Cittadini Sempre

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Cittadini Sempre
“Cittadini Sempre”
Corso di formazione per i volontari che operano all’interno
della Casa Circondariale di Reggio Emilia
La prima serata del corso di formazione “Cittadini sempre”, condotta dalla Dr.ssa Irma Usai, era destinata a
favorire la conoscenza delle persone in aula (complessivamente 32) e condividere le motivazioni che
spingono ad impegnarsi in questa forma di volontariato, le eventuali paure o i pregiudizi, le caratteristiche
che i volontari ritengono di portare nel loro “agire” con i carcerati.
La docente ha poi proposto ai presenti una riflessione sulle cause che possono determinare nelle persone la
tendenza a delinquere, le implicazioni personali che derivano da questo tipo di aiuto offerto al detenuto e
in che misura si può attivare una comunicazione costruttiva in ambito carcerario.
Riguardo alle motivazioni che hanno spinto le persone in aula ad impegnarsi in questa forma di
volontariato, ecco sinteticamente quanto emerso:
“Curiosità nei confronti delle persone in carcere”
“Fare volontariato fa bene a se stessi e agli altri. Tra i bisognosi, i carcerati mi sono sembrati quelli con
meno voce”
“La povertà del carcere è quella che mi ha maggiormente ingaggiato. I carcerati hanno tanto tempo libero
che vivono con noia profonda”
“In carcere ho percepito l’estremo bisogno di un appiglio contro la deriva”
“Esco dal carcere sempre arricchito e migliore”
“Nel fare volontariato con i detenuti ho l’aspettativa di ricevere più di quanto do e vivo la paura di deludere
le aspettative”
“I carcerati sono persone che mettono molto alla prova”.
Rispetto invece alle doti personali che i volontari ritengono di mettere in campo nella loro relazione con i
detenuti, queste le risposte che sono state date:
“Capacità di ascolto”
“Comprensione e compassione”
“Empatia e capacità di ascolto”
“Pazienza”.
L’essere umano è capace di donare in quanto capace di entrare in rapporto con gli altri.
Donare e offrire ciò che si è e non ciò che si ha rappresenta un atto d’amore gratuito, che non contempla
l’attesa della ricompensa, ma piuttosto la speranza di un contraccambio.
La gratuità del dono non si inquadra quindi in un’azione o in una prestazione, ma piuttosto in un rapporto
umano vissuto in libertà, i cui fini sono la relazione d’aiuto verso persone concrete per un “bene comune”.
L’approccio con il detenuto è un incontro con un’Umanità che spesso è stata privata di un riconoscimento
affettivo da parte di chi l’ha generata ed educata.
Per vivere abbiamo bisogno di approvazione, affetto, amore e anche del contrario, tutto è meglio
dell’indifferenza. Quando diventiamo grandi continuiamo a cercare questi riconoscimenti, negativi o
positivi, a seconda dell’esperienza vissuta nell’infanzia.
Che cosa facciamo per proteggerci dalle “ferite d’amore”? Incominciamo, fin da bambini, secondo i
messaggi genitoriali ricevuti, a costruirci un “canovaccio”, una sorta di sceneggiatura teatrale dove noi
siamo i protagonisti, circondati da comparse che ci aiuteranno ad arrivare al finale del nostro “copione di
vita”.
Se ci siamo scritti dei buoni copioni, avremo una buona vita, al contrario no.
Le implicazioni personali, ciò che si acquisisce per sé donando agli altri
Con ogni probabilità le azioni altruistiche sono gratificanti anche per chi le compie.
Di fatto, un’azione sociale può servire indirettamente ad una quantità di bisogni personali.
Sin da piccoli impariamo che un’azione altruistica verso chi ha bisogno è una “buona azione” e che se ci
comportiamo in maniera altruistica siamo più buoni. Il desiderio quindi di valorizzare gli altri è un modo per
valorizzare anche noi stessi.
La gente è disposta a fare del bene per il piacere che ne può trarre. Una motivazione di questo genere
proviene dalla capacità umana di rispondere empaticamente, cioè di mettersi nei panni dell’altro. Vedere
una persona in gravi difficoltà provoca emozioni forti e per alleviare tali emozioni si è sospinti ad offrire
aiuto a chi soffre, alleviando le sofferenze dell’altro, ma anche le proprie.
Oltre a chiedersi quanto si guadagnerà o quanto si perderà nell’aiutare il prossimo, ci si chiede se
effettivamente siamo in grado di dare aiuto. Ci sono dei fattori che ci predispongono all’aiuto.
Si chiama “effetto riscaldamento”: il fatto stesso di sentirsi buoni può predisporre all’aiuto e accrescere la
nostra disponibilità. Il clima, sentire una buona musica, passare una bella serata, può predisporci verso gli
altri. Questo tipo di comportamento, però, può durare poco con il cambiare della situazione.
Se uno stato di umore positivo contribuisce ad aiutare, l’umore negativo ci può portare ad aiutare gli altri
per non pensare ai nostri problemi.
Particolarmente interessanti sono gli effetti dei sensi di colpa: chi si sente in colpa per una cattiva azione,
spesso vuole compiere un’azione positiva per “pareggiare i conti”.
L’autoconsapevolezza di noi stessi, il prendere atto delle proprie debolezze ci rende più disponibili a
capire l’altro, la distanza emotiva dovuta alla presunzione di essere dall’altra parte non può produrre un
aiuto consapevole.
Questa analisi sembra non lasciare spazio a grandi illusioni sul comportamento altruistico delle persone;
sembra che non siamo disposti a sacrificarci per gli altri disinteressatamente. In realtà ci sono persone
buone e sensibili al dolore altrui e altre che sono sorde al bisogno degli altri e si dimostrano fredde ed
egoiste.
L’amore verso i “non amati” è il presupposto stesso dell’amore e il modo in cui si dona è più importante del
regalo stesso.
Il potere del “NO”
Dobbiamo imparare a dire “NO” affinché quel rapporto d’aiuto continui: la spinta che ci porta ad aiutare gli
altri spesso non contempla il “NO”, perché il pensiero va solo al donare, un SI’ incondizionato.
Ci può sembrare che quel NO che vogliamo dire rechi un’offesa a chi lo riceve, senza sapere che quel rifiuto
stabilisce dei confini, necessari in ogni rapporto, e che non significa rifiutare altro. La condizione illusoria del
primo periodo del SI’ si può trasformare improvvisamente in un NO: il SI’ totale porta facilmente ad un NO
totale.
L’amore verso l’altro deve poter stimolare nella propria anima lo sviluppo dell’altro che passa anche
attraverso il NO.
E’ indispensabile, in tutte le relazioni educative, recuperare il potere del No, che è fondamentale per far
crescere sia un bambino, sia un adulto che ha commesso degli errori e che deve redimere tali errori.
Precedere un bambino nel soddisfacimento di tutti i suoi bisogni e di tutte le sue necessità (“fare al posto
suo”) non genera solo una persona poco autonoma, ma fa passare anche il messaggio svalutante: “Faccio io
per te perché tu non sei capace”.
L’iperprotezione, o la mancanza di protezione, agìta da alcuni genitori genera individui fragili.
Le persone fragili e poco strutturate subiscono moltissimo il “fascino del male”.
Tutto ciò premesso, si può concludere che, pur senza generalizzare, i carcerati sono spesso “persone non
amate”, che portano dentro di sé le ferite causate dalla carenza di amore.
Nel rapporto con il carcerato il volontario deve sforzarsi di entrare alla pari, accettando anche le proprie
debolezze, e con la consapevolezza che per poter essere di aiuto nell’ambito di una situazione di grande
sofferenza è indispensabile stare bene con se stessi e avere chiaro che il volontariato è un dono: come tale,
non è scontato che si riceva qualcosa in cambio, o che ciò che si riceve rispecchi le aspettative.
Il volontariato non dovrebbe essere un’attività fatta per colmare dei vuoti, ma è pur vero che, a prescindere
dalle motivazioni che spingono ad intraprendere questa attività, genera comunque benessere per sé e per
gli altri.
In questa relazione di scambio e in questa gratuità va ricercato il valore del bene comune.
Nella relazione tra volontario e carcerato è fondamentale mantenere la giusta distanza: essere empatici e
comprendere ciò che può aver indotto una persona a commettere degli errori non deve portare a
“fondersi” con la sofferenza che si vorrebbe alleviare.
Se c’è fusione non può esserci relazione d’aiuto, perché la fusione non permette di guardare le cose da un
altro punto di vista.
La detenzione dovrebbe rappresentare per il detenuto un periodo durante il quale prendere
profondamente coscienza degli errori commessi, anche attraverso un percorso di educazione e di lavoro,
che aiuti non solo a creare delle opportunità per il futuro fuori dal carcere, ma anche per comprendere il
valore delle regole e l’importanza del loro rispetto.
Il carcere dovrebbe avere un valore pedagogico, creare un ponte verso l’esterno; l’uscita dal carcere
rappresenta sempre un momento di grande fragilità, con un alto rischio di recidiva.
Sempre in ottica pedagogica, il carcere deve permettere di recuperare le potenzialità residue della persona,
anche attraverso la presa di coscienza del valore della vittima; questo percorso verso la consapevolezza del
male che si è causato è uno degli elementi che maggiormente limitano il rischio di reiterare il reato.
La Comunicazione
In qualsiasi contesto ci si trovi e qualsiasi comportamento adottiamo, si può affermare che è impossibile
non comunicare: parole, silenzi, postura, hanno tutti un valore comunicativo. Negli scambi interpersonali,
con la comunicazione non verbale, possiamo esprimere l’emozione.
Le emozioni trovano nel volto l’area più consona per la loro manifestazione. Gli occhi consentono la
manifestazione più diretta delle emozioni, sfuggendo agli sforzi del controllo cognitivo (occhi specchio
dell’anima). Così i gesti rivelano, in modo spontaneo, stati d’animo che a voce non si riescono a
trasmettere; lo sguardo è parte integrante della comunicazione, ed è un supporto alla comunicazione
verbale.
Quando ci si trova ad instaurare una relazione di aiuto con una persona o un sistema di persone, non si può
prescindere dal percepire l’Altro come una entità verso la quale essere sinceramente disponibili
emotivamente, partecipi al suo mondo interiore, indipendentemente dalle caratteristiche di chi ci sta di
fronte.
L’empatia è la capacità di sintonizzarsi sul canale extra verbale dell’Altro, riuscendo ad intuire dove si trovi
emotivamente l’altro. Empatia è per esempio accorgersi che l’altro è triste prima che ce lo dica
verbalmente o ce lo neghi; empatia è vedere attraverso gli occhi dell’altro.
Per migliorare la comprensione empatica è necessario migliorare la comprensione di se stessi.
Un presupposto per una percezione e risposta empatica adeguata è quello che viene definito “ascolto
attivo”: nella relazione fra due persone, sapersi ascoltare non è sempre facile. L’ascolto attivo, cioè con
tutti i sensi, è parte della comunicazione e ne determina la sua qualità.
La capacità di ascolto impone l’abbattimento dei nostri schemi mentali e il superamento degli elementi di
disturbo che derivano dal contesto. I pregiudizi, per esempio, “sporcano” la nostra comprensione.
“Noi parliamo con i nostri organi vocali, ma conversiamo con il nostro corpo” – Goffman.
La comunicazione non verbale, essendo ricca di gesti, sguardi, posture, esprime il mondo dell’affettività.
Possiamo dire che la comunicazione non verbale è più potente di quella verbale perché passa attraverso i
canali emozionali che sono difficili da controllare.
La comunicazione verbale, inoltre, deve essere confermata da quella non verbale.
Non basta avere buone intenzioni nell’ascolto, ma bisogna applicarsi con un atto di volontà ad accogliere e
rielaborare le informazioni, per poi restituirle.
In che misura si può comprendere la sofferenza che vive un detenuto?
L’entrata in carcere significa per molti vivere un periodo di intensa e profonda depressione: vengono a
mancare tutti i punti di riferimento, compresa l’affettività. Il costante abbassamento del tono dell’umore
provoca una sindrome detta di “congelamento”, che determina il distacco dalla realtà esterna e la
repressione delle emozioni.
La modalità di comunicazione carceraria è quindi condizionata dal clima della struttura, che influenza il
comportamento e l’affettività del detenuto.
Una realtà di segregazione divide l’identità di origine da quella costruita, che spesso fa “saltare” quella
precedente. Da ciò deriva un profondo cambiamento della personalità e una destrutturazione del Sé:
“sindrome di spersonalizzazione”.
Il distacco dai propri cari, l’assenza di spazi in cui poter esprimere le proprie emozioni e poterle raccontare
a qualcuno che le possa accogliere con amore, fa sì che la persona detenuta si senta incompleta e incapace
di interagire con sé stesso e con gli altri.
Goffman dice che “l’intolleranza dell’istituzione a qualsiasi forma di trasgressione delle regole, fa sì che il
processo comunicativo si orienti verso il linguaggio del corpo”, quindi il non verbale.
Il recluso, nella situazione di repressione della verbalizzazione linguistica, tende ad adottare in maniera più
intensa comportamenti non verbali e a vivere interiormente emozioni quali: nostalgia, rabbia, noia, paura,
tristezza, che ne scandiscono la quotidianità.
Ci sono però delle variabili che influiscono sulla comunicazione non verbale: il periodo di detenzione, se le
detenzioni sono state una o diverse, i tratti di personalità, il livello di istruzione e di cultura, il sesso, il tipo
di reato commesso, l’appartenenza a determinati gruppi e l’atteggiamento sviluppato nei confronti
dell’istituzione carceraria. I reclusi però non vengono solo privati della loro libertà, ma privati anche della
loro intima percezione di sé, attraverso l’imposizione di un sistema di valori e di bisogni più coerenti con gli
scopi e le finalità dell’istituzione.
Il carcere è un’istituzione totale che si caratterizza per la sua struttura gerarchica, le cui regole sono tese a
fissare comportamenti standard. L’obiettivo è quello di escludere ed isolare gli individui considerati
pericolosi dalla società, ma anche quello di dar loro una possibilità di recupero attraverso un percorso
rieducativo fatto principalmente di lavoro, di istruzione e di mantenimento degli affetti.
All’interno di questo percorso rieducativo, la figura del volontario gioca un ruolo determinante per il
detenuto; quest’ultimo viene accettato per quello che è, senza giudizio, viene accolto e stimolato nelle
emozioni spesso assopite, necessarie per conseguire i propri obiettivi, alimentare le motivazioni e dare
forza alle azioni.
Per un detenuto la permanenza in carcere può rappresentare un’occasione per soffermarsi a riflettere sulle
proprie scelte di vita e l’attività del volontariato offre la possibilità allo stesso di farsi accompagnare per un
tratto di strada dolorosa.
Analisi transazionale (Eric Bene)
Per poter acquisire maggiori strumenti e migliorare così il proprio modo di comunicare, la docente ha
illustrato alcuni concetti della teoria della personalità di Eric Bene, cioè l’Analisi Transazionale.
Tale teoria offre la possibilità di analizzare reazioni, atti e comportamenti rivelando tutti quegli aspetti che
generalmente ci si rifiuta di ammettere.
Inoltre, mettendo in evidenza i punti deboli di ogni individuo, essa consente di iniziare un miglioramento
generale della propria personalità e di individuare le principali difficoltà che si incontrano nelle relazioni con
gli altri.
Capire le proprie reazioni significa poter modificare tutti quegli atteggiamenti che si rivelano dannosi e,
nello stesso tempo, trarre vantaggio da quelli che hanno effetto positivo.
Il graduale miglioramento della nostra vita sarà in gran parte direttamente proporzionale alla nostra
capacità di ascolto: ascolto di noi stessi e ascolto degli altri.
I lavori di gruppo
Nel corso della terza serata del corso i partecipanti sono stati suddivisi in gruppi e insieme hanno dovuto
rispondere al seguente quesito:
"Quali sono, secondo voi, le condizioni necessarie affinché il volontariato possa operare al meglio
all'interno del carcere?"
Di seguito i contributi offerti dai quattro gruppi:
Gruppo 1:




Offrire formazione di base e continua per i volontari che operano all’interno del carcere;
Prevedere, almeno una volta all’anno, l’incontro tra i volontari e i rappresentanti dell’istituzione carcere;
Agevolare la conoscenza dei regolamenti vigenti all’interno dell'Istituto;
Saper ascoltare problemi ed esigenze senza lasciarsi coinvolgere, ma mantenendo una “giusta distanza”,
garanzia di obiettività;
 Porsi, nella propria attività di volontariato, il più possibile senza preconcetti nei confronti delle persone
con le quali si interagisce;
 Favorire l’incontro tra la cittadinanza e la popolazione carceraria, anche nell’ottica di far conoscere
l’attività dei volontari;
 Valorizzare, attraverso un’adeguata informazione, le attività promosse dai volontari all’interno del
carcere; progettare l’offerta delle associazioni partendo dai reali bisogni dei detenuti, diversificando le
proposte dei volontari per evitare doppioni e sovrapposizioni; rendere esplicito per i detenuti il rapporto
e la collaborazione tra area educativa, attività promossa dai volontari e Istituzione Carcere.
Gruppo 2:
 Istituire tavoli congiunti tra educatori, volontari e agenti, tra volontari di diverse associazioni e tra
volontari e detenuti;
 Informare gli agenti su ruolo, attività ed obiettivi dei volontari;
 Aumentare la qualità della formazione rivolta agli addetti delle istituzioni coinvolte nel processo socioassistenziale e post-detentivo;
 Proporre maggiori momenti di convivialità tra volontari e detenuti (ad esempio, incontro di preghiera
promosso dalla Caritas, ma attualmente sospeso);
 Fare manutenzione (o dare l'opportunità di farla) ai luoghi e alle attrezzature utilizzate nei vari corsi e
attività rivolti ai detenuti;
 Istituire un “giornalino del carcere”, fatto in collaborazione da tutte le figure del carcere (educatori,
agenti, detenuti), per favorire il dialogo e lo scambio tra interno ed esterno.
Gruppo 3:
 Istituire incontri periodici, da fare all’interno del carcere in spazi definiti, ai quali invitare rappresentanti
operanti all'interno del carcere (istituzionali e non) e all'esterno con persone sottoposte ad esecuzione
penale esterna;
 Istituire tavoli periodici finalizzati a: conoscere il mandato di ogni soggetto (individuo ed ente);
confronto sulle criticità e i bisogni reali dei detenuti; definizione chiara e univoca degli obiettivi
perseguiti dalle associazioni nel loro lavoro con i detenuti; creare ed organizzare attività di interscambio
e sensibilizzazione a favore della cittadinanza all’esterno del carcere;
 Organizzare "tavoli periodici allargati" cui partecipano anche rappresentanti dei detenuti;
 Agevolare il confronto e lo scambio di proposte e punti di vista da parte di tutti i soggetti che operano e
vivono all’interno del carcere.
Gruppo 4:
 Favorire momenti di conoscenza tra agenti e volontari per poter collaborare meglio con loro;
 Agevolare l’accesso ai reparti per andare a conoscere meglio detenuti e agenti a "casa loro"; proporre
anche momenti di convivialità, ad es. cene;
 Dare la possibilità ai volontari di avere colloqui non ufficiali con i detenuti e con persone che non
appartengono all'istituzione;
 Migliorare l’interazione con gli agenti;
 Agevolare la formazione e la conoscenza rispetto alle culture di provenienza dei detenuti;
 Migliore la formazione psicologica dei volontari, per avere gli strumenti per comprendere meglio gli stati
emotivi delle persone con cui i volontari entrano in relazione.