Quaderni Centro Culturale “Campo della Stella”
Transcript
Quaderni Centro Culturale “Campo della Stella”
Centro Culturale “Campo della Stella” Quaderni – 11 – Incontro all’«altro» Letteratura del secondo dopoguerra a cura di Marino Mengozzi EDITRICE STILGRAF CESENA - 2014 Questo volume è stato pubblicato con il contributo di In copertina: MARC CHAGALL, Il figliol prodigo (Collezione privata, St. Paul de Vence) Il tradizionale ciclo dedicato all’ultimo anno delle scuole superiori traguarda la sua trentunesima meta. E dunque, puntuale come di consueto, il Centro Culturale “Campo della Stella” torna ad un appuntamento da molti anni atteso e apprezzato, offrendo agli studenti l’opportunità di approfondire la preparazione all’esame di Stato e ai loro docenti l’occasione di aggiornamento: perseguendo una formula consolidata, ben navigata perché molto stimolante, che incrocia proiezioni cinematografiche e lezioni frontali, in un intelligente connubio di linguaggi e comunicazioni. Anche per questo «Quaderno» dobbiamo esprimere un sincero grazie alla Banca di Cesena, convinta al pari nostro dell’efficacia di una iniziativa espressamente rivolta ai giovani impegnati in una fruttuosa stagione di studio; per tale ragione rinnoviamo il nostro grazie al Presidente, Valter Baraghini, e al Direttore Generale, Giancarlo Petrini: un riscontro di generosità (il loro) e di gratitudine (il nostro) che di questi tempi non appare né scontato né formale. Il concorso di scrittura saggistica vede premiati e stampati gli elaborati che hanno ben messo a frutto gli spunti di riflessione offerti dal tema (“Incontro all’«altro»”) e dalle proiezioni cinematografiche (Il figlio dell’altra di Lorrain 5 Lèvy e Il fondamentalista riluttante di Mira Nair): la risposta alle consegne è di piena soddisfazione (come dimostrano anche le due menzioni d’onore che si aggiungono ai primi tre classificati) e documenta la vivacità tanto della giovane generazione quanto della scuola e degli insegnanti; dunque una buona notizia. L’uscita del «Quaderno» 2014 conferma la vitalità del nostro Centro Culturale e ne costituisce una tappa, crediamo, significativa per noi e per il mondo della scuola cesenate: la quale da sempre accompagna il nostro cammino e ne apprezza le iniziative. Noi, ancora una volta, abbiamo soltanto corrisposto alle consegne fondative. Paola Ombretta Sternini Presidente del Centro Culturale “Campo della Stella” 6 ANDREA BATTISTINI L’ALTERITÀ DELLE COSE IN MYRICAE DI GIOVANNI PASCOLI Senza dubbio Myricae è uno dei libri che fanno parte del canone, ossia sono tra quelli che rientrano a pieno titolo nei programmi scolastici. Eppure, se alcune poesie di questa raccolta, come Romagna, X Agosto, Arano, sono entrate nell’immaginario degli italiani perché spesso sono (o forse meglio erano) anche imparate a memoria fin dalle scuole elementari, ben pochi, e forse nemmeno gli stessi insegnanti di letteratura italiana, possono dire di avere letto per intero il libro, che nell’ultima edizione consta di 156 componimenti. La sorte di Pascoli è stata dunque davvero singolare, perché da una parte il suo nome è molto popolare grazie a qualcuno dei suoi componimenti, ma dall’altra questa stessa popolarità ha in definitiva oscurato il complesso della sua produzione, per altro molto estesa. Non solo Myricae ha fatto trascurare gli altri suoi libri di poesia, ma anche di questo testo se ne conosce solo una minima parte, costituita da pochi frammenti. Se però si vuole intendere la sua poetica, ossia la concezione che Pascoli aveva della poesia e del suo farsi, occorre considerarla nel suo insieme, andando a conoscere non solo le liriche più familiari, ma anche quelle meno note, dove a volte le idee del poeta appaiono in modo più diretto. Se, per cominciare, si prende in considerazione il titolo della raccolta, siamo indotti a credere che Myricae sia un 7 libro che parla di cose umili, quotidiane, domestiche. Il che è senz’altro vero, ma Pascoli vuole andare molto oltre una concezione semplicemente realistica delle cose. Certo, il titolo che gli è stato dato vuole indicare una realtà dimessa. «Myricae» è la parola latina che corrisponde alla pianta delle tamerici, e come è noto Pascoli la trae dai primi due versi della IV ecloga di Virgilio, che dicono: «[…] paulo maiora canamus. / Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae». Pascoli toglie però la negazione e nell’esergo dell’edizione del 1891, ossia nella citazione virgiliana che apre il volume, scrive «Arbusta iuvant humilesque myricae». La ragione dunque del titolo, spiegata a un suo amico romagnolo, è che la sua è una «poesia che si eleva poco da terra», sia perché le tamerici sono un arbusto dai rami molto delicati e deboli, che quindi si piegano a terra, sia perché «umile» è da intendere anche in senso etimologico e quindi, essendo derivato da humus, significa qualcosa che sta molto vicino a terra, di bassa condizione, semplice, modesto. E se Virgilio con la sua frase dichiarava di volere innalzare il suo canto con argomenti più elevati perché non a tutti possono piacere le cose umili come le tamerici, Pascoli afferma il contrario. Questa allusione a Virgilio sarà persistente anche negli altri libri di poesia: rimane ancora «Arbusta iuvant humilesque myricae» nei Canti di Castelvecchio, molto affini per temi a Myricae, tanto che lo stesso Pascoli li ha definiti le Myricae autunnali; diventa «Paulo maiora» nei Poemetti e nei Nuovi poemetti, dove evidentemente l’ambizione aumenta; torna a essere fedele all’espressione virgiliana nei Poemi conviviali, dove l’esergo è «Non omnes arbusta iuvant» e ritorna ancora in Odi e inni con «Canamus». Se quindi nei componimenti successivi Pascoli vuole alzare il tono, in Myricae sembra volersi accontentare di una realtà molto pedestre, in apparenza senza “alterità”. Suoi argomenti sono lavandaie, contadini che 8 arano, gente che va a messa, animali domestici, fiori campestri. Ma non bisogna farsi ingannare da questa semplice linearità, perché dietro a questa realtà affiorano significati simbolici in continua trasformazione. Come ha scritto Cesare Garboli, uno dei più acuti e originali lettori di Pascoli, Myricae è […] libro d’incessanti metamorfosi e d’unità misteriosa, costruzione mai ferma dove i diversi stili s’intrecciano senza che nessuno di essi faccia prevalere sugli altri la propria impronta formale (simile a un tabernacolo di campagna che diventi nell’angolo del prato una pagoda )1. Queste parole vogliono dire che Myricae nasconde sotto la sua superficie frammentaria e di immediata ricezione una sua unità strutturale dotata di mistero che trasfigura la realtà, come se, nella fantasiosa analogia del critico, quello che sembra uno di quei frequenti e prevedibili tabernacoli sparsi nelle campagne riveli in realtà una esotica pagoda orientale. Del resto le «metamorfosi» di cui parla Garboli si riferiscono anche ai continui ripensamenti che nell’ampliare il numero delle poesie fanno anche mutare loro l’ordine della sequenza, con l’effetto di dare una “filosofia” e un senso diversi a tutto l’insieme. Myricae infatti si può considerare il libro di una intera vita, che accompagna Pascoli per più di venti anni. La prima volta in cui tra le sue carte si rinviene il nome «Myricae» risale al 1889 e già nel 1890, in occasione del XXIII anno dell’assassinio del padre (avvenuto nel 1867), sulla rivista «Vita Nuova» compare, datata 10 agosto, una raccoltina di nove liriche con il titolo complessivo di Myricae. Da quel momento le edizioni si succedono con grande rapidità. Nell’anno successivo le poesie si trasferiscono dalle pagine della rivista a un autonomo opuscolo per le nozze di 1 C. GARBOLI, Cronologia, in G. PASCOLI, Poesie e prose scelte, a cura di C. GARBOLI, Milano, Mondadori, 2002, I, p. 147. 9 un amico, Raffaello Marcovigi, aumentate di numero fino a ventidue. Altre edizioni, sempre accresciute, appaiono nel ’92 (II ed.), nel ’94 (III), nel ’97 (IV), nel 1900 (V), nel 1903 (VI), nel 1905 (VII), nel 1908 (VIII) e nel 1911 (IX). Nelle prime due edizioni la raccolta cominciava con la poesia Gloria, nella quale Pascoli si equiparava a Belacqua, il personaggio dantesco che con un sorriso ironico prende un poco in giro il sommo poeta, fin troppo ansioso di percorrere il cammino di purificazione del Purgatorio, e insieme di conquistare fama eterna con i suoi versi: – Al santo monte non verrai, Belacqua? – Io non verrò: l’andare in su che porta? Lungi è la Gloria, e piedi e mani vuole; e là non s’apre che al pregar la porta, e qui star dietro il sasso a me non duole, ed ascoltare le cicale al sole, e le rane che gracidano, Acqua acqua 2! Esordendo in questo modo, Pascoli, nel riprendere un episodio della Commedia e nell’echeggiarne il lessico, vuole contrapporsi a Dante, condannando la gloria come inutile. L’alterità è soltanto letteraria, con la rinuncia ai grandi ideali e il ripiegamento sulle piccole cose. I suoi propositi sono antifrastici rispetto al titolo del componimento, che non rivela ancora nulla del senso del mistero e della missione assegnata alla poesia, alla quale nella prosa del Fanciullino sarà affidato il compito di far vedere all’umanità «tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle» 3. Allora verrà il tempo di un’altra poesia, La piccozza, dove invece il poeta smentisce il disimpegno e si prefigge un compito: 2 G. PASCOLI, Myricae, in ID., Poesie, Milano, Mondadori, 1974, I, p. 67. Il fanciullino, in ID., Poesie e prose scelte, cit., II, p. 942. 3 ID., 10 Ascesi il monte senza lo strepito delle compagne grida. Silenzio. Ne’ cupi sconforti non voce, che voci di morti 4. A partire dalla III edizione di Myricae la poesia Gloria non scompare, ma viene spostata all’interno del libro, nella zona più appartata della sezione «Le gioie del poeta», mentre nel ruolo rilevato dell’esordio viene collocato Il giorno dei morti, una lirica che con il tema mortuario, riepilogo del lutto familiare, della solitudine dell’orfano, degli oscuri presagi, dialoga con l’aldilà, con l’altrove, orientando la lettura dell’intero libro, che fin dall’inizio si segnala per il suo sperimentalismo inclusivo. In questa sede privilegiata il lettore è accolto da un lessico mescidato, tanto culto e prezioso quanto popolare e quotidiano, abituandolo a ogni possibile innesto linguistico. Il registro più sostenuto, che i latinismi rendono aristocratico, si manifesta con «fumido», «procella», «roggia» (aggettivo), «singulto»; il livello più umile, di provenienza infantile e domestica o dai sintagmi più convenzionali, è attestato da «mamma», «figlioli», «grandicella», «povera bambina», «povera famiglia», «riccioli». La tradizione classicistica che vorrebbe la separazione degli stili è sbaragliata, così come i lutti personali, benché gelosamente rivissuti, acquistano una valenza cosmica. L’ispirazione di Pascoli deriva dal suo dramma personale, dal trauma autobiografico causato dall’assassinio del padre, ma la poesia trasfigura una vicenda individuale in un’esperienza universale, archetipica. X Agosto ricorda fin dal titolo il giorno in cui il poeta rimase orfano, e racconta il modo in cui il padre fu ucciso. Nondimeno la pietas con cui si evoca quel fatto rimanda anche a qualcosa di più grande, estendendosi all’intera umanità e richiamando l’episodio insonda4 ID., Odi e inni, in Poesie, cit., II, p. 721. 11 bile e misterioso della Passione di Cristo. La rondine alla quale è paragonato il padre, ferita a morte dalla fucilata, muore con le ali aperte, «come in croce», e dunque crocefissa come Gesù. E il fatto che cada «tra spini» potrebbe essere «una allusione subliminale alla corona di spine portata da Gesù Cristo nella sua passione» 5. Anche il perdono del padre ai suoi carnefici («l’uccisero. Disse, Perdono», v. 14) va oltre la vicenda di Ruggero Pascoli, perché è ciò che dice anche Gesù («Pater, dimitte illis: non enim sciunt quid faciunt», Luca, 23, 34). Infine la perifrasi finale con cui la Terra è definita «atomo opaco del Male» (v. 24) allude a un mondo per un verso insignificante nell’infinitezza dei cieli e per un altro verso ottenebrato dal peccato, bisognoso della luce divina della Redenzione. Intanto la natura partecipa del dolore umano, in un virgiliano «sunt lacrimae rerum», in quanto il fenomeno delle stelle cadenti occorrente nella notte di San Lorenzo rappresenta il compianto funebre del cosmo per tutte le creature che vengono a mancare e il dolore universale provocato dai delitti degli uomini. Il paesaggio non è più sullo sfondo, ma diventa protagonista, innalzato a specchio delle inquietudini dell’animo. La natura è il mezzo espressivo in grado di rappresentare i temi altrimenti inesprimibili della morte, del tempo e sentimenti come il dolore, le illusioni, i ricordi dell’infanzia. Non bisogna dimenticare che Pascoli è un poeta di campagna, che si è sempre sentito per tutta la vita il figlio del fattore di villa Torlonia, sempre desideroso di stabilirsi nei paesi simili alla sua San Mauro e poco amante delle città, che considera luoghi di alienazione, di inquinamento, capaci di portare chi vi abita alla depressione, perfino al suicidio. Nelle sue descrizioni si nota una stretta connessione della poesia con l’esperienza sensoriale, di cui Pascoli è consapevole, visto che nella 5 12 C. GARBOLI in G. PASCOLI, Poesie e prose scelte, cit., I, p. 1222. conferenza Il sabato del villaggio, dedicata alla figura di Leopardi, scrive: «Vedere e udire: altro non deve il poeta» 6. Qui i suoi versi sono paragonati a una lastra fotografica impressionata da un raggio di luce, che è una dichiarazione di realismo, di fedeltà assoluta agli oggetti. Al tempo stesso però devono anche essere come il suono di un’arpa animata da un soffio, a significare qualcosa di indefinito, di indistinto, che va oltre la realtà immediata. Questi due aspetti convivono e si integrano a vicenda in modo evidente in una poesia saffica intitolata Dopo l’acquazzone, che dunque presenta la stessa situazione della leopardiana Quiete dopo la tempesta: Passò strosciando e sibilando il nero nembo: or la chiesa squilla; il tetto, rosso, luccica; un fresco odor dal cimitero viene, di bosso. Presso la chiesa; mentre la sua voce tintinna, canta, a onde lunghe romba; ruzza uno stuolo, ed alla grande croce tornano a bomba. Un vel di pioggia vela l’orizzonte; ma il cimitero, sotto il ciel sereno, placido olezza: va da monte a monte l’arcobaleno 7. Poiché si parla di un cimitero, sopraggiunge una nota funebre e tetra, anche se accompagnata da quella più allegra dei giochi infantili. A dominare sono però le impressioni sensibili, visive e olfattive, oltre che foniche. Da una parte ci sono gli elementi cromatici del «nero / nembo» e del «tetto, rosso», dall’altra la sensazione olfattiva di «un fresco odor dal cimitero» che «placido olezza». In più, con echi fonosim6 G. PASCOLI, Il sabato del villaggio (1896), in ID., Poesie e prose scelte, cit., p. 1115. 7 ID., Myricae, cit., p. 96. 13 bolici, c’è il temporale che passa «strosciando e sibilando» e c’è la campana della chiesa la cui «voce / tintinna, canta, a onde lunghe romba». Mentre Leopardi aggiunge alla scena campestre che segue un temporale una meditazione («Piacer figlio d’affanno»…), Pascoli rinuncia alla spiegazione, giostrando tra l’impersonalità verista, che si traduce nella precisione minuta dei dettagli, e l’impressionismo simbolista, che richiama tacitamente tanto l’affanno e il dolore, evocati in lontananza dal sibilo pauroso del «nero / nembo» – con «nero» che rima con «cimitero» – e del «vel di pioggia» all’orizzonte, quanto la sopraggiunta quiete suggerita dal «fresco odor di bosso» e dal colore dell’«arcobaleno», in rappresentanza del cielo ritornato «sereno». La sintassi, dal canto suo, registra puntualmente l’affollarsi delle sensazioni, adeguandosi alla loro giustapposizione con un ritmo spezzato dai numerosi punti e virgola. Questo doppio atteggiamento, di guardare con esattezza alle cose per ricavarne delle suggestioni che vadano oltre la loro semplice registrazione, risponde a un consapevole proposito di poetica. Nella lettera di dedica che apre la prima edizione a stampa di Myricae, datata 22 luglio 1891, Pascoli si era appunto augurato di potere «saziar gli occhi miei delle cose belle, e significarne altrui» 8. L’appagamento della vista, alla quale si potrebbero aggiungere anche le percezioni uditive e olfattive, stabilisce un rapporto sensibile e diretto con la realtà circostante, della quale però il poeta deve cogliere il significato più prezioso e autentico da trasmettere ai suoi lettori. Perfino l’oggetto più domestico e umile può acquistare, nelle parole del poeta, lo stesso valore e la stessa intensità di qualsiasi altra componente, fosse anche la più nobile. È ciò che Pascoli sostiene nella poesia Contrasto, che in Myricae fa parte della sezione delle «Gioie del poeta»: 8 14 G. PASCOLI, Poesie e prose scelte, cit., I, p. 705. I Io prendo un po’ di silice e di quarzo: lo fondo; aspiro; e soffio poi di lena: ve’ la fïala, come un dì di marzo, azzurra e grigia, torbida e serena! Un cielo io faccio con un po’ di rena e un po’ di fiato. Ammira: io son l’artista. II Io vo per via guardando e riguardando, solo, soletto, muto, a capo chino: prendo un sasso, tra mille, a quando a quando lo netto, arroto, taglio, lustro, affino; chi mi sia, non importa: ecco un rubino; vedi un topazio; prendi un’ametista 9. Il poeta dunque è un alchimista che trasfigura la realtà, traendone segnali provenienti dalla sostanza nascosta delle cose. Converte la silice e dal quarzo, materia vile e opaca, trae il vetro traslucido, destinato a custodire balsami preziosi. Nell’umile e volgare sasso si cela un rubino, o un topazio, tesori nascosti alla gente comune. Il linguaggio poetico, che i linguisti definiscono connotativo, consiste proprio in questo: nel sapere avvolgere le parole di un alone semantico che le arricchiscono aggiungendo al loro significato di base risonanze, suggestioni, sfumature, allusioni affettive, evocazioni indefinite. È nota la bonaria censura di Pascoli al verso del Sabato del villaggio in cui Leopardi immagina la «donzelletta» recare in mano «un mazzolin di rose e di viole», in quanto, essendo fiori di due mesi diversi, non possono essere còlti insieme 10. Evidentemente per Pascoli la poesia deve possedere la massima esattezza, marcando gli oggetti con la fedeltà di una 09 ID., 10 ID, Myricae, cit., p. 67. Il sabato del villaggio, cit., p. 1115. 15 realistica evidenza individuale che deve rinunciare alle convenzioni letterarie, discendenti nel caso di Leopardi da una lontana tradizione bucolica. Al tempo stesso però la poesia non è mai esente da inquietudini simboliche che collocano gli oggetti all’interno di una totalità cosmica, in linea con la poetica del Simbolismo e con uno sguardo impressionistico. Il lessico di Pascoli è quello contadino, privo di astrazioni concettualizzanti e attento alla visione diretta delle cose, ma non manca di assegnare un valore simbolico alla loro denominazione, in un percorso che si muove dalla precisione alla indeterminazione. Non sono rare le liriche in cui i contorni dapprima molto netti delle descrizioni tendono a sfumare e ad accentuare l’indeterminatezza fino a diventare impalpabili e rarefatti, fino a evocare il mistero e l’arcano. In questo senso è interessante mettere a confronto due versioni successive di una quartina della poesia La civetta, per mostrare come il testo, che dapprima aveva più elementi concreti, rappresentati dal «prato» e dalla «civetta», nella stesura finale perda ogni traccia di consistenza fisica. In un primo tempo Pascoli aveva scritto: Sul chiaro prato, cui trasvolò bruna orma dall’alto. Era una civetta dal volo d’occhi silenzioso. Successivamente questi versi diventano: orma sognata d’un volar di piume, orma d’un soffio molle di velluto, che passò l’ombre e scivolò nel lume pallido e muto 11. A questo punto, nella versione definitiva, ciò di cui si parla è scomparso, e rimangono soltanto delle apposizioni 11 16 G. PASCOLI, Myricae, cit., I, p. 46. («orma sognata…»; «orma d’un soffio…») che definiscono in assenza la civetta, sostituita dall’anafora che fa subentrare alla sua designazione diretta la sua ombra, facendo del volatile una semplice traccia, un’impronta labile e trasparente, un fantasma, dal momento che l’«orma» è «sognata». Nemmeno la luna è nominata, anche se è in cielo, indicata con una sineddoche dell’effetto per la causa, essendo il «lume / pallido e muto» prodotto dal suo tenue chiarore. L’uccello notturno fa pensare anche a qualcosa d’altro che rimanda a un’altra dimensione, pur essendo precisato con esattezza e fedeltà nella sua natura, perché, in quanto predatore, non deve fare rumore e quindi la sua presenza è suggerita da «un soffio molle di velluto», ossia dal lieve fruscio del suo battito di ali, reso con una sinestesia, di tipo acustico («soffio») e insieme tattile («molle»), immerso nel buio di una percezione ottica («ombre») e nel silenzio («muto»). In questo modo però la quartina citata non è più solo la descrizione del volo notturno di una civetta, ma evoca la morte, che arriva silenziosa e ghermisce quando uno meno se l’aspetta. L’impressione è quindi angosciante, si proietta in un aldilà che perde i suoi contorni, rendendoli indeterminati. Per non essere mai nominata se non nel titolo, la civetta smarrisce i suoi connotati e si configura come «un’oscura minaccia, vieppiù terribile quanto meno determinato è il suo contenuto» 12. In questo caso il confronto è per così dire interno a Pascoli, nel senso che le varianti ci fanno vedere l’accentuazione progressiva verso l’altrove e l’indeterminato, ma la stessa tendenza, ancora più accentuata, si può verificare con un confronto per così dire esterno, ossia analizzando come la 12 Un esame della poesia La civetta è condotto da S. GIOVANARDI, «Myricae» di Giovanni Pascoli, in Letteratura italiana, diretta da A. ASOR ROSA, Le opere, vol. III: Dall’Ottocento al Novecento, Torino, Einaudi, 1995, pp. 1066-1090, dove la citazione è a p. 1079. 17 poesia di Pascoli prenda le distanze dai poeti che gli sono familiari. In realtà i suoi autori di riferimento non sono tantissimi. Già si è detto di Virgilio, di Dante e di Leopardi, di cui ha parlato anche in veste di critico letterario, dedicando loro dei saggi. Pascoli conosceva anche i classici greci e latini, e gli scrittori dell’Ottocento, soprattutto francesi, come Hugo e Gautier, oltre a Manzoni. Non aveva però l’estensione e soprattutto l’erudizione di Carducci, le cui conoscenze e le cui fonti spaziavano dal Medioevo al Rinascimento, fino al Settecento dell’Arcadia e di Parini. D’altra parte in più di un’occasione Pascoli ebbe a rivendicare la sua assoluta autonomia da modelli antecedenti. In effetti la sua è una poesia molto personale, anomala nelle soluzioni metriche e per contenuti legata alle sue ossessioni private. È pur vero che negli esordi si mostrò vicino al modo di poetare dell’amico Severino Ferrari, e che da D’Annunzio, verso cui ebbe sempre un complesso d’inferiorità, trasse qualche eco desunto soprattutto dal Poema paradisiaco. Non poté nemmeno evitare di essere suggestionato dal suo maestro Carducci, dalle cui proposte metriche, specie di quelle delle Rime nuove, ricavò qualche insegnamento. In tutti i casi, egli seppe però personalizzare al massimo le sue fonti 13. Ciò che più colpisce in Pascoli è la sua «prodigiosa memoria poetica che lo portava a riplasmare tutto il materiale che gli veniva fornito da una lettura di tipo immaginativo anziché critico» 14, tanto che Gianfranco Contini ha potuto definirlo un «rivoluzionario nella tradizione» 15. Anche quando riprende uno stesso tema topico, già affrontato da altri poeti, Pascoli lo rivive alla luce della pro13 Su «modelli e fonti» di Pascoli si rinvia ancora a S. GIOVANARDI, «Myricae» di Giovanni Pascoli, cit., pp. 1080-1084, che qui si è ripreso. 14 G. NAVA, Introduzione a G. PASCOLI, Myricae, a cura di G. NAVA, Roma, Salerno Editrice, 19912, p. XXII. 15 G. CONTINI, Il linguaggio di Pascoli (1958), in G. PASCOLI, Poesie, cit., p. XXXIV. 18 pria visione del mondo e della propria poetica, proiettandolo su un’alterità assente nel suo modello. Un esempio molto chiaro di questo procedimento è costituito dal sonetto Il bove, che va letto tenendo in controluce l’omonima, e più nota, poesia di Carducci. La perfetta identità del titolo, del tema e del metro serve a fare meglio risaltare l’originalità di Pascoli, che scorpora la concretezza della situazione di partenza, interiorizzandola e facendo convivere la precisione della scena che predomina in Carducci con la dissoluzione della tecnica descrittiva della fonte, producendo nella storia di questo topos una svolta stilistica: CARDUCCI T’amo, o pio bove; e mite un sentimento di vigore e di pace al cor m’infondi, o che solenne come un monumento tu guardi i campi liberi e fecondi, o che al giogo inchinandoti contento l’agil opra de l’uom grave secondi: ei t’esorta e ti punge, e tu co ’l lento giro de’ pazïenti occhi rispondi. Da la larga narice umida e nera fuma il tuo spirto, e come un inno lieto il mugghio nel sereno aër si perde; e del grave occhio glauco entro l’austera dolcezza si rispecchia ampio e quïeto il divino del pian silenzio verde 16. PASCOLI Al rio sottile, di tra vaghe brume, guarda il bove, coi grandi occhi: nel piano che fugge, a un mare sempre più lontano migrano l’acque d’un ceruleo fiume; 16 G. CARDUCCI, Il bove, in Rime nuove, in Poesie, Bologna, Bononia University Press, 2007, p. 552. 19 ingigantisce agli occhi suoi, nel lume pulverulento, il salice e l’ontano; svaria su l’erbe un gregge a mano a mano, e par la mandra dell’antico nume: ampie ali aprono imagini grifagne nell’aria; vanno tacite chimere, simili a nubi, per il ciel profondo; il sole immenso, dietro le montagne cala, altissime: crescono già, nere, l’ombre più grandi d’un più grande mondo 17. La poesia di Carducci è togata, solenne, impettita. Il bove è imponente, ieratico, statico, l’immagine è salda, “monumentale”, e infatti è detto «solenne come un monumento». Negli aggettivi circola una sacralità visibile in «pio», «grave», «lento», «austero». Ne deriva un’idea di serenità, di quiete, di pace, di armonia classica o classicistica che si coglie nei sintagmi chiamati epitheta ornantia dalla retorica greco-romana, in quanto l’aggettivo, propriamente non necessario per il senso, svolge una funzione ornamentale nobilitando il rispettivo sostantivo: «agil opra», «uom grave», «lento / giro», «pazïenti occhi», «larga narice», «inno lieto», «sereno aër». Altre caratteristiche della tradizione lirica che risale a Petrarca sono l’iterazione sinonimica («t’esorta e ti punge») e le dittologie («di vigore e di pace», «liberi e fecondi», «umida e nera», «ampio e quieto»). Nell’àmbito delle figure retoriche spiccano quelle per ordinem, nate da spostamenti delle parole rispetto alla loro normale disposizione sintattica. È anche questo un procedimento tipico delle poetiche classicistiche (si pensi a Parini o a Foscolo), coltivato perché imita l’andamento del latino che, avendo i casi (nominativo, genitivo, dativo, ecc.), può permettersi molta più libertà dell’italiano nel disporre le parole. Ecco allora, in Carducci, le anastrofi 17 20 G. PASCOLI, Myricae, cit., pp. 88-89. («mite un sentimento», «al giogo inchinandoti», «fuma il tuo spirto»…) e gli iperbati («solenne come un monumento tu guardi»; «tu co ’l lento / giro de’ pazienti occhi rispondi», «il mugghio nel sereno aër si perde»…). Anche la sinestesia che ha reso famoso questo sonetto, ossia la doppia percezione acustica e insieme visiva che nasce nell’accostamento di «silenzio verde», è in realtà prodotta da un doppio iperbato, in quanto è questa figura retorica che interviene a modificare la più normale costruzione sintattica, che propriamente sarebbe «il divino silenzio del verde piano». La prospettiva di Pascoli è molto diversa. Intanto, mentre in Carducci il punto di vista è quello del poeta, che esordisce subito con un verbo alla prima persona, rendendolo protagonista assoluto, in Myricae lo sguardo è straniante, perché tutto è visto con l’occhio del bove, che ingigantisce ogni cosa, trasformando il fiume in mare, il «salice e l’ontano» in giganti, i passeri in esseri mostruosi. Da una parte le competenze scientifiche di Pascoli, che per certi versi fanno sì che la sua cultura risenta del positivismo, gli insegnavano che il bue vede immagini molto più grandi di quelle dell’uomo, ma dall’altra parte questa nozione viene ad accordarsi con la sua poetica del fanciullino, secondo cui il poeta, come il fanciullo, ingrandisce le cose piccole, oltre che rimpicciolire quelle grandi. In questo modo le prospettive sono rivoluzionate e le immagini disarticolate, grazie anche all’andamento della sintassi, ricca di incisi che spezzano il ritmo della frase. Ma soprattutto colpisce la presenza di immagini indistinte, a cominciare dai colori, che in Carducci sono precisi e netti («narice […] nera», «occhio glauco», «pian […] verde»), mentre in Pascoli sono volutamente imprecisi: le «brume» sono, con un aggettivo molto amato anche da Leopardi, «vaghe», il «lume» è «pulverulento», le macchie di un gregge che risalta sull’erba di un prato «svariano», a formare un paesaggio screziato. Il quadro che si crea non ha più la staticità del ritratto 21 carducciano, ma si dinamizza. Non solo il gregge «svaria», cioè si muove qua e là, ma agli occhi del bove lo scorrere del ruscello sembra che sia il piano a fuggire, mentre le acque di un fiume «migrano» e in cielo «vanno tacite chimere». Propriamente Pascoli, scrivendo «vanno tacite chimere», si riferisce ai passeri, che però si trasfigurano e diventano immagini misteriose, inquietanti, «grifagne», simili a mostri mitologici dalle «ampie ali», dotate di un’estensione moltiplicata dall’allitterazione della /a/, che è la più aperta delle vocali. La descrizione del paesaggio non è più mimetica, ma interiorizzata. Anche in questo sonetto i dati sensibili del «rio», del «bove», del «gregge» smarriscono i loro profili reali e si fanno impalpabili: il ruscello sfuma tra le «brume», del bue rimane soltanto il particolare degli «occhi», il «mare» appare «sempre più lontano», la luce piena di pulviscolo ingigantisce gli alberi. La realtà diventa sconfinata: il cielo è «profondo», il sole «immenso», le montagne «altissime», in un continuo intreccio e scambio di realtà e irrealtà, vicinanza e lontananza, determinazione e indeterminazione, con i superlativi che conferiscono alle cose un valore assoluto. Anche la chiusa del sonetto, evocando le «ombre» inquietanti e dilatandole a dimensioni che le rendono «più grandi d’un più grande mondo», non potrebbe essere più antitetica al gusto carducciano, che invece termina la sua poesia con la quiete di una pianura solare e verdeggiante. Le sensazioni oscure di mistero sono rese con tecniche che le rendono inconfondibili e inequivocabilmente pascoliane. Tale è la consuetudine di ricorrere ad aggettivi cromatici che, attraverso una loro sostantivazione, distolgono dalla concretezza degli oggetti e delle cose rendendole indefinite, facendo sì che a ogni colore viene sempre a corrispondere un’eco o un’ombra nel cuore. Si può prendere come esempio L’assiuolo: 22 Dov’era la luna? ché il cielo notava in un’alba di perla, ed ergersi il mandorlo e il melo parevano a meglio vederla. Venivano soffi di lampi da un nero di nubi laggiù, veniva una voce dai campi: chiù... Le stelle lucevano rare tra mezzo alla nebbia di latte: sentivo il cullare del mare, sentivo un fru fru tra le fratte; sentivo nel cuore un sussulto, com’eco d’un grido che fu. Sonava lontano il singulto: chiù... Su tutte le lucide vette tremava un sospiro di vento; squassavano le cavallette finissimi sistri d’argento (tintinni a invisibili porte che forse non s’aprono più?...); e c’era quel pianto di morte... chiù... 18. Al verso 6 Pascoli, invece di dire che i lampi giungevano da un punto del cielo in cui comparivano “nubi nere”, converte questa banale espressione in «venivano […] da un nero di nubi», sostantivando cioè l’aggettivo «nero». La formula attirò dapprima l’attenzione di Pasolini 19, e poi di Contini, per il quale con questo procedimento «è estratta la qualità e i sostantivi servono soltanto a determinare, come se essi fos18 G. PASCOLI, Myricae, cit., pp. 94-95. P. P. PASOLINI, La lingua della poesia (1956), in Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1973, pp. 277-278. 19 23 sero gli epiteti, la qualità fondamentale» 20. La conseguenza è che gli oggetti si scorporano in colori, si smaterializzano risultando pura sensazione. Questa forma di impressionismo, che lascia spazio a suggestioni indistinte oltrepassanti la pura realtà, è una peculiarità di Pascoli, per il quale in Sirena «le case nel grigio traspaiono appena», nella Tovaglia i morti «si fermano seduti / la notte intorno a quel bianco»; nella Cavalla storna i cavalli nella stalla sognano «il bianco della strada» e nel Ritratto si vede «il nero di monti e di foreste» 21. Ne L’assiuolo ci sono i campi, le fratte, il mandorlo, il melo, le stelle, le cavallette, ma tutti questi elementi sono dislocati in una lontananza che pare infinita: «laggiù» (v. 6), «lontano» (v. 15), un altro vocabolo che per Leopardi era di per sé molto poetico. E la lontananza è al tempo stesso spaziale, temporale e metafisica. Ad acuirla sono i colori, diafani e indistinti. Già si è detto del «nero di nubi», ma sullo stesso registro sono anche l’«alba di perla» e la «nebbia di latte». Anche i suoni sono misteriosi. Le cavallette con le elitre generano un fruscio simile a quello prodotto dai sistri, gli strumenti musicali degli antichi egizi che, essendo impiegati per celebrare culti misterici, apportano una connotazione di esotismo e di religiosità. Il «sospiro di vento» personifica la natura, come già la visione del mandorlo e del melo che sembrano ergersi, protendersi in alto per vedere meglio la luna. Lo stesso verso dell’assiuolo, essendo una «voce», e poi un «singulto», viene umanizzato, come pure il suo «pianto», in una sequenza che forma una climax. L’uccello dunque non si vede, se ne sente 20 G. CONTINI, Il linguaggio di Pascoli, cit., p. LIV. Sirena si legge in G. PASCOLI, Myricae, cit., p. 133. Le altre poesie appartengono ai Canti di Castelvecchio: La tovaglia in Poesie, cit., pp. 564-565; La cavalla storna, ivi, pp. 659-662 (e anche Commiato, ivi, pp. 678-679 finisce allo stesso modo: «Non c’era avanti me, che il bianco / della silenziosa strada»); Ritratto, ivi, pp. 654-658. 21 24 soltanto un suono lamentoso, su uno sfondo vago e incerto, misterioso. Tutte e tre le strofe esordiscono con un qualche bagliore che però scompare o si attenua. Oltretutto nella prima la luna c’è e non c’è, è da presumere che sia nascosta dalle nuvole, riproducendo la situazione che fece dire a Virgilio «ibant obscuri […] per incertam lunam» 22; essa viene nominata, ma in forma interrogativa, facendo presagire con il dubbio una ambivalenza che non ha risposta, in modo che sul reale si insinua l’irreale. Come al principio, anche alla fine un’interrogativa crea una nota di sospensione, di tensione, di mistero. L’assiuolo, con la sua voce lugubre, funge da intermediario tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, recando una angosciante premonizione di morte. Il dolore che pareva placato dal pur fievole bagliore delle stelle e dalla cantilena dello sciabordio del mare risorge per il lamento funebre dell’assiuolo che, per onomatopea, è anche chiamato volgarmente chiù. Massima rilevanza è accordata al significante, non solo con l’onomatopea che sigilla ogni strofa e con l’indeterminato «fru fru tra le fratte», un rumore di cui non si sa chi sia a produrlo, ma anche e soprattutto per gli insistiti legami fonici che risultano perfino ancora più forti dei legami logici. Le parole, oltre che da insistite anafore («venivano»-«veniva»; «sentivo … sentivo … sentivo»), sono concatenate da nessi allitterativi: «la luna», «cielo-alba-perla», «mandorlo»-«melo», «vederla»-«lampo», «nero»-«nubi», «veniva»-«voce», «cullare»-«mare», «sonava»-«singulto», «tutte»-«vette», «finissimi»-«sistri», «tintinni»-«invisibili». A integrazione interviene un calcolato ritorno delle vocali toniche («notàva in un’àlba»; «parévano a méglio vedérla»; «le stélle lucévano»; «sonàva lontàno» «su tùtte le lùcide»; «finìssimi sìstri»). Come ha scritto ancora Cesare Garboli, per il quale «il segreto de 22 VIRGILIO, Eneide, VI, vv. 268-270. 25 L’assiuolo è soprattutto musicale», in questa poesia «ogni parola è una nota, e ogni legame tra i periodi un accordo di pianoforte» 23. Come sempre succede quando si ha dinanzi la grande letteratura, ciò che non è detto è molto più importante di ciò che è detto. Dietro i versi di Pascoli si nasconde una rete di significati, echi, risonanze che conducono il lettore molto oltre la lettera del testo. Lo sapeva bene lo stesso poeta, il quale proprio a proposito de L’assiuolo, dopo avere tentato una parafrasi in prosa della poesia, aggiunse una nota: «Sì: ma allora non è più la poesia, ma la spieg[azione] della poesia. Ci vuole abnegazione. Esempio: tintinni a invisibili porte» 24. Questo enunciato, che può valere non solo per questa poesia, non solo per quasi tutto Pascoli, ma anche per tutti i massimi autori, significa che in poesia ciò che conta di più è ciò che va “oltre” e che è “altrove”, che affonda nei misteri insondabili, che si avvolge nell’enigma, per l’indissociabilità, soprattutto nel nostro tempo, di poesia e oscurità, di linguaggio diretto e linguaggio cifrato. 23 24 26 C. GARBOLI in G. PASCOLI, Poesie e prose scelte, cit., I, p. 1228. Ivi, p. 1229. GIANFRANCO LAURETANO COMMENTO A DALL’IMMAGINE TESA DI CLEMENTE REBORA s U Clemente Rebora (1885-1957) è conosciuto, come poeta, soprattutto per la sua prima stagione, quella legata all’ambiente della rivista fiorentina «La Voce» di Prezzolini, che fu suo mentore e scopritore: nella collana de “La biblioteca della Voce” venne infatti pubblicata la prima raccolta poetica di Rebora, i Frammenti lirici del 1913. Chi conosce un po’ meglio le vicende biografiche dell’autore, sa anche che dopo la crisi sovvenuta durante la prima guerra mondiale e i successivi anni Venti egli aderì alla fede cattolica, da mazziniano e laico che era, fino ad entrare nell’Ordine fondato dal grande filosofo e teologo Antonio Rosmini. E tradizionalmente l’intera opera di Rebora è considerata divisa in due epoche, prima e dopo la conversione; anche se ad uno sguardo più attento proprio alle sue poesie si nota un processo molto più lineare, senza eccessiva soluzione di continuità. Comunque la raccolta cronologicamente centrale s’intitola Canti anonimi e, pubblicata nel 1922, reca la testimonianza poetica dell’attesa e del cambiamento ideale del poeta. Un cambiamento che si riflette anche a livello stilistico: la poesia di Rebora, improntata a decisi moduli dannunziani nei Frammenti lirici, procede ora verso una maggiore semplicità e chiarificazione e modernità dello stile. I Canti anonimi si chiudono con la poesia probabilmente più celebre e commentata di Clemente Rebora: Dall’immagi27 e d t s L ne tesa. Essa è un capolavoro di ritmo, di immagini e di suoni. Mantiene un clima etereo, quasi intangibile: di cosa parla effettivamente? Il motivo che l’ha originata lo conosciamo, lo rivela l’autore stesso in tarda età: «Aspettavo una ragazza» dirà con nonchalance quasi infantile. E quella ragazza è Lydia Natus, la musicista russa con cui Rebora convisse a Milano in via Tadino dal 1914 al 1919, e immaginiamo la trepidazione dell’amante che attende nel nido d’amore. Ma questa evenienza è stata cancellata, secondo un dispositivo tipico del metodo compositivo di Rebora, che supera la circostanza concreta da cui tutto è iniziato per rendere assoluto il testo. Così Dall’immagine tesa diventa una poesia sull’attesa tout-court, sullo stato di attesa che contraddistingue il cuore più vero di ogni uomo. Anche ritmicamente la poesia è divisa in due parti; nella prima, più lenta, il tema è l’attesa stessa: l’uomo è tutto teso per essa, sebbene ne rimanga indefinita la risposta, come indica l’espressione, ripresa più volte, «e non aspetto nessuno»: Dall’immagine tesa vigilo l’istante con imminenza di attesa – e non aspetto nessuno: nell’ombra accesa spio il campanello che impercettibile spande un polline di suono – e non aspetto nessuno: fra quattro mura stupefatte di spazio più che un deserto non aspetto nessuno: L’immagine tesa è la figura dell’uomo che attende, il suo volto. È l’immagine di un uomo tutto proteso a chi deve venire «con imminenza», cioè con la certezza di una prossima, inevitabile presenza. Si noti la bellezza della descrizione, «il 28 polline di suono» del campanello, le «mura / stupefatte di spazio», l’intensa originalità di tutta la rappresentazione. Tipico di Rebora è il sapiente, geniale uso delle figure retoriche: «nell’ombra accesa» è un ossimoro, che esprime la tensione a far convergere in un solo punto, quello dell’attesa, gli opposti. Metafore e sinestesie accentuano lo stupore per il dilatarsi dello spazio perfino al chiuso, dove pare che le mura stesse si stupiscano di quello stesso spazio. «E non aspetto nessuno», ripete tre volte. Cioè non sa chi sta aspettando; il volto di chi aspetta è misterioso, ma c’è. Nella seconda parte avviene una brusca accelerazione del ritmo e del significato, data dalla certezza dell’avvento che si attende e resa attraverso la ripetizione martellante del verbo venire (ripreso ben sette volte, di cui sei nella forma al futuro). In un’ideale lettura ad alta voce anche la velocità del lettore dovrebbe aumentare: ma deve venire; verrà, se resisto, a sbocciare non visto, verrà d’improvviso, quando meno l’avverto: verrà quasi perdono di quanto fa morire, verrà a farmi certo del suo e mio tesoro, verrà come ristoro delle mie e sue pene, verrà, forse già viene il suo bisbiglio. Da una parte si vede la certezza di questo avvento, nel «deve» che riporta quasi un imperativo categorico, un fatto ineluttabile. Dall’altra parte questa venuta è discreta, di chi non si impone ma, al massimo, propone, come dice espressamente l’ultima parola della poesia. Senza un progetto, una consequenzialità logica, anzi sbaragliando le immagini possibili, nel per29 donare e in quella rima, «tesoro/ristoro» che è estremamente significativa, come tutte le rime, non sempre regolari, del testo: «tesa/attesa/accesa»; «istante/spande»; «deserto/avverto/certo»; «venire/morire»; «resisto/non visto»; «pene/viene». Che l’atteso non sia più una donna, lo notiamo dal volgersi al maschile dell’oggetto dell’attesa: «a sbocciare non visto». E questo avvento sarà discreto, quasi invisibile, un bisbiglio che lenirà, ristorerà le pene e, addirittura, perdonerà «quanto fa morire». È l’avvento di Dio, ne ha tutte le caratteristiche. In un’altra testimonianza successiva, il poeta confesserà che durante la composizione di questa poesia aveva in mente un brano ben preciso del terzo capitolo dell’Apocalisse di Giovanni: All’angelo della Chiesa di Laodicea scrivi: Queste cose dice l’Amen, il testimone fedele e veritiero, il principio della creazione di Dio: Io conosco le tue opere: tu non sei né freddo né fervente. Oh, fossi tu pur freddo o fervente! Così, perché sei tiepido e non sei né freddo né fervente, io ti vomiterò dalla mia bocca. Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di niente!». Tu non sai, invece, che sei infelice fra tutti, miserabile, povero, cieco e nudo. Perciò io ti consiglio di comperare da me dell’oro purificato dal fuoco, per arricchirti; e delle vesti bianche per vestirti e perché non appaia la vergogna della tua nudità; e del collirio per ungerti gli occhi e vedere. Tutti quelli che amo, io li riprendo e li correggo; sii dunque zelante e ravvediti. Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me. Chi vince lo farò sedere presso di me sul mio trono, come anch’io ho vinto e mi sono seduto con il Padre mio sul suo trono. Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Importante, in questo caso, è soprattutto la frase: «Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me». Ecco, quella porta ad un certo punto della vita di Rebora si è aperta. 30 ANDREA CASPANI LE PRIMAVERE ARABE A RISCHIO D’INVERNO? UNO SGUARDO ALL’ALTRA SPONDA DEL MEDITERRANEO s U Questa breve presentazione delle primavere arabe e dei loro possibili sviluppi vedrà l’alternarsi di sintesi scritte con slide illustrative dei principali punti di svolta del fenomeno. e d t s 1. L’inizio della primavera È nella Tunisia “modernizzante” (ovvero non legata ad una visione islamista e con una discreta possibilità di emancipazione sociale e culturale riconosciuta alla società civile) del regime autoritario (ogni espressione di dissenso politico è ferramente controllata, anche sul web) di Ben Alì che inizia il fenomeno cosiddetto della primavera araba. È in un paese che non è militarista né islamista, che non è “chiuso” al mondo o alla modernità, che scatta qualcosa di originale rispetto alle rivolte mediorientali del XX secolo. È da notare che la Tunisia, proprio per le sue aperture all’Occidente e alla globalizzazione, risente molto di più di altri paesi della grande crisi economico-finanziaria che dal 2008 ha “invaso” tutto il mondo occidentale. In Tunisia il contraccolpo economico-sociale della crisi è fortissimo, meno opportunità di sbocchi lavorativi all’estero, il rischio di ricadere nella povertà, un desiderio di libertà e di 31 L espressione di sé che non trova più strade aperte all’interno. Il tutto mentre continua la corruzione del regime… (fig. 1). 2. La rivoluzione dei gelsomini Il fatto sorprendente è che questo piccolo episodio di prevaricazione quotidiana (da parte della polizia che probabilmente voleva imporgli una qualche forma di “pizzo”) sia diventato la miccia di un’esplosione popolare. Come osserva la studiosa Ouejdane Mejri, in realtà lo spontaneo gesto di disperazione di Bouziza è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso dell’ignavia di tanta parte della popolazione contro le ingiustizie e le forme di corruzione di quella “dittatura morbida” che era il regime. La Tunisia era diventata un regime di dittatoriali, ovvero «donne e uomini costretti dal regime a comprimere insieme alla libertà personale anche la dinamica pubblica delle loro relazioni» (OUEJDANE MEJRI e AFEF HAGI, La rivolta dei dittatoriati, Mesogea, Messina 2013, p. 7) e quel gesto risveglia la passione per la libertà di espressione e comunicazione. Non è un caso allora che la rivoluzione si diffonda in primo luogo attraverso la comunicazione (spesso via web) delle immagini e dei video delle varie dimostrazioni nei diversi paesi della Tunisia, prima di sfociare nelle grandi manifestazioni di Tunisi (fig. 2). 3. La rivoluzione del Nilo In seguito ai diversi casi di protesta estrema che hanno visto darsi fuoco diverse persone nel gennaio 2011, il 25 dello stesso mese violenti scontri si sviluppano al centro del Cairo, con feriti ed arresti, durante le manifestazioni della 32 “giornata della collera” convocata da opposizione e società civile contro la carenza di lavoro e le misure repressive. I manifestanti contrari al regime di Mubarak invocano la liberazione dei detenuti politici, la liberalizzazione dei media, e inneggiano alla rivoluzione dei gelsomini come modello contro la corruzione e i privilegi dell’oligarchia. Tra il 29 e il 31 gennaio il presidente Hosni Mubarak licenzia il governo e nomina come suo vice l’ex capo dell’intelligence, Omar Suleiman. La protesta si ingrossa e continuano manifestazioni nelle città egiziane. Gli assai numerosi manifestanti del Cairo, sia giovani sia anziani, sia uomini sia donne, sia musulmani sia copti si radunano in piazza Tahrir, contravvenendo al coprifuoco, e lanciano l’invito affinché si raccolgano, in una mobilitazione generale, un milione di dimostranti nella sola Il Cairo. I militari, sfidando l’autorità di Mubarak, decidono di non usare la forza contro la popolazione che intende dimostrare per richiedere la fine del potere del presidente. All’indomani della manifestazione svoltasi nella capitale alla quale, si viene a sapere, hanno partecipato due milioni di egiziani, e dopo che Mubarak annuncia in televisione di voler aprire un dialogo con le opposizioni, promettendo la libera scelta di colui che gli subentrerà alla carica di presidente e una riforma costituzionale, anche il presidente USA Obama invita il rais a lasciare la carica auspicando l’inizio immediato della transizione democratica. Alla fine Mubarak cede e si dimette: il potere passa ai militari che predispongono un referendum sugli emendamenti alla Costituzione della Repubblica araba d’Egitto, il cui successo consente l’implementazione di nuove elezioni parlamentari e presidenziali. Di fronte alle diverse voci della società civile che sono state fondamentali per i moti di piazza ora si riorganizza il movimento dei Fratelli Musulmani, 33 che si trasforma in partito e vince le elezioni, portando alla presidenza nel 2012 Mohamed Morsi. Ma la società civile egiziana capisce che c’è il rischio del passaggio da un regime autoritario ad uno islamista, e torna in piazza nel novembre 2012 all’indomani dell’auto-attribuzione, mediante decreto, del presidente Mohamed Morsi di ampi poteri nel campo del potere giudiziario, per rendere non impugnabili i suoi decreti presidenziali da parte dell’Assemblea Costituente incaricata di redigere una nuova Costituzione. A questo punto si costituisce il movimento del Tamàrrud (“ribellione”) che, nato il 28 aprile 2013, ha ottenuto una vasta partecipazione popolare, e ha raccolto oltre ventidue milioni di firme per chiedere la destituzione del presidente Morsi e per ottenere elezioni anticipate, propugnando l’istituzione di un governo tecnico in attesa di nuove elezioni. Il 3 luglio 2013, di fronte al movimento di protesta, Mohamed Morsi è stato rimosso dalla carica da un colpo di stato messo in atto dall’esercito egiziano. È notizia di questo inizio del 2014 che dovrebbero presto avvenire nuove elezioni per garantire la continuazione della transizione dell’Egitto a una nuova e reale vita democratica (fig. 3). 4. La rivoluzione libica In Libia tutto comincia il 16 febbraio 2011 quando si verificano nella città di Bengasi scontri fra manifestanti, che protestano per l’arresto di un attivista dei diritti umani, e la polizia, sostenuta da militanti del governo. Il 17 febbraio si registrano numerosi morti in accesi conflitti a Bengasi (località tradizionalmente poco fedele al leader libico e più influenzata dalla cultura islamista). 34 Cresce (spontaneamente o influenzata da realtà straniere?) in tante parti della Libia un movimento che aspira a rovesciare il regime di Gheddafi al potere da oltre quarant’anni. Il 17 febbraio è proclamato “giornata della collera”. Il 21 febbraio la rivolta si allarga anche alla capitale Tripoli dove i contestatori danno fuoco a edifici pubblici. Contemporaneamente cominciano i tradimenti politici: la delegazione libica all’Onu prende nettamente le distanze dal leader Muammar Gheddafi. Il vice-ambasciatore libico, Ibrahim Dabbashi, a capo della squadra diplomatica libica, accusa il colonnello di essere colpevole di «genocidio» e di aver praticato «crimini contro l’umanità». Certamente una serie di potenze occidentali (non l’Italia) sta organizzando l’opposizione al regime, ma anche l’influsso islamista comincia ad emergere in alcune zone del paese. Si sviluppa una furibonda e cruenta guerra civile perché il regime non esita ad impegnare tutte le forze rimastegli, ma il 20 ottobre 2011 Muammar Gheddafi viene catturato e ucciso vicino a Sirte. Mentre l’influenza occidentale cerca di concretizzare il suo interessamento ridiscutendo contratti e forniture petrolifere l’influenza islamica cresce (uccisione dell’ambasciatore americano) e le diverse fazioni non riescono a raggiungere un accordo per la transizione. Il Paese di fatto è diviso in macro regioni e macro fazioni (fig. 4). 5. La rivoluzione siriana Il 15 marzo 2011 iniziano le prime dimostrazioni pubbliche contro il regime siriano. 35 Le iniziali proteste hanno I’obiettivo di spingere alle dimissioni il presidente Bashar al-Assad ed eliminare la struttura istituzionale monopartitica del Partito Ba’ath. Nell’aprile 2011 il governo dispiega le forze armate siriane per reprimere le rivolte. Dopo un mese, la rivolta si trasforma in opposizione armata, anche grazie alle prime diserzioni tra le forze armate. I militari che si uniscono alla rivolta permettono di superare la totale mancanza di una struttura organizzata e formano, insieme a dei civili, l’Esercito Siriano Libero (ESL). Gli scontri durante la seconda metà del 2011 dilagano nel Paese senza però che si formi un vero e proprio “fronte”. Di fatto si combatte una guerra asimmetrica tra esercito regolare e rivoltosi in ogni città. Col radicalizzarsi degli scontri si aggiunge all’opposizione, con sempre maggiore forza, una componente estremista di stampo salafita (peraltro divisa in molti gruppi, alcuni dichiaratamente vicini all’ideologia di Al-Qaeda, tutti concordi comunque nell’avere come principale obiettivo l’instaurazione della Sharia in Siria) anche grazie agli aiuti di alcune nazioni sunnite del Golfo Persico. Nel 2012 la rivolta diviene guerra civile perché sia il regime di Assad sia le diverse forze di opposizione possono contare sul consenso di parti della popolazione e su appoggi internazionali. In quest’anno l’opposizione sembra vincente perché riesce a realizzare una sostanziale avanzata in molte città, ma soprattutto ad Aleppo, centro economico del Paese. Sempre nel 2012 si crea una nuova area di conflitto a nord della Siria, quando la minoranza di etnia curda si organizza in gruppi armati e rivendica l’indipendenza del Kurdistan siriano. I miliziani curdi operano con finalità diverse dall’opposizione siriana, quindi operano in autonomia con momentanee alleanze di convenienza. 36 La situazione muta a favore del governo siriano nel 2013 grazie all’ingresso in Siria dei miliziani libanesi sciiti di Hezbollah, che permettono la riconquista decisiva della cittadina di Al-Qusayr al confine con il Libano e, di fatto, il controllo di Homs e delle vie di comunicazione per la costa. Il fronte dei ribelli invece si indebolisce e, tra l’ESL e i miliziani jihadisti le divergenze sull’amministrazione dei territori conquistati degenerano in scontri aperti, mentre dal luglio del 2013 anche la convivenza dei curdi con i militari dell’ESL e soprattutto con i combattenti jihadisti termina in scontro continuo, generando un nuovo fronte di guerra civile (fig. 5). 6. La crisi siriana è geopolitica Purtroppo il conflitto in atto in Siria è complicato anche a causa della sua posizione strategica nel Medio Oriente. La crisi coinvolge infatti sia i paesi confinanti sia l’intera comunità internazionale. Gli organi dirigenti del Partito Ba’ath (che ha costituito un regime dittatoriale ispirato ad una parvenza di socialismo islamico tollerante sul piano religioso) e lo stesso presidente appartengono alla comunità religiosa alawita, una branca dello sciismo (minoritaria nella stessa Siria). Per questo motivo, le nazioni a maggioranza sciita sono intervenute a protezione del governo siriano. In particolare l’Iran cerca di mantenere un governo alleato che permetta di creare una macroregione che arrivi fino al Libano. Il fronte dei ribelli è invece sostenuto dalla Turchia e soprattutto dai Paesi sunniti del Golfo, in particolare Arabia Saudita e Qatar che mirano a contrastare la presenza sciita in Medio Oriente. In ambito ONU si è verificata una profonda spaccatura tra Stati Uniti, Francia e Regno Unito, che hanno espresso so37 stegno ai ribelli, e Cina e Russia che invece sostengono il governo siriano sia in ambito diplomatico che militare. La situazione attuale, al di là dei fallimentari tentativi di accordi diplomatici, è tragica: – più di 4 milioni di siriani sfollati all’interno del paese e almeno 2,5 milioni fuggiti in altri paesi quali la Turchia, la Giordania, il Libano e il Kurdistan iracheno; – continue stragi perpetrate dalle componenti fondamentaliste dei ribelli nei confronti della minoranza religiosa cristiana (che ha portato le Nazioni Unite a definire la guerra civile come un “conflitto di natura settaria”); – rapimento di ostaggi da parte delle componenti fondamentaliste dei ribelli (visti come strumenti di contrattazione per ottenere armi e denaro dagli occidentali). N.B. Per quanto riguarda l’Italia ricordiamo la lunga detenzione del giornalista Domenico Quirico, da poco liberato, e l’attuale detenzione del gesuita padre Paolo Dall’Oglio, da anni impegnato sul fronte del dialogo islamocristiano (fig. 6). 7. Riflessioni conclusive Da questa panoramica si può trarre subito una considerazione: ciò che unifica l’inizio di tutte le primavere arabe è evidentemente il fatto che – almeno in Tunisia, in Egitto e in Siria, perché la questione della Libia con la partecipazione alle manifestazioni fin dall’inizio di civili armati appoggiati dall’estero la fa assomigliare ad un colpo di stato orchestrato dall’esterno, è decisamente diversa – non nascono originariamente da un complotto, ma da una vera crisi economi38 ca e di occupazione e da una vera domanda di libertà e di espressione sociale, emersa da una voglia di libertà. Una seconda considerazione si impone: questa rivendicazione di «pane, libertà e giustizia» (come recitavano molti slogan degli inizi in Tunisia, Egitto e Siria e come sono documentati da tutti i social network) non è affatto una rivendicazione laicista, di giovani che mirano ad una società postislamica nel senso occidentale, cioè emancipata da ogni riferimento alla propri tradizione religiosa e che rivendicano solo beni e diritti di stampo occidentale. In realtà ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso: basta riflettere sul fatto che la richiesta di giustizia, di libertà personale e di una società che sia in grado di garantire pane e lavoro a tutti in modo dignitoso è valore intrinseco dell’Islam (molte volte noi usiamo categorie occidentali nel valutare i fenomeni di altre civiltà), trascurato, per non dire dimenticato dai regimi contro cui è nata la spontanea protesta popolare dell’Islam umanista, che poi costituisce la grande maggioranza dei musulmani (purtroppo oggi sembra visibile quasi solo l’estremismo fondamentalista). In questo senso le rivolte popolari hanno sancito (senza il suggerimento occidentale, ma per una esigenza autentica che scaturiva dal profondo della loro umanità) la crisi di quel modello geopolitico che «aveva consentito ai regimi in carica» alleati e sorretti dall’Occidente, «di sopravvivere oltre la fine della guerra fredda e degli anni dell’emergenza della lotta al terrorismo transnazionale» (GIOVANNI SALE, Islam contro islam, Jaca Book, Milano 2013). Il punto più interessante a nostro avviso è proprio l’originaria istanza di questa protesta, che non è affine alle rivendicazioni del fondamentalismo islamico perché non vuole abbattere il Faraone di turno che rovina la vita del popolo islamico per sostituirvi un regime basato sulla Sharia, ma desidera abbattere tutti i despoti che impediscono il fiorire della 39 vitalità espressiva e della dignità di popoli che vogliono vivere liberamente il riferimento alla propria tradizione religiosa. Per la prima volta si osservano sull’altra sponda del Mediterraneo movimenti non animati dall’islamismo o dal nazionalismo, ma da una domanda sociale, di libertà e di maggiori possibilità per tutti. Cristiani e musulmani si trovano insieme a rivendicare uno spazio per l’uomo. Si vede rinascere, o nascere, una nuova dimensione umanistica, che parte non da una risposta ideologica, ma da domande umane. A detta di molti osservatori dello stesso mondo islamico, tra cui cito solo Wael Farouk, le rivoluzioni sono nate per manifestare contro sistemi corrotti che erano contrari al bisogno più profondo delle persone, e caratterizzate dall’unione di cristiani e musulmani, uniti dal desiderio di rispettarsi a vicenda. Un segnale importante di ciò è il fatto che in Egitto, dopo l’attentato alla chiesa di Alessandria, musulmani e cristiani insieme hanno vigilato contro altri atti terroristici. Naturalmente quanto è stato detto fin qui non impedisce di riconoscere che passati pochi mesi dall’inizio della primavera l’Islam politico, inizialmente defilato ma ben radicato nei Paesi del Medio Oriente è ritornato prepotentemente sulla scena: ad esempio in Egitto i Fratelli Musulmani hanno vinto le prime elezioni libere, così come in Tunisia il partito islamico di Ennahda ha guidato in un primo tempo il Paese da solo, anche se la recente approvazione della Costituzione sembra preannunciare una nuova stagione di convivenza tra islamisti e laici tunisini. Ma è corretto decretare, con il fallimento di Morsi e dei Fratelli Musulmani anche quello dell’Islam politico, quello che ritiene che «la soluzione è l’Islam»? Forse è troppo presto per dirlo, perché se indubbiamente è rassicurante, per restare al caso egiziano, il fatto che 22 milioni di firme e una piazza Tahrir nuovamente straripante de40 terminarono il 3 luglio 2013 un rocambolesco avvicendamento al vertice dello Stato, con la liquidazione di Morsi e l’esercito, di nuovo, nel ruolo di garante, salvaguardando così il Paese dal tentativo di instaurare uno Stato basato sulla sharia, rimane il fatto che i vuoti di potere che caratterizzano le diverse transizioni (per non parlare delle ripercussioni della guerra di Libia e del conflitto siriano) hanno dato nuova linfa a uno jihadismo fondamentalista che dopo il fallimento della strategia terroristica contro gli USA e l’Occidente e la morte di Osama bin Laden sta cercando nuove strategie per imporsi nel mondo musulmano. Un nota bene sulla influenza delle grandi potenze in questo scenario. Tradizionalmente siamo abituati a pensare che gli Stati Uniti siano molto influenti in Medio Oriente, ma questa amministrazione rischia di convincerci del contrario. Obama è stato finora molto favorevole a parole verso ogni transizione alla democrazia ma di fatto è stato molto oscillante sull’atteggiamento concreto da assumere di volta in volta (rilevanti le incertezze sul rapporto con i Fratelli Musulmani, il silenzio nei confronti dell’ultimo colpo di Stato dei militari egiziani e la minaccia rientrata all’ultimo momento di attacco al governo siriano per l’uso di armi chimiche che potrebbero essere state invece utilizzate dai ribelli); ora sembra che i suoi consiglieri lo abbiano indotto a lasciare che la Siria si autodistrugga. Almeno fino a quando non crescerà ulteriormente il conflitto con la Russia di Putin, che dal canto suo cerca in Siria la rivincita per avere perduto ogni influenza sulla Libia, oltre che su buona parte dell’Europa Orientale. Per concludere un’osservazione: per l’evoluzione di tutta la sponda sud del Mediterraneo sicuramente saranno molto importanti le prossime elezioni politiche egiziane promesse dal governo ad interim del Cairo. 41 Intanto, in questo inizio del 2014, viviamo con speranza questa manifestazione dell’anelito del cuore alla libertà, che non può essere tolto a nessuno qualunque siano la latitudine e il contesto sociale e culturale, e che unisce in profondità l’umanità che vuole vivere fino in fondo la propria identità, come mostra l’ultima slide in cui croce e Corano appaiono insieme nelle mani degli uomini che cercano libertà (fig. 7). 42 Fig. 1 Fig. 2 Fig. 3 Fig. 4 Fig. 5 Fig. 6 Fig. 7 Concorso di scrittura (2014) “La memoria del Novecento” Incontro all’«altro» 1° classificato SARA PASINI V B Liceo Scientifico “Marie Curie” - Savignano sul Rubicone SE L’«ALTRO» SONO IO APPUNTI DALLA VITA DI UN NEOROMANTICO Il poster di Eric Cantona alla parete si è spostato: è storto. Non è colpa del vento, e la sorellina oggi non è venuta a giocare di nascosto nella sua cameretta. A muoverlo è stata una manina furtiva come un gatto selvatico, quel tanto che basta per appiccicare la faccia al muro e osservare dal foro le amiche della sorella maggiore mentre provano le nuove minigonne nella stanza accanto. Questa scena sarà stata impressa almeno un milione di volte nelle pellicole di tutto il pianeta: il classico ragazzino che spia timidamente un nuovo mondo, regolarmente scoperto dalla mamma e trascinato via per un orecchio, ritornando poi di malavoglia col naso sui compiti. Oggi non c’è più nessuno che si attacca ai nostri lobi per riportarci con i piedi per terra e con gli occhi nelle orbite. Per di più non esiste silicone abbastanza forte da poter oscurare la serratura d’accesso alla nostra intimità: chiamasi social network. Una microscopica finestra sulle vite degli altri, attraverso la quale si può vedere senza essere visti. Dall’immagine tesa / vigilo l’istante / con imminenza di attesa - / e non aspetto nessuno. Clemente Rebora aveva capito tutto. Anch’io, come lui, spulcio ogni millimetro di facebook in cerca della notifica, del mi piace, del fidanzato ufficialmente, 49 dell’ultima foto in costume della bellona di turno in vacanza a Saint-Tropez. Qualsiasi cosa va bene, ma datemi una novità, datemi qualcosa con cui riempire le palpebre e la scatola cranica! Nella home, però, non c’è nulla di nuovo: dunque mi dedico al trastullo, ai giochi online, a candy crush saga. Naturalmente la chat è sempre piena di pervertiti in cerca di sollecitazioni sottombelicali (per citare l’autore dell’oroscopo su «La Gazzetta dello Sport») via webcam. Di colpo ho voglia di morire. Sono stanco di vedere: desidero solamente scorgere. Sono stanco di sentire: è ora di lasciarmi cullare. Sono stanco di leggere: voglio immaginare. Sono stanco di scrivere, di fotografare e di postare: è arrivato il momento di vivere. E di colpo sono il Pascoli de Il gelsomino notturno, che registra da lontano l’amore di due sposi, protetto dalla sua invulnerabilità di poeta. Lui è esterno, lui è altro. Non gli resta che prendere atto del non so che felicità nuova covato dentro un’urna molle e segreta, ma passa oltre. Non preme il pulsante i like, non sa cosa vuol dire amare corporalmente una donna e desiderare con ogni fibra del proprio corpo essere padre. Lo ignora e si accontenta di questo. Io sono così: mi chiamo fuori. Da oggi, mi basta il peso dei miei pensieri. Occuparsi delle vite degli altri così assiduamente come richiederebbe Facebook è un secondo lavoro e se il tempo passato ad aggiornare il proprio profilo fosse valido per i contributi dell’INPS, avremo tutti delle pensioni da record! Io non voglio essere perennemente incorniciato da una striscia blu punteggiata da fumetti rossi numerati. Voglio poter descrivere gli occhi della mia nuova ragazza a mio padre senza che questi mi dica: “Sì, l’ho vista su facebook. È carina” o parlare male del professore che mi ha appena dato un quattro senza rischiare una denuncia per diffamazione. 50 Non me ne importa più nulla di cosa facciate, di cosa abbiate visto al cinema o se avete diffuso una nuova notizia riguardo a uno scandalo dei nostri politici. A meno che voi non siate Confucio, il Dalai Lama, Eugenio Montale o la Szymborska non abbiamo nulla da dirci. A prescindere da quanto si è vissuto / il curriculum dovrebbe essere breve, scrive a proposito la poetessa polacca. Io non sono inscrivibile, portatile, comprimibile. Voi lasciatevi pure classificare sotto Nome, Cognome, Indirizzo, Luogo e Data di Nascita. Io sono mondo, sono mondo e non sono nessuno: l’osteria nella quale prendo i miei pasti è uno dei luoghi nei quali amo l’Italia. Entrano cani festosi, che non si sa di chi sono, bambini nudi con in mano un fiasco impagliato. Mangio, solo come il Papa, non parlo a nessuno e mi diverto come a teatro. Saba mi ha insegnato che non è necessario ridere dei saltimbanchi computerizzati per sentire scorrere il sangue frizzante nelle vene, perché qualunque cosa tu dica o faccia / c’è un grido dentro: / non è per questo, non è per questo! / E così tutto rimanda / a una segreta domanda... Ancora una volta è Rebora a suggerirmi le parole, a ricordarmi che dietro ogni sciocchezza concernente la nostra vita si nasconde un abisso oscuro, che siamo soliti ignorare, preferendo abbandonarci allo scintillio di uno schermo a cristalli liquidi. Io voglio toccarne il fondo, lanciare un sasso nella voragine e contare i secondi prima di sentire il rumore di un arresto secco, come di ossa che si spezzano. Non ho idea di come possa fare, non so quale sia la formula magica che possa convertire il mio portatile di ultima generazione in una vita fatta di peli irti per la pelle d’oca, di sospiri e di buonasera cantati al pigolio di stelle, in poche parole: di poesia! Mi chiamano pazzo, diverso, secchione. Dicono che sono il Changez Khan italiano, il protagonista de Il fondamentalista 51 riluttante, ovvero il giovane che rinuncia ad una brillante carriera da analista di Wall Street per tornare in Pakistan, sua terra d’origine, a causa del crescente razzismo nei suoi confronti a seguito dell’11 settembre. Il crollo a cui ho assistito io, invece, è quello degli ideali della mia generazione: mi sento vecchio e stanco come il Pompeo descritto da Lucano, un’antica quercia che sta in piedi solo grazie alle spesse radici che la tengono ancorata al terreno e che presto cederà il posto ad arbusti più vigorosi e flessibili. Nel giro di un millisecondo verrà un Cesare a portarmi via tutte le certezze e che mi obbligherà ad avere un profilo su un social network per essere tracciabile, che mi ricorderà quanto siano datati i libri che leggo e che mi rinfaccerà l’inconsistenza della mia vita sociale. E di nuovo torneranno similitudini, nomignoli, sberleffi: mi chiameranno Machiavelli in compagnia degli antichi. Ma sto bene così. Per citare Van Gogh: non è malsano. Voglio essere una cosa lasciata in un angolo e dimenticata, al caldo buono delle mie certezze narrato da Ungaretti, certezze che, ahimè, non coincidono con quelle degli altri. Ma l’altro sono io... e non aspetto nessuno. Nuovamente Rebora s’innesta nel mio soliloquio. Sarà un vizio. Quindi, se mai avrete la sciagurata idea di chiedermi qualcosa, non mandatemi una mail, perché non le controllo mai. Evitate di scrivermi un SMS, perché mi dimentico sempre di ricaricare il credito del cellulare. Ah, non chiamatemi nemmeno, perché il telefono lo tengo in modalità silenziosa: non me ne accorgerei! Sono latitante: mi sono persino dimenticato la password che usavo per i social network... E se dopo avere letto tutto ciò vi è rimasta ancora voglia di incontrarmi, fate una passeggiata fino al lago, senza dimenticare del pane secco per le anatre: mi troverete solo, al molo, a verseggiare o a far due chiacchiere con il mio cane. 52 2° classificato ELENA BELLUZZI V A Liceo Scientifico “Sacro Cuore” - Cesena INCONTRO ALL’«ALTRO», CHIAVE PER LA SCOPERTA DI SÉ La mia partecipazione al ciclo di lezioni e proiezioni dal titolo “Incontro all’«altro»” si è inserita, a livello personale, nel contesto di una riflessione suscitata in me dalla domanda che, sempre presente e talvolta insistentemente ricorrente, mi accompagna da tempo e, in particolare, durante quest’anno scolastico: chi sono io? Questo interrogativo è il punto di partenza da cui ha preso avvio la mia personale ricerca di una risposta attendibile ed esauriente. E nella dinamica di tale ricerca, mi sono innanzitutto scoperta del tutto simile non solo a tanti amici coetanei, ma anche, nel mio piccolo, ai grandi protagonisti della storia dei quali, in questi anni, ho conosciuto e studiato il pensiero, gli scritti, le azioni e le invenzioni, a dimostrazione del fatto che davvero l’uomo, qualunque uomo, in quanto tale, porta inscritto in sé il desiderio incessante di rispondere alle proprie domande e, in particolare, alla domanda per eccellenza, che è quella sul senso di sé. Ma nel percorso della mia ricerca, la seconda scoperta che appare sempre più evidente alla mia riflessione è che il senso di sé si svela, per lo più e quasi sempre, nell’incontro con l’altro. Questa prospettiva mi pare mirabilmente esplicitata dal film Il figlio dell’altra di Lorraine Lèvy. Privo di qua53 lunque sentimentalismo, il film mette in scena la drammaticità di una vicenda paradossale e apparentemente assurda: Joseph e Yacine, palestinese l’uno, ebreo l’altro, vengono scambiati alla nascita e consegnati l’uno alla madre dell’altro. I due ragazzi sono costretti ad affrontare, tanto improvvisamente quanto drasticamente, il dramma che sconvolge la loro esistenza a seguito della sconcertante scoperta di avere vissuto, ignari per tutta la giovinezza, l’uno la vita dell’altro (Vuoi dire che sono l’altro e che l’altro è me?): in altre parole, di aver vissuto, fino ad allora, ciascuno senza conoscere veramente se stesso. La reazione immediata, istintiva e disperata che essi hanno di fronte al crollo di ogni certezza e del fondamento stesso delle proprie esistenze è quella dello scontro e dell’ostilità: dunque, la domanda sul senso di sé può scaturire, paradossalmente, anche dallo “scontro” con qualcosa d’altro da sé. Ma poi non si può giungere ad una fruttuosa conoscenza di sé, capace anche di riappacificare l’animo, se lo scontro e l’ostilità non si trasformino in un incontro: questo è ciò che, in seguito, accade a Joseph e Yacine, per i quali, perciò, l’assurda vicenda che li ha sconvolti non li ha, tuttavia, travolti e distrutti, divenendo, al contrario, un’opportunità di rinascita e di ricostruzione di un’identità rinnovata, nella ricerca di una nuova appartenenza. Senza frutto, invece, è la posizione di coloro che, ottusi e limitati, non sono in grado di abbattere la barriera dei pregiudizi e dei preconcetti e varcare la soglia di quella misteriosa, e forse per questo temibile e poco rassicurante, alterità. Sono questi I ciechi, descritti da Baudelaire, che, simili ai manichini; vagamente ridicoli; / terribili, singolari come i sonnambuli […] dardeggiano non si sa dove i loro globi tenebrosi: il loro sguardo in cui s’è spenta la scintilla divina non 54 solo non si alza a vedere il cielo, ma non è rivolto neanche alla strada (non li si vede mai verso i selciati, / chinare, pensosamente, la loro testa appesantita): in altre parole, è indifferente alla realtà tutta. Nel nero sconfinato della propria misura e limitatezza, l’uomo non si accorge della città che intorno canta e ride, innamorata del piacere. Solo una domanda, come un grido strozzato, risuona nelle tenebre di questa poesia e riaffiora talvolta sempre più insistente: cosa chiedono al Cielo, tutti questi ciechi?, cosa cercano e qual è la loro verità?. Ed è con questo interrogativo che la poesia si chiude, come a ricordare che gli uomini “ciechi” sono destinati a quel “silenzio eterno” di una mancata risposta. Solo sormontando la propria ed esclusiva individualità e “incontrando” la realtà – se necessario anche quella più scioccante e sconvolgente –, è possibile iniziare un cammino di conoscenza della realtà stessa e conseguentemente anche di sé. Changez, protagonista del film Il fondamentalista riluttante, giovane e brillante consulente finanziario a New York, è talmente concentrato sull’evoluzione della sua ambiziosa carriera e talmente calato nella cultura americana, a cui pur non appartiene, che solo l’evento dirompente dell’attentato alle torri gemelle riesce a scuoterlo, facendogli provare la volontà di recuperare la propria identità, anche al prezzo di rendersi inviso e sospetto a quella stessa società che fino ad allora lo aveva fatto suo e reso simile a sé. È nella scoperta dell’alterità di quella cultura che lo ha inglobato finora che Changez può riscoprire il desiderio di appartenenza alla sua origine. Ma la realtà, anche quella più prossima e apparentemente già conosciuta, sfugge alla sua verità ultima, aprendo un baratro sull’infinito. Il mistero dell’altro è semplicemente un 55 richiamo al mistero di sé e dunque alla domanda “chi sono io?”, da cui sono partita, lasciando nuovamente aperta e piena di una grande aspettativa la strada della ricerca. L’uomo scopre così che “l’incontro all’altro” non è altro che una iniziale ma incompleta e non esaustiva risposta alla propria domanda, che rimane dunque – come scrive Clemente Rebora in Canti anonimi – una sostanziale attesa, come la speranza dell’avverarsi di una promessa fatta: Dall’immagine tesa / vigilo l’istante / con imminenza di attesa – / e non aspetto nessuno […]. Ma deve venire, / verrà, se resisto / a sbocciare non visto / verrà d’improvviso, / quando meno l’avverto. Andare “incontro all’altro”, dunque, è la dinamica più efficace per rendere possibile l’“incontro con l’altro”, fonte a sua volta di apertura al mistero e quindi chiave indispensabile per aprire la porta dell’animo umano alla scoperta di sé. 56 3° classificato CLAUDIA FIACCONI V Bf Liceo Scientifico “Augusto Righi” - Cesena «C’È UN OLTRE IN TUTTO» Basta non fermarsi a un primo sguardo fugace e veloce che a volte coglie solo le banalità ed è sufficiente evitare di limitarsi all’apparenza delle cose, come purtroppo c’induce a fare la società attuale, per capire che «c’è un oltre in tutto», come affermava Pirandello in Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Tutto ciò che ci circonda presenta un alone di mistero, un’incognita, tante piccole verità che ci sfuggono, spesso perché siamo troppo concentrati su noi stessi e sul nostro piccolo mondo interiore. Ma se iniziassimo a guardarci intorno con occhi diversi, occhi pieni di attenzione e curiosità, occhi non offuscati da alcun genere di pregiudizio e pieni di meraviglia come quelli di un bambino, probabilmente riusciremmo a cogliere cosa si nasconde dietro l’apparenza o quantomeno a realizzare che spesso tutto quello che diamo per scontato o crediamo ovvio cela dell’altro. Diventa fondamentale, a questo punto, andare incontro all’altro e andargli incontro a braccia aperte, mettendo da parte quel genere di timore che, immancabilmente, si fa avanti ogni qual volta ci si deve rapportare con qualcosa di nuovo e diverso, fuori da tutto ciò che risulta familiare e prevedibile. Il rischio, altrimenti, è quello di restare chiusi in sé stessi, con le nostre idee e le nostre certezze, o meglio quel57 le che ci illudiamo essere certezze. Perché, come dimostra il film Il figlio dell’altra del regista Lorrain Levy, in un attimo anche qualcosa che credevamo certo e sicuro, come le nostre origini o la nostra famiglia, può essere messo in discussione, può rivelarsi diverso da ciò che ci aspettavamo e pensavamo di conoscere. Tuttavia la storia dei due protagonisti è emblematica: infatti Joseph e Yacine imparano a riconoscersi fratelli e ad amare le proprie differenze di costume e culturali, oltrepassano il confine religioso e “corrono” incontro all’altro mettendo da parte la diffidenza e lo sconvolgimento iniziale dato dalla scoperta di essere stati scambiati alla nascita. Entrambi, conoscendosi meglio, accrescono la stima reciproca, ma soprattutto maturano per l’altro rispetto, la parola chiave per ogni genere di rapporto che instauriamo. Infatti, oltre ad una certa dose d’interesse che deve spingerci nella direzione dell’altro e a un minimo di umiltà che fa in modo che ci si ponga sullo stesso piano, eliminando così ogni genere di pregiudizio o vana aspettativa, l’ingrediente fondamentale è il rispetto per chiunque o qualunque cosa si ha davanti. Come ben sintetizza Siddharta, il protagonista del romanzo di Hesse, dicendo: «a me importa solo di poter considerare il mondo, e me e tutti gli esseri, con amore, ammirazione e rispetto», non bisogna vedere nell’altro un nemico, un pericolo o una minaccia ma bisogna piuttosto andargli incontro con disponibilità cercando di capire le sue abitudini e i suoi interessi, le esperienze che ha vissuto e il suo punto di vista. È necessario, dopotutto, impostare le nostre relazioni su questo piano per poterle vivere nel migliore dei modi: dal momento che «il nesso con l’alterità è costitutivo della persona», come sottolinea Virgilio Melchiorre in Essere e persona, ed è quindi impossibile rapportarsi unicamente con la 58 realtà del nostro io senza prendere in considerazione altre persone, è importante che ciascuno di noi si metta in gioco nell’incontro con l’altro che spesso, inoltre, diventa un’ottima occasione per scoprire nuovi aspetti e nuovi lati della nostra personalità, per rivelarci qualcosa di nuovo su di noi. D’altronde la chiusura in sé stessi non porta nessun genere di ricchezza, nessuno stimolo, come evidenzia Edwin Abbott in Flatlandia: Osserva quella miserabile creatura. Quel Punto è un Essere come noi, ma confinato nel baratro adimensionale. Egli stesso è tutto il suo Mondo, tutto il suo Universo; egli non può concepire altri fuor di se stesso: egli non conosce lunghezza, né larghezza, né altezza, poiché non ne ha esperienza; non ha cognizione nemmeno del numero Due; né ha un’idea della pluralità, poiché egli è in se stesso il suo Uno e il suo Tutto, essendo in realtà Niente. Eppure nota la sua soddisfazione totale, e traine questa lezione: che l’essere soddisfatti di sè significa essere vili e ignoranti, e che è meglio aspirare a qualcosa che essere ciecamente, e impotentemente, felici». Quindi, anche se il desiderio di restare fissi nei propri schemi è forte, è opportuno “uscire” da sé stessi per andare incontro all’altro mettendosi in discussione, aprendosi ad ogni genere di prospettiva, dando libero sfogo alla curiosità di sapere chi ci sta di fronte e alla voglia di ascoltare la storia che ha da raccontare. Dovremmo liberare il «bisogno insoddisfatto e innaturalmente represso di conoscenza» di cui parla Mann nel romanzo La morte a Venezia e magari scoprire che anche le persone che incontriamo tutti i giorni, dal vicino di casa al compagno di scuola, sono in realtà completamente diverse da come le immaginavamo. 59 Menzione d’onore FRANCESCA PAPULI III B Liceo Classico “Vincenzo Monti” - Cesena IL BISOGNO DELL’ALTRO Oggi molti affermano che viviamo in un “villaggio globale”, dove le informazioni viaggiano velocemente da un angolo all’altro del pianeta. Affermare ciò è, però, riduttivo dal momento che, invece, esistono tanti villaggi quante sono le culture umane. Credere che esista un unico villaggio è vedere solo l’Occidente e non rendersi conto di come stia esportando il suo modello dappertutto. L’altro è colui che abita un villaggio diverso dal nostro, legge il mondo con altri occhi, parla un’altra lingua, invoca Dio con un altro nome. Il futuro consiste, quindi, nella capacità di “gettare ponti” tra le culture, tra i villaggi, posto che l’uomo, a differenza degli altri animali, può difendersi non solo con la forza ma anche con la parola, quindi con il dialogo. La specificità dell’uomo, infatti, non è quella di aggredire, ma quella di parlare, di dialogare. Noi ci troviamo in una condizione anomala: da una parte il progresso tecnologico ci permette di raggiungere ogni angolo del mondo in poco tempo, e ciò dà all’uomo la possibilità di conoscere altre culture, ma dall’altra ci pone di fronte al problema di come gestire i rapporti tra le varie civiltà. Del resto, “l’altro” è già tra noi: l’incontro avviene per strada, nelle fabbriche, nei mercati e ci pone il problema 61 della nostra identità, perché l’incontro la destabilizza, nel momento in cui si delinea inevitabilmente il confronto con quella dell’altro. Il problema è come decidiamo di risolvere questo conflitto. Insomma, l’incontro con l’altro è inevitabile e conflittuale, ma anche positivo, perché ci arricchisce e soprattutto perché rappresenta l’unica alternativa veramente percorribile. Sono dell’opinione che l’unica modalità d’instaurare rapporti positivi e reciprocamente rispettosi con una diversa cultura sia quella di ascoltarla ed accettarla per quello che effettivamente è, e non per quello che noi vogliamo che sia. Spesso la nostra civiltà guarda gli altri e li valuta con le lenti deformanti dei nostri valori. Ascoltare l’altro ed entrare in sintonia con lui è l’unico atteggiamento che gli permette di essere se stesso e di esprimere la propria parola. In passato impostare i rapporti con la cultura all’insegna del dialogo è stato sempre sottovalutato: tale approccio oggi però diventa essenziale se vogliamo sopravvivere. Entrare in dialogo significa che entrambi esprimiamo un aspetto della verità, ma nessuno di noi due rappresenta la totalità della verità. Solo col dialogo possiamo liberarci dall’ossessione del possesso e della sicurezza, che ha tanto angustiato la cultura occidentale. Noi possiamo imparare molto dagli altri: in una cultura di parole e d’immagini come la nostra, riuscire a capire che esiste qualcosa che oltrepassa l’aspetto mentale è fondamentale. Proprio a proposito della necessità del dialogo come incontro fra culture è importante ricordare il film del 2012 Il figlio dell’altra, nel quale la regista francese Lorraine Lèvy parte da uno spunto di cronaca per raccontare un caso esemplare. Durante la visita per il servizio di leva nell’esercito israeliano, Joseph scopre di non essere il figlio biologico dei 62 suoi genitori, poiché appena nato è stato scambiato per errore con un bambino palestinese dei territori occupati della Cisgiordania. La rivelazione getta lo scompiglio tra le due famiglie, costringendo ognuno a interrogarsi sulle rispettive identità e convinzioni, nonché sul senso dell’ostilità che continua a dividere i due popoli. È un mondo di abitudini e di comportamenti che viene messo in crisi dallo scambio d’identità, portando i personaggi a riflettere su una vita che a volte sembra assolutamente “normale”, e altre volte appare in tutta la sua crudeltà e sofferenza. Questo film, attraverso una riflessione morale sul tema della tolleranza verso le diversità, sostiene l’importanza proprio delle ragioni del dialogo, dell’apertura all’altro come necessario presupposto al superamento dei contrasti e dei pregiudizi. Tutto ciò a conferma che l’incontro fra culture è una grande possibilità e una chance positiva. 63 Menzione d’onore PAOLO LIISTRO V A Istituto Tecnico per Geometri “Leonardo da Vinci” - Cesena USA: PAURA AL POTERE La tragica mattina dell’11 settembre 2001 quattro aerei di linea statunitensi furono dirottati e colpirono i simboli del potere economico e militare americano: le torri gemelle del World Trade Center di New York e la sede del ministero della Difesa, il Pentagono. L’attacco – rivendicato più volte dall’organizzazione terroristica di stampo islamico Al-Qaeda1 – causò più di 3000 vittime e centinaia di feriti. La reazione agli attacchi fu durissima. Il presidente americano George W. Bush attaccò militarmente l’Afghanistan a meno di un mese dall’attentato. Due anni più tardi, durante un discorso Bush individuò l’asse del male fra Corea del Nord, Iran ed Iraq: i paesi sospettati di possedere armi di distruzione di massa – e quindi di potersi alleare con i terroristi – entrarono nel mirino. Era iniziata la guerra al terrore. «Non esiste nessuna prova che Saddam Hussein sia stato coinvolto negli attentati dell’11 settembre»2. Queste le parole dello stesso presidente, che tuttavia nel 2003 dichiarò guerra all’Iraq con l’obiettivo di rovesciarne il leader Saddam, appunto. 1 Al Qaeda rivendica l’11 settembre. «L’alba della vittoria imminente», repubblica.it, 13 settembre 2011. 2 Nessuna prova del legame tra Saddam e le Torri, «Corriere della Sera», 18 settembre 2003. 65 Sebbene l’ex presidente affermasse che «la guerra contro il terrorismo è una guerra contro il male, non contro l’Islam»3, i provvedimenti presi dalla sua Amministrazione sono in netto contrasto con tale affermazione. Il sogno americano assunse i lineamenti di un incubo per i cittadini di fede musulmana o dai tratti somatici medioorientali come Changez, il protagonista de Il fondamentalista riluttante. George W. Bush ha fatto leva sulle paure di un popolo ferito. La politica improntata al militarismo ed alla difesa della Nazione ha causato infatti molti danni collaterali. Dalla visione del film Il fondamentalista riluttante – arricchita da documenti ed articoli – emerge che la vita di molti cittadini americani divenne più difficile dopo gli attacchi. Il gruppo etnico medio-orientale – in realtà ai più sconosciuto – venne presto stereotipato. È stato inoltre possibile aumentare i controlli sulle linee di comunicazione – che daranno vita allo scandalo NSA – ed aprire il campo di prigionia di Guantanamo, tristemente noto per le molteplici violazioni dei diritti umani subite dai detenuti, più volte condannate dall’ONU. L’attuale presidente Barack Obama, insediatosi nel 2009, dichiarò che dopo l’11 settembre l’Amministrazione Bush prese «decisioni affrettate e dettate dalla paura, pur motivata dal sincero desiderio di proteggere il popolo americano»4. Il nuovo corso avrebbe corretto gli errori del passato. O almeno si sperava. La cultura della paura ha alimentato l’intolleranza, il sospetto nei confronti degli stranieri. [...] Il principio secondo il quale si è ENNIO CARETTO, Bush: lottiamo contro il male non contro il mondo islamico, «Corriere della Sera», 29 settembre 2001. 4 PAOLO VALENTINO, Neo Realismo Americano, «Corriere della Sera», 24 settembre 2009. 3 66 innocenti fino a quando la colpevolezza non è dimostrata si è stemperato, se già non si è dissolto del tutto5. Sono passati pochi giorni dagli attacchi quando Changez, senza una reale motivazione, viene sottoposto ad un’umiliante perquisizione in aeroporto. A subire un simile trattamento – non nella finzione di un film, ma nella realtà – furono decine di americani colpevoli di avere origini medioorientali. Samar Kaukab, una giovane universitaria statunitense di origini pakistane, nel 2002 si trovava nell’aeroporto di Chicago O’Hare e indossava l’hijab, il velo che lascia scoperto solo il viso. Sebbene il metal detector non suonasse, le Guardie Nazionali la fermarono e la costrinsero a rimuovere il copricapo. Kaubab rimosse il suo hijab [in privato e in presenza di sole donne; ndr] e le Guardie [...] le sbottonarono la maglia, le toccarono i seni ed una delle perquisitrici le sbottonò i pantaloni. Quindi le mise una mano sotto ai pantaloni e le ispezionò il basso ventre6. La perquisizione non portò a nulla. Samar in seguito affermò indignata: «Continuavo a domandarmi cos’altro mi sarebbe potuto succedere; se volessero imprigionarmi o assoggettarmi ad ispezioni corporali»7. Prima degli attacchi dell’11 settembre la comunità musulmano-asiatica era pressoché sconosciuta alla maggior parte degli statunitensi. La prima conseguenza della guerra al terrore fu la stereotipizzazione di alcuni dei caratteri musulmani. 5 ZBIGNIEW BRZEZINSKI, La guerra al terrore ha snaturato gli Usa, «La Repubblica», 2007, trad. di ANNA BISSANTI. 6 ACLU of Illinois Challenges Ethnic and Religious Bias in Strip Search of Muslim Woman at O’Hare International Airport, aclu.org, 16 gennaio 2002. 7 Ivi. 67 Se qualcuno è nero ed ha certe caratteristiche somatiche, dev’essere musulmano, giusto? – scrive la giornalista americana Nadra Kareem Nittle – ecco perché tutti, dai Sikh ai messicani, sono stati vittime dell’odio anti-musulmano negli Stati Uniti8. Le conseguenze della morsa mediatica ricaddero anche sui bambini, come dice Fatma, una donna musulmana americana che al tempo dell’attacco aveva solo 5 anni: Siamo visti come anti-americani solo perché siamo musulmani. Ho perso il conto delle volte che a scuola i miei compagni mi accusavano di far parte di Al-Qaeda o di essere una terrorista9. La causa principale del successo della guerra al terrore va ricercata nella paura. Come scrive il politologo polacco Zbigniew Brzezinski, […] la paura obnubila la ragione, intensifica le emozioni e rende più facile per i politici demagogici mobilitare l’opinione pubblica nell’interesse delle politiche che si prefiggono di perseguire10. Ed infatti, «approvato dal Congresso USA 45 giorni dopo l’11 settembre 2001 con 98 voti contro 1»11, venne introdotto lo USA Patriot Act. Con la nuova legge i corpi di polizia e le principali agenzie di spionaggio statunitensi – quali CIA, FBI e NSA – videro aumentato il loro potere a scapito della privacy dei cittadini. Grazie al materiale fornito dall’extecnico della CIA Edward Snowden, nel 2013 vennero pubblicati sul quotidiano britannico «The Guardian» le prove di un’operazione di spionaggio internazionale ad opera del08 NADRA KAREEM, Nittle Religious Intolerance Is Making American Muslims Live in Fear, racerelations.about.com, 13 settembre 2010. 09 JOSEPH MAYTON, It Is Hard Emotionally To Be A Muslim In America, thedailybeast.com, 17 agosto 2013. 10 BRZEZINSKI, La guerra al terrore ha snaturato gli Usa, cit. 11 ENNIO CARETTO, Bush: «Il Patriot Act ci difenderà per sempre», «Corriere della Sera», 10 giugno 2005. 68 l’NSA12. James Bamford, un giornalista americano specializzato in materia, afferma che […] i documenti dettagliano una massiccia operazione finalizzata a tracciare ogni telefonata ogni giorno – miliardi di miliardi di dati privati – e un’altra operazione [Prism; ndr] per dirottare verso Fort Meade [sede del quartier generale della Nsa; ndr] le comunicazioni internet che entrano ed escono da Google, Apple, Yahoo e altri giganti della Rete13. La difesa della Casa Bianca, apparsa sul «Wall Street Journal», è la seguente: «Barack Obama ha saputo solo questa estate dello spionaggio ai danni dei 35 leader mondiali e, in quel momento, ha ordinato lo stop alle operazioni»14. La giustificazione è quantomeno sconcertante, «visto che l’Intelligence ha preso di mira personaggi con i quali Obama parla di frequente»15, «fra i quali la Merkel»16. Ulteriore conseguenza della guerra al terrore fu l’apertura – a soli quattro mesi dagli attacchi – del campo di prigionia di Guantanamo, a Cuba. Nel campo vengono detenuti ed interrogati i terroristi catturati in ogni parte del mondo. A partire dall’11 gennaio 2002 «779 persone sono state trasferite a Guantanamo e la maggior parte di esse è rimasta in detenzione senza accusa né processo»17 informa Amnesty International. 12 Usa, agenzia per la sicurezza sotto accusa: ‘spiate’ le telefonate di milioni di clienti, repubblica.it, 6 giugno 2013. 13 STEFANIA MAURIZI, Caso Snowden: cosa c’è in gioco, repubblica.it, 25 giugno 2013. 14 GUIDO OLIMPIO, Intercettazioni, in estate lo stop di Obama, «Corriere della Sera», 29 ottobre 2013. 15 Ivi. 16 La Nsa ha tracciato in Italia 46 milioni di dati in un mese, repubblica.it, 28 ottobre 2013. 17 AMNESTY INTERNATIONAL, Decimo anniversario di Guantánamo: fatti e cifre, amnesty.it, gennaio 2012. 69 Sei [detenuti; ndr] sono stati soggetti [...] a torture e altri trattamenti crudeli disumani e degradanti e a periodi d’isolamento durati anche quattro anni. Due di essi sono stati sottoposti al waterboarding18 una terribile forma di tortura. Va ricordato che quest’ultima è bandita dall’articolo 5 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che recita: «Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti». La Dichiarazione è sottoscritta dalle Nazioni Unite che nacquero proprio negli States, a San Francisco, nel 1945. Ancora una volta deludente l’atteggiamento di Barack Obama. Sebbene il primo giorno del suo insediamento il presidente americano, premio Nobel per la pace, s’impegnasse a far chiudere la struttura nel giro di un anno, il campo di prigionia è tuttora aperto e funzionante. Dura la condanna dell’ONU, che afferma che […] l’esistenza del carcere cubano [...] mette gravemente in dubbio la posizione degli Stati Uniti come difensore dei diritti umani e indebolisce il ruolo di Washington quando affronta temi di diritti umani in altre parti del mondo19. In conclusione, la documentazione dimostra che la risposta del governo americano – guidato da Bush – agli attacchi terroristici dell’11 settembre si è dimostrata non solo inefficace ma deleteria. La guerra al terrore, seppur involontariamente, ha permesso la discriminazione di una minoranza etnica negli Stati Uniti. Con l’arrivo di Obama sembrava che gli sbagli commessi potessero essere corretti. Così non è stato. Se non fosse esploso lo scandalo NSA, lo spionaggio Ivi. L’appello dell’Onu agli Stati Uniti: «Chiudete Guantanamo, viola i diritti», lastampa.it, 5 aprile 2013. 18 19 70 mondiale ad opera degli Stati Uniti sarebbe probabilmente ancora in corso; nel campo di Guantanamo avvengono tuttora orribili torture e la situazione non sembra destinata a cambiare. A mio modesto parere, lo scenario sopra descritto mal si addice ad un paese democratico. Se poi esso rappresenta una delle maggiori potenze economiche e militari al mondo, è proprio il caso di dire che non siamo in buone mani. 71 Centro Culturale “Campo della Stella” Eventi 2013-2014 Centro Culturale CAMPO DELLA STELLA per San Giovanni in collaborazione con VINCENT VAN GOGH, Esterno di caffè, di notte (1888), Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Müller - Stampa: Stilgraf Cesena ASSOCIAZIONE “PAOLA PIRACCINI” Poeti a San Giovanni Omaggio a NINO PEDRETTI poeta e narratore intervengono STEFANO MALDINI (poesia) e WALTER RAFFAELLI (narrativa) voce recitante ILARIO SIRRI conduce GIANFRANCO LAURETANO VENERDÌ 21 GIUGNO 2013 - ore 21,15 CESENA - Giardini pubblici Con il patrocinio del Comune di Cesena - Assessorato alla Cultura 75 con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Cesena Da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI e Francesco Interviene Arcivescovo di Ferrara-Comacchio GIOVEDÌ 7 NOVEMBRE 2013 - ore 21 Salone di Palazzo Ghini - CESENA 76 Centro Culturale “Campo della Stella” Andar per arte in compagnia Visita a Trento e Rovereto Venerdì 27 dicembre Ore 11.30 Visita guidata al Castello del Buonconsiglio a Trento Ore 16.00 Visita guidata al Muse, il nuovo Museo delle Scienze di Trento ideato da Renzo Piano Sabato 28 dicembre Ore 10.00 Visita guidata alla Mostra “Antonello da Messina” al Mart di Rovereto Ore 14.10 Visita guidata al Mart, il cui percorso di arte contemporanea è organizzato attualmente nella mostra “La magnifica ossessione” 77 Centro Culturale “CAMPO DELLA STELLA” MARC CHAGALL, Il figliol prodigo, Collezione privata, St. Paul de Vence, 1975-’76 In collaborazione con Con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Cesena M A T U R I T À 2 0 1 4 “INCONTRO ALL’«ALTRO»” I FILM Martedì 11 febbraio - ore 10,45 CESENA - CINEMA ASTRA Venerdì 7 marzo - ore 10,45 Il figlio dell’altra di LORRAINE LÈVY Il fondamentalista riluttante di MIRA NAIR (Francia 2012) (USA 2012) • I referenti delle scuole che aderiscono alle proiezioni (gratuite), dovranno far pervenire le adesioni entro il 5 febbraio 2014 on line ([email protected]) o telefonicamente (347 9683024), specificando il numero delle classi e degli alunni. Le adesioni verranno accolte fino ad esaurimento dei posti, rispettando l’ordine di iscrizione. • A tutti i partecipanti verrà data in omaggio una copia del libretto Personaggi e destino che raccoglie i testi della precedente edizione del ciclo “La memoria del Novecento”. IL CICLO STORICO-LETTERARIO CESENA - Sala “E. Cacciaguerra” della Banca di Cesena (viale G. Bovio, 76) Mercoledì 5 febbraio - ore 15 “Le primavere arabe a rischio d’inverno? Uno sguardo all’«altra» sponda del Mediterraneo” ANDREA CASPANI (direttore della rivista “Linea Tempo”) Mercoledì 12 febbraio - ore 15 “L’alterità nelle «Myricae» di Pascoli” ANDREA BATTISTINI Mercoledì 19 febbraio - ore 15 (Università di Bologna) “Il passaggio dalle idealità dell’Ottocento a quelle del Novecento in poesia. La vicenda esemplare di Clemente Rebora” GIANFRANCO LAURETANO (direttore delle riviste “ClanDestino” e “Graphie”) • Agli studenti partecipanti al corso verrà rilasciato un attestato di partecipazione. • Il corso, organizzato in collaborazione con DIESSE, agenzia di formazione riconosciuta dal MIUR, è riconosciuto valido anche ai fini dell’aggiornamento dei docenti. Concorso di scrittura: La memoria del Novecento • Gli studenti sono invitati alla redazione di un saggio breve (secondo le modalità dell’esame di Stato) sul tema “Incontro all’«altro»”. Premi ai tre vincitori: 1º classificato, € 400,00; 2º classificato, € 300,00; 3º classificato, € 200,00; alle scuole di appartenenza dei tre studenti vincitori andranno un TABLET ed una raccolta di film in DVD; inoltre verrà premiata la classe che avrà presentato il maggior numero di elaborati di qualità. 78 Famiggllie ppeperer l’Accogl Acc nz A coglienza La carità: arità:: via v della solidarietà. Dall’ospedale di Santa Maria della Scala a storie dei giorni nostri. Proiezione del video sugli affreschi del Pellegrinaio dell’Ospedale di Santa Maria della Scala di Siena curato dalla prof.ssa Mariella Carlotti. Video-collegamento con Antonino Masuri, responsabile del progetto AVSI V a Nairobi Scuola Secondaria “Cardinal Otunga”. presso il Centro di Servizi per il Volontariato olontar ASS.I.PRO.V V. via Serraglio 18 - Cesena VENERDÌ 14 MARZO ORE 21 le offfer erte saranno devolute a favore della Campagna Tende AVSI VS In collaborazione con: Centro Culturale Campo della Stella - Ass. Adamantina Ass.. Consultorio Consulto per la famiglia Don A.. Giorgini Gi - Ass.. P Papa Giovanni XXIII 79 INDICE Presentazione 5 ANDREA BATTISTINI L’alterità delle cose in Myricae di Giovanni Pascoli 7 GIANFRANCO LAURETANO Commento a Dall’immagine tesa di Clemente Rebora 27 ANDREA CASPANI Le primavere arabe a rischio d’inverno? Uno sguardo all’altra sponda del Mediterraneo 31 Concorso di scrittura (2014) “La memoria del Novecento” Incontro all’«altro» 47 Centro Culturale “Campo della Stella” Eventi 2013-2014 73 81 Finito di stampare nella Stilgraf di Cesena nel mese di maggio 2014