi più forti di pareggiare le opportunità con quelli fornitori di materie prime, in particolare africani, nel documento finale per la prima volta in questo tipo di accordo, viene nominata, accanto all’onnipresente settore privato, una figura che sembrava relegata al passato, quasi ottocentesca, quella cioè del «mecenate». Si legge infatti al punto 10 che: «I partenariati multilaterali, le risorse, le conoscenze e il saper fare che possiedono il settore privato, la società civile, la comunità scientifica ed universitaria, i mecenati, e le fondazioni avranno una funzione importante, che consisterà nel mobilitare e scambiare conoscenze, risorse tecniche e risorse finanziarie, per accompagnare l’azione dei Governi ed appoggiare così la realizzazione degli obiettivi di sviluppo durevoli, particolarmente nei Paesi in via di sviluppo». Ora, se consideriamo che, secondo il Global Wealth Report 2014, del Credit Suisse, la più attendibile ricerca del settore, la ricchezza dei privati a livello globale ha raggiunto nel 2013 la cifra di 263 mila miliardi di dollari, cioè più del doppio dei 117 mila miliardi del 2000, e che la concentrazione di queste ricchezze private, che sono per inciso di molto superiori a quelli di tutti gli Stati e Governi messi insieme, vede nelle mani dell’1% della popolazione ben il 41% di questa cifra, mentre un altro 10% ne detiene un restante 86%, e soltanto l’1% è nelle mani della metà più povera del pianeta, ebbene appare chiaro come il richiamo ai privati e alle loro Fondazioni, e ai mecenati, sia la vera novità di questa fase, che incardina tutto l’impianto sviluppista nella compassione dei Rockerduck di turno, ovviamente tutti molto interessati a determinare ulteriormente il modello di crescita globale. Non a caso il Papa ha voluto separare concettualmente crescita e sviluppo, individuando nella malintesa centralità della quantità la fonte delle ineguaglianze. Un altro passo verso la privatizzazione delle politiche estere, con gli Stati e Governi come garanti di questa deriva? Il rischio è attuale e la vigilanza, specie da parte delle sinistre, deve essere all’altezza di questa nuova sfida. 20 INTERNI del 23/07/15, pag. 2 Sindaci sfiduciati e da Sud «trivellano» Matteo Come Sara Biagiotti a Sesto Fiorentino salta anche Vantini nel Veronese. E Molfetta è un caso Ernesto Milanesi Un doppio ko in Toscana in poco più di un mese. Altre diserzioni sparse per l’Italia. E ora anche la «trivellazione» da Sud che bersaglia il governo. Il Pd versione Matteo Renzi comincia ad assomigliare troppo alla «ditta» precedente. Soprattutto in periferia, che però era la stessa dell’onda trionfale nelle Europee e del riformismo nuovo, giovane e smart. È recentissima la clamorosa bocciatura di Sara Biagiotti, sindaca ultra-renziana di Sesto Fiorentino, prima donna presidente di Anci Toscana, coordinatrice nella campagna delle primarie 2012. Sfiduciata da 20 consiglieri (8 Pd «ribelli», 4 Sel, 1 M5S, 2 Fi, 1 misto) con appena cinque fedelissimi. Biagiotti al capolinea prima del termine naturale è davvero una bruttissima notizia. Era una delletre primedonne di Matteo, all’inizio dell’avventura, con Maria Elena Boschi e Simona Bonafè. Fa il paio con il tonfo elettorale di Arezzo a metà giugno: Matteo Bracciali, 31enne, prototipo non solo anagrafico del renzismo amministrativo: dal 2011 capogruppo Pd in Comune, presidente nazionale dei Giovani Acli, battuto per 608 voti nel ballottaggio, gettando alle ortiche un migliaio di voti rispetto al primo turno in cui aveva nove punti di vantaggio… Giubilato malamente anche un altra punta di diamante della «rottamazione locale». A San Giovanni Lupatoto (Verona) il sindaco Federico Vantini — classe 1978, laurea in architettura al Politecnico di Milano — aveva vinto le elezioni a giugno 2012, espugnando un feudo leghista. Membro della direzione nazionale Pd, alle Europee aveva collezionato 41 mila preferenze in Veneto alle spalle di Alessandra Moretti e Flavio Zanonato. Ma è decaduto: nove consiglieri si sono dimessi contemporaneamente, azzerando la maggioranza di centrosinistra. E il quotidiano L’Arena ha connesso le polemiche politiche con il blitz della Guardia di finanza nella società che commercializza il metano: irregolarità amministrative per spese di rapprentanza, pubblicità e sponsorizzazioni. Da Molfetta, invece, rimbalza un’altra voce di esplicito dissenso. Paola Natalicchio, eletta sindaco due anni fa, venerdì scorso ha messo sul tavolo le dimissioni. Suonano come una drastica presa di distanza dal Pd, che contratta poltrone e alleanze snaturando la coalizione «dal basso» che aveva conquistato il municipio. E Natalicchio rincara la dose: parla di «rappresaglia» del Pd; bolla il governatore Emiliano come «non abbastanza incisivo»; evidenzia il caso Molfetta direttamente a Debora Serracchiani, vice di Renzi. È già un bel ginepraio. Ma dal Sud si moltiplicano le prese di posizione contro il premiersegretario. In gioco, le trivelle a caccia di petrolio che mobilitano le piazze. Così perfino il neo-governatore della Campania Vincenzo De Luca e il super-renziano Marcello Pittella in Basilicata fanno rullare i tamburi di guerra. Il primo, ad Acerra, ha esplicitamente scandito la sua contrarietà alle trivellazioni. L’altro si è «convertito» fino a partecipare il 15 luglio alla manifestazione a Policoro al fianco del pugliese Emiliano e del calabrese Mario Oliverio. Fischi e urla durante gli interventi dei tre governatori. Vincenzo Folino, deputato 21 autosospeso e «civatiano» di Lucania, è più che pronto a sostenere il referendum popolare. Insomma, Renzi sembra aver perso il controllo. Ma conta sul reset della riforma istituzionale per dribblare gli annunciati ricorsi alla Corte costituzionale sulle trivellazioni in Adriatico. Né si preoccupa delle ricadute sui municipi della manovra fiscale. Del 23/07/2015, pag. 12 De Luca resta governatore. “Un danno sospenderlo” CAMPANIA IL TRIBUNALE DÀ RAGIONE AL PRESIDENTE IN ATTESA CHE LA CONSULTA SI PRONUNCI SULLA LEGGE SEVERINO DARIO DEL PORTO NAPOLI. Per il tribunale Vincenzo De Luca può continuare a guidare la Regione Campania. Sulla legge Severino deve ancora esprimersi la Corte Costituzionale e, se sospeso, il governatore subirebbe «un danno non riparabile né risarcibile ». Può dirsi dunque concluso il braccio di ferro politico giudiziario iniziato dopo il successo dell’ex sindaco di Salerno alle primarie del Pd, sceso in campo nonostante una condanna in primo grado per abuso d’ufficio, ed esploso all’indomani delle elezioni del 31 maggio. La prima sezione civile (presidente Umberto Antico, giudice a latere Raffaele Sdino, relatore Anna Scognamiglio) ha sospeso l’efficacia del decreto adottato dal premier Matteo Renzi (peraltro già congelato nei giorni scorsi con un provvedimento d’urgenza) e ha inviato gli atti alla Consulta, che dovrà valutare la questione proposta dagli avvocati di De Luca, Lorenzo Lentini, Antonio Brancaccio e Giuseppe Abbamonte. Il giudizio riprenderà solo dopo la definizione delle questioni di legittimità costituzionale. Esulta De Luca, che elogia «la grande sensibilità giuridica del collegio partenopeo. È una bella pagina di giustizia a tutto merito della magistratura napoletana, cui rendo onore». L’avvocato Lentini parla di «decisione che ripristina il circuito democratico in linea con la volontà degli elettori». Secondo gli avvocati Oreste Agosto e Stefania Marchese, che hanno assistito il Movimento 5 Stelle, invece «l’accoglimento provvisorio della domanda cautelare non risolve in ogni caso le ragioni di tutela dell’Istituzione regionale». Ma ora il dibatitto sulla legge Severino si sposta davanti alla Consulta. Anche Forza Italia, con il coordinatore regionale Domenico De Siano, è soddisfatta: «Sono state confermate le nostre tesi sull’uso strumentale fatto nei confronti di Berlusconi». La prima sezione civile sottopone al vaglio della Corte quattro aspetti della normativa: innanzitutto, la disposizione che prevede la sospensione dalla carica del presidente della Regione «a seguito di condanna non definitiva », rilievo che viene giudicato «estremamente significativo» dall’avvocato Antonio Brancaccio; poi, il passaggio che «non prevede la sospensione solo per sentenze di condanna relative a reati consumati dopo l’entrata in vigore » della norma; quindi l’applicazione retroattiva della legge; infine, la «evidente, palese e ingiustificata disparità di trattamento» rilevata dai giudici laddove la norma non prevede per la sospensione dalle cariche regionali in caso di condanna per abuso d’ufficio la soglia di pena superiore a due anni fissata invece per i parlamentari nazionali ed europei. Su questo punto, il tribunale sottolinea: «Non vi è ragione alcuna per trattare più severamente gli organi locali rispetto a quelli nazionali, essendo semmai necessario il contrario, attesa la maggiore estensione del mandato elettorale e avendo comunque anche gli organi regionali funzioni legislative ». 22 Del 23/07/2015, pag. 12 Crocetta all’attacco “Niente dimissioni Non mi interessa quel che dice Renzi” Il Governatore: “Se vuole il Pd mi sfiduci” La Cassazione: la procura dia chiarimenti LA POLEMICA EMANUELE LAURIA PALERMO . Un memoriale di due pagine, interviste a radio, tv e siti web, un riferimento ad attacchi omofobi («Si colpisce il presidente gay») e una sfida a Renzi: «Mi vuole far cadere a settembre? Non me ne frega nulla». Non risparmia le esternazioni, il governatore siciliano Rosario Crocetta, alla vigilia delle comunicazioni più attese: stamattina, nell’aula dell’Assemblea regionale, Crocetta riferirà sul caso Tutino, esploso con la pubblicazione delle intercettazioni sull’ambiguo ruolo del chirurgo plastico e di altri componenti del cosiddetto “cerchio magico” del presidente sulla Sanità dell’Isola. Esploso, soprattutto, con le dimissioni di Lucia Borsellino, che se n’è andata denunciando “il coacervo di interessi” che l’hanno condizionato, e con l’intercettazione – smentita da diverse procure – di una frase che il medico Matteo Tutino, oggi agli arresti domicialiari per truffa, abuso e falso, avrebbe detto allo stesso Crocetta: «La Borsellino deve saltare come suo padre». Il governatore, in un drammatico crescendo, continua a escludere categoricamente le dimissioni e dice che «la montagna di menzogne» si ritorcerà contro i suoi «carnefici». Rivelando che, dopo la pubblicazione dell’intercettazione da parte dell’Espresso, aveva pensato di suicidarsi. «Avevo trovato su Internet un modo veloce e sicuro per farlo visto che non possiedo armi dice Crocetta a Radio 24- . Se non fosse intervenuta la smentita di Lo Voi, un procuratore che si batte per la verità, uno apolitico ,sarei un uomo morto, infangato e forse tra qualche anno si sarebbe scoperto che avevano assassinato un innocente ». Crocetta chiede una commissione d’inchiesta sul caso e fa una difesa totale del suo operato nella Sanità, negando di essere stato influenzato nelle scelte politiche da Tutino e dagli altri componenti della sua cerchia di fedelissimi. Ma per il Pd, soprattutto dopo le parole della Borsellino, restano “le ombre inquietanti” di cui ha parlato il responsabile Sanità Federico Gelli. E le bocche sono cucite in attesa proprio delle comunicazioni di Crocetta, cui seguirà un summit al Nazareno. Di certo, prima dell’intervento all’Ars, il presidente non abbozza ma anzi rilancia la sfida al suo partito: «Renzi parla di exit strategy e di una mia uscita a settembre? Non me ne frega niente, non lascio per accuse inconsistenti. Gli attuali esponenti del Pd non mi pare che proposero la sfiducia di Cuffaro (l’ex governatore in carcere per mafia, ndr). Anzi, ricordo che quando si presentò per dimettersi qualcuno di loro si mise a piangere. Quando uno viene infamato senza motivo- dice il presidente - i partiti di solito danno la loro solidarietà. In questa vicenda ho avuto attacchi dal fuoco amico e solidarietà da chi è considerato mio nemico». E ancora: «Resto nel Pd, fino a prova contraria. Se non mi vogliono mi devono espellere. Ma per statuto si può espellere solo un condannato, non sono un criminale solo perché lo dice un giornale». Parole che, fra i dem, vengono lette come la minaccia di un “governo del presidente”, con maggioranze variabili, cementato dalla scarsa voglia dei deputati siciliani di votare una sfiducia a Crocetta e andare tutti a casa. In questo senso andrebbe la scelta del presidente di rafforzare il Megafono, la sua creatura politica, e la possibile sostituzione dell’assessore dimissionario Linda Vancheri con un fedelissimo, Antonio Fiumefreddo. L’affaire politico che sta arroventando l’estate palermitana vivrà oggi 23 un altro momento caldo. Nella vicenda è intervenuto ieri il procuratore generale della Cassazione Pasquale Ciccolo, che ha chiesto informazioni al pg di Palermo, Roberto Scarpinato, sulla presunta intercettazione del dialogo fra Crocetta e Tutino. Ciccolo è titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati. La richiesta di una relazione al collega del capoluogo siciliano rientrerebbe nella normale prassi seguita in vicende analoghe. È slittata a martedì, invece, la decisione del comitato di presidenza del Csm, sulla richiesta del laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin, di aprire una pratica sul caso. Del 23/07/2015, pag. 14 La corsa Nella coalizione che sostiene l’attuale sindaco la corsa per la candidatura è partita con un anno di anticipo. Il nodo delle primarie. Spuntano i nomi di De Bortoli e Sala. Il primo cittadino: “Il premier qui non può e non vuole perdere” La grande lotteria del centrosinistra per il dopo Pisapia e la guida di Milano CARLO VERDELLI MILANO MENTRE grandina sulle giunte variamente rosse di Roma e Sicilia, nella Milano del lungo addio di Giuliano Pisapia è tornata la pace. Durerà, se durerà, lo spazio di un’estate. Comunque, dopo una settimana di fuoco non solo meteorologico, l’emergenza sembra rientrata. L’uomo forte della giunta, la signora Ada Lucia De Cesaris, che si era dimessa con grande sconquasso per una questione ai più indecifrabile come l’area cani di un quartiere periferico, è stata prestamente sostituita sia come vicesindaco (con la conciliante e beneamata Francesca Balzani,valente velista e accorto assessore al Bilancio) sia come responsabile dell’Urbanistica (con il professor Alessandro Balducci, prorettore del Politecnico e già collaboratore della giunta Moratti). E poi è stata frenata la foga intempestiva di iscritti alla primarie: già tre candidati ufficiali del Pd, più altri cinque o sei cognomi di peso che hanno dichiarato di “non escluderlo”, che è molto diverso dal dire “no grazie”; più una carta segreta, forse segreta anche all’interessato, che però potrebbe far saltare il banco dei tanti, troppi, volonterosi pretendenti. Comunque, essendo che le famose e per qualcuno famigerate primarie non si terranno prima del gennaio 2016 e calcolando che le elezioni saranno il maggio successivo, cioè tra 10 mesi, nei vari palazzi dell’arcobaleno meneghino (Pd, Sel, movimenti civici) si è deciso di fischiare la fine della ricreazione: basta coi rodei, niente fiere della vanità, non facciamoci confondere con il pasticciaccio di Roma, noi che non abbiamo preso neanche un avviso di garanzia. Silenzio e buone vacanze a tutti. Resta il fatto che se Pisapia, a fine marzo, aveva deciso di annunciare che non si sarebbe ricandidato proprio per ricompattare una maggioranza che sentiva tentata dai personalismi, e poi perché, via dalla scena lui, il timore di perdere le elezioni avrebbe, sempre secondo i suoi calcoli, rinsaldato il fronte, ecco, a guardare la scena oggi, l’auspicio sembra rimasto tale. A Milano è in corso, ancorché momentaneamente in pausa, una battaglia di posizione che prescinde da chi sarà l’avversario del centrodestra. Sarà una volata lunga e tutta interna allo schieramento di chi deve difendere il bastione conquistato nel 2011, volata dove non mancheranno sorprese, gomiti alti e sgambetti. Qualcosa s’è già intravisto. «Renzi non può perdere Milano, e lo sa benissimo visto come 24 si sono messe le cose nel Nord dopo le ultime Regionali. E siccome, pur non venendo dalle sue stesse esperienze, mi affascina la sua vena di divertente follia, credo che si inventerà qualcosa per scongiurare il rischio». Ada Lucia De Cesaris, figlia del democristiano ex presidente delle Ferrovie Benedetto De Cesaris, “Ada” o “vice” nei messaggini che per quattro anni ha ricevuto dal suo sindaco, di cui è stata seconda vela, “spiccia faccende”, spalla infaticabile, aspra ma leale fino all’ultimo secondo («e anche adesso: se mi chiedesse di buttarmi, lo farei, vengo dal centralismo democratico, lui è il mio capo per sempre »), dice che da due giorni sta pensando di tornare al mestiere di prima, avvocato amministrativo. Dice anche di essere fiera delle sue dimissioni, che ha riportato a casa la sua integrità, che è assolutamente serena, anche se a vederla non lo sembra poi così tanto. La consolano le migliaia di messaggi di solidarietà ricevuti su Facebook e via mail (Cino Zucchi, architetto: «Non posso pensare alla mia città senza di te»), trova divertente il “bella ciao” con cui la Lega l’ha salutata in consiglio comunale, un po’ meno il fatto che il suo capo Giuliano non l’abbia trattenuta. «Per lui tutti devono andare d’accordo. La mia uscita, visto che risulto un po’ ingombrante, gli toglie conflitti ». Perdoni, ma dimettersi per una delibera da 20 mila euro su un’area cani nel parco Trapezio del quartiere Santa Giulia sembra obiettivamente un colpo di testa o di caldo. «Santa Giulia, che la destra aveva ridotto a una landa abbandonata e pure sotto sequestro, è stata la prima inaugurazione della giunta Pisapia. E’ un pezzo di città rinata. Per noi, per me, ha un valore simbolico e di principio. E su tutto si tratta, tranne che sui principi. La verità è che mi hanno fatto un’imbosca- ta e la mia maggioranza mi ha votato contro. Quando Pisapia ha annunciato il passo indietro, o a lato, gliel’avevo detto: stai abbandonando la città, e anche me. Ho passato sei mesi sulla graticola. Se restavo, mi sfracellavano». E ora che è fuori, rientrerà in partita? Sbuffa . «Renzi non può perdere Milano. Se avrà la genialità di andare oltre le ruggini personali, ha l’uomo giusto a cui rivolgersi: Ferruccio De Bortoli, qui, vince a mani basse». La carta coperta, posto che l’ex direttore del Corriere della Sera mostri un’ombra di disponibilità e il premier sia così indulgente e astuto da porgere l’altra guancia dopo le critiche a schiaffo ricevute da quello che dovrebbe rappresentarlo nella sfida locale più importante del 2016, è comunque sotto un discreto mazzetto di carte già girate o lì lì per essere spillate. Per esempio, spilla Ivan Scalfarotto, sottosegretario Pd e attivista per i diritti civili. «Dopo l’uscita di Lupi, sono l’unico milanese al governo», dice. “Residente” sarebbe più preciso, visto che è nato a Pescara, è stato consigliere comunale a Foggia e coordinatore del Pd pugliese, oltre che manager nella City londinese: milanese acquisito, ecco, niente di male. Spilla e commissiona qualche sondaggio anche Umberto Ambrosoli, figlio di un eroe borghese e milanese come Giorgio Ambrosoli, attualmente capo dell’opposizione in Regione: ha dalla sua riconosciute qualità etiche, culturali, umane ma il neo non trascurabile di aver perso la battaglia contro una Lega, quella di Maroni, che veniva dai tracolli morali del dopo Bossi. Anche Stefano Boeri, protagonista con Pisapia e Onida delle primarie record (65 mila votanti) del 2010, pur allontanato dall’attuale giunta due anni fa “in modo spiacevole”, ha continuato a vivere il Pd ed è tra quelli che “non lo escludo”. Nel frattempo ha ripreso a pieno ritmo a fare l’architetto, con il suo Bosco verticale, il grattacielo dietro la stazione Garibaldi, ha vinto premi mondiali, ha appena aperto una sede in Cina. «Sono seriamente combattuto, anche perché ci sarebbe molto da fare. Milano diventerà una città metropolitana, ha bisogno di un sindaco come a Londra, Parigi o Barcellona, una persona che conosca le lingue, che sia ambasciatore internazionale e in più che regga il collasso post Expo, che ci sarà e non sarà facile da dipanare. Non so se le candidature in gioco finora siano le più adatte». Tra chi è già in gioco, Roberto Caputo, Pd, carriera politica locale, un noir “Obiettivo Expo” non transitato tra i bestseller; Emanuele Fiano, ancora Pd ma con incarichi nazionali, 25 unico superstite di una famiglia azzerata dal nazismo, 52 anni, già presidente della comunità ebraica di Milano, ex veltroniano passato con Franceschini e quindi con Renzi, solido e ragionevole, inizio di campagna pre-elettorale puntato sulla sicurezza, in modo da togliere una freccia dall’arco della destra (un sondaggio prematurissimo lo darebbe vincente contro Salvini, peccato che Salvini non commetterà l’errore di correre da sindaco). Ultimo ma non ultimo, Piefrancesco Majorino, assessore alle politiche sociali, uno che si è iscritto agli allora giovani del Pci quando aveva 14 anni e che adesso, a 42, dovesse mai vincere (ed è uno che, per l’eccellenza raggiunta da Milano nell’assistenza agli ultimi, qualche carta ce l’ha), diventerebbe il più giovane sindaco della capitale del Nord, secondo solo a Tognoli che ci riuscì a 38 anni. Di lui si è parlato, l’ha scritto Roberto Rho su Repubblica, come la possibile ala sinistra di un ticket con Giuseppe Sala, il manager avvezzo al mondo e attuale sindaco di Expo. Majorino non lo esclude a priori, ma mette una condizione: «Sala mi deve prima battere alle primarie. Poi, perché no, parliamone». Ma le primarie sono proprio una delle cose che non commuovono Sala, e neanche Renzi . Inoltre ci sarebbe il problema dei biglietti venduti: molta sinistra rimprovera al commissario straordinario una gestione non trasparente delle cifre. «Non c’è nessun mistero. Puntiamo a 20 milioni di ingressi, poi ci sono tante variabili, magari arriviamo a 18, dov’è il dramma? ». Nessun dramma. Si candida? «Vorrei continuare a fare qualcosa di utile al Paese, darò anche la mia disponibilità direttamente al premier. Certo, la Milano che verrà sarà più larga, ci saranno problemi urgenti di servizi e mobilità da affrontare. Io me la sentirei, ho l’esperienza per questi processi. Ma è la vicenda delle consultazioni preventive nella coalizione che fatico a capire, così come il comitato degli 11 saggi, rispettabilissimi, da Gad Lerner a don Rigoldi, che deve stabilire le regole per candidarsi. Mi chiedo: dobbiamo vincere o essere i più bravi nelle regole? Certo, un ticket con Majorino mi interesserebbe, mi garantirebbe dove sono più debole e viceversa…». Ma è un po’ combattuto. «Spaventato, direi. E poi queste liti nel centro sinistra: è musica che la gente non vuole più sentire. Servono, fatti, piani, progetti realizzabili, visioni ed esecuzione». Il più tranquillo in questo maremoto annunciato è proprio Giuliano Pisapia, l’uomo che l’ha sollevato. «Pentito? Ma no. Abbiamo soltanto superato un momento difficile. Certo, certe candidature avrei preferito che arrivassero un po’ dopo. Come mai mi sarei aspettato la decisione di Ada, il mio vice, tra le persone più capaci in assoluto che conosca. Carattere dirompente ma ampiamente compensato da una dedizione al lavoro unica, nelle zone, nelle assemblee più dure, anche la sera tardi. Lei candidato sindaco dopo di me? Sarebbe stato giusto per la continuità». Sarebbe stato. Paura di perdere a maggio 2016? «Vista da oggi, la destra mi sembra messa peggio di noi. Con Passera in campo si andrà al ballottaggio. Molto dipende dal senso di unità che riusciremo a dare, ci siamo anche sentiti con Renzi sul tema. Ne riparleremo ». Quanto a unità, non parrebbe che la partenza sia così incoraggiante. «Beh, sicuramente ci vuole un nome che unisca, rispettabile e rispettato». Dopo i ripetuti scontri con il premier, l’idea di Ferruccio de Bortoli la ritiene praticabile? «Il presidente del Consiglio non può né vuole perdere Milano». Il dodicesimo sindaco della città, sorridendo, si sistema il ciuffo. Del 23/07/2015, pag. 16 La minoranza insorge “No a regole da Soviet” Il premier vuole la stretta 26 D’Alema: “Le tasse si riducono partendo dai poveri Verdini?Attorno al Pd un mondo che fa riflettere” GOFFREDO DE MARCHIS ROMA. Alla fine, dicono gli ottimisti, Renzi non darà seguito al nuovo regolamento disciplinare contro i dissidenti del Pd. «Il codice penale» lo definisce Nico Stumpo, «uno strumento degno di Grillo» secondo Alfredo D’Attorre che rimanda alle espulsioni dei 5stelle, «una roba sovietica» dice l’altro bersaniano Davide Zoggia. Il capogruppo del Pd alla Camera Ettore Rosato non cerca lo scontro ma non si sottrae. E conferma: lo Statuto del gruppo parlamentare cambierà, «ci vogliono delle regole per stare insieme», non succederà più che alcuni deputati non votino la fiducia senza che succeda alcunchè. Si rifà a un precedente illustre, Rosato: «Ai tempi della legge Mammì, Mattarella si dimise dal governo e poi voto la fiducia al nuovo governo Andreotti». Così si sta nel Pd. Oppure non si sta nel Pd. La terza via non esiste. «Ho paura che qualcuno cerchi solo un pretesto per rompere», aggiunge soffiando sul fuoco. Il conflitto è rimandato a settembre. Ma il premier e Rosato, a dispetto delle critiche, non vogliono fare dietrofront. Si arriverà al giro di vite che prevede anche l’arma estrema dell’espulsione. Il capogruppo costituirà nei prossimi giorni un comitato di 10 deputati per stilare una bozza di Statuto. Saranno presenti i renziani e le varie minoranze. Dopo la pausa estiva, il testo verrà discusso da tutto il gruppo e infine, emendato e sviluppato, messo in votazione. Renzi pensa di aver fatto tutto il possibile per venire incontro alla sinistra Pd. Come? Rimandando all’autunno il voto sulla riforma costituzionale aprendo così a modifiche, confermando tutti i presidenti di commissione par-lamentari ribelli, compresi quelli che non hanno votato la fiducia (Epifani). Gesti distensivi, segnali di una volontà di tenere unito il partito. «Chi non li vuole cogliere pensa a prospettive politiche diverse», osserva Rosato. Ma la minoranza su questo punto sembra piuttosto incavolata. Roberto Speranza ha riunito senatori e deputati della sua corrente. Si sono sentite parole pesanti, accuse forti a Renzi. «Proprio lui che ha manovrato i suoi per non far votare Marini alla presidenza della Repubblica...». Stumpo, esperto di regole e statuti, sentenzia: «Stiamo parlando di un comitato e di una bozza che ancora non ci sono. Ma dev’essere chiaro: tocca al segretario cercare un modo per stare insieme. Quello che ho sentito all’assemblea del Pd è un leader che parla solo alla sua fazione. Speriamo che cambi rotta ». Sta montando una reazione furiosa sulla stretta disciplinare. Massimo D’Alema resta in disparte: «Essendo fuori dal Parlamento, fortunatamente posso non occuparmene». Preferisce commentare altro: «Sulle tasse bisogna cominciare dai più poveri. Verdini in maggioranza? Confluisce attorno al Pd un mondo che fa riflettere e che dovrebbe essere all’opposizione». E proprio oggi a Roma Denis Verdini e Silvio Berlusconi a pranzo si vedono per la resa dei conti. Dopo le uscite di Fassina e Civati, la questione disciplinare rischia di alimentare di nuovo le voci di scissione. «Siamo al Partito sovietico, a Roma. Perché poi a livello locale c’è un’anarchia totale, mai vista prima», dice Zoggia. «Persino il modo in cui il capogruppo Rosato ha gestito l’assemblea, con una sorta di ramanzina, quasi che la riconferma dei nostri esponenti in commissione fosse una concessione o uno scambio, ha dell’incredibile ». Nella riunione con Speranza, molti hanno ricordato la vicenda Marini, altri hanno chiesto di consultare gli iscrittii, altri hanno denunciato un clima invivibile nel Pd, dunque mettendosi con un piede fuori. «Per il momento non se ne va nessuno », precisa D’Attorre. Per il momento. «Basta con la storia di Marini, è una strumentalizzazione - ribatte Rosato - . Furono gli emiliani di Bersani a non votarlo ». 27 Del 23/07/2015, pag. 1-2 La verità sul patto tra neofascisti e servizi deviati PIERO COLAPRICO MILANO. Qualcuno dunque è stato. Oppure: qualcuno dunque è Stato, con la S maiuscola. Quarantuno anni dopo, le mani che piazzarono la bomba a piazza della Loggia a Brescia sono visibili, in mostra davanti a tutti. Mani «nere», mani da ergastolo. Lo stabilisce, per la prima volta, una sentenza. Ed è una sentenza, quella di ieri a Milano, davanti alla seconda corte d’assise d’appello presieduta da Anna Conforti, che potrebbe, con il tempo, diventare storica. Sin da subito, sin dagli anni Settanta, chi cerca la verità sulle stragi s’imbatte in vari nemici non dichiarati ufficialmente, dall’oscurità dei servizi segreti (allora Sid) alla complessità delle trame sovranazionali. Ma dopo tante assoluzioni, dopo lacrime e contestazioni, dopo l’arroganza che non pochi imputati hanno esibito, ieri la parola «colpevole» viene pronunciata in un’aula di giustizia ed è un inedito nell’Italia spesso senza sanzioni su quanto riguarda la strategia della tensione, aperta ufficialmente con la valigetta al plastico che scoppiò a Milano, nella Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a duecento metri dal Duomo, il 12 dicembre. Si obietterà che a vedersi precipitare nell’ergastolo, nel «fine pena mai», non sono i protagonisti principali di quell’epoca lontana e insanguinata. Eppure i condannati non sono due comparse. Sono anzi «riassunti » concretamente umani di alcuni di quei mondi impazziti che si scontrarono seminando vittime spesso innocenti. Uno è Maurizio Tramonte, 64 anni, «fonte Tritone» per l’ufficio Affari Riservati, al quale, nipote di un poliziotto, collaborava come informatore retribuito sin da giovanissimo. È accusato di aver partecipato alle riunioni organizzative della Strage. Sapeva, spiava, ha taciuto. L’altro è il medico neonafascista Carlo Maria Maggi, ai tempi una sorte di proconsole al Nord di Pino Rauti, il fondatore di Ordine Nuovo, gruppo messo fuori legge nel 1973. A ottantun’anni, malato, ma non tanto da ottenere ancora sospensioni del processo, Maggi rappresenta l’ingranaggio principale della catena di comando che porterà la gelignite da una trattoria a due passi da piazza San Marco sino a Brescia. Dopo il sangue versato, esortava i camerati: «Brescia non può restare un fatto isolato». Era il 28 maggio del 1974. Metà mattina, dodici minuti dopo le 10, Cgil Cisl e Uil avevano organizzato a Brescia una manifestazione contro «il rinascere della violenza fascista». Pioveva in piazza della Loggia e aveva preso la parola il sindacalista Franco Castrezzati quando un cestino dei rifiuti si trasformò in un cannone micidiale. Le indagini andarono sin da subito nella direzione giusta, la destra eversiva. Ma sin da subito anche i depistaggi, una costante del periodo, funzionarono perfettamente: per far sparire indizi e testimoni. Per questo ci sono voluti decenni di calvario per vittime e familiari. Per questo è servita l’astuzia investigativa dell’allora giudice istruttore Guido Salvini, il quale indagando su piazza Fontana riuscì a disseppellire «fonti» d’informazioni preziose e inedite (come Carlo Digilio); e c’è stato bisogno della caparbietà di Maria Grazia Pradella e molti colleghi, come Spataro, e i bresciani Di Martino e Piantoni; tutti magistrati, a dispetto di visioni diverse, che non hanno mai mollato. Dai silenzi ai depistaggi,quattro decenni di assoluzioni. Così i magistrati di Milano sono riusciti per la prima volta a provare le responsabilità degli autori della strage Ma, una volta enucleata «la storia», e la veridicità della storia, c’è voluto un sentiero processuale tortuoso per trasformarla in sentenza. La corte d’assise d’appello di Brescia sugli stessi fatti e con gli stessi elementi di prova dopo 167 udienze aveva assolto tutti, ma 28 la Cassazione aveva stracciato quell’insufficienza di prove ritenendola «caratterizzata da valutazione parcellizzata e atomistica degli indizi». Così la prima udienza del nuovo processo s’è tenuta qui a Milano, il 26 maggio. E al ritmo di quattro udienze a settimana, s’è arrivati al «ribaltone»: questo processo, che Maggi aveva tentato di snobbare come «bolla di sapone», è invece diventato la sua palla di piombo. Certo, altri protagonisti della stagione infernale sono usciti di scena, come Delfo Zorzi, il nazista della provincia veneta diventato Hagen Roi in Giappone. Ma un fatto da ieri esiste: l’amara cantilena delle stragi italiane, il «non ci sono prove », subisce un importante reset in un paese che non ha una memoria storica condivisa. Difficile, da ieri, far finta di niente rispetto al tentativo che, sotto lo scudo del cardinal Carlo Maria Martini, i gesuiti milanesi e alcuni criminologi portano avanti per aprire un dialogo di verità tra il mondo dei terroristi e quello delle vittime. E non sembra un caso, a proposito, che mentre brigatisti e «rossi» abbiano cominciato a rileggere e rimasticare gli anni di piombo, da destra pochissime voci si sono levate verso una riconciliazione: troppi misteri, troppi segreti. E troppi «patti del diavolo», vigenti ancora oggi. Del 23/07/2015, pag. 5 “Militari come gli 007” ma è scontro sulla legge per i poteri speciali Missioni all’estero, emendamento del renziano Latorre al ddl Casson pronto a dare battaglia: “Sarebbe anticostituzionale” LIANA MILELLA ROMA . Dieci righe per dare al presidente del Consiglio, Matteo Renzi in questo momento, il potere eccezionale di trasformare in 007 chi fa parte dei reparti speciali delle forze armate, con tanto di segreto di Stato garantito e potere di non rispondere di eventuali crimini commessi. Dieci righe firmate dal senatore pugliese Pd Nicola Latorre, notoriamente renziano. Che lui difende strenuamente. Ma che oggi, durante la riunione del Copasir, il Comitato di controllo sui servizi segreti, il segretario Dem Felice Casson si prepara ad attaccare. «Ho letto il testo e intravedo seri rischi di costituzionalità. Esporrò i miei dubbi al sottosegretario Minniti». Replica Latorre: «Dubbi infondati. Qui si dà solo la possibilità agli 007 di usare i reparti speciali, ma ciò non configura affatto la nascita di una struttura parallela». Un Pd contro l’altro. E su una materia, quella degli agenti segreti e delle coperture di cui godono, che da sempre suscita preoccupazioni. Partiamo dall’emendamento Latorre allora, il numero 18.0.1, che aggiunge un paragrafo all’articolo 18 del ddl Cirielli sulle missioni internazionali all’estero. Dopo il via libera della Camera adesso ha ottenuto anche quello della commissione Difesa del Senato. Compresa la norma Latorre, votata da tutti, con l’astensione di M5S. Leggiamo insieme, perché in quelle righe c’è da un lato la ragione di Latorre e dall’altro la contrarietà di Casson, l’ex giudice istruttore di Venezia considerato da sempre un esperto in materia di servizi segreti. Dice il testo: «Il presidente del Consiglio dei ministri emana, sentito il Copasir (inciso proposto da M5S e accolto, ndr. ), disposizioni per l’adozione di misure di intelligence di contrasto, anche in situazioni di crisi o di emergenza all’estero che coinvolgano aspetti di sicurezza nazionale o per la protezione di cittadini italiani all’estero, con la cooperazione altresì di assetti della difesa». Spiega Latorre: «Si consente l’utilizzo dei reparti speciali delle forze armate in operazioni di intelligence finalizzate a tutelare la sicurezza nazionale e quella di nostri connazionali in grave difficoltà». Che tipo di utilizzo? «Per operazioni 29 specifiche». Si rischia una struttura di 007 paralleli? «No, sarebbe una follia». Rivivono i vecchi Sios aboliti dalla riforma dei servizi del 2007? «Neanche per l’anticamera del cervello». Quindi che super poteri avrà il premier? «In casi specifici, un sequestro di persona, la notizia di un attentato, una grave minaccia alla nostra sicurezza, potrà autorizzare i reparti speciali ad eseguire missioni di intelligence. Dopo la missione i reparti rientrano nei ranghi». Ma non bastano gli attuali 007? «No, perché servono quantità numeriche e capacità operative che i servizi non hanno». Tutto in regola? Casson non la pensa affatto così. E oggi metterà in fila le sue numerose perplessità di fronte al sottosegretario con delega ai servizi Marco Minniti. A partire da due avverbi - «anche» e «altresì» - contenuti in quelle prime righe dell’emendamento Latorre che acuirebbero la sua «pericolosità». Dice Casson: «Le due parole cambiano tutto. Perché “anche” vuol dire che questi nuovi 007 potranno essere utilizzati non solo in casi di crisi, ma tutte le volte che il premier lo ritenga necessario. “Altresì” invece darebbe la possibilità di dare la qualifica di agente segreto anche a strutture che non sono dell’esercito». Che rischi vede? «Quello di creare un sistema di intelligence parallelo, non meglio individuato, e soprattutto con le coperture che, in via del tutto eccezionale, la legge del 2007 ha riconosciuto agli agenti dei servizi segreti. Parliamo delle garanzie funzionali, della clausola di non punibilità per gli eventuali reati commessi durante una missione, della possibilità di opporre il segreto di Stato alle indagini della magistratura». Quale sarebbe l’anomalia visto che già i servizi godono di questi privilegi? Risponde Casson: «La differenza è enorme. La legge sui servizi del 2007, che è costata mesi e mesi di discussioni, dice che le funzioni di Dis, Aisi e Aise “non possono essere svolte da nessun altro ente, organismo o ufficio”. Si trattava dunque di un potere eccezionale concesso a un numero ben individuato e limitato di agenti, in quanto si tratta di un potere eccezionale. Qui invece siamo di fronte a un’estensione chiaramente incostituzionale». Né, a convincere Casson, bastano le argomentazioni di Latorre sul rischio di attentati e sequestri all’estero. L’ex magistrato chiede che l’emendamento sia riscritto. Via gli «anche» e gli «altresì», e tutto quello che può consentire di dare a chiunque la qualifica di 007 per qualsiasi missione. Latorre replica secco: «Il caso non esiste. Tant’è che hanno votato tutti a favore». Del 23/07/2015, pag. 26 LE TASSE E LA SINISTRA NADIA URBINATI SI DICEVA anni fa, “non lasciamo la patria alla destra”. La competizione tra destra e sinistra riguardava allora la visione di comunità politica. In quel caso, la sinistra democratica sviluppò, grazie anche alla lungimiranza di intellettuali visionari come Jürgen Habarmas, l’idea di “patriottismo costituzionale”. La patria non era una comunità identitaria che escludeva e discriminava, ma una comunità politica di condivisione di diritti eguali e di dignità. Si trattò di una grande competizione, che liberò la sinistra dalle maglie strette della classe e la legittimò a governare la società liberale. Oggi lo stesso discorso sembra doversi fare sulla questione delle tasse. Si dice, “non lasciamo la battaglia per meno tasse alla destra”. Ovviamente la destra della lotta alle tasse non è quella comunitaria che voleva monopolizzare la patria. È invece quella che mette al centro l’individuo in funzione anti-sociale. Competere con una destra iper-liberale non è lo stesso che competere con una destra comunitaria e nazionalista. Dalla fine degli anni ’70 la rinascita neoliberale o liberista è avvenuta sul terreno della contestazione della spesa sociale e quindi nel nome di “meno stato più mercato” — la 30 premessa per giustificare il taglio delle tasse. La filosofia di Margaret Thatcher fu in questo rivoluzionaria e occupò il Palazzo d’Inverno per mettere in pratica il suo programma organico di smantellamento del welfare state: deregolamentando e privatizzando. La ridefinizione del pubblico fu tutt’uno con la politica di taglio delle tasse. Alla base di quella riscossa vi era una ridefinizione generale degli obblighi che gli individui riconoscono gli uni agli altri; vi era una filosofia dell’individuo che considerava gli altri o come ostacoli o come agenti competitivi e la società come un’astrazione, se identificata con qualcosa di più di un’aggregazione di egoisti competitori votati al massimo profitto con il minimo sforzo. Dicendo che non esiste la società ma esistono solo gli individui, la Iron Lady intendeva dire che nessuno ha obblighi verso gli altri mentre tutti hanno solo diritti e, in relazioni a questi, obblighi legali. Al centro vi era il diritto al perseguimento della felicità individuale e quindi alla conquista dei mezzi materiali per la realizzazione dei propri piani di vita. Il liberalismo economico aveva una radicale connotazione individualistica, e questo lo rendeva forte nell’affermazione dei diritti civili, nella convinzione che questi avrebbero sgretolato la cultura autoritaria e paternalista ed espanso l’orizzonte di possibilità per il singolo. Non tutto quel che il liberalismo economico proponeva era dunque negativo. Nella mezza verità liberista c’era un granello di verità, quello del valore propulsivo dei diritti individuali. Fu del resto questa sua interna complessità a rendere il discorso liberista egemonico, capace di conquistare consensi anche a sinistra. La quale, nell’era liberista, ha dovuto rivedere parte del suo armamentario ideologico per riuscire a contestare la destra sul terreno della redistribuzione e della giustizia sociale, accogliendo invece il messaggio liberatorio e liberante dei diritti, soprattutto nella sfera della morale soggettiva e dei comportamenti individuali. Si trattava quindi non di rifiutare l’individualismo, ma di interpretarlo in modo da separare la questione morale e giuridica dei diritti da quella sociale delle opportunità o di giustizia redistributiva. Non lasciare la questione della diminuzione della pressione fiscale alla destra deve essere inscritto in questa prospettiva — senza sposare l’individualismo egoistico ma interpretando l’individualismo in chiave democratica, come ricettivo rispetto agli altri, cooperatore e disposto a condividere costi e benefici in cambio di solidarietà sociale e contenimento del conflitto. A questa visione emancipatrice dell’individualismo corrisponde una visione di eguaglianza che è proporzionale, e quindi progressiva: a questa visione la politica fiscale dovrebbe essere connessa, come del resto propone la nostra Costituzione. Una visione che respinge la logica liberista della flat tax la quale tratta tutti indistintamente come identici, e che è attenta alle condizioni delle singole persone, per cui chi più ha più contribuisce, non tanto o soltanto perché questo è quanto l’etica della solidarietà chiede, ma anche perché chi più ha da perdere chiede anche più in termini di protezione dei diritti alla società e allo Stato. Progressività e proporzionalità sono le coordinate di una politica redistributiva che riesce a tagliare le tasse proprio perché vuole fare giustizia della pressione sproporzionata e ingiusta. Non tutte le prime case sono eguali nel valore e negli oneri che impongono alla società — trattarle come identiche è una semplificazione molto ingiusta. La politica fiscale è quindi una straordinaria opportunità per marcare il territorio ideologico tra destra e sinistra, tra un individualismo radicale che racconta la favola del trickle down (detassiamo chi più ha affinché investa e porti giovamento a chi meno ha) e un individualismo che ha invece un profondo rispetto per la specificità delle persone, di quel che hanno e producono, che sa essere proporzionale nel valutare obblighi e oneri, che insomma pensa alla società come a un coordinamento di diversi, una grande impresa cooperativa nella quale gli individui non sono identici benché eguali nei diritti. 31 LEGALITA’DEMOCRATICA del 23/07/15, pag. 5 (Roma) Scioglimento, la terza via della Bindi La presidente della commissione Antimafia chiede un decreto «per trattare il caso di Roma» Niente scioglimento per mafia, ma neppure un «non scioglimento». Semmai,.una forma di «tutoraggio» da parte dello Stato che «non primi i cittadini del governo della loro città» ma che «accompagni le amministrazioni, con scelte governative, fino a che non viene ripristinata la legalità». È la mossa di Rosy Bindi, presidente della commissione Antimafia per risolvere il «caso Roma» e superare le discrepanze tra le due relazioni prefettizie: quella dei tecnici nominati da Giuseppe Pecoraro (molto dura, conclusioni: scioglimento) e quella di Franco Gabrielli (molto dura anche questa, conclusioni: non scioglimento). Per vicende come questa, quando cioè si tratta di un Comune molto grande che può essere infiltrato parzialmente dalla mafia (che, come dimostra l’inchiesta della Procura, ha interessi soprattutto su sociale, urbanistica, lavori pubblici, ambiente), secondo la presidente Bindi «serve una norma ad hoc da parte del governo, sotto forma di decreto legge» che dia il via libera ad una forma di «tutoraggio da parte dello Stato». In questo modo, ha spiegato l’ex ministro della Salute durante le sue «comunicazioni» alla commissione ieri sera, «non si privano i cittadini di una guida politica ma si realizza un affidamento temporaneo fino a che non venga ripristinata la legalità, attraverso misure amministrative decise dal governo». Sembra la «mossa del cavallo» per superare anche i dissidi interni. Nel Pd, infatti, l’iniziativa della Bindi è stata vissuta con grandi mal di pancia. Il capogruppo, Franco Mirabelli, ha giudicato «inopportuno l’intervento: la commissione non va politicizzata» e fino all’ultimo ha provato a far slittare le comunicazioni della presidente. «Non avete i numeri per farlo», ha replicato la Bindi (servono i due terzi per votare lo spostamento di una seduta già convocata), che ha tirato dritta per la sua strada. Del resto, la presidente ha agito secondo i dettami della commissione, che deve appunto proporre iniziative sul piano legislativo. E il decreto, che metterebbe Marino «sotto tutela», lo è. Ernesto Menicucci 32 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 23/07/15, pag. 1/9 L’idea di Renzi sui migranti: dare più poteri ai primi cittadini di Francesco Verderami «Bisogna togliere un po’ di potere ai prefetti e darne di più ai sindaci». A Renzi non interessa se la sua sortita «alimenterà polemiche» tra i funzionari dello Stato. A preoccuparlo semmai sono le immagini che quotidianamente i telegiornali trasmettono sulla gestione degli immigrati, l’esasperazione dei cittadini su cui «si innestano le strumentalizzazioni politiche», che finiscono per incidere sull’umore profondo del Paese, oltre che sugli indici dei sondaggi. E se è vero che considera «l’accoglienza un dovere morale», è altrettanto convinto che «certe scene nelle città italiane non sono più accettabili». «Bisogna cambiare modello sui migranti», dice il premier, che la scorsa settimana aveva affrontato l’argomento con il ministro dell’Interno, prima di farne cenno all’Assemblea nazionale del Pd: «Dobbiamo fare di più e meglio. Occorre un meccanismo diverso nella gestione dell’accoglienza». Era un messaggio che preannunciava la prossima mossa del governo, deciso a superare il corto-circuito politico e istituzionale che si è innescato sull’emergenza: l’atteggiamento di alcuni governatori del Nord — contrari ad ospitare altri immigrati sul proprio territorio — ha amplificato le difficoltà dei prefetti, che in certi casi hanno mostrato imperizia. I fatti di Quinto di Treviso e la decisione dell’esecutivo di rimuovere la funzionaria, ne sono la prova. Dinanzi a una situazione di impasse che rischia di mandare in tilt il rapporto tra lo Stato e i cittadini, Alfano stava già predisponendo una soluzione con i tecnici del Viminale, che si muove proprio sulla linea enunciata da Renzi: «Togliere un po’ di potere ai prefetti e darne di più ai sindaci». Nell’ambito del Sistema di protezione per i richiedenti asilo e per i rifugiati (lo Sprar) verrà indetto un bando per diecimila posti che sarà rivolto ai Comuni: per assicurarsi una forte adesione dei sindaci, oltre allo stanziamento di fondi, si sta studiando anche un possibile allentamento del patto di Stabilità interna. Insomma, tramite gli «incentivi» il governo confida di ottenere la disponibilità di molti primi cittadini. E avrebbe con loro un rapporto diretto, che verrebbe gestito dal dipartimento Immigrazione del ministero dell’Interno. In un colpo solo, si scavalcherebbero così i veti dei governatori — additati da Alfano — e la mediazione dei prefetti, contro i quali il premier punta il dito, e non da oggi. Quel Renzi che appena entrato al Nazareno aveva detto «bisogna chiudere le prefetture», e che appena entrato a Palazzo Chigi aveva detto «bisogna dimezzare le prefetture», si era infine fatto convincere dal titolare del Viminale a non affondare il colpo. Ma le parole pronunciate l’altro ieri dal prefetto di Lecce Palomba, che è a capo del maggior sindacato di rappresentanza, quell’attacco al governo «che ci ha lasciati soli e fa di noi i capri espiatori» dell’emergenza, hanno rinsaldato il premier nei suoi convincimenti, a proposito di una struttura «corporativa e superata»: «Avevo ragione sui prefetti...». L’offensiva del funzionario-sindacalista ha colpito il ministro dell’Interno, e la sua meraviglia è stata pari al disappunto, non solo per l’assenza di tatto istituzionale del prefetto ma anche per la sua avventatezza: in un colpo solo ha fornito un assist a Renzi e ha commesso un autogol per la sua categoria, rischiando di mandare in fumo un anno di 33 trattative con il presidente del Consiglio. Perché non c’è dubbio che Renzi veda nei prefetti uno dei punti di falla dell’attuale sistema di accoglienza, ed è per questo che ha più volte sottolineato la necessità di «cambiare modello», togliendo loro — in questo contesto — una parte dei poteri. Ecco cosa ha spinto ieri Alfano a reagire duramente. A parte il commento tranciante rivolto a chi «se non ce la fa può andar via o lo sostituiamo» e a parte i complimenti misti a censura sul «compito difficile che hanno e che non contempla i party in prefettura», vale il messaggio lanciato sul ruolo e sul destino dei funzionari di Stato: «Come governo e come maggioranza abbiamo dato loro una grande prova di fiducia, garantendo una carriera speciale e confermandoli a presidio del territorio, mentre altri partiti vorrebbero abolirli. Devono però scegliere: o si rendono conto di far parte dell’eccellenza dello Stato, e si comportano di conseguenza, o dicano se vogliono sindacalizzarsi». È evidente a cosa si riferisse il ministro dell’Interno, perché la riforma che riguarda (anche) i prefetti — quella sulla Pubblica amministrazione — è ancora all’esame della Camera e dovrà poi passare al vaglio del Senato: è stato complicato assicurare l’appartenenza dei funzionari all’albo speciale come gli ambasciatori, ed è stato complesso evitare un taglio radicale delle prefetture. Ma in Parlamento gli equilibri potrebbero mutare sotto i colpi di una polemica così virulenta. Il modo in cui sono intervenuti i prefetti di Roma, di Milano, di Palermo, di Bologna — cioè delle città sentinella sul fronte dell’immigrazione — evidenzia la presa di distanza dal collega, che ieri sera al Tg5 ha corretto (in parte) il tiro. Nel bel mezzo di un (legittimo) scontro politico che fa da contesto a un’emergenza senza precedenti, è inammissibile un conflitto aperto da apparati dello Stato contro il governo. «È istituzionalmente poco serio che un prefetto commenti le parole di un ministro», ha commentato infatti Gabrielli. Manco fosse ancora a capo della Protezione civile... del 23/07/15, pag. 8 Il canto libero dei migranti di Ventimiglia Immigrazione. Prosegue nell'indifferenza generale la clamorosa protesta dei profughi africani che dal 9 giugno sono accampati davanti agli scogli sul confine tra Italia e Francia. L'altra sera, con Vauro e la band Tetes de Bois, festa in musica con un ritornello inventato da un profugo di sedici anni. Da domani a domenica tre giorni di iniziative organizzate dai ragazze e dai ragazzi del presidio permanente No Border Luca Fazio MILANO I migranti sugli scogli sono abbandonati ma non sono soli. Meriterebbero molto di più. Ventimiglia potrebbe diventare la capitale vetrina di questa Europa che non funziona, respinge e uccide. Lo è già ma solo per quei pochi che se ne sono accorti. Quei cinquanta metri di lungomare, tra gli scogli dei Balzi rossi e il confine francese, sarebbero lo scenario perfetto per guardare in faccia quella realtà che la sinistra si limita ad analizzare nei meeting e nelle raffinate analisi del giorno dopo, quando i fatti e le tragedie lasciano sgomenti. La situazione sta precipitando e l’accademia dell’antirazzismo non funziona più, è troppo distante dai luoghi dove le cose accadono con tutte le loro contraddizioni. In una periferia romana o in un quartiere di Treviso, quando si mostrano, si mostrano sempre con gli stessi volti, sono razzisti, sono fascisti, è «gente esasperata». Sembra che non ci sia altro 34 da dire e da fare. Ecco perché Ventimiglia è una eccezione clamorosa che dopo più di cinquanta giorni è già un’occasione persa, per tutti. Se in Italia esistesse ancora un movimento organizzato sinceramente antirazzista, ma anche pezzi disarticolati capaci di mettere a fuoco la situazione, quell’ultimo tratto di via Aurelia diventerebbe il posto dove essere presenti, ogni giorno, per mettere seriamente in difficoltà i governi d’Europa. Gli unici ad averlo capito, testardi, determinati, a modo loro anche ben organizzati, sono quei cinquanta migranti africani che dal 9 giugno si danno il cambio sugli scogli per chiedere al mondo di poter oltrepassare il confine e dirigersi verso nord. Di poter vivere. La Francia li rispedisce indietro e l’Italia continua a comportarsi come se non esistessero, ma loro ogni giorno provano a varcare il confine. Per il governo sono fantasmi, molto meno di una seccatura. Il via vai tra il centro di accoglienza della stazione e la pineta di fronte al mare è continuo. I migranti, profughi sudanesi ed eritrei, mostrano una pazienza infinita. Quasi ogni giorno accade qualcosa a tenere viva la speranza. Può essere una partita a calcio, una pastasciutta, le chiacchiere con i ragazzi del Presidio permanente No Borders, una presenza fondamentale e discreta. Con fatica stanno cercando di fare rete con altre realtà organizzate: «Vorremmo che l’esistenza di questo luogo, oltre che essere uno strumento di supporto per gestire il flusso dei migranti, potesse servire anche per creare un movimento diffuso capace di battersi contro la logica dei confini e per la libera circolazione delle persone», spiega Lorenzo. Dall’inizio è accampato in pineta, ci sono da organizzare lunghe giornate dove non accade quasi niente e non è facile abbozzare un programma. Sono i migranti a decidere cosa fare. E sarà così anche per le tre giornate di mobilitazione che cominceranno domani. «Ci aspettiamo un contributo da chi si occupa di immigrazione in varie parti d’Italia — spiega — parleremo di legislazione europea e assistenza legale. Poi dovremo attrezzarci per continuare, non ce ne andremo fino a quando i migranti decideranno di stare qui, Ventimiglia resterà sempre un punto di passaggio». La sera, promette, ci sarà anche da divertirsi. Come l’altro ieri, anche se quella è stata una serata speciale. La comunità di San Benedetto del Porto (quella di don Gallo) martedì è andata a trovarli e insieme ai volontari si sono presentati anche Vauro e la band dei Tetes de Bois. I migranti hanno improvvisato un ritmo irresistibile percuotendo pentole e bastoni su un ritornello «scritto» da Ibrahim, 16 anni. Quel canto di libertà è stato inciso dal gruppo e adesso vogliono farne una canzone. Gli arrangiamenti verranno, ma il testo si può già canticchiare: We are not going back (non torneremo indietro). Andrea Satta, il cantante, ha spiegato che l’avevano pensata solo «come una suonata per voce e fisarmonica da tenere sugli scogli per accompagnare la spedizione di derrate alimentari». Poi l’intuizione: «È un messaggio di speranza e battaglia che abbiamo voluto riprendere perché come artisti abbiamo il dovere di farlo conoscere e portare in giro per il mondo. Ne faremo una canzone, una storia da raccontare che quest’estate porterà Ventimiglia in tournée». del 23/07/15, pag. 7 (Roma) Al campo profughi restano gli stranieri Casale San Nicola, «nessun razzismo con i rifugiati». E CasaPound torna con i residenti Quattro rifugiati appena usciti dall’ex scuola Socrate a Casale di San Nicola camminano sotto i pini guardandosi intorno. I residenti del complesso residenziale li osservano in silenzio, anche quelli del presidio di protesta contro la loro presenza. Poi i quattro ragazzi raggiungono la Braccianese e la stazione La Storta. 35 Piccole, timide prove di integrazione dopo le polemiche e gli scontri dei giorni scorsi. Gli abitanti hanno deciso di continuare a oltranza le manifestazioni contro il centro d’accoglienza gestito dalla cooperativa Isolaverde, vincitrice del bando della Prefettura valido fino al 31 dicembre prossimo. E CasaPound ha annunciato ieri che sarà ancora nonostante i dissidi con alcuni abitanti per gli incidenti con la polizia di venerdì scorso - al fianco dei cittadini. Ma a Casale di San Nicola prosegue la mobilitazione nell’accampamento per i profughi italiani aperto a fine maggio proprio davanti all’ex scuola dove ora si trovano 59 rifugiati. Un’area con tende da campeggio, gazebo ma senza servizi igienici, nè acqua, «su un’area che appartiene a noi - sottolinea Simonetta Lanciani, presidente dell’Isolaverde onlus - e per questo ho già presentato denuncia ai carabinieri per violazione di domicilio». Nel campo - allestito da «Nessuno tocchi il mio popolo» movimento della destra sociale fondato da Alfredo Iorio - sono rimaste alcune delle 30 famiglie iniziali. «A molte abbiamo trovato un alloggio in altre strutture a Boccea, Nemi e Cerveteri - spiega Daniele, uno dei volontari -, ma qui ne sono rimaste ancora, anche con bambini piccoli». Adesso però fra gli accampati non ci sono solo italiani, ma anche stranieri, da anni a Roma. E raccontano storie di immigrazione come quelle di chi arriva oggi in Italia. Come Lina Victoria, colombiana di Calì, da 15 anni nel nostro Paese, «prima ad Ancona, poi a Roma. Ho anche dei figli che però ho preferito farli restare a casa. Non voglio che debbano affrontare tutte queste difficoltà». Il caldo torrido delle ultime settimane ha complicato la situazione, anche se di giorno gran parte di chi vive in tenda è in giro a lavorare. «Nelle canadesi è molto difficile restare con queste temperature», dice ancora Lina: «Non ce l’ho con i rifugiati, non ci ho nemmeno parlato. Non è una questione di razzismo nei loro confronti, ma lo Stato italiano dovrebbe pensare anche a chi stava qui prima di loro». Lo stesso pensiero di Roger Falcones, un operaio ecuadoregno, «sfrattato perché non riuscivo a pagare l’affitto. Mia moglie e mia figlia sono in una casa famiglia. Qualcuno ci aiuti». Drammatica anche la situazione di Emanuela Rocco: «Non ci sono bagni, quindi con mia figlia siamo costrette ad andare al centro commerciale. Spero finisca tutto presto, ma le autorità devono intervenire». Rinaldo Frignani del 23/07/15, pag. 7 (Roma) Infernetto, arrivano 80 immigrati Raccolta di firme per spostarli La zona si divide tra pro e contro. Ma viene fatto il presidio Da Casale San Nicola all’Infernetto, si estende la protesta anti-immigrati. Circa quaranta persone, riunite dai locali esponenti di CasaPound, si sono date appuntamento ieri in via Ennio Porrino all’Infernetto, quartiere residenziale alle porte di Ostia, dove da due settimane sono stati trasferiti un’ottantina di migranti. I profughi, tutti adulti di varie nazionalità, sono inseriti nel piano di accoglienza coordinato da Prefettura e ministero dell’Interno. Si tratta di migranti presenti sul territorio italiano già da diversi mesi, identificati e sottoposti sia ai controlli sanitari che di polizia. La struttura che li ospita, un complesso di tre palazzine di proprietà comunale, era da anni già utilizzato per l’assistenza alloggiativa a famiglie – italiane e non – in difficoltà. L’improvviso arrivo dei migranti ha però fatto salire la tensione nel quartiere; già a novembre 2014 all’Infernetto erano stati trasferiti 15 minori stranieri senza famiglia e le 36 proteste non erano mancate. Luca Marsella, responsabile del gruppo CasaPound di Ostia, scoperta la presenza dei profughi, ha subito convocato il presidio per chiedere lo spostamento del centro di accoglienza. Scarsa però l’adesione al sit-in, corredato solo da qualche bandiera italiana. Secondo quanto raccontato dai residenti, non si è registrato alcun problema di convivenza. «Vorremmo solo esserne stati informati prima – spiega il coordinatore di Fratelli d’Italia per il X Municipio, Monica Picca intervenuta al presidio – in questo modo i cittadini sono impreparati e si sentono presi in giro. Chiediamo di sapere i dettagli, quanto resteranno qui gli immigrati e se è prevista l’apertura di nuovi centri profughi sul litorale. Questo è un territorio che ha già tanti problemi, pensiamo a risolvere prima questi». A margine della manifestazione CasaPound ha dato il via ad una raccolta firme per chiedere lo spostamento dei profughi dall’Infernetto. Val. C. 37 DIRITTI CIVILI E LAICITA’ del 22/07/15, pag. 4 La legge va avanti ma piano piano Unioni civili. Il ddl verrà discusso dall’aula del Senato nella prima settimana di agosto Carlo Lania ROMA Dopo la condanna della corte europea per i diritti umani all’Italia per la mancanza di una legge che riconosca le unioni omosessuali, a spingere perché si arrivi all’approvazione del ddl Cirinnà ieri è stata anche Laura Boldrini.«Il tempo è scaduto, l’attesa per la nuova legge sulle unioni civili si sta prolungando oltremodo» ha detto la presidente della Camera riferendosi al testo fermo da mesi al Senato. A complicare le cose ci si è messo però il ministero dell’Econpmia. Da giorni infatti la commissione Bilancio di Palazzo Madama aspetta la relazione che quantifica i possibili costi per lo Stato di misure come la reversibilità della pensione per il partner e gli assegni familiari. Atteso inizialmente per martedì sera, il documento è slittato a ieri mattina per essere infine annunciato, forse, per oggi. La relazione è già stata consegnata dal Mef al minitro della Giustizia Andrea Orlando, che a sua volta l’ha trasmessa ai Rapporti con il parlamento per il via libera finale. E salvo sorprese potrebbe davvero arrivare oggi a palazzo Madama. Il ritardo però ha scatenato le critiche di Sel e M5S, che accusano il governo di voler «perdere tempo». «Alla fine la verità viene sempre a galla. E la verità sui diritti civili è che il governo frena sul riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali» ha detto Nicola Fratoianni. Il coordinatore di Sel se l’è presa anche con il viceministro alle Riforme Ivan Scalfarotto, protagonista in passato di uno sciopero dell fame a sostegno del ddl. «Invece di fare tweet si impegni a sbloccare questa situazione». Seppure lentamente, qualcosa comunque si muove. La capigruppo di ieri ha fissato per la prima settimana di agosto la discussione in aula del testo. Il che significa che non appena la Bilancio avrà licenziato il testo, la commissione Giustizia sarà costretta a un tour de force per licenziare in tempo il provvedimento. Con 1.600 emendamenti da discutere, quasi tutti presentati dal Ncd, sarà difficile che ci riesca ma l’aver calendarizzato il ddl per l’aula significa comunque averlo indirizzato verso la fine del suo iter al Senato. Cosa che fa essere ottimista Sergio Lo Giudice: «Una cosa è certa: dopo quasi trent’anni dalla prima proposta di legge sulle coppie di fatto — ha commentato il senatore del Pd — per la prima volta un ddl sulle nuove coppie entra nel calendario di un’aula parlamentare». Tutto bene dunque? La prudenza quando si affrontano certi temi non è mai troppa. Primo perché è da quando è diventato segretario del Pd che Renzi promette una legge sulle unioni civili, salvo poi fermarsi sempre di fronte ai diktat del Ncd. E poi perché le forze in campo contro la legge che porterebbe finalmente all’equiparazione dei diritti per le coppie omosessuali sono pesanti. Ieri hanno fatto sentire di nuovo la loro voce i vescovi: «L’unica cosa che stiamo chiedendo al governo è di essere attento ai bisogni dei singoli ma non fare del bisogno dei singoli la misura e il quadro per dover poi regolare il bene comune» ha detto il segretario generale delle Cei, monsignor Nuncio Galantino. Mentre per la maggioranza Alfano ha ricordato come le unioni civili «non fanno parte del patto di governo». Di certo questa volta sarà difficile per chiunque sottrarsi. Sia nelle commissioni che in aula c’è infatti già una maggioranza alternativa composta da Pd, Sel, M5S più che sufficiente 38 per approvare la legge senza problemi. Voti ai quali non è escluso si aggiungano anche quelli di molti senatori di Forza Italia. Ieri Danilo Toninelli, tra i senatori 5 Stelle più preparati, se l’è presa con quanti insinuano che alla fine i grillini potrebbero tirarsi indietro, arrivando perfino alle minacce fisiche: «Il prossimo che sento dire che il M5S dice sempre e solo no lo prendo a schiaffi», ha scritto su Facebook. «Si parla delle necessitò di votare in fretta ma non si parla del fatto che il M5S è pronto da mesi a votare il testo fermo al Senato». Siamo al rush finale, per dirla con le parole di Lo Giudice. La speranza è di riuscire a tagliare finalmente il traguardo. 39 BENI COMUNI/AMBIENTE del 22/07/15, pag. 2 L’allarme di Franceschini e ambientalisti “Si rischia di autorizzare dei veri scempi” Francesca Schianchi Il presidente nazionale di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza, dice che «chiamarlo silenzio assenso è un modo elegante per dire deregulation». Il Consiglio superiore dei beni culturali, organo consultivo del ministero della Cultura, lo definisce «uno strumento rozzo e pericoloso». Addirittura, il ministro in persona, Dario Franceschini, ha inviato una lettera alla collega Marianna Madia, responsabile della Pubblica amministrazione, per chiederle di cambiare la legge. Invano: «Con questa regola non abbassiamo il livello di guardia sui beni culturali: al contrario, lo alziamo», garantisce la Madia. Scatena paure e allarmi la norma contenuta nell’articolo 3 della riforma della Pa, al momento in terza e (auspica il governo) ultima lettura in Senato. Il cosiddetto silenzio assenso: per evitare attese bibliche per un parere o un nullaosta, si introduce un termine oltre il quale se un’amministrazione non risponde a un’altra, la mancata risposta diventa un via libera. Trenta giorni il termine generale, novanta quando riguarda interessi sensibili (salute, ambiente, beni culturali, paesaggio), salvo i casi in cui leggi speciali prevedano termini più lunghi (120 giorni). «Il silenzio assenso corrisponde a un’assoluta deresponsabilizzazione degli uffici, visto che nessuna sanzione è prevista per il funzionario che non risponde in tempo – lamenta Cogliati Dezza – se va bene, si rischia che verranno autorizzate opere inutili. Se va male, saranno scempi». La paura che molti hanno rappresentato agli uffici del ministero della Pa - tra chi ha espresso preoccupazione per la norma, sigle come il Wwf, il Fai, Italia nostra è proprio questa: la possibilità che, causa mancata risposta, corrano verso sicura realizzazione orrori tipo l’invasione delle coste di cemento. Un timore che ha attraversato anche chi, tra i dem, ha una storia di militanza ambientalista, come il presidente della Commissione Ambiente, Ermete Realacci: «Il rischio che questa regola possa produrre effetti negativi c’è – concede – e infatti la situazione andrà monitorata, ma non c’è dubbio che bisognava intervenire per dare ai cittadini certezza dei tempi». Lui ha votato sì, aggiungendo però alla legge un ordine del giorno che invita il governo a rimpinguare il personale delle Soprintendenze. Perché proprio questo – la carenza di organico - è una delle ragioni che potrebbe portare gli uffici a non dare risposta in tempo: e allora, ha spiegato il ministro Madia, ragioniamo sulle situazioni di oggettiva difficoltà e cerchiamo di risolvere quei singoli problemi. Ma non si parli di deregulation, sospira il ministro («sarebbe vero se avessimo cambiato le regole per le autorizzazioni, ma non è così»), che prevede invece risposte più rapide e certe delle amministrazioni. E quindi più controllo. «Le Soprintendenze saranno spinte a rispondere in tempi brevi: altrimenti, saranno loro, con la loro mancata risposta, a prendersi la responsabilità di consentire che vadano avanti procedimenti sbagliati». Il nodo chiave, secondo il governo, è proprio la responsabilità: perché oggi se, a richiesta di un’amministrazione, ad esempio un comune, la Soprintendenza non risponde, il comune può procedere ugualmente. Ma siccome ne sarebbe completamente responsabile, i lavori puntualmente si fermano. Per venire incontro alle critiche, i tempi del silenzio assenso sono stati alzati alla Camera. Ora la riforma è tornata al Senato. E, parola di premier, non si tocca più. 40 Del 23/07/2015, pag. 20 Dalla curia ai politici la rete per far riaprire la Tirreno Power Savona, il pressing dei dirigenti per il dissequestro “La Guidi ha chiesto un consiglio a Clini, che è con noi” MARCO PREVE GENOVA . C’era chi si rivolgeva al viceministro, chi ai politici amici del Pd, e chi anche al clero. Il deposito degli atti relativi all’inchiesta sulla centrale a carbone Tirreno Power di Vado Ligure, racconta, secondo la procura di Savona, i tentativi dell’azienda di ottenere dal Ministero dell’Ambiente e dalla Regione procedure di favore per poter così scavalcare i provvedimenti di sequestro dei gruppi a carbone disposti dal gip su richiesta dei pm. Nell’inchiesta sono indagati a vario titolo per disastro ambientale, omicidio colposo ed abuso d’ufficio, 87 persone: politici, tecnici, funzionari ministeriali, sindaci ed altri amministratori, e una quarantina di manager di Tp che all’epoca delle contestazioni rivestivano cariche anche in Sorgenia (società da cui a marzo è uscita la Cir della famiglia De Benedetti), azionista di riferimento di Energia Italiana che, insieme a Gdf-Gaz de France controlla la centrale. IL VICEMINISTRO Claudio De Vincenti (che non è indagato), oggi sottosegretario alla presidenza del Consiglio e fino a pochi mesi fa viceministro dello Sviluppo Economico ha frequenti contatti telefonici con Andrea Mangoni già ad di Sorgenia e consigliere di Tp. Mangoni nel luglio 2014 al telefono alla sua segreteria annuncia una «mail di Claudio (De Vincenti, ndr) che è … spunti per velocizzare...». Pochi giorni dopo De Vincenti parla con Mangoni della centrale: «Come siamo messi con Tirreno Power fammi capire?». E Mangoni «eh male…». I due fissano un appuntamento per parlare. Che non va benissimo visto che ai primi di agosto Mangoni confida ad un interlocutore: «Abbiamo avuto uno scazzo... una discussione come dire… molto virile». Ma il giorno stesso manda a De Vincenti un sms conciliante: «Abbiamo bisogno di regole certe, se puoi fai uscire il provvedimento quanto prima. Ps: prova a riposarti». La risposta arriva a settembre. De Vincenti scrive: «Scusa il ritardo… confido nella tua amicizia… so che stanno emanando l’Aia. Sentiamoci». Pochi giorni dopo Mangoni parla con un altro indagato, Francesco Dini, all’epoca direttore generale della Cir e oggi nei cda di Gruppo Espresso ed Ansa per informarlo che «De Vincenti ha fissato una riunione col ministero della Salute e il ministero dell’Ambiente che c’è questo studio dell’Istituto Superiore di Sanità che diciamo… fortemente critico verso le perizie (della procura, ndr ) e le invalida… e a quel punto il Ministero dell’Ambiente ne tenga conto». Una perizia che secondo la procura di Savona verrà “ripudiata” dagli stessi firmatari che ascoltati come testi spiegano di non aver potuto visionare tutta la consulenza della procura. Nel maggio del 2014 un pranzo al ristorante tra Mangoni, il direttore generale della centrale Massimiliano Salvi e lo stesso De Vincenti, per gli inquirenti potrebbe nascondere «un’attività corruttiva». La procura vorrebbe monitorare con delle “cimici” il colloquio ma il gip non ritiene vi siano sufficienti elementi a sostegno di un’accusa di corruzione e nega l’autorizzazione ad installare le microspie nel ristorante. Quanto a Dini compare in un’altra intercettazione in cui spiega ad un dirigente di Tp che «ho finito adesso di parlare con Clini (Corrado ex ministro dell’Ambiente poi tornato al ministero come dirigente, ndr ) e si era già mossa con 41 lui la Guidi (ministro dello sviluppo economico, ndr ) per chiedergli un consiglio… hanno una riunione lunedì. Lui è assolutamente d’accordo che la soluzione migliore sia quella che abbiamo proposto noi». Era il 22 maggio del 2014 e pochi giorni dopo Clini finiva agli arresti domiciliari per peculato. IL SOSTEGNO DEL PD La procura evidenzia anche il nome di Rossana Revello, contitolare di un agenzia di pubbliche relazioni «in relazione ai contatti che la stessa ha con il direttore generale di Tp Giovanni Gosio, e poi anche con il successore Massimiliano Salvi. I contatti sono volti alla facilitazione degli incontri tra azienda e istituzioni soprattutto a livello locale con il presidente della Regione Claudio Burlando, con l’assessore all’ambiente Renzo Guccinelli (entrambi Pd, ndr )… capacità di relazione determinate dalla conoscenza confidenziale con il deputato del Pd Anna Giacobbe… al fine di agevolare l’azienda nell’ottenimento delle autorizzazioni necessarie». LA CURIA Ma c’è anche chi cerca sostegno nel clero. La moglie di Pasquale D’elia ex capo della centrale racconta ad un’amica suora di aver chiesto un appuntamento (che otterrà) per suo marito con il vescovo di Savona Vittorio Lupi: «È un’idea nata su due piedi, abbiamo un’amica che conosce bene la segretaria del vescovo, Pasquale ci vuole andare a titolo personale… per affrontare questa battaglia lavorativa da buon cristiano». Del 23/07/2015, pag. 6 Le riunioni di De Vincenti per frenare i magistrati L’accusa: una riunione organizzata dal vice-ministro Claudio De Vincenti per mostrare uno studio dell’Istituto Superiore della Sanità che “invalida” la perizia dei pm. Quella che parla di 440 morti per la centrale di Vado. Governatori, sindaci, sindacati, perfino vescovi. I manager Sorgenia e Tirreno Power le provano tutte. Ma il loro asso nella manica, secondo i pm, è De Vincenti (ci sono anche passaggi sul ministro Federica Guidi, nessuno dei due è indagato). I magistrati savonesi avevano chiesto di registrare i suoi colloqui: “In un ristorante di Roma verrà organizzato un incontro tra” i vertici Cir-Sorgenia “Andrea Mangoni, Francesco Claudio Dini e De Vincenti…”, si richiede la registrazione del “colloquio che lascia ben presupporre l’organizzazione di attività corruttiva”. Ma il gip boccia la richiesta. Pranzi, telefonate, sms e mail. Il vice di Renzi è in stretto contatto con la società. Il passaggio più scomodo: “Claudio (De Vincenti) ha fissato una riunione con il ministero della Salute e quello dell’Ambiente… per fare in modo, insomma, il ministero della Salute dica che c’è questo studio dell’Istituto Superiore della Sanità che… diciamo così… fortemente critico verso le perizie e le invalida… e che a quel punto auspicabilmente il ministero dell’Ambiente ne tenga conto”. Per i pm la politica a livello locale (con pressioni sull’Istituto Tumori) e a livello nazionale (Istituto Superiore della Sanità) mira a minimizzare i dati tragici della perizia. A parlare, il 14 luglio scorso, è Andrea Mangoni, all’epoca ad di Sorgenia e nel cda di Tirreno Power. Un manager vicino al centrosinistra che lo sostenne ai vertici Acea e Fincantieri. All’altro capo del filo Francesco Claudio Dini, direttore Affari Generali del Gruppo Cir e oggi nei cda 42 Ansa ed Espresso. Entrambi sono indagati. Il 28 luglio ancora Mangoni cita una mail di De Vincenti che parlerebbe di “spunti per velocizzare…”. Il vice-ministro si riferiva alla centrale? A luglio 2014 Mangoni parla con De Vincenti di Tirreno Power, ma non vuole usare il telefono. Perché? “Vorrei parlartene a quattr’occhi, non per questa via”. Il 4 agosto c’è un incontro e Mangoni alla sua collaboratrice racconta di un documento da inviare: De Vincenti “suggeriva indirizzari ancora più impegnativi… tipo Renzi, Del Rio”. L’incontro, soprattutto sulla questione del mercato elettrico, è “molto virile” (parole di Mangoni). Il manager smorza in un sms: “Abbiamo idee diverse, ma da quando sei arrivato tu le politiche sono decisamente cambiate (in meglio)”. De Vincenti: “Confido nella tua amicizia cui tengo moltissimo”. Colloqui frequenti, come quello in cui Mangoni arriva a parlare in prima persona del Pd: “A noi ci viene da lì… a livello istituzionale ma anche parlamentare di collegi… intendo dire nostre… di Pd una richiesta di avere un segnale da parte del Governo”. Il manager pare chiedere a De Vincenti di tenere calmi i politici liguri. Il vice-ministro risponde: “Fammi sentire Claudio Burlando (governatore della Liguria, Pd, ndr)… tieni conto che come spesso fanno i parlamentari devono mettersi in mostra… devo evitare di dare l’impressione di ingerenza”. Burlando (indagato con tutta la sua giunta) riferisce a una collaboratrice: “Mi ha chiamato De Vincenti dice di convocare una riunione”. Il 14 ottobre Mangoni parla con Massimiliano Salvi (Tirreno Power): De Vincenti “mi ha detto… per noi sarebbe di importanza capitale, per potervi dare tutto l’appoggio necessario, far sopravvivere i gruppi a gas”. Ma c’è anche un passaggio sul ministro Guidi e sull’ex collega Corrado Clini: “Dini riferisce che la Guidi e Clini sarebbero d’accordo per la soluzione proposta dall’azienda”. La stessa Guidi che incontrò Paola Severino, ex ministro e legale Tirreno Power. Ma i vertici della società si incontrano anche con pezzi grossi dei sindacati con cui concordano la strategia. E addirittura la moglie di Pasquale D’Elia, uno dei responsabili della centrale di Vado, parla con una suora e chiede un appuntamento con il vescovo. del 22/07/15, pag. 19 Ilva, il governo blinda gli altiforni Se oggi la Camera voterà la fiducia sul decreto, il ricorso dei pm sarà nullo Paolo Baroni È uno scontro tra poteri senza precedenti: procura contro governo, governo contro procura. Per l’Ilva di Taranto questo sono giorni decisivi. Salvo contrordini entro domani l’azienda deve comunicare al custode giudiziario il programma relativo allo spegnimento dell’altoforno 2, dove un mese fa si è verificato un incidente mortale. Produzione a rischio Spegnere Afo2, però, in questa fase, visto che altri tre altoforni sono fermi per lavori, significherebbe lasciare l’Ilva con un solo impianto in attività. Il che significherebbe la fermata completa la produzione, un altro colpo a quello che un tempo era la più grande acciaieria d’Europa e che ancora oggi occupa 15mila persone. Per questo ai primi di luglio il governo ha emanato un decreto per evitare lo spegnimento. La Procura di Taranto lo ha però impugnato davanti alla Corte costituzionale continuando ad insistere per la fermata. Il governo a sua volta ha studiato una contromossa stralciando le norme salva-Ilva nel decreto legge sui fallimenti su cui oggi la Camera vota la fiducia e rendendo in questo 43 modo nullo il ricorso alla Consulta della Procura che eventualmente dovrebbe presentare una nuova istanza. Ieri a Lecce si è svolto un vertice tra il procuratore generale Giuseppe Vignola, il procuratore di Taranto Franco Sebastio, l’aggiunto Pietro Argentino ed il pm Antonella De Luca che il 18 giugno ha disposto il sequestro di Afo2. «Ho chiesto la massima urgenza: ognuno di noi ha espresso il proprio orientamento per un provvedimento che, sebbene spetti alla Procura di Taranto, sarà adottato con la convergenza piena di tutti per andare incontro a quelle che sono le due esigenze primarie: il diritto alla salute e il mantenimento del posto di lavoro», ha spiegato Vignola. Dunque, si fa intendere, «nessun accanimento giudiziario» nei confronti dell’Ilva e piena disponibilità ad ascoltare e vagliare le richieste dell’azienda. Ore decisive «La situazione sembra essersi un poco rasserenata - spiega il segretario della Fim provinciale, Mimmo Panarelli -. Ma al momento l’ordine di spegnimento non è stato ritirato». Il tempo però gioca a favore del superamento di questa nuova crisi considerando che fine mese ripartirà Afo1. Intanto per oggi, sempre a Taranto, sono attese le richieste di rinvio a giudizio per i 50 accusati di disastro ambientale. Tra di loro Nicola e Fabio e l’ex governatore della Puglia Nichi Vendola. Del 23/07/2015, pag. 36 Energia ’O Sole bio Nel 2040 più della metà della potenza elettrica verrà da fonti non fossili. Ecco come si stanno preparando alla rivoluzione i grandi gruppi,con l’italiana Eni in prima fila,e quali sono le nuove frontiere della ricerca ANTONIO CIANCIULLO Celle fotovoltaiche che fanno a meno del silicio e utilizzano materiali organici. Concentratori solari luminescenti per la produzione di energia elettrica. Biocarburanti di seconda generazione che usano materiali agricoli di scarto senza entrare in competizione con le colture alimentari. Sono alcune delle possibilità tecnologiche aperte dalla triangolazione tra Eni, Politecnico di Milano e Massachusetts Institute of Technology (Mit). Un’accelerazione della ricerca legata anche al quadro disegnato nei giorni scorsi da Bloomberg New Energy Finance: nei prossimi 25 anni il 60 per cento della nuova potenza elettrica installata verrà dalle rinnovabili; entro il 2040, il mix elettrico sarà dominato al 56 per cento delle fonti non fossili. Una rivoluzione che,anche in vista del summit Onu sul clima di dicembre,ha spinto l’Eni - assieme ad altre cinque tra le maggiori compagnie petrolifere - a firmare un appello a favore dell’introduzione di sistemi di tariffazione delleemissionidiCO2perottenereun quadro normativo stabile, in modo da poter pianificare meglio gli investimenti. Se dunque le previsioni dei principali istituti di analisi e dell’International Energy Agency concordano nel considerare le rinnovabili l’energia del futuro, sulle singole tecnologie vincenti il margine di incertezza resta alto, perché l’evoluzione della ricerca è veloce. Vale dunque la pena osservare le novità che emergono dagli studi condotti dal Politecnico di Milano e dell’Istituto Donegani su alcune filiere. Ad esempio i concentratori solari luminescenti: sono lastre trasparenti in materiale polimerico o vetroso in grado di assorbire una parte della luce e di concentrarla sui bordi, dove celle fotovoltaiche producono 44 elettricità; possono servire per costruire coperture, pensiline, pareti, serre che generano energia. Un’altra delle tecnologie considerate molto promettenti è il solare a concentrazione: utilizza parabole che rimandano l’energia a un tubo con un fluido che raggiunge temperature molto alte e alimenta generatori di elettricità. «Il nostro sforzo è stato lavorare per abbassare i costi avvicinando questa tecnologia alla piena competitività », spiega Vittorio Chiesa, direttore dell’Energy&Strategy Group del Politecnico di Milano.«Parliamo di macchine che hanno ampliato la fascia del possibile utilizzo riducendo in modo significativo la dimensione delle parabole,che è scesa a un paio di metri. È una tecnologia che può produrre elettricità, calore e fresco, con un grande potenziale di sviluppo in tutto il Mediterraneo». Poi ci sono le celle fotovoltaiche che utilizzano materiali organici o polimerici, caratterizzate dalla leggerezza e dalla flessibilità e quindi dalla adattabilità alle superfici. Sono basate sull’uso delle nanotecnologie:strati polimerici estremamente sottili che vengono depositati su pellicole flessibili attraverso tecnologie mutuate dalla stampa a rotocalco, con un ridottissimo consumo di materiali nel loro ciclo produttivo. «È una frontiera interessante e ancora più interessante è l’ibrido tra questa tecnologia e quella tradizionale », aggiunge Flavio Lucibello, presidente di Hypatia, un consorzio di ricerca nato dalla collaborazione tra l’università romana di Tor Vergata, l’Istituto nazionale di fisica nucleare, il Cnr e alcune imprese del settore che fa da interfaccia tra enti pubblici e aziende. «Stiamo sperimentando un sistema fotovoltaico che utilizza sia componenti organiche che inorganiche per prendere il meglio di queste due possibilità: stabilità, rendimento, flessibilità d’uso. Credo che nel giro di 2 o 3 anni si possa arrivare alla fase produttiva e le prospettive di sviluppo sono notevoli». Infine c’è il settore dei biocarburanti, che ha un discreto trend di crescita: si stima un aumento del 3,9 per cento annuo a livello europeo per il periodo 2011-2035, rispetto a una flessione dell’1,4 per cento annuo prevista per i carburanti di origine fossile. In particolare si scommette su quelli di seconda generazione che utilizzano biomasse di scarto come i residui agricoli e forestali, colture a basso impatto ambientale e rifiuti urbani. Un’altra possibilità in questo campo sono le microalghe in grado di produrre oli chimicamente equivalenti a quelli vegetali:possono essere coltivate in vasche in ambienti aperti e alimentate con l’anidride carbonica proveniente da centrali per la produzione di energia elettrica (un impianto pilota è stato creato presso la raffineria di Gela, in Sicilia). O l’olio che si ottiene da un trattamento termico a 300 gradi effettuato sulla frazione umida dei rifiuti (ha proprietà chimico fisiche analoghe a quelle di un olio pesante di origine fossile). 45 INFORMAZIONE del 23/07/15, pag. 2 Cda Rai, la Gasparri piace a tutti Riforma. Boschi annuncia un maxiemendamento in senato. Il sottosegretario Giacomelli la corregge ma la sostanza resta: la legge passa quando vorrà Renzi. Forza Italia e M5S pronti a prendersi i posti nel «consiglio transitorio» Andrea Colombo Rallentando per poi accelerare. Il senato avrebbe dovuto iniziare ieri a votare gli emendamenti sulla riforma Rai. Tutto rinviato: a data da destinarsi quanto all’inizio delle votazioni in aula. Certissimo invece l’arrivo: il prossimo 31 luglio. Significa che quasi certamente l’aula di palazzo Madama dovrà lavorare anche di venerdì e lunedì. «Un contingentamento di fatto dei tempi», chiosa Loredana De Petris, Sel, e nessuno potrebbe darle torto. In effetti la stessa cosa hanno ripetuto per oltre un’ora, in aula, i senatori di tutti i gruppi d’opposizione, chiedendo al presidente Grasso di impedire un contingentamento che strangolerà il dibattito su un tema tanto nevralgico quanto la libertà di informazione e il controllo della politica sul servizio pubblico. Ma si sa che in questi casi palazzo Chigi può sempre contare sulla piena complicità, pardon solidarietà, del secondo cittadino dello Stato. La data ordinata da Renzi non si tocca. La legge sembrava dover tornare al Senato riscritta da un maxiemendamento del governo. Questo aveva annunciato l’ineffabile ministra Boschi di fronte alla conferenza dei capigruppo di palazzo Madama. O questo almeno avevano capito tutti i presenti. «Sarà sostitutivo, ma non interamente», aveva anche chiarito la ministra. In serata, invece, il sottosegretario Giacomelli correggeva, o forse ingranava la retromarcia: «La ministra è stata fraintesa. Voleva in realtà dire che non ci sarà nessun maxiemendamento e nessun voto di fiducia. Il governo presenterà emendamenti specifici, senza toccare l’impianto della legge». In realtà, il giallo è inesistente. Se anche fosse stato presentato, il maxiemendamento in questione avrebbe modificato qualche particolare della legge e sarebbe servito solo a falcidiare gli emendamenti, al momento un migliaio e passa. In parte l’obiettivo verrà raggiunto comunque con i nuovi emendamenti, e se non basterà si troverà qualche altra strada. Ma sul voto nei tempi ordinati da Matteo Renzi di dubbi non ce ne sono. Subito dopo, il testo passerà alla Camera, dove Renzi non ha mai nulla da temere. In ogni caso, l’approvazione non arriverà in tempo per le nuove nomine dei vertici di viale Mazzini, scadute già a metà maggio. Ma non è questione di calendario: ci fosse la volontà politica di applicare subito la nuova governance, una via si troverebbe. La scelta di nominare i prossimi vertici con le norme dettate dalla Gasparri è politica, frutto di un accordo con Fi al quale sembra guardare senza troppa antipatia anche l’M5S. Da palazzo Chigi ammettono a mezza bocca: sì i nuovi vertici saranno nominati con la Gasparri, ma potrebbero essere «transitori». Chiacchiere. L’inconfessato accordo serve a garantire una maggiore presenza delle forze d’opposizione nel prossimo cda ma deve anche permettere al governo di usare i posti a disposizione per accontentare gli alleati minori. La transitorietà non sarà breve. Il senso dell’operazione è palese. Le principali forze d’opposizione incamereranno un consigliere d’amministrazione e avranno la quasi certezza di non affrontare le prossime elezioni politiche, che arrivino nel 2018 o l’anno prima, senza una Rai ancora più 46 governativa di come era ai tempi indimenticati di Ettore Bernabei. In cambio ridurranno a miagolio i ruggiti d’opposizione promessi. Gli stessi pentastellati erano pronti a spingersi più in là nella trattativa con il governo. «In fondo — confessava in privato uno di loro — per noi l’importante sarebbe soprattutto rivedere le norme sulle nomine dei consiglieri e in particolare l’importanza dei curricula». Non che si tratti di un capitolo secondario, per carità. Però trattandosi di una riforma che consegna il servizio pubblico al governo non sembra trattarsi precisamente della discriminante. A proposito di curricula: se c’è un particolare che su questa riforma dice tutto, è proprio che mentre i suddetti saranno necessari per scegliere direttori e funzionari vari, l’amministratore delegato, in pratica una specie di superdirettore con poteri quasi assoluti, potrà farne a meno. Il solo requisito davvero necessario sarà l’essere considerato completamente affidabile da parte del governo. Un ritorno a prima del 1975, come sostiene l’ex sottosegretario Vincenzo Vita? In parte sì. Ma potrebbe anche andare peggio. Ettore Bernabei, per quanto di totale fedeltà allo scudocrociato, capiva di televisione e la sua Rai, fatta salva l’informazione di regime, era di qualità invidiabile. Non è affatto detto che il prossimo plenipotenziario possa vantare le stesse competenze. L’aria che tira (e i nomi che si sussurrano) indicano invece la volontà di individuare un aziendalista, di quelli che sanno sforbiciare a volontà, esperti nel management ma digiuni di media e tv. Sarebbe la ciliegina sulla torta. L’estremo passo necessario per assassinare il servizio pubblico. 47 CULTURA E SPETTACOLO del 23/07/15, pag. 10 Ngugi wa Thiong’O Le parole spezzate della gabbia coloniale Intervista. Parla lo scrittore keniota, considerato una delle voci più autorevoli dell’Africa. Autore del saggio «Decolonizzare la mente» (Jaca Book), rivendica la scelta di non scrivere più i suoi romanzi in inglese, ritenuta la lingua di un imperialismo postcoloniale e culturale che tiene ancora in scacco un intero continente Marco Dotti «Nella vecchia scuola, gli insegnanti ci parlavano di re africani, come Shaka e Cethswayo. Accennavano alla conquista e all’occupazione bianca in Sudafrica e Kenya. Invece ora l’accento cade su esploratori bianchi come Livingstone. Impariamo che i bianchi avevano scoperto il monte Kenya e molti dei nostri laghi, compreso il lago Victoria. Nella vecchia scuola il Kenya era un paese di neri. In quella nuova, si dice che il Kenya, così come il Sudafrica, era scarsamente popolato prima dell’arrivo dei bianchi e perciò i bianchi avevano occupato aree disabitate. I bianchi avevano portato la medicina, il progresso, la pace». In Sogni in tempo di guerra, autobiografia sugli anni dell’adolescenza che lo avvieranno, primo della sua famiglia, agli studi superiori e poi all’università, Ngugi wa Thiong’O racconta del passaggio delle logiche imperialiste all’interno di una mente integralmente colonizzata. Non è un caso, allora, che uno dei più importanti lavori di Ngugi porti il titolo Decolonising the Mind: The Politics of Language in African Literature. Ngugi, romanziere e saggista keniota, classe 1938, tra le voci più autorevoli della letteratura africana, lo elaborò a partire da alcune conferenze tenute nel 1984, in occasione del centenario della Conferenza di Berlino, che segnò la spartizione dell’Africa a vantaggio dell’Europa coloniale. La pubblicazione in volume avvenne nel 1986, tre anni prima del crollo del Muro, sempre di Berlino. Da allora, il lavoro di Ngugi non ha perso attualità, avendo nel frattempo suscitato una riflessione, con tanto di letteratura critica sul tema, anche fuori dai circoli degli africanisti. Nella traduzione di Maria Teresa Carbone, Decolonizzare la mente. la politica della lingua nella letteratura africana (pp. 125, euro 14) è adesso disponibile anche per i tipi delle edizioni Jaca Book. Abbiamo incontrato Ngugi nel corso di una presentazione milanese di questo suo importante lavoro. La lingua — leggiamo nelle prime pagine di «Decolonizzare la mente» — è da sempre al centro di una contesa che attraversa tutta la questione africana nel XX secolo. Imperialismo e asservimento, da un lato. Tentativi di autocoscienza dall’altro. In un certo senso, dal paraocchi imposti ai lavoratori africani, per piegarli sull’aratro e farli lavorare senza che potessero vedere alcun orizzonte, siamo passati a paraocchi molto più raffinati, che ognuno si mette da sé… Se vuoi assoggettare i corpi, usa catene e cannoni. Ma i cannoni e le catene non bastano, ti serve qualcosa come una calamita, che anche da un lato respinge, dall’altro subdolamente attrae, a seconda di come la volti. Qualcosa che se allontanata retoricamente da te, rimane concretamente dentro di te. La conquista dell’Africa è stata fatta con i cannoni, ma per rendere eterna tale conquista dovevano intervenire sulle scuole, sulla formazione delle élites, trasformare la pluralità in una sorta di monoglottismo del capitale. Dovevano incantare l’anima e la mente, asservendole silenziosamente. 48 Per questa ragione, si presenta con urgenza la necessità di decolonizzarle, partendo dal mezzo più potente di cui si è servito l’imperialismo coloniale e ancora si serve l’imperialismo postcoloniale: il linguaggio. In Africa, il portoghese, il francese e l’inglese sono state le lingue del potere, le lingue del governo e di tutta l’amministrazione. Sono state le lingue della classe media e della borghesia e di chi poteva permettersi di «studiare». La borghesia acculturata è così entrata di fatto a far parte di una comunità basata su uno standard europeo di cultura. Questo fatto ha avuto un impatto sull’assetto geopolitico e geoculturale dell’Africa. In questa prospettiva imperialista, studiare significa, allora, entrare in quel sistema linguistico e di valori, un sistema molto selettivo e riduttivo, che riproduce perpetuamente le stesse logiche di dominio da cui è partito. Premesse e conclusioni non differiscono e nel mezzo c’è sfuttamento dell’altro, non meno che autosfruttamento di sé. La povertà culturale non è meno devastante di quella linguistica. Proprio perché la lingua è invece strumento per mediare fra me e gli altri, fra la mia e le altre identità, e crea diversità come ricchezza. E siccome la ricchezza piace molto a sistema del capitalismo, pre e post coloniale, hanno deciso di prosciugare i pozzi. Non è cambiato nulla, rispetto al passato, nemmeno con la decolonizzazione. Eppure, in venti anni — tanti ne sono passati dalla prima edizione in lingua inglese del suo lavoro — si è acceso un dibattito… Oggi, il dibattito sulla lingua africana e sulla «lingua» delle classi medie è molto vivo, esistono esperienze virtuose, di intellettuali e scrittori che vivono negli Stati Uniti o in Europa e mantengono connessioni con intellettuali o scrittori che lavorano e scrivano nelle lingue locali. Però, dobbiamo prestare molta attenzione. Dietro la maschera, la realtà è ben diversa. Mai come oggi, infatti, la borghesia africana subisce l’influenza della lingua inglese, vietando ai propri figli di apprendere, parlare, scrivere in una delle lingue africane. La classe media pensa che i propri figli, i figli dei borghesi di oggi, saranno i borghesi di domani. La futura classe dirigente deve così perpetuare il monolinguismo, la sudditanza, lo svuotamento. La loro mente è colonizzata, una mente colonizzata dalla lingua dominante. Per questa ragione, il futuro dell’Africa mi preoccupa molto. Mi preoccupa l’abbandono, non più imposto con la sola coercizione fisica, ma da una sorta di disciplinamento delle anime. Sono strategie sottili, che l’imperialismo conosce molto bene, perché l’imperialismo è un serpente, striscia e si insinua dove meno te ne accorgi. Oggi questo imperialismo si è incanalato per vie che non sono solo quelle delle braccia o delle schiene ricurve dalla fatica. È un imperialismo che è arrivato a lambire la coscienza, trasformando in falsa coscienza quello che viene però proclamato come autocoscienza. Intendo dire, che di questo imperialismo è intrisa l’aria che si respira e sottrarsi, oggi, è difficile, per via delle catene immateriali che legano anima e mente. In tutto questo, chi ha tenuto vive lingue e tradizioni, rinnovandole, sono state le popolazioni povere, i contadini dei villaggi… La borghesia non dico piccola, ma piccolissima, i contadini, i braccianti e la gente povera hanno continuato a parlare nelle lingue africane, a pensare nelle lingue africane, a vivere con le lingue africane. Questo ha fatto sì che fosse mantenuta viva un’altra comunità, parlante le lingue locali. Questa comunità parlava ma non scriveva in queste lingue. La lingua dei colonizzatori è diventata una prigione linguistica. Infatti, i conquistatori sono stati conquistati. Alienazione e conquista della nuova lingua hanno creato il dispositivo del dominio indiretto: la padronanza dell’inglese costituiva il titolo d’accesso all’élites dei domesticati. Questo non è accaduto ad alcuni autori di lingua francese, penso a Aimé Césaire, accusato di «rovinare la lingua dominante,» fatto che comunque rispondeva a una precisa strategia, una vocazione minoritaria per dirla con Gilles Deleuze. Non a caso, i francesi parlarono di «petit nègre», qualificando così il gergo e il francese 49 parlato dagli ex schiavi, originari dell’Africa ma oramai «impiantati» nelle colonie d’Oltreoceano… Dobbiamo fare due distinzioni. Gli africani deportati come schiavi sulle isole caraibiche o in America hanno avuto l’esperienza di una lingua bandita. Non hanno più potuto utilizzare la loro lingua, perdendo tutte le connessioni col continente. Hanno così creato una nuova lingua o delle nuove lingue, mischiando ricordi delle loro lingue d’origine con i frammenti di quello che stavano imparando delle lingue nuove. Questa ibridazione che conduce a un linguaggio nuovo l’abbiamo vista anche a livello musicale, pensiamo alla nascita del jazz o del blues che, a loro volta, hanno avuto un’influenza sullo sviluppo della letteratura. Altra, invece, è la situazione di chi è rimasto in Africa e si è trovato imprigionato nelle nuove lingue coloniali. Questi africani che hanno abbandonato, almeno da un punto di vista culturale, la loro lingua per parlare e scrivere lingue coloniali si trovano di fronte alla vera grande sfida, la sfida di tornare a casa, di riconnettersi con le lingue locali e da qui potrà iniziare la seconda parte della grande sfida: creare nuovi rapporti con le altre lingue e le altre culture europee e mondiali. Lei ha scelto di non scrivere più in inglese… Ho scelto di non scrivere più, se non per la forma-saggio, in una lingua che cresce sulla morte delle altre lingue. Come lingua di comunicazione la uso, ovviamente. Ma una lingua non è solo comunicazione, è molte cose altre — stratificazione di immagini in un immaginario, ad esempio, come scrivo in Decolonizzare la mente. La mia decisione di scrivere in lingua kikuyu la presi in prigione, in una cella di massima sicurezza. Venni arrestato il 31 dicembre 1977 e liberato il 12 dicembre del 1978. La ragione del mio arresto era legata al lavoro che stavo facendo, nel teatro di una comunità locale. Rappresentavamo un testo che avevo scritto e quel testo era in gikuyu. Scrivere e fare teatro in una comunità locale era possibile solo servendosi della lingua di quella comunità. Il 16 novembre del 1977, il governo vietò la rappresentazione di Ngaahika Ndeenda (Mi sposerò quando vorrò), questo il titolo della mia pièce. Questo provvedimento e la successiva carcerazione mi portarono a riflettere, in maniera più approfondita, sul rapporto diseguale fra lingue locali e lingua coloniale. Da questa riflessione nasce la mia decisione di scrivere in gikuyu. Gli scrittori che hanno fatto qualcosa per la loro lingua sono fonte di continua ispirazione per me. Penso a Dante, sul quale spesso ritorno. In epoca di latino imperante, Dante scelse il toscano e in quella lingua inscrisse il futuro. A chi gli rimproverava di non scrivere in latino, lingua dell’universale, Dante replicava – in latino – che il toscano era una scelta consapevole, meditata, precisa. Anche io, nel mio piccolo, ho fatto la mia scelta. Posso parlare in inglese, come sto facendo ora, tenere lezioni, scrivere ancora saggi in inglese, ma non è questo il punto. Il gikuyu fa di me un combattente. Ho combattuto così contro le politiche del governo, violente, intolleranti o semplicemente dettate dall’inerzia. Ma la mia lingua ha fatto di me quello che sono: un guerriero consapevole, un combattente pragmatico che difende le sue scelte. Amo le lingue, la differenza nelle lingue. Da Petali di sangue in poi, ho deciso che la mia narrativa l’avrei scritta solo in gikuyu. Lo stesso era accaduto per il teatro e la poesia. Questo non ha impedito la circolazione dei miei lavori. Proprio questo ha fatto sì che venissi tradotto, là dove prima «semplicemente» scrivevo. «Decolonizzare la mente» è comunque scritto in inglese, non è una contraddizione? Continuo a scrivere in inglese la mia saggistica, per ragioni pragmatiche e strategiche. In questo periodo, sto scrivendo soprattutto poesia. Ho pubblicato un lungo poema in lingua gikuyu con il testo a fronte in inglese. Quando mi chiedono di scrivere qualcosa per i paesi africani, un saggio o una commemorazione – ne ho scritte per Nelson Mandela e Nadine Gordimer – al testo in inglese aggiungo sempre una poesia in gikuyu, pretendendo che il 50 testo gikuyu rimanga, accanto alla traduzione inglese. Voglio che il gikuyu, anche in traduzione, lasci una traccia, sia una pietra d’inciampo, faccia in qualche modo da segnavia, ricordando: ecco da dove siamo partiti, ecco dove siamo arrivati, ecco dove stiamo andando. Lei dirige un importante centro di letteratura comparata, conosce bene anche il lavoro sulla traduzione… La traduzione è la lingua comune delle lingue. Se esistesse una lingua universale-plurale, questa lingua non si chiamerebbe «inglese», «francese» o quant’altro, si chiamerebbe, semplicemente, «traduzione». La traduzione ha contribuito a forgiare le diverse lingue del mondo. Pensiamo al Rinascimento, quando in Europa si accese una vera e propria gara a tradurre nella propria lingua i grandi libri della tradizione. Si passava dal latino alla lingua locale, ma con un procedimento di apertura, non di chiusura. La traduzione è questo processo che apre. Oggi, per le lingue africane e «minoritarie» in genere, il problema può essere molto pratico: un editore non trova sul suo territorio qualcuno che sia debitamente formato per tradurre oppure può trovare il percorso troppo dispendioso. Si stanno moltiplicando, anche in Italia, i casi di traduzione di traduzione… Come ha detto, il discorso può essere molto pratico. Ma da pratico tende a farsi educativo e politico costituendo, di fatto, un’altra trappola per il linguaggio. Questo vale anche per le lingue africane, non esistono scuole di formazione – ecco un altro lascito del periodo coloniale – per la traduzione dalle lingue europee alle lingue africane. Le lingue africane venivano semplicemente date per perse. I grandi scrittori locali, che scrivono in inglese, non sono tradotti nelle lingue africane, e questo è un grande paradosso se vogliamo parlare di letteratura africana. Provate a rivolgervi a un’ambasciata o a un centro culturale istituzionale per chiedere: «mi può segnalare un traduttore dal gikuyu?». Vi risponderanno terrorizzati e sdegnati al contempo. Basterebbe questo piccolo esperimento, per capire che la questione è fortemente politica, non solo tecnica. Coloro che conoscono davvero e a fondo le lingue africane sono i missionari. Altri sono africani emigrati in Italia, che hanno imparato l’italiano, io stesso ne conosco almeno due, ma fanno tutt’altro mestiere. Questo ci riporta alla nostra questione: abituati come siamo a pensare e concepire in maniera fissa, irrevocabile, l’asse del mondo, vorremmo a parole aprirci alle differenze ma non le sappiamo cogliere anche se sono a portata di mano. 51