GUIDO ALPA

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GUIDO ALPA
GUIDO ALPA
Ordinamento civile e diritto privato regionale
Un aggiornamento sulla giurisprudenza costituzionale
1. Una premessa.
Il dialogo tra gli studiosi del diritto civile e gli studiosi del diritto
pubblico si è infittito nell’ultimo ventennio, grazie all’operare
congiunto di molteplici fattori, che, senza pretese di esaustività, si
possono indicare: (i)nella perdurante attenzione dedicata dalla
dottrina civilistica al dato costituzionale, quale strumento di
interpretazione e applicazione delle norme e quindi quale tecnica di
difesa dei diritti; (ii) nell’attenzione alla giurisprudenza della Corte
costituzionale, chiamata a formare un diritto vivente che, quando è
possibile evitare l’abrogazione, adatta la normativa ai valori
costituzionali, via via reinterpretati alla luce delle esigenze di una
realtà sociale ed economica in persistente evoluzione;(iii) nella
emergenza di casi in cui confliggono competenze della Corte
costituzionale e quelle della Corte di Giustizia delle Comunità
europee, oppure casi in cui si fa ricorso, per la difesa dei diritti
fondamentali , alla Corte europea dei diritti dell’uomo; (iv) nella
rilevanza assunta dalla persona, nel confronto tra il testo
costituzionale e la Carta di Nizza, a cui il Parlamento europeo ha ora
riconosciuto valore giuridico; (v) nella riforma costituzionale
introdotta con l. cost. n.3 del 2001, con cui si sono ripartite le
competenze legislative tra lo Stato e le Regioni, competenze che
riguardano svariati ambiti del diritto privato, dall’ordinamento civile
alla concorrenza, dai mercati finanziari ai diritti civili, dalle
professioni all’ambiente , a molti altri ancora.
Vorrei qui soffermarmi sull’ultimo profilo, per dedicare
qualche cenno, nella cornice di sintetico preambolo, ad alcuni recenti
casi decisi dalla Corte costituzionale, che documentano come la
elaborazione dottrinale e la produzione giurisprudenziale in materia
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di “diritto privato regionale “ e di “ordinamento civile” abbiano
assunto nuove dimensioni proprio nel corso dell’ultimo biennio: si è
ispessito il tessuto concettuale , si sono profilati nuovi problemi, si
sono proposti nuovi modelli di decisione.
2. La discussione in corso sulle formule “diritto privato regionale”
e “ordinamento civile”.
Innanzitutto, si è avviata una discussione non solo sui significati
attuali delle due formule in gioco, il diritto privato regionale e
l’ordinamento civile, la prima di conio dottrinale, la seconda di conio
normativo, ma anche sui rapporti tra di esse.
Apparentemente, esse sono riferite ad aree contrapposte, perché l’
una si riferisce alla produzione normativa delle Regioni nel settore
del diritto privato, l' altra si riferisce all' area dell’ ordinamento civile,
cioè dei rapporti che ineriscono in generale al diritto privato , alle
categorie e agli istituti del diritto privato, alle modalità di percezione
e di applicazione del diritto privato, riservata alla produzione
normativa esclusiva dello Stato. Ma si tratta, come ognun vede, delle
facce della stessa medaglia: cambia solo il punto di osservazione, nel
primo caso quello regionale, ed è un terreno nel quale le Regioni si
sono introdotte talvolta con cautela, altra volta inavvertitamente, ma
nei tempi vicini sempre più spesso; nel secondo caso è il punto di
osservazione dell’ ordinamento statuale, anche questo un terreno da
sempre presidiato al fine di scoraggiare quelle intrusioni, con la
consapevolezza tuttavia che vi sono rapporti, aspetti, circostanze che
tendono a coinvolgere il ruolo degli enti locali .
Nel discutere i contenuti semantici delle due formule si sono meglio
definiti i loro confini.
Ma come spesso accade nell’ambito del’ermeneutica giuridica, più si
approfondisce un tema, più si incrementa la discordia tra gli
interpreti sul significato dei termini e sui loro confini.
All’accertamento del significato delle due formule si sono dedicati
molti contributi: credo che esso possa essere compreso
compiutamente solo attraverso l’esame dei suoi usi, in particolare
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attraverso l’uso che ne ha fatto e ne fa attualmente la Corte
costituzionale, a cui appunto compete la nomofilachia in materia di
normativa costituzionale. Con tre avvertenze, però: che l’espressione
“ordinamento civile” , essendo contenuta nella formulazione dell’art.
117 Cost. , ha una sua propria connotazione, meno elastica di quella
di “diritto privato regionale”; che ogni formula, per poter essere
adeguatamente intesa, deve essere collocata nel suo contesto storico;
che le formule nel corso del tempo si arricchiscono, si trasformano,
insomma variano rispetto al loro significato originario,e comunque
sono sempre strumenti che il legislatore utilizza per raggiungere uno
scopo.
Non si tratta di notazioni marginali, perché il “diritto privato
regionale” era formula, impiegata anche dalla Corte costituzionale,
in epoca anteriore alla riforma del 2001, e quindi aveva in allora il
significato proprio di un lessico che era adattato ad un sistema nel
quale la legislazione statuale costituiva la fonte preminente, e la
legislazione regionale appariva settoriale, marginale, di dettaglio e
comunque inclusa in leggi-cornice di natura statuale. Sulla base delle
avvertenze sopra accennate questa espressione dovrebbe allora essere
relativizzata, specie ora che il sistema delle fonti legislative è
radicalmente mutato, a seguito della riforma; “ordinamento civile” è
formula più recente, già utilizzata nel corso della redazione del testo
predisposto dalla Commissione Bicamerale per la riforma della
Costituzione e poi ripreso dalla l. cost. n. 3 del 2001 per indicare uno
degli ambiti di competenza dello Stato.
Se si potesse ragione in modo semplificato, si potrebbe compiere
un’operazione di ortopedia ermeneutica, sostituendo tout court la
formula che un tempo si esprimeva in termini di “diritto privato
regionale” con quella più recente di “ordinamento civile”. Questa
operazione presupporrebbe però l’ identità di significato delle due
formule. Presupposto sul quale gli Autori non concordano, sia perché
nel testo dell’art. 117 Cost. vi sono indicazioni a istituti, settori,
rapporti di diritto privato, oggetto di legislazione esclusiva dello Stato
o di legislazione concorrente di Stato e Regioni, che esorbitano dall’
“ordinamento civile”, sia perché le problematiche aperte un tempo
dalla formula “diritto privato regionale” non sono stare risolte dalla
introduzione della nuova formula.
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E tuttavia non vi può essere contrapposizione tra di esse, perché
l’ordinamento civile è senz’altro parte (anche se non esaustiva) del
diritto privato. Tra le due aree vi è continenza e/o contiguità.
La questione non è semplice perché non si arresta ai profili definitori.
Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale che si era
sviluppata negli anni antecedenti alla riforma, alle Regioni si
consentiva di occuparsi di diritto privato anche al fine di introdurre
solo norme di dettaglio, oppure per colmare lacune di un testo
incompleto, o per fungere da legislatore regolamentare.
Se si esaminano poi gli ambiti nei quali solo lo Stato può legiferare, ai
sensi dell’art. 117 Cost., troviamo accanto all’ordinamento civile
settori più circoscritti, magari non contenenti solo istituti di “diritto
privato”, ma anche istituti di diritto commerciale, di diritto
finanziario, di diritto pubblico, ch riguardano la disciplina dei
mercati, la concorrenza, ma anche i servizi essenziali , i diritti civili e
politici, e così via.
I confini dell’ “ordinamento civile” si possono perciò dilatare oppure
circoscrivere a seconda delle connessioni con questi altri ambiti.
Ritornerò sull’ argomento tra poco, esaminando alcune sentenze della
Corte costituzionale.
Ma un’altra questione è emersa poco tempo fa con grande evidenza.
Prima della riforma l’art.117 elencava le materie oggetto di
legislazione regionale, e il diritto privato era inteso come un limite
alla legislazione regionale; ora l’art.117 non accenna più alle
materie, sì che si è posto il problema di denominare gli oggetti della
riserva legislativa statuale. Si è quindi riproposta, anche se non aveva
ricevuto il crisma legislativo, l’ espressione materia, e si è inventata
una formula alternativa, quella di ambito; prima della riforma il
diritto privato era considerato un “limite” alla legislazione regionale;
dopo la riforma l’ordinamento civile deve considerarsi una materia,
un ambito , oppure un limite alla legislazione regionale?
Questa precisazione potrebbe apparire nominalistica, ma così non è:
essa involge due diverse concezioni, che ormai si sono delineate con
una certa nettezza nell'ambito della elaborazione dottrinale, mentre
la giurisprudenza costituzionale sul punto sembra ancora oscillante.
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La concezione che insiste sul “limite”, trasponendo tutta la
problematica del passato nel contesto attuale, pur consapevole della
riserva dello Stato in questo settore, tende a legittimare la
legislazione regionale negli interstizi, nei dettagli, nelle lacune della
legislazione statuale che governa l’ordinamento civile.
La concezione che considera l’ordinamento civile come materia
riservata alla Stato la potestà legislativa regionale esclude in radice
qualsiasi ingerenza delle Regioni in quest’ area, di qualunque tipo
essa sia.
A mio parere ordinamento civile è al tempo stesso materia e limite:
materia perché delinea i confini di un area che si è voluta riservare
allo Stato; limite perché entro quei confini il legislatore regionale
non può intrudersi, comunque, cioè neppure con leggi di dettaglio o
con leggi complementari.
Questa convinzione procede sulla base di alcuni assunti che appare
doveroso esplicitare. Come sopra si è anticipato, non vi è continuità
tra la giurisprudenza costituzionale sul limite del diritto privato e la
giurisprudenza costituzionale sull’ordinamento civile; inoltre, non si
può continuare a ragionare come se tutto dovesse ruotare intorno
alla formula “diritto privato” come se quella di ordinamento civile
non esistesse. A meno che, per convenzione ermeneutica, si volesse
giungere alla identità delle due formule.
3. Una verifica.
costituzionale.
Alcune
recenti
pronunce
della
Corte
(i) La disciplina delle professioni e del lavoro
Il settore del professioni e del lavoro è stato oggetto di intensa
legislazione regionale. Due sentenze depositate nel 2003, una in
materia di nuove professioni (n. 353) , l’altra in materia di mobbing
(n.359) sono significative.
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La sentenza n. 353 del 2003 si pone in linea con i progetti di riforma
delle professioni attualmente all’esame del Parlamento ( sia il
progetto sulla riforma delle professioni intellettuali, sia il progetto di
riforma della attività forense ) e in aperto contrasto con le leggi
regionali che hanno invaso la competenza statale. E’ pur vero, come
si sottolineava sopra, che la materia delle “professioni” è oggetto di
competenza concorrente, ma compete sempre allo Stato la
formulazione dei “principi fondamentali” ai quali si deve ispirare la
legislazione regionale.
Anche per questo settore, dunque, si possono individuare alcuni
cerchi concentrici:
- nel primo cerchio si possono collocare le regole che appartengono
all’ ordinamento civilistico, inerenti al contratto d’opera intellettuale,
ai rapporti tra il professionista e il cliente, ai rapporti associativi e
societari, al ruolo della deontologia, al ruolo dei limiti inerenti al
titolo abilitativo e alle incompatibilità;
- nel secondo cerchio si possono collocare i principi fondamentali di
competenza statale;
- nel terzo cerchio si collocano le regole regionali.
La sentenza della Corte raffigura questa situazione normativa in un
quadro assai netto: in materia di professioni non si tratta solo di
tracciare il limite tra gli spazi statuali e gli spazi regionali, dovendosi
considerare anche il coordinamento sistematico con le materie
riservate allo Stato specificamente riferite ai singoli settori
professionali. La sentenza non si pronuncia su una argomentazione
sostenuta dall’Avvocatura dello Stato riguardante l’incidenza del
diritto comunitario, che a fini di armonizzazione impone agli Stati
aderenti alla Unione europea di seguire principi comuni, non
derogabili né dai singoli Stati né dagli ordinamenti regionali. Né
avrebbe potuto farlo, essendo questa materia oggetto di valutazione
del giudice ordinario – che può disattendere la norma interna in
contrasto con l’ordinamento comunitario – o lo stesso giudice
comunitario, adito per accertare il conflitto o per comminare la
violazione che ne deriva.
L’occasione per precisare queste delimitazioni è stata offerta da una
delle leggi regionali che riguardano le nuove professioni sanitarie (
nel caso di specie la l. Reg. Piemonte del 24.10.2002,n.25 in materia
di pratiche terapeutiche e discipline non convenzionali”).
Innanzitutto la Corte – rammentato che la disciplina delle professioni
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sanitarie rientrava nel disegno originale dell’art.117 Cost. nell’ambito
della materia “assistenza sanitaria” riservata allo Stato – sottolinea
che le Regioni ora possono legiferare solo se lo Stato abbia prefissato
i principi fondamentali dell’oggetto normato; in assenza
dell’intervento statuale ogni disposizione regionale appare in chiaro
contrasto con il nuovo disposto dell’art.117 Cost. E ne argomenta
quindi la illegittimità della normativa regionale.
Ma se è consentito leggere ” tra le righe” della motivazione appare
evidente che una disciplina concernente l’individuazione delle figure
professionali e i profili ed ordinamenti didattici, nonché la
registrazione degli operatori, anche se coglie aspetti pubblicistici
della materia finisce per incidere sui rapporti intersoggettivi: le
norme di codice civile disciplinano infatti i contratti conclusi tra il
professionista abilitato e i clienti, e prevedono anche le sanzioni per i
rapporti istituiti con professionisti non abilitati o non iscritti.
Ancor più vicina alla questione di base è la sentenza n. 357 del
2003.
La sentenza è particolarmente interessante perché la dottrina
lavoristica si è interrogata con molte cautele sui limiti alla
competenza (concorrente) delle Regioni. Anche in questo caso si
possono individuare più cerchi concentrici: il nucleo interno,
costituito dalle regole dell’ordinamento civile (in sostanza,le regole
del codice civile in materia di lavoro e la legislazione speciale
inerente al rapporto di lavoro); un cerchio più ampio comprensivo di
tutte le regole di natura pubblicistica riservate allo Stato ( ad es., la
disciplina dei reati, la procedura, etc.); in un cerchio più ampio
ancora, la disciplina sindacale; nel cerchio più esterno, la disciplina
concorrente, concernente la “tutela e la sicurezza del lavoro”,
anch’essa sottoposta ai principi fondamentali riservati allo Stato; e poi
le regole regionali, inerenti ad aspetti locali, in cui campeggia il
“mercato del lavoro”.
E’ evidente allora che non tutta la disciplina del rapporto di lavoro
può rientrare nella endiadi “ordinamento civile”, cioè essere per
intero affidata allo Stato, né tutta rientrare nello spicchio della “tutela
e sicurezza” del lavoro, ed essere per intero affidata alla legislazione
concorrente.
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L’occasione offerta alla Corte per formulare una soluzione proveniva
dalla l. Regione Lazio dell’ 11.7.2002 n. 16, recante disposizioni per
prevenire e contrastare il mobbing nei luoghi di lavoro.
La Corte muove dalla definizione di mobbing, conforme a quella
costruita dalla giurisprudenza ordinaria e, con riguardo
specificamente a questo tema, sottolinea come la situazione in cui si
venga a trovare il lavoratore rientra nella fattispecie normativa
dell’art. 2087 del codice civile, oltre ad involgere i diritti
fondamentali del lavoratore, segnatamente la sua dignità (artt. 2 e 3
c.1 Cost.). A doppio titolo dunque – perché si ingerisce di posizioni
rientranti nella materia dell’ “ordinamento civile” e perché afferisce
a diritti fondamentali tutelati costituzionalmente – la normativa
regionale appare illegittima.
A queste argomentazioni si aggiunge una ulteriore notazione,
derivante dalle iniziative comunitarie (in particolare, la Risoluzione
del Parlamento europeo del 21.9.2001); il Parlamento europeo ha
proposto alla Commissione di estendere la disciplina concernente la
salute e la sicurezza sul lavoro a fini armonizzativi: una disciplina
frammentata quale è quella regionale non si atterrebbe a queste
esigenze così autorevolmente espresse. E quindi anche l’indirizzo
comunitario appare favorevole ad una unitarietà della disciplina a
livello europeo piuttosto che non privilegiare le singolarità degli
ordinamenti nazionali, o addirittura consentire la proposizione di
modelli di ambito regionale.
Una legge regionale che avesse l’ambizione (come quella laziale) di
dare una definizione ad un fenomeno che non ha alcun rilievo
localistico, che potesse incidere sulle conseguenze sanzionatorie del
comportamento lesivo (invadendo dunque il campo dell’ordinamento
civile), che coinvolgesse i diritti della personalità (la salute e la
dignità) del lavoratore, si porrebbe al di fuori di tutti i limiti segnati
dal nuovo art. 117 Cost. (ma anche dal processo di armonizzazione
comunitario in atto).
La materia della tutela e della sicurezza del lavoro è dunque intesa in
modo assolutamente restrittivo, consentendo alle Regioni di
prevedere (sub specie di mobbing) solo “misure di sostegno” al fine
di studiare, prevenire o limitare questo fenomeno e le sue
conseguenze.
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L’argomento è stato ripreso dalla pronuncia n. 24 del 24 gennaio
2007, a proposito del giudizio di legittimità costituzionale degli artt.
2 c.2 e 3 c. 4 e 7 della legge della Regione Puglia del 22 novembre
2005,n. 13 che disciplina l’apprendistato professionalizzante. La
Corte si era già espressa sul punto con la sentenza n. 50 del 2005,
precisando che alla legislazione regionale è riservata solo la
competenza in materia di formazione esterna all’ambito lavorativo,
mentre la formazione interna è riservata allo Stato. La legge in esame
stabiliva che per la formazione dell’apprendista, ove non si fosse
raggiunto un accordo tra le organizzazioni sindacali dei dipendenti e
le associazioni dei datori di lavoro, la Regione (mediante l’organo
della Giunta regionale) avrebbe potuto avocare a sé le questioni e
dirimerle direttamente con proprio provvedimento. Soluzione che è
parsa ultronea alla Corte in base al principio sopra evidenziato. La
Corte ha lasciato aperto tuttavia uno spiraglio precisando che <spetta
al legislatore regionale stabilire, semmai, un sistema che imponga
comportamenti rivolti allo scambio di informazioni e alla
manifestazione della volontà di ciascuna delle parti, e, in ultima
ipotesi, contenga previsioni le quali assicurino il raggiungimento del
risultato, senza la prevalenza di una parte sull’altra (per esempio,
mediante la indicazione di un soggetto terzo).>
(ii)
La disciplina della responsabilità amministrativa
La Corte costituzionale, con sentenza n. 184 del 12 giugno 2007 , ha
censurato nella motivazione la legge della Provincia autonoma di
Bolzano in materia di formazione del bilancio e di limitazione della
responsabilità amministrativa degli amministratori locali e nel
dispositivo dichiarato inammissibile la questione di illegittimità
sollevata dalla stessa Provincia in ordine alla legge finanziaria del
2006, in quanto la materia della responsabilità amministrativa è
riservata allo Stato anche se concerne dipendenti di enti locali,
ancorché privilegiati da regime speciale. (Nella specie si prevedeva la
possibilità in corso di giudizio di transigere la causa entro un limite
compreso tra il 10 e il 20% dell’importo ritenuto dovuto dall’
amministratore responsabile).
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La Corte osserva che
<le norme impugnate vanno collocate nell’ambito del sistema tradizionale della
responsabilità amministrativa, in cui al giudice è affidato il compito di determinare
quanta parte del danno prodotto deve ritenersi risarcibile in relazione all’intensità della
colpa del responsabile, da individuare in relazione a tutte le circostanze di fatto in cui si
è svolta l’azione produttiva del danno; e, muovendosi all’interno del perimetro di tale
discrezionalità decisionale, esse consentono l’accoglimento dell’istanza di definizione in
appello solo se il giudice – avuto riguardo ai criteri in base ai quali egli forma la propria
decisione – ritenga congrua una condanna entro il limite del trenta per cento del danno
addebitato al responsabile nella sentenza di primo grado.
In ogni caso, non sussiste la lamentata violazione delle competenze riconosciute alla
Provincia autonoma di Bolzano in materia di ordinamento degli uffici provinciali e del
personale ad essi addetto (artt. 8, numero 1, e 16 dello statuto).
Difatti, le norme denunciate investono direttamente la responsabilità amministrativa,
avendo una finalità di accelerazione dei relativi giudizi e di garanzia
dell’incameramento certo ed immediato della quota di risarcimento dovuto, in un
quadro di consonanza con i principi che governano la responsabilità amministrativa.
La disciplina della responsabilità amministrativa – nella quale i profili sostanziali sono
strettamente intrecciati con i poteri che la legge attribuisce al giudice chiamato ad
accertarla, ovvero fanno riferimento a situazioni soggettive riconducibili alla materia
dell’ordinamento civile (sentenza n. 345 del 2004) – è materia di competenza dello
Stato e non rientra tra le attribuzioni della Provincia autonoma di Bolzano, come del
resto si ricava dall’art. 10-bis del d. P.R. 15 luglio 1988, n. 305 (Norme di attuazione
dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige per l’istituzione delle sezioni di
controllo della Corte dei conti di Trento e di Bolzano e per il personale ad esse addetto),
aggiunto dall’art. 5 del d. lgs. 14 giugno 1999, n. 212, norma a tenore della quale per
l’attività giurisdizionale delle sezioni aventi sede a Trento e a Bolzano si applicano le
leggi statali sulla disciplina dell’ordinamento e delle procedure della Corte dei conti.
La potestà della Provincia autonoma in materia di ordinamento dei propri uffici, se può
esplicarsi nel senso di disciplinare il rapporto di impiego o di servizio dei propri
dipendenti, prevedendo obblighi la cui violazione comporti responsabilità
amministrativa, non può tuttavia incidere sul regime di quest’ultima (sentenza n. 345
del 2004).
La questione proposta in riferimento al parametro statutario è, dunque, infondata>.
Per connessione, una pronuncia ( n.95 del 21 marzo 2007) ha preso
in considerazione la soppressione avvenuta ad opera della legge
finanziaria del 2006 di indennità previste come parte della
retribuzione della prestazione di lavoro ed ha ritenuto che le Regioni
(nella specie in giudizio si era costituita la Regione Valle d’Aosta,
insieme con le Regioni Piemonte, Campania, Trentino-Alto Adige,
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Emilia Romagna) non potessero dolersi della lesione della loro
autonomia legislativa in quanto
<la norma censurata fissa, nell’intero settore del pubblico impiego, un tipico limite di
diritto privato, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (fra le molte decisioni, sia
anteriori che posteriori alla modifica del Titolo V della Parte II della Costituzione, si
vedano le sentenze n. 234 e n. 50 del 2005; n. 282 del 2004; n. 352 del 2001; n. 82 del
1998), è “fondato sull’esigenza, connessa al principio costituzionale di eguaglianza, di
garantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che
disciplinano i rapporti fra privati” e, come tale si impone anche alle Regioni a statuto
speciale (sentenze n. 234 e 106 del 2005; n. 282 del 2004).
La pertinenza della norma denunciata alla materia dell’ordinamento civile esclude la
fondatezza di tutte le proposte censure, comprese quelle basate sulla non riconducibilità
della norma stessa ai principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica>.
(iii)
La disciplina delle professioni ordinistiche
Particolare importanza riveste, per i suoi contenuti riferiti alla
disciplina delle professioni organizzate secondo il sistema ordini
stico, e in particolare per la professione dell’ avvocatura, la
pronuncia del 21 dicembre 2007 n. 443 in ordine alla legittimità
delle disposizioni del c.d. decreto Bersani (d.l.n.223 del 2006)
convertito in l. 4 agosto 2006 n. 248, concernente il compenso della
prestazione professionale secondo tariffe, la pubblicità commerciale,
la soppressione del divieto del patto di quota lite, la possibilità di
svolgere l’attività professionale mediante aggregazioni societarie. E’
pur vero che la decisione riguarda un aspetto particolare della
vicenda – e cioè l’eventuale lesione della potestà legislativa
concorrente delle Regioni (nella specie Regione Veneto e Regione
Sicilia) in materia di professioni – ma la motivazione della sentenza,
argomentando in termini di concorrenza e quindi di compatibilità
della legislazione statuale con quella comunitaria, preannuncia un
atteggiamento favorevole della Corte costituzionale ad una eventuale
questione che fosse sollevata in ambito giudiziale da parte di
professionisti che ritenessero violati i loro diritti costituzionali. Si
tratta peraltro di un obiter dictum, che potrebbe essere rivisitato in
tempi futuri.
Nella specie la Corte ha ritenuto che le Regioni non siano competenti
a disciplinare (e quindi a derogare alla disciplina statale impugnata)
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in materia di contenuto del rapporto privatistico della professione
perché tale materia abbraccia sia il settore della concorrenza sia il
settore dell’ordinamento civile, entrambi riservati allo Stato.
Val la pena di riprendere gli aspetti principali della pronuncia per
comprendere appieno il ragionamento della Corte.
<La norma sopra richiamata, nell'abrogare le disposizioni che prevedono
«l'obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi
parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti», tende a stimolare una
maggiore concorrenzialità nell'ambito delle attività libero-professionali e intellettuali,
offrendo all'utente una più ampia possibilità di scelta tra le diverse offerte,
maggiormente differenziate tra loro, con la nuova normativa, sia per i costi che per le
modalità di determinazione dei compensi.
Essa, pertanto, attiene alla materia «tutela della concorrenza», riservata alla competenza
legislativa esclusiva dello Stato dall'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
Pur se il presente giudizio concerne in modo esclusivo la presunta lesione di
competenze costituzionalmente garantite delle Regioni, giova notare che la conclusione
di cui al paragrafo precedente trova conferma in sede comunitaria.
Con particolare riferimento alle restrizioni alla concorrenza nel settore delle professioni,
si deve, infatti, segnalare la Relazione sulla concorrenza nei servizi professionali
presentata dalla Commissione il 9 febbraio 2004 [Com(2004)83]. Il 5 settembre 2005,
la Commissione ha presentato il seguito della suddetta Relazione [Com(2005)405], in
cui si giunge alla conclusione, tra l'altro, che gli Stati membri dovrebbero avviare un
processo di revisione delle restrizioni esistenti, con riferimento sia alle tariffe fisse, sia
alle limitazioni di pubblicità.
In esito a tale relazione, il Parlamento europeo, il 12 ottobre 2006, ha approvato una
risoluzione con la quale, tra l'altro, si invita la Commissione ad approfondire l'analisi
delle differenze esistenti – in riferimento all'apertura del mercato – tra le diverse
categorie professionali di ciascuno Stato membro, e, sul presupposto che l'obbligatorietà
di tariffe fisse o minime e il divieto di pattuire compensi legati al risultato raggiunto
potrebbero costituire un ostacolo alla qualità dei servizi e alla concorrenza, si invitano
gli Stati membri ad adottare misure meno restrittive e più adeguate rispetto ai principi di
non discriminazione, necessità e proporzionalità.
Con specifico riguardo alle professioni legali ed all'interesse generale al funzionamento
dei sistemi giuridici, il Parlamento europeo ha adottato, il 23 marzo 2006, una
risoluzione, nella quale si riconosce che «le tabelle degli onorari o altre tariffe
obbligatorie» non violano gli artt. 10 e 81 del Trattato, purché la loro adozione sia
giustificata dal perseguimento di un legittimo interesse pubblico.
Il medesimo orientamento emerge dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle
Comunità europee. Quest'ultima, nella sentenza 5 dicembre 2006 (cause riunite Cipolla
C-94/2004, Capodarte e Macrino, C-202/2004), ha statuito che «il divieto di derogare
convenzionalmente ai minimi tariffari, come previsto dalla legislazione italiana, può
rendere più difficile l'accesso degli avvocati stabiliti in uno Stato membro diverso dalla
Repubblica italiana al mercato italiano dei servizi legali, ed è in grado quindi di
ostacolare l'esercizio delle loro attività di prestazione di servizi in quest'ultimo Stato
membro. Tale divieto si rivela pertanto una restrizione ai sensi dell'art. 49 CE».
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Una volta chiarita l'appartenenza delle norme censurate alla materia «tutela della
concorrenza», diventa superfluo soffermarsi sul quesito se le stesse abbiano carattere di
principio o configurino una disciplina di dettaglio. Questa Corte ha già precisato che le
competenze esclusive statali, che si presentino come trasversali, «incidono naturalmente,
nei limiti della loro specificità e dei contenuti normativi che di esse possano definirsi
propri, sulla totalità degli ambiti materiali entro i quali si applicano» (sentenza n. 80 del
2006). Anche una disposizione particolare e specifica, purché orientata alla tutela della
concorrenza, si pone come legittima esplicazione della potestà legislativa esclusiva dello
Stato in subiecta materia. Se si ritenessero legittime le norme a tutela della concorrenza
– o riguardanti altra materia di potestà legislativa esclusiva – a condizione che le stesse
abbiano un carattere generale o di principio, si finirebbe con il confondere il secondo e
il terzo comma dell'art. 117 Cost., ispirati viceversa ad un diverso criterio sistematico di
riparto delle competenze. Ciò è ancor più evidente in materie, come la «tutela della
concorrenza» o la «tutela dell'ambiente», contrassegnate più che da una omogeneità
degli oggetti delle diverse discipline, dalla forza unificante della loro funzionalizzazione
finalistica, con i limiti oggettivi di proporzionalità ed adeguatezza, più volte indicati da
questa Corte (da ultimo, sentenze n. 430 e n. 401 del 2007).
Una illegittima invasione della sfera di competenza legislativa costituzionalmente
garantita alle Regioni, frutto di eventuale dilatazione oltre misura dell'interpretazione
delle materie trasversali, può essere evitata non – come prospettato dalle ricorrenti –
tramite la distinzione tra norme di principio e norme di dettaglio, ma con la rigorosa
verifica della effettiva funzionalità delle norme statali alla tutela della concorrenza.
Quest'ultima infatti, per sua natura, non può tollerare differenziazioni territoriali, che
finirebbero per limitare, o addirittura neutralizzare, gli effetti delle norme di garanzia.
Come si è visto prima, le due norme di cui alla lettera a) del comma 1 dell'art. 2 del
decreto-legge n. 223 del 2006 possono essere entrambe ricondotte alla materia in
questione e quindi sono esenti dalle censure avanzate dalle ricorrenti.
La questione relativa alla lettera b) del comma 1 dell'art. 2 del decreto-legge n. 223 del
2006, nel testo originario ed in quello sostituito dalla legge di conversione n. 248 del
2006, non è fondata.
Anche la possibilità di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni
professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché i costi complessivi delle
prestazioni, garantisce e promuove la concorrenza, purché, a tutela degli utenti – come
precisato dalla norma impugnata – il messaggio pubblicitario sia caratterizzato da
trasparenza e veridicità, controllate dall'ordine professionale.
Posto quanto sopra, valgono le medesime considerazioni svolte nel paragrafo 6.3, che
sorreggono la dichiarazione di infondatezza della questione concernente la norma di cui
alla lettera a) dello stesso comma 1, sotto il profilo del riparto delle competenze
legislative tra Stato e Regioni.
La questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera c), del decretolegge n. 223 del 2006, nel testo originario ed in quello sostituito dalla legge di
conversione n. 248 del 2006, non è fondata.
La possibilità di creare società di persone o associazioni tra professionisti, volte a fornire
all'utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare, aumenta e diversifica l'offerta sul
mercato e consente una maggiore possibilità di scelta a chi ha necessità di avvalersi
congiuntamente di determinate prestazioni professionali, anche se eterogenee,
indirizzate a realizzare interessi convergenti o connessi. Pertanto, le norme in esame
sono riconducibili alla materia «tutela della concorrenza», con le conseguenze di ordine
giuridico che sono state in precedenza illustrate. Anche tale norma è quindi esente da
13
censure di legittimità costituzionale sotto il profilo del riparto di competenze legislative
tra Stato e Regioni.
La questione di legittimità costituzionale del comma 2-bis dell'art. 2 del decreto-legge n.
223 del 2006, inserito dalla legge di conversione n. 248 del 2006, non è fondata.
La norma ora citata modifica il terzo comma dell'art. 2233 del codice civile,
prescrivendo, a pena di nullità, che siano redatti in forma scritta i patti, conclusi tra gli
avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti, che stabiliscono i compensi
professionali.
Si tratta, con tutta evidenza, di una norma che attiene al contratto di prestazione d'opera
professionale degli avvocati, rientrante come tale nella materia «ordinamento civile», di
competenza esclusiva dello Stato, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
La questione di legittimità costituzionale del comma 3 dell'art. 2 del decreto-legge n.
223 del 2006, rimasto invariato a seguito della conversione in legge, non è fondata.
Il suddetto comma 3 prevede l'adeguamento delle disposizioni deontologiche e dei codici
di autodisciplina a quanto stabilito dal comma 1 dello stesso art. 2 e, in caso di mancato
adeguamento, la nullità delle norme in contrasto con lo stesso comma 1. La norma di cui
al comma 3 si presenta, dunque, come strettamente consequenziale a quelle di cui al
comma 1, per le quali si è ritenuto che le relative questioni non siano fondate, in quanto
incidenti su un ambito materiale di competenza esclusiva dello Stato (la «tutela della
concorrenza»). Deve, pertanto, ritenersi che valgano le medesime considerazioni svolte a
sostegno della dichiarazione di infondatezza delle altre questioni concernenti l'art. 2 del
decreto-legge n. 223 del 2006 sotto il profilo del riparto delle competenze legislative tra
Stato e Regioni>.
(iv)
La disciplina della concorrenza
Sempre con riguardo alla tutela della concorrenza – materia riservata
allo Stato – la Corte si è espressa favorevolmente alla legittimità
costituzionale della normativa statale sulle vendite sottocosto e sui
saldi di stagione, ritenendo che non fossero lesi i poteri legislativi
delle Regioni (nella specie ancora la Regione Veneto e la Regione
Sicilia) che avevano normato la materia (sentenza n. 430 del 14
dicembre 2007).
(v) La disciplina degli statuti degli enti di diritto privato
Due pronunce interessanti riguardano la formazione da parte di
Regioni, nella specie la Regione Piemonte – o la pretesa normazione
da parte della Provincia autonoma di Bolzano – di statuti di enti
privati: nel primo caso si trattava dell’ Ordine Mauriziano, nel
secondo della Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano.
14
La prima pronuncia ha escluso che la Regione Piemonte potesse
disporre la estinzione dell’ Ordine Mauriziano e attribuire i beni ad
altro ente perseguente medesimi fini.
La seconda pronuncia, n. 438 del 20 novembre 2007, ha escluso che
gli statuti delle ex Casse di Risparmio potessero essere approvati da
leggi provinciali , in quanto si trattava di enti di diritto privato, come
peraltro ormai da tempo la Corte ha stabilito (v. le sentenze nn. 341 e
342 del 2001). Ciò perché
si versava nella materia dell’
“ordinamento civile” riservata allo Stato. Si potrebbe aggiungere che
ormai, secondo l’indirizzo della Corte costituzionale, sussisterebbe
anche il limite dell’ autonomia privata all’ intervento dello stesso
legislatore statale.
(vi)
La disciplina degli appalti pubblici
Una vasta legislazione regionale ha assunto ad oggetto gli appalti
pubblici. Di qui le numerose questioni sottoposte alla Corte
costituzionale.
Una sentenza interessante ha avuto ad oggetto la introduzione
dell’istituto della revisione dei prezzi mediante il contenuto dell’art.
1664 cod. civ. da parte della l. prov. Bolzano 3 ottobre 2005,b.8; la
Corte, con la sentenza n. 447 del 2006 , ricostruisce l’intricata
vicenda legislativa, e poi argomenta la illegittimità costituzionale
della legge provinciale.
<E’ indubbio – osserva la Corte - che
l’istituto della revisione prezzi risponda ad un interesse unitario, afferendo scelte
legislative di carattere generale che implicano “valutazioni politiche e riflessi finanziari,
che non tollerano discipline differenziate nel territorio” (sentenza n. 308 del 1993).
Ne consegue che al legislatore statale, nella materia de qua, deve riconoscersi, nella
regolamentazione del settore, il potere di vincolare la potestà legislativa primaria anche
delle regioni a statuto speciale e delle province autonome.
Si tratta ora di stabilire se la norma impugnata si ponga effettivamente in contrasto con
la richiamata disciplina statale, alla quale, come si è precisato, va attribuito il carattere
di normativa fondamentale di riforma economico-sociale.
15
La disposizione censurata prevede testualmente che, “qualora per effetto di circostanze
imprevedibili si siano verificati, aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della
mano d’opera tali da determinare un aumento o una diminuzione superiore al decimo
del prezzo complessivo convenuto ovvero superiore al quinto del prezzo per categoria di
lavoro convenuto, l’appaltatore interessato o il committente possono chiedere una
revisione del prezzo medesimo. La revisione può essere accordata a fine lavori solo per
quella differenza che eccede il decimo”.
Orbene, è evidente come, in tal modo, il legislatore provinciale abbia disciplinato
l’istituto della revisione del prezzo in modo difforme rispetto alla vigente
regolamentazione statale>.
Ancora. Con la sentenza n. 401 del 2007 la Corte ha ritenuto che la
disciplina delle procedure di gara , la qualificazione e la selezione dei
concorrenti e i criteri di aggiudicazione sono materie di legislazione
comunitaria perché investono la libera circolazione delle merci, la
libera prestazione dei servizi , la libertà di stabilimento, nonché i
principi di trasparenza e parità di trattamento e quindi appartengono
all’area della legislazione statale (art.117 c.2 lett.e).
Con la sentenza n. 431 del 23 ottobre 2007 la Corte è stata ancora
più esplicita. Le questioni riguardavano la legittimità costituzionale
della l. della Regione Campania sulla contabilità (n. 12 del 2006)
oltre che altre disposizioni oggetto di legislazione regionale
abruzzese. Con riferimento alle prime, la Corte ha osservato che le
regole esaminate
<disciplinano,
in termini generali, la fase dell'affidamento degli appalti, dettando le
regole relative alle procedure di scelta del contraente (art. 35), ai criteri di
aggiudicazione ed in specie all'identificazione dell'offerta economicamente più
vantaggiosa (art. 36), alla pubblicità dei bandi di gara (art. 37), alle cause di esclusione
dalle gare (art. 38), all'asta pubblica (art. 43), alla licitazione privata (art. 44),
all'appalto-concorso (art. 45), all'anomalia dell'offerta (art. 46), alla trattativa privata
(artt. 47 e 48). In base ai criteri già individuati da questa Corte e sopra richiamati, è
evidente che le norme sono tutte riconducibili alla materia «tutela della concorrenza»,
avendo ad oggetto direttamente e principalmente le procedure di gara, il cui scopo,
come già affermato (sentenza n. 401 del 2007), è quello di consentire la piena apertura
del mercato nel settore degli appalti: pertanto esse invadono la sfera di competenza
esclusiva del legislatore statale, tra l'altro esercitata con il d. lgs. n. 163 del 2006
(sentenza n. 401 del 2007), le cui disposizioni sono inderogabili.
Le censure sollevate nei confronti degli artt. 51-58 del capo III del titolo III della legge
regionale campana n. 12 del 2006, in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera
l), della Costituzione, sono fondate.
Le disposizioni pongono la disciplina dei contratti pubblici affidati dalla Regione
Campania in esito alle proprie procedure di scelta del contraente ed in particolare
intervengono a dettare norme in tema di garanzie del contratto (art. 51), di modalità di
stipulazione (art. 52) e di durata dello stesso (art. 53), di anticipazione e revisione dei
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prezzi (art. 54), di subappalto e cessione del contratto (art. 55), di aumento o
diminuzione della prestazione (art. 56), di spese contrattuali (art. 57) e di verifica e
collaudo (art. 58). Esse attengono a quella fase inerente all'attività contrattuale della
pubblica amministrazione che ha inizio con la stipulazione del contratto, nella quale
l'amministrazione agisce nell'esercizio della propria autonomia negoziale. Tale fase –
come questa Corte ha già affermato (sentenza n. 401 del 2007) – comprende l'intera
disciplina di esecuzione del rapporto contrattuale e si connota per l'assenza di poteri
autoritativi in capo al soggetto pubblico: pertanto, la disciplina della predetta fase,
inerendo a rapporti di natura privatistica, in relazione ai quali sussistono imprescindibili
esigenze di garanzia di uniformità di trattamento sull'intero territorio nazionale, riferite
alla conclusione ed esecuzione dei contratti di appalto, deve essere ricondotta all'àmbito
dell'ordinamento civile, di spettanza esclusiva del legislatore statale.
Le disposizioni impugnate sono, quindi, costituzionalmente illegittime.
Alla luce dei suesposti principi, sono fondate anche le censure aventi ad oggetto l'art. 27,
comma 3, della citata legge regionale campana n. 12 del 2006, in riferimento all'art.
117, secondo comma, lettera e), della Costituzione.
Questa norma, nella parte in cui stabilisce che «l'attività contrattuale relativa ai lavori e
alle opere di competenza del Consiglio regionale è disciplinata dalla legge 11 febbraio
1994, n. 109 – Legge quadro in materia di lavori pubblici – e dal relativo regolamento
di attuazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 21 dicembre 1999, n.
554 e successive modificazioni», regolamenta àmbiti assegnati alla competenza esclusiva
del legislatore statale. Questa Corte ha infatti affermato (sentenza n. 401 del 2007) che
l'attività contrattuale della pubblica amministrazione inerente agli appalti pubblici
consta di due fasi, la prima delle quali, relativa alla scelta del contraente, si articola nella
disciplina delle procedure di gara, riconducibile alla tutela della concorrenza; la
seconda, che ha inizio con la stipulazione del contratto, corrisponde alla disciplina della
esecuzione del contratto e deve essere ascritta all'àmbito materiale dell'ordinamento
civile>.
La materia dell’ordinamento civile – congiunta alla materia della
concorrenza – costituiscono quindi un baluardo alla legislazione
regionale.
4. Le questioni aperte.
A latere di questo discorso occorre tuttavia accennare ad un profilo
di politica del diritto. Le ragioni che inducono a considerare l'
ordinamento civile come materia riservata allo Stato potrebbero
apparire un ostacolo alla evoluzione dell’ ordinamento civile in sé e
per sé considerato e quindi dei rapporti in esso radicati , degli
interessi che esso vuole soddisfare, in fin dei conti della tutela dei
diritti della persona, se la legislazione regionale dovesse essere più
avanzata o comunque provvedere alla persona un trattamento
migliore di quello previsto dallo Stato.
17
Il tema è arduo e assai delicato.
Certo, le Regioni, integrando la legislazione statale, chiarendone il
senso, colmando le lacune, elevando la qualità del trattamento ( tema
spinoso, questo, che impinge nella riserva sui servizi essenziali di cui
all’art. 117 Cost. c.2 lett.m)), potrebbero correggerne le storture e le
ambiguità. Ma l’intervento potrebbe avere anche lo scopo opposto.
Una soluzione radicale , e certo riduttiva, volta a considerare
l’ordinamento civile – oltre che le altre materie e/o ambiti oggetto di
riserva statale – come un baluardo alla moltiplicazione delle regole di
diritto privato con colorazioni regionali, alla moltiplicazione degli
istituti privatistici, alle difformità di trattamento dei rapporti
economici, sociali, familiari, sembra allora la più opportuna.
Anche se questa soluzione può ingenerare amarezza, quando si
leggono le sentenze ( come quella decisa dalla Corte cost. il 4 luglio
2006, n. 253) che considerano incostituzionali le norme regionali
volte a prevenire le discriminazioni.
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