Quaderni Centro Culturale “Campo della Stella”

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Quaderni Centro Culturale “Campo della Stella”
Centro Culturale “Campo della Stella”
Quaderni
– 11 –
Incontro all’«altro»
Letteratura del secondo dopoguerra
a cura di Marino Mengozzi
EDITRICE STILGRAF
CESENA - 2014
Questo volume è stato pubblicato con il contributo di
In copertina:
MARC CHAGALL, Il figliol prodigo
(Collezione privata, St. Paul de Vence)
Il tradizionale ciclo dedicato all’ultimo anno delle scuole
superiori traguarda la sua trentunesima meta. E dunque, puntuale come di consueto, il Centro Culturale “Campo della
Stella” torna ad un appuntamento da molti anni atteso e
apprezzato, offrendo agli studenti l’opportunità di approfondire la preparazione all’esame di Stato e ai loro docenti l’occasione di aggiornamento: perseguendo una formula consolidata, ben navigata perché molto stimolante, che incrocia
proiezioni cinematografiche e lezioni frontali, in un intelligente connubio di linguaggi e comunicazioni.
Anche per questo «Quaderno» dobbiamo esprimere un sincero grazie alla Banca di Cesena, convinta al pari nostro dell’efficacia di una iniziativa espressamente rivolta ai giovani
impegnati in una fruttuosa stagione di studio; per tale ragione rinnoviamo il nostro grazie al Presidente, Valter Baraghini,
e al Direttore Generale, Giancarlo Petrini: un riscontro di
generosità (il loro) e di gratitudine (il nostro) che di questi
tempi non appare né scontato né formale.
Il concorso di scrittura saggistica vede premiati e stampati gli elaborati che hanno ben messo a frutto gli spunti di
riflessione offerti dal tema (“Incontro all’«altro»”) e dalle
proiezioni cinematografiche (Il figlio dell’altra di Lorrain
5
Lèvy e Il fondamentalista riluttante di Mira Nair): la risposta
alle consegne è di piena soddisfazione (come dimostrano anche le due menzioni d’onore che si aggiungono ai primi tre
classificati) e documenta la vivacità tanto della giovane generazione quanto della scuola e degli insegnanti; dunque una
buona notizia.
L’uscita del «Quaderno» 2014 conferma la vitalità del
nostro Centro Culturale e ne costituisce una tappa, crediamo,
significativa per noi e per il mondo della scuola cesenate: la
quale da sempre accompagna il nostro cammino e ne apprezza le iniziative. Noi, ancora una volta, abbiamo soltanto corrisposto alle consegne fondative.
Paola Ombretta Sternini
Presidente del Centro Culturale
“Campo della Stella”
6
ANDREA BATTISTINI
L’ALTERITÀ DELLE COSE IN MYRICAE
DI GIOVANNI PASCOLI
Senza dubbio Myricae è uno dei libri che fanno parte del
canone, ossia sono tra quelli che rientrano a pieno titolo nei
programmi scolastici. Eppure, se alcune poesie di questa raccolta, come Romagna, X Agosto, Arano, sono entrate nell’immaginario degli italiani perché spesso sono (o forse meglio
erano) anche imparate a memoria fin dalle scuole elementari, ben pochi, e forse nemmeno gli stessi insegnanti di letteratura italiana, possono dire di avere letto per intero il libro,
che nell’ultima edizione consta di 156 componimenti. La
sorte di Pascoli è stata dunque davvero singolare, perché da
una parte il suo nome è molto popolare grazie a qualcuno dei
suoi componimenti, ma dall’altra questa stessa popolarità ha
in definitiva oscurato il complesso della sua produzione, per
altro molto estesa. Non solo Myricae ha fatto trascurare gli
altri suoi libri di poesia, ma anche di questo testo se ne conosce solo una minima parte, costituita da pochi frammenti. Se
però si vuole intendere la sua poetica, ossia la concezione che
Pascoli aveva della poesia e del suo farsi, occorre considerarla nel suo insieme, andando a conoscere non solo le liriche
più familiari, ma anche quelle meno note, dove a volte le
idee del poeta appaiono in modo più diretto.
Se, per cominciare, si prende in considerazione il titolo
della raccolta, siamo indotti a credere che Myricae sia un
7
libro che parla di cose umili, quotidiane, domestiche. Il che
è senz’altro vero, ma Pascoli vuole andare molto oltre una
concezione semplicemente realistica delle cose. Certo, il titolo che gli è stato dato vuole indicare una realtà dimessa.
«Myricae» è la parola latina che corrisponde alla pianta delle
tamerici, e come è noto Pascoli la trae dai primi due versi
della IV ecloga di Virgilio, che dicono: «[…] paulo maiora
canamus. / Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae».
Pascoli toglie però la negazione e nell’esergo dell’edizione
del 1891, ossia nella citazione virgiliana che apre il volume,
scrive «Arbusta iuvant humilesque myricae». La ragione dunque del titolo, spiegata a un suo amico romagnolo, è che la
sua è una «poesia che si eleva poco da terra», sia perché le
tamerici sono un arbusto dai rami molto delicati e deboli,
che quindi si piegano a terra, sia perché «umile» è da intendere anche in senso etimologico e quindi, essendo derivato
da humus, significa qualcosa che sta molto vicino a terra, di
bassa condizione, semplice, modesto. E se Virgilio con la sua
frase dichiarava di volere innalzare il suo canto con argomenti più elevati perché non a tutti possono piacere le cose
umili come le tamerici, Pascoli afferma il contrario.
Questa allusione a Virgilio sarà persistente anche negli
altri libri di poesia: rimane ancora «Arbusta iuvant humilesque
myricae» nei Canti di Castelvecchio, molto affini per temi a
Myricae, tanto che lo stesso Pascoli li ha definiti le Myricae
autunnali; diventa «Paulo maiora» nei Poemetti e nei Nuovi
poemetti, dove evidentemente l’ambizione aumenta; torna a
essere fedele all’espressione virgiliana nei Poemi conviviali,
dove l’esergo è «Non omnes arbusta iuvant» e ritorna ancora
in Odi e inni con «Canamus». Se quindi nei componimenti
successivi Pascoli vuole alzare il tono, in Myricae sembra volersi accontentare di una realtà molto pedestre, in apparenza
senza “alterità”. Suoi argomenti sono lavandaie, contadini che
8
arano, gente che va a messa, animali domestici, fiori campestri. Ma non bisogna farsi ingannare da questa semplice linearità, perché dietro a questa realtà affiorano significati simbolici in continua trasformazione. Come ha scritto Cesare Garboli, uno dei più acuti e originali lettori di Pascoli, Myricae è
[…] libro d’incessanti metamorfosi e d’unità misteriosa, costruzione mai ferma dove i diversi stili s’intrecciano senza che nessuno di essi faccia prevalere sugli altri la propria impronta formale (simile a un tabernacolo di campagna che diventi nell’angolo del prato una pagoda )1.
Queste parole vogliono dire che Myricae nasconde sotto
la sua superficie frammentaria e di immediata ricezione una
sua unità strutturale dotata di mistero che trasfigura la realtà,
come se, nella fantasiosa analogia del critico, quello che sembra uno di quei frequenti e prevedibili tabernacoli sparsi
nelle campagne riveli in realtà una esotica pagoda orientale.
Del resto le «metamorfosi» di cui parla Garboli si riferiscono
anche ai continui ripensamenti che nell’ampliare il numero
delle poesie fanno anche mutare loro l’ordine della sequenza, con l’effetto di dare una “filosofia” e un senso diversi a
tutto l’insieme. Myricae infatti si può considerare il libro di
una intera vita, che accompagna Pascoli per più di venti anni.
La prima volta in cui tra le sue carte si rinviene il nome
«Myricae» risale al 1889 e già nel 1890, in occasione del
XXIII anno dell’assassinio del padre (avvenuto nel 1867),
sulla rivista «Vita Nuova» compare, datata 10 agosto, una
raccoltina di nove liriche con il titolo complessivo di Myricae. Da quel momento le edizioni si succedono con grande
rapidità. Nell’anno successivo le poesie si trasferiscono dalle
pagine della rivista a un autonomo opuscolo per le nozze di
1 C. GARBOLI, Cronologia, in G. PASCOLI, Poesie e prose scelte, a cura di
C. GARBOLI, Milano, Mondadori, 2002, I, p. 147.
9
un amico, Raffaello Marcovigi, aumentate di numero fino a
ventidue. Altre edizioni, sempre accresciute, appaiono nel
’92 (II ed.), nel ’94 (III), nel ’97 (IV), nel 1900 (V), nel 1903
(VI), nel 1905 (VII), nel 1908 (VIII) e nel 1911 (IX).
Nelle prime due edizioni la raccolta cominciava con la
poesia Gloria, nella quale Pascoli si equiparava a Belacqua, il
personaggio dantesco che con un sorriso ironico prende un
poco in giro il sommo poeta, fin troppo ansioso di percorrere il cammino di purificazione del Purgatorio, e insieme di
conquistare fama eterna con i suoi versi:
– Al santo monte non verrai, Belacqua? –
Io non verrò: l’andare in su che porta?
Lungi è la Gloria, e piedi e mani vuole;
e là non s’apre che al pregar la porta,
e qui star dietro il sasso a me non duole,
ed ascoltare le cicale al sole,
e le rane che gracidano, Acqua acqua 2!
Esordendo in questo modo, Pascoli, nel riprendere un
episodio della Commedia e nell’echeggiarne il lessico, vuole
contrapporsi a Dante, condannando la gloria come inutile.
L’alterità è soltanto letteraria, con la rinuncia ai grandi ideali e il ripiegamento sulle piccole cose. I suoi propositi sono
antifrastici rispetto al titolo del componimento, che non
rivela ancora nulla del senso del mistero e della missione
assegnata alla poesia, alla quale nella prosa del Fanciullino
sarà affidato il compito di far vedere all’umanità «tante cose
a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno
pensarle e ridirle» 3. Allora verrà il tempo di un’altra poesia,
La piccozza, dove invece il poeta smentisce il disimpegno e
si prefigge un compito:
2
G. PASCOLI, Myricae, in ID., Poesie, Milano, Mondadori, 1974, I, p. 67.
Il fanciullino, in ID., Poesie e prose scelte, cit., II, p. 942.
3 ID.,
10
Ascesi il monte senza lo strepito
delle compagne grida. Silenzio.
Ne’ cupi sconforti
non voce, che voci di morti 4.
A partire dalla III edizione di Myricae la poesia Gloria
non scompare, ma viene spostata all’interno del libro, nella
zona più appartata della sezione «Le gioie del poeta», mentre nel ruolo rilevato dell’esordio viene collocato Il giorno
dei morti, una lirica che con il tema mortuario, riepilogo del
lutto familiare, della solitudine dell’orfano, degli oscuri presagi, dialoga con l’aldilà, con l’altrove, orientando la lettura
dell’intero libro, che fin dall’inizio si segnala per il suo sperimentalismo inclusivo. In questa sede privilegiata il lettore è
accolto da un lessico mescidato, tanto culto e prezioso quanto popolare e quotidiano, abituandolo a ogni possibile innesto linguistico. Il registro più sostenuto, che i latinismi rendono aristocratico, si manifesta con «fumido», «procella»,
«roggia» (aggettivo), «singulto»; il livello più umile, di provenienza infantile e domestica o dai sintagmi più convenzionali, è attestato da «mamma», «figlioli», «grandicella», «povera bambina», «povera famiglia», «riccioli». La tradizione classicistica che vorrebbe la separazione degli stili è sbaragliata,
così come i lutti personali, benché gelosamente rivissuti,
acquistano una valenza cosmica.
L’ispirazione di Pascoli deriva dal suo dramma personale,
dal trauma autobiografico causato dall’assassinio del padre,
ma la poesia trasfigura una vicenda individuale in un’esperienza universale, archetipica. X Agosto ricorda fin dal titolo
il giorno in cui il poeta rimase orfano, e racconta il modo in
cui il padre fu ucciso. Nondimeno la pietas con cui si evoca
quel fatto rimanda anche a qualcosa di più grande, estendendosi all’intera umanità e richiamando l’episodio insonda4 ID.,
Odi e inni, in Poesie, cit., II, p. 721.
11
bile e misterioso della Passione di Cristo. La rondine alla
quale è paragonato il padre, ferita a morte dalla fucilata,
muore con le ali aperte, «come in croce», e dunque crocefissa come Gesù. E il fatto che cada «tra spini» potrebbe essere
«una allusione subliminale alla corona di spine portata da
Gesù Cristo nella sua passione» 5. Anche il perdono del padre
ai suoi carnefici («l’uccisero. Disse, Perdono», v. 14) va oltre
la vicenda di Ruggero Pascoli, perché è ciò che dice anche
Gesù («Pater, dimitte illis: non enim sciunt quid faciunt»,
Luca, 23, 34). Infine la perifrasi finale con cui la Terra è definita «atomo opaco del Male» (v. 24) allude a un mondo per
un verso insignificante nell’infinitezza dei cieli e per un altro
verso ottenebrato dal peccato, bisognoso della luce divina
della Redenzione. Intanto la natura partecipa del dolore
umano, in un virgiliano «sunt lacrimae rerum», in quanto
il fenomeno delle stelle cadenti occorrente nella notte di San
Lorenzo rappresenta il compianto funebre del cosmo per
tutte le creature che vengono a mancare e il dolore universale provocato dai delitti degli uomini.
Il paesaggio non è più sullo sfondo, ma diventa protagonista, innalzato a specchio delle inquietudini dell’animo. La
natura è il mezzo espressivo in grado di rappresentare i temi
altrimenti inesprimibili della morte, del tempo e sentimenti
come il dolore, le illusioni, i ricordi dell’infanzia. Non bisogna dimenticare che Pascoli è un poeta di campagna, che si è
sempre sentito per tutta la vita il figlio del fattore di villa
Torlonia, sempre desideroso di stabilirsi nei paesi simili alla
sua San Mauro e poco amante delle città, che considera luoghi di alienazione, di inquinamento, capaci di portare chi vi
abita alla depressione, perfino al suicidio. Nelle sue descrizioni si nota una stretta connessione della poesia con l’esperienza sensoriale, di cui Pascoli è consapevole, visto che nella
5
12
C. GARBOLI in G. PASCOLI, Poesie e prose scelte, cit., I, p. 1222.
conferenza Il sabato del villaggio, dedicata alla figura di Leopardi, scrive: «Vedere e udire: altro non deve il poeta» 6. Qui
i suoi versi sono paragonati a una lastra fotografica impressionata da un raggio di luce, che è una dichiarazione di realismo, di fedeltà assoluta agli oggetti. Al tempo stesso però
devono anche essere come il suono di un’arpa animata da un
soffio, a significare qualcosa di indefinito, di indistinto, che
va oltre la realtà immediata. Questi due aspetti convivono e
si integrano a vicenda in modo evidente in una poesia saffica intitolata Dopo l’acquazzone, che dunque presenta la stessa situazione della leopardiana Quiete dopo la tempesta:
Passò strosciando e sibilando il nero
nembo: or la chiesa squilla; il tetto, rosso,
luccica; un fresco odor dal cimitero
viene, di bosso.
Presso la chiesa; mentre la sua voce
tintinna, canta, a onde lunghe romba;
ruzza uno stuolo, ed alla grande croce
tornano a bomba.
Un vel di pioggia vela l’orizzonte;
ma il cimitero, sotto il ciel sereno,
placido olezza: va da monte a monte
l’arcobaleno 7.
Poiché si parla di un cimitero, sopraggiunge una nota
funebre e tetra, anche se accompagnata da quella più allegra
dei giochi infantili. A dominare sono però le impressioni sensibili, visive e olfattive, oltre che foniche. Da una parte ci
sono gli elementi cromatici del «nero / nembo» e del «tetto,
rosso», dall’altra la sensazione olfattiva di «un fresco odor
dal cimitero» che «placido olezza». In più, con echi fonosim6 G. PASCOLI, Il sabato del villaggio (1896), in ID., Poesie e prose scelte,
cit., p. 1115.
7 ID., Myricae, cit., p. 96.
13
bolici, c’è il temporale che passa «strosciando e sibilando» e
c’è la campana della chiesa la cui «voce / tintinna, canta, a
onde lunghe romba». Mentre Leopardi aggiunge alla scena
campestre che segue un temporale una meditazione («Piacer
figlio d’affanno»…), Pascoli rinuncia alla spiegazione, giostrando tra l’impersonalità verista, che si traduce nella precisione minuta dei dettagli, e l’impressionismo simbolista, che
richiama tacitamente tanto l’affanno e il dolore, evocati in
lontananza dal sibilo pauroso del «nero / nembo» – con
«nero» che rima con «cimitero» – e del «vel di pioggia» all’orizzonte, quanto la sopraggiunta quiete suggerita dal «fresco
odor di bosso» e dal colore dell’«arcobaleno», in rappresentanza del cielo ritornato «sereno». La sintassi, dal canto suo,
registra puntualmente l’affollarsi delle sensazioni, adeguandosi alla loro giustapposizione con un ritmo spezzato dai
numerosi punti e virgola.
Questo doppio atteggiamento, di guardare con esattezza
alle cose per ricavarne delle suggestioni che vadano oltre la
loro semplice registrazione, risponde a un consapevole proposito di poetica. Nella lettera di dedica che apre la prima
edizione a stampa di Myricae, datata 22 luglio 1891, Pascoli
si era appunto augurato di potere «saziar gli occhi miei delle
cose belle, e significarne altrui» 8. L’appagamento della vista,
alla quale si potrebbero aggiungere anche le percezioni uditive e olfattive, stabilisce un rapporto sensibile e diretto con
la realtà circostante, della quale però il poeta deve cogliere il
significato più prezioso e autentico da trasmettere ai suoi lettori. Perfino l’oggetto più domestico e umile può acquistare,
nelle parole del poeta, lo stesso valore e la stessa intensità di
qualsiasi altra componente, fosse anche la più nobile. È ciò
che Pascoli sostiene nella poesia Contrasto, che in Myricae fa
parte della sezione delle «Gioie del poeta»:
8
14
G. PASCOLI, Poesie e prose scelte, cit., I, p. 705.
I
Io prendo un po’ di silice e di quarzo:
lo fondo; aspiro; e soffio poi di lena:
ve’ la fïala, come un dì di marzo,
azzurra e grigia, torbida e serena!
Un cielo io faccio con un po’ di rena
e un po’ di fiato. Ammira: io son l’artista.
II
Io vo per via guardando e riguardando,
solo, soletto, muto, a capo chino:
prendo un sasso, tra mille, a quando a quando
lo netto, arroto, taglio, lustro, affino;
chi mi sia, non importa: ecco un rubino;
vedi un topazio; prendi un’ametista 9.
Il poeta dunque è un alchimista che trasfigura la realtà,
traendone segnali provenienti dalla sostanza nascosta delle
cose. Converte la silice e dal quarzo, materia vile e opaca,
trae il vetro traslucido, destinato a custodire balsami preziosi. Nell’umile e volgare sasso si cela un rubino, o un topazio,
tesori nascosti alla gente comune. Il linguaggio poetico, che
i linguisti definiscono connotativo, consiste proprio in questo: nel sapere avvolgere le parole di un alone semantico che
le arricchiscono aggiungendo al loro significato di base risonanze, suggestioni, sfumature, allusioni affettive, evocazioni
indefinite.
È nota la bonaria censura di Pascoli al verso del Sabato
del villaggio in cui Leopardi immagina la «donzelletta» recare in mano «un mazzolin di rose e di viole», in quanto, essendo fiori di due mesi diversi, non possono essere còlti insieme 10. Evidentemente per Pascoli la poesia deve possedere la
massima esattezza, marcando gli oggetti con la fedeltà di una
09 ID.,
10 ID,
Myricae, cit., p. 67.
Il sabato del villaggio, cit., p. 1115.
15
realistica evidenza individuale che deve rinunciare alle convenzioni letterarie, discendenti nel caso di Leopardi da una
lontana tradizione bucolica. Al tempo stesso però la poesia
non è mai esente da inquietudini simboliche che collocano
gli oggetti all’interno di una totalità cosmica, in linea con la
poetica del Simbolismo e con uno sguardo impressionistico.
Il lessico di Pascoli è quello contadino, privo di astrazioni
concettualizzanti e attento alla visione diretta delle cose, ma
non manca di assegnare un valore simbolico alla loro denominazione, in un percorso che si muove dalla precisione alla
indeterminazione. Non sono rare le liriche in cui i contorni
dapprima molto netti delle descrizioni tendono a sfumare e
ad accentuare l’indeterminatezza fino a diventare impalpabili e rarefatti, fino a evocare il mistero e l’arcano.
In questo senso è interessante mettere a confronto due
versioni successive di una quartina della poesia La civetta,
per mostrare come il testo, che dapprima aveva più elementi concreti, rappresentati dal «prato» e dalla «civetta», nella
stesura finale perda ogni traccia di consistenza fisica. In un
primo tempo Pascoli aveva scritto:
Sul chiaro prato, cui trasvolò bruna
orma dall’alto.
Era una civetta dal volo
d’occhi silenzioso.
Successivamente questi versi diventano:
orma sognata d’un volar di piume,
orma d’un soffio molle di velluto,
che passò l’ombre e scivolò nel lume
pallido e muto 11.
A questo punto, nella versione definitiva, ciò di cui si
parla è scomparso, e rimangono soltanto delle apposizioni
11
16
G. PASCOLI, Myricae, cit., I, p. 46.
(«orma sognata…»; «orma d’un soffio…») che definiscono in
assenza la civetta, sostituita dall’anafora che fa subentrare
alla sua designazione diretta la sua ombra, facendo del volatile una semplice traccia, un’impronta labile e trasparente, un
fantasma, dal momento che l’«orma» è «sognata». Nemmeno
la luna è nominata, anche se è in cielo, indicata con una
sineddoche dell’effetto per la causa, essendo il «lume / pallido e muto» prodotto dal suo tenue chiarore. L’uccello notturno fa pensare anche a qualcosa d’altro che rimanda a
un’altra dimensione, pur essendo precisato con esattezza e
fedeltà nella sua natura, perché, in quanto predatore, non
deve fare rumore e quindi la sua presenza è suggerita da «un
soffio molle di velluto», ossia dal lieve fruscio del suo battito di ali, reso con una sinestesia, di tipo acustico («soffio») e
insieme tattile («molle»), immerso nel buio di una percezione ottica («ombre») e nel silenzio («muto»). In questo modo
però la quartina citata non è più solo la descrizione del volo
notturno di una civetta, ma evoca la morte, che arriva silenziosa e ghermisce quando uno meno se l’aspetta. L’impressione è quindi angosciante, si proietta in un aldilà che perde
i suoi contorni, rendendoli indeterminati. Per non essere mai
nominata se non nel titolo, la civetta smarrisce i suoi connotati e si configura come «un’oscura minaccia, vieppiù terribile quanto meno determinato è il suo contenuto» 12.
In questo caso il confronto è per così dire interno a
Pascoli, nel senso che le varianti ci fanno vedere l’accentuazione progressiva verso l’altrove e l’indeterminato, ma la
stessa tendenza, ancora più accentuata, si può verificare con
un confronto per così dire esterno, ossia analizzando come la
12 Un esame della poesia La civetta è condotto da S. GIOVANARDI, «Myricae»
di Giovanni Pascoli, in Letteratura italiana, diretta da A. ASOR ROSA, Le opere,
vol. III: Dall’Ottocento al Novecento, Torino, Einaudi, 1995, pp. 1066-1090,
dove la citazione è a p. 1079.
17
poesia di Pascoli prenda le distanze dai poeti che gli sono
familiari. In realtà i suoi autori di riferimento non sono tantissimi. Già si è detto di Virgilio, di Dante e di Leopardi, di
cui ha parlato anche in veste di critico letterario, dedicando
loro dei saggi. Pascoli conosceva anche i classici greci e latini, e gli scrittori dell’Ottocento, soprattutto francesi, come
Hugo e Gautier, oltre a Manzoni. Non aveva però l’estensione
e soprattutto l’erudizione di Carducci, le cui conoscenze e le
cui fonti spaziavano dal Medioevo al Rinascimento, fino al
Settecento dell’Arcadia e di Parini. D’altra parte in più di
un’occasione Pascoli ebbe a rivendicare la sua assoluta autonomia da modelli antecedenti. In effetti la sua è una poesia molto
personale, anomala nelle soluzioni metriche e per contenuti
legata alle sue ossessioni private. È pur vero che negli esordi si
mostrò vicino al modo di poetare dell’amico Severino Ferrari,
e che da D’Annunzio, verso cui ebbe sempre un complesso
d’inferiorità, trasse qualche eco desunto soprattutto dal Poema
paradisiaco. Non poté nemmeno evitare di essere suggestionato dal suo maestro Carducci, dalle cui proposte metriche, specie di quelle delle Rime nuove, ricavò qualche insegnamento.
In tutti i casi, egli seppe però personalizzare al massimo le sue
fonti 13. Ciò che più colpisce in Pascoli è la sua «prodigiosa
memoria poetica che lo portava a riplasmare tutto il materiale
che gli veniva fornito da una lettura di tipo immaginativo anziché critico» 14, tanto che Gianfranco Contini ha potuto definirlo un «rivoluzionario nella tradizione» 15.
Anche quando riprende uno stesso tema topico, già
affrontato da altri poeti, Pascoli lo rivive alla luce della pro13 Su «modelli e fonti» di Pascoli si rinvia ancora a S. GIOVANARDI,
«Myricae» di Giovanni Pascoli, cit., pp. 1080-1084, che qui si è ripreso.
14 G. NAVA, Introduzione a G. PASCOLI, Myricae, a cura di G. NAVA, Roma,
Salerno Editrice, 19912, p. XXII.
15 G. CONTINI, Il linguaggio di Pascoli (1958), in G. PASCOLI, Poesie, cit.,
p. XXXIV.
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pria visione del mondo e della propria poetica, proiettandolo su un’alterità assente nel suo modello. Un esempio molto
chiaro di questo procedimento è costituito dal sonetto Il bove,
che va letto tenendo in controluce l’omonima, e più nota,
poesia di Carducci. La perfetta identità del titolo, del tema e
del metro serve a fare meglio risaltare l’originalità di Pascoli,
che scorpora la concretezza della situazione di partenza, interiorizzandola e facendo convivere la precisione della scena
che predomina in Carducci con la dissoluzione della tecnica
descrittiva della fonte, producendo nella storia di questo
topos una svolta stilistica:
CARDUCCI
T’amo, o pio bove; e mite un sentimento
di vigore e di pace al cor m’infondi,
o che solenne come un monumento
tu guardi i campi liberi e fecondi,
o che al giogo inchinandoti contento
l’agil opra de l’uom grave secondi:
ei t’esorta e ti punge, e tu co ’l lento
giro de’ pazïenti occhi rispondi.
Da la larga narice umida e nera
fuma il tuo spirto, e come un inno lieto
il mugghio nel sereno aër si perde;
e del grave occhio glauco entro l’austera
dolcezza si rispecchia ampio e quïeto
il divino del pian silenzio verde 16.
PASCOLI
Al rio sottile, di tra vaghe brume,
guarda il bove, coi grandi occhi: nel piano
che fugge, a un mare sempre più lontano
migrano l’acque d’un ceruleo fiume;
16 G. CARDUCCI, Il bove, in Rime nuove, in Poesie, Bologna, Bononia
University Press, 2007, p. 552.
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ingigantisce agli occhi suoi, nel lume
pulverulento, il salice e l’ontano;
svaria su l’erbe un gregge a mano a mano,
e par la mandra dell’antico nume:
ampie ali aprono imagini grifagne
nell’aria; vanno tacite chimere,
simili a nubi, per il ciel profondo;
il sole immenso, dietro le montagne
cala, altissime: crescono già, nere,
l’ombre più grandi d’un più grande mondo 17.
La poesia di Carducci è togata, solenne, impettita. Il bove
è imponente, ieratico, statico, l’immagine è salda, “monumentale”, e infatti è detto «solenne come un monumento».
Negli aggettivi circola una sacralità visibile in «pio», «grave»,
«lento», «austero». Ne deriva un’idea di serenità, di quiete, di
pace, di armonia classica o classicistica che si coglie nei sintagmi chiamati epitheta ornantia dalla retorica greco-romana, in quanto l’aggettivo, propriamente non necessario per il
senso, svolge una funzione ornamentale nobilitando il rispettivo sostantivo: «agil opra», «uom grave», «lento / giro», «pazïenti occhi», «larga narice», «inno lieto», «sereno aër». Altre
caratteristiche della tradizione lirica che risale a Petrarca
sono l’iterazione sinonimica («t’esorta e ti punge») e le dittologie («di vigore e di pace», «liberi e fecondi», «umida e
nera», «ampio e quieto»). Nell’àmbito delle figure retoriche
spiccano quelle per ordinem, nate da spostamenti delle parole rispetto alla loro normale disposizione sintattica. È anche
questo un procedimento tipico delle poetiche classicistiche
(si pensi a Parini o a Foscolo), coltivato perché imita l’andamento del latino che, avendo i casi (nominativo, genitivo,
dativo, ecc.), può permettersi molta più libertà dell’italiano
nel disporre le parole. Ecco allora, in Carducci, le anastrofi
17
20
G. PASCOLI, Myricae, cit., pp. 88-89.
(«mite un sentimento», «al giogo inchinandoti», «fuma il tuo
spirto»…) e gli iperbati («solenne come un monumento tu
guardi»; «tu co ’l lento / giro de’ pazienti occhi rispondi», «il
mugghio nel sereno aër si perde»…). Anche la sinestesia che
ha reso famoso questo sonetto, ossia la doppia percezione
acustica e insieme visiva che nasce nell’accostamento di
«silenzio verde», è in realtà prodotta da un doppio iperbato,
in quanto è questa figura retorica che interviene a modificare la più normale costruzione sintattica, che propriamente
sarebbe «il divino silenzio del verde piano».
La prospettiva di Pascoli è molto diversa. Intanto, mentre
in Carducci il punto di vista è quello del poeta, che esordisce
subito con un verbo alla prima persona, rendendolo protagonista assoluto, in Myricae lo sguardo è straniante, perché
tutto è visto con l’occhio del bove, che ingigantisce ogni
cosa, trasformando il fiume in mare, il «salice e l’ontano» in
giganti, i passeri in esseri mostruosi. Da una parte le competenze scientifiche di Pascoli, che per certi versi fanno sì che
la sua cultura risenta del positivismo, gli insegnavano che il
bue vede immagini molto più grandi di quelle dell’uomo, ma
dall’altra parte questa nozione viene ad accordarsi con la sua
poetica del fanciullino, secondo cui il poeta, come il fanciullo, ingrandisce le cose piccole, oltre che rimpicciolire quelle
grandi. In questo modo le prospettive sono rivoluzionate e le
immagini disarticolate, grazie anche all’andamento della sintassi, ricca di incisi che spezzano il ritmo della frase. Ma
soprattutto colpisce la presenza di immagini indistinte, a
cominciare dai colori, che in Carducci sono precisi e netti
(«narice […] nera», «occhio glauco», «pian […] verde»), mentre in Pascoli sono volutamente imprecisi: le «brume» sono,
con un aggettivo molto amato anche da Leopardi, «vaghe», il
«lume» è «pulverulento», le macchie di un gregge che risalta
sull’erba di un prato «svariano», a formare un paesaggio screziato. Il quadro che si crea non ha più la staticità del ritratto
21
carducciano, ma si dinamizza. Non solo il gregge «svaria»,
cioè si muove qua e là, ma agli occhi del bove lo scorrere del
ruscello sembra che sia il piano a fuggire, mentre le acque di
un fiume «migrano» e in cielo «vanno tacite chimere».
Propriamente Pascoli, scrivendo «vanno tacite chimere»,
si riferisce ai passeri, che però si trasfigurano e diventano
immagini misteriose, inquietanti, «grifagne», simili a mostri
mitologici dalle «ampie ali», dotate di un’estensione moltiplicata dall’allitterazione della /a/, che è la più aperta delle
vocali. La descrizione del paesaggio non è più mimetica, ma
interiorizzata. Anche in questo sonetto i dati sensibili del
«rio», del «bove», del «gregge» smarriscono i loro profili reali
e si fanno impalpabili: il ruscello sfuma tra le «brume», del
bue rimane soltanto il particolare degli «occhi», il «mare»
appare «sempre più lontano», la luce piena di pulviscolo ingigantisce gli alberi. La realtà diventa sconfinata: il cielo è
«profondo», il sole «immenso», le montagne «altissime», in
un continuo intreccio e scambio di realtà e irrealtà, vicinanza e lontananza, determinazione e indeterminazione, con i
superlativi che conferiscono alle cose un valore assoluto.
Anche la chiusa del sonetto, evocando le «ombre» inquietanti e dilatandole a dimensioni che le rendono «più grandi d’un
più grande mondo», non potrebbe essere più antitetica al
gusto carducciano, che invece termina la sua poesia con la
quiete di una pianura solare e verdeggiante.
Le sensazioni oscure di mistero sono rese con tecniche
che le rendono inconfondibili e inequivocabilmente pascoliane. Tale è la consuetudine di ricorrere ad aggettivi cromatici che, attraverso una loro sostantivazione, distolgono dalla
concretezza degli oggetti e delle cose rendendole indefinite,
facendo sì che a ogni colore viene sempre a corrispondere
un’eco o un’ombra nel cuore. Si può prendere come esempio
L’assiuolo:
22
Dov’era la luna? ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù,
veniva una voce dai campi:
chiù...
Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù...
Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento;
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?...);
e c’era quel pianto di morte...
chiù... 18.
Al verso 6 Pascoli, invece di dire che i lampi giungevano
da un punto del cielo in cui comparivano “nubi nere”, converte questa banale espressione in «venivano […] da un nero
di nubi», sostantivando cioè l’aggettivo «nero». La formula
attirò dapprima l’attenzione di Pasolini 19, e poi di Contini,
per il quale con questo procedimento «è estratta la qualità e
i sostantivi servono soltanto a determinare, come se essi fos18
G. PASCOLI, Myricae, cit., pp. 94-95.
P. P. PASOLINI, La lingua della poesia (1956), in Passione e ideologia,
Milano, Garzanti, 1973, pp. 277-278.
19
23
sero gli epiteti, la qualità fondamentale» 20. La conseguenza è
che gli oggetti si scorporano in colori, si smaterializzano
risultando pura sensazione. Questa forma di impressionismo,
che lascia spazio a suggestioni indistinte oltrepassanti la pura
realtà, è una peculiarità di Pascoli, per il quale in Sirena «le
case nel grigio traspaiono appena», nella Tovaglia i morti «si
fermano seduti / la notte intorno a quel bianco»; nella Cavalla storna i cavalli nella stalla sognano «il bianco della strada»
e nel Ritratto si vede «il nero di monti e di foreste» 21.
Ne L’assiuolo ci sono i campi, le fratte, il mandorlo, il
melo, le stelle, le cavallette, ma tutti questi elementi sono
dislocati in una lontananza che pare infinita: «laggiù» (v. 6),
«lontano» (v. 15), un altro vocabolo che per Leopardi era di
per sé molto poetico. E la lontananza è al tempo stesso spaziale, temporale e metafisica. Ad acuirla sono i colori, diafani e indistinti. Già si è detto del «nero di nubi», ma sullo stesso registro sono anche l’«alba di perla» e la «nebbia di latte».
Anche i suoni sono misteriosi. Le cavallette con le elitre
generano un fruscio simile a quello prodotto dai sistri, gli
strumenti musicali degli antichi egizi che, essendo impiegati
per celebrare culti misterici, apportano una connotazione di
esotismo e di religiosità.
Il «sospiro di vento» personifica la natura, come già la
visione del mandorlo e del melo che sembrano ergersi, protendersi in alto per vedere meglio la luna. Lo stesso verso
dell’assiuolo, essendo una «voce», e poi un «singulto», viene
umanizzato, come pure il suo «pianto», in una sequenza che
forma una climax. L’uccello dunque non si vede, se ne sente
20
G. CONTINI, Il linguaggio di Pascoli, cit., p. LIV.
Sirena si legge in G. PASCOLI, Myricae, cit., p. 133. Le altre poesie appartengono ai Canti di Castelvecchio: La tovaglia in Poesie, cit., pp. 564-565;
La cavalla storna, ivi, pp. 659-662 (e anche Commiato, ivi, pp. 678-679 finisce allo stesso modo: «Non c’era avanti me, che il bianco / della silenziosa strada»); Ritratto, ivi, pp. 654-658.
21
24
soltanto un suono lamentoso, su uno sfondo vago e incerto,
misterioso. Tutte e tre le strofe esordiscono con un qualche
bagliore che però scompare o si attenua. Oltretutto nella
prima la luna c’è e non c’è, è da presumere che sia nascosta
dalle nuvole, riproducendo la situazione che fece dire a
Virgilio «ibant obscuri […] per incertam lunam» 22; essa viene
nominata, ma in forma interrogativa, facendo presagire con
il dubbio una ambivalenza che non ha risposta, in modo che
sul reale si insinua l’irreale. Come al principio, anche alla
fine un’interrogativa crea una nota di sospensione, di tensione, di mistero. L’assiuolo, con la sua voce lugubre, funge da
intermediario tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti,
recando una angosciante premonizione di morte. Il dolore
che pareva placato dal pur fievole bagliore delle stelle e dalla
cantilena dello sciabordio del mare risorge per il lamento
funebre dell’assiuolo che, per onomatopea, è anche chiamato volgarmente chiù.
Massima rilevanza è accordata al significante, non solo
con l’onomatopea che sigilla ogni strofa e con l’indeterminato «fru fru tra le fratte», un rumore di cui non si sa chi sia a
produrlo, ma anche e soprattutto per gli insistiti legami fonici che risultano perfino ancora più forti dei legami logici. Le
parole, oltre che da insistite anafore («venivano»-«veniva»;
«sentivo … sentivo … sentivo»), sono concatenate da nessi
allitterativi: «la luna», «cielo-alba-perla», «mandorlo»-«melo», «vederla»-«lampo», «nero»-«nubi», «veniva»-«voce»,
«cullare»-«mare», «sonava»-«singulto», «tutte»-«vette», «finissimi»-«sistri», «tintinni»-«invisibili». A integrazione interviene un calcolato ritorno delle vocali toniche («notàva in un’àlba»; «parévano a méglio vedérla»; «le stélle lucévano»; «sonàva lontàno» «su tùtte le lùcide»; «finìssimi sìstri»). Come
ha scritto ancora Cesare Garboli, per il quale «il segreto de
22
VIRGILIO, Eneide,
VI,
vv. 268-270.
25
L’assiuolo è soprattutto musicale», in questa poesia «ogni
parola è una nota, e ogni legame tra i periodi un accordo di
pianoforte» 23.
Come sempre succede quando si ha dinanzi la grande letteratura, ciò che non è detto è molto più importante di ciò
che è detto. Dietro i versi di Pascoli si nasconde una rete di
significati, echi, risonanze che conducono il lettore molto
oltre la lettera del testo. Lo sapeva bene lo stesso poeta, il
quale proprio a proposito de L’assiuolo, dopo avere tentato
una parafrasi in prosa della poesia, aggiunse una nota: «Sì:
ma allora non è più la poesia, ma la spieg[azione] della poesia. Ci vuole abnegazione. Esempio: tintinni a invisibili
porte» 24. Questo enunciato, che può valere non solo per questa poesia, non solo per quasi tutto Pascoli, ma anche per
tutti i massimi autori, significa che in poesia ciò che conta di
più è ciò che va “oltre” e che è “altrove”, che affonda nei
misteri insondabili, che si avvolge nell’enigma, per l’indissociabilità, soprattutto nel nostro tempo, di poesia e oscurità,
di linguaggio diretto e linguaggio cifrato.
23
24
26
C. GARBOLI in G. PASCOLI, Poesie e prose scelte, cit., I, p. 1228.
Ivi, p. 1229.
GIANFRANCO LAURETANO
COMMENTO A DALL’IMMAGINE TESA
DI CLEMENTE REBORA
s
U
Clemente Rebora (1885-1957) è conosciuto, come poeta,
soprattutto per la sua prima stagione, quella legata all’ambiente della rivista fiorentina «La Voce» di Prezzolini, che fu
suo mentore e scopritore: nella collana de “La biblioteca
della Voce” venne infatti pubblicata la prima raccolta poetica di Rebora, i Frammenti lirici del 1913.
Chi conosce un po’ meglio le vicende biografiche dell’autore, sa anche che dopo la crisi sovvenuta durante la prima
guerra mondiale e i successivi anni Venti egli aderì alla fede
cattolica, da mazziniano e laico che era, fino ad entrare nell’Ordine fondato dal grande filosofo e teologo Antonio
Rosmini. E tradizionalmente l’intera opera di Rebora è considerata divisa in due epoche, prima e dopo la conversione;
anche se ad uno sguardo più attento proprio alle sue poesie
si nota un processo molto più lineare, senza eccessiva soluzione di continuità. Comunque la raccolta cronologicamente
centrale s’intitola Canti anonimi e, pubblicata nel 1922, reca
la testimonianza poetica dell’attesa e del cambiamento ideale del poeta. Un cambiamento che si riflette anche a livello
stilistico: la poesia di Rebora, improntata a decisi moduli
dannunziani nei Frammenti lirici, procede ora verso una
maggiore semplicità e chiarificazione e modernità dello stile.
I Canti anonimi si chiudono con la poesia probabilmente
più celebre e commentata di Clemente Rebora: Dall’immagi27
e
d
t
s
L
ne tesa. Essa è un capolavoro di ritmo, di immagini e di
suoni. Mantiene un clima etereo, quasi intangibile: di cosa
parla effettivamente? Il motivo che l’ha originata lo conosciamo, lo rivela l’autore stesso in tarda età: «Aspettavo una
ragazza» dirà con nonchalance quasi infantile. E quella ragazza è Lydia Natus, la musicista russa con cui Rebora convisse
a Milano in via Tadino dal 1914 al 1919, e immaginiamo la
trepidazione dell’amante che attende nel nido d’amore. Ma
questa evenienza è stata cancellata, secondo un dispositivo
tipico del metodo compositivo di Rebora, che supera la circostanza concreta da cui tutto è iniziato per rendere assoluto il testo. Così Dall’immagine tesa diventa una poesia sull’attesa tout-court, sullo stato di attesa che contraddistingue
il cuore più vero di ogni uomo.
Anche ritmicamente la poesia è divisa in due parti; nella
prima, più lenta, il tema è l’attesa stessa: l’uomo è tutto teso
per essa, sebbene ne rimanga indefinita la risposta, come indica l’espressione, ripresa più volte, «e non aspetto nessuno»:
Dall’immagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
L’immagine tesa è la figura dell’uomo che attende, il suo
volto. È l’immagine di un uomo tutto proteso a chi deve venire «con imminenza», cioè con la certezza di una prossima,
inevitabile presenza. Si noti la bellezza della descrizione, «il
28
polline di suono» del campanello, le «mura / stupefatte di spazio», l’intensa originalità di tutta la rappresentazione. Tipico
di Rebora è il sapiente, geniale uso delle figure retoriche:
«nell’ombra accesa» è un ossimoro, che esprime la tensione a
far convergere in un solo punto, quello dell’attesa, gli opposti. Metafore e sinestesie accentuano lo stupore per il dilatarsi dello spazio perfino al chiuso, dove pare che le mura
stesse si stupiscano di quello stesso spazio. «E non aspetto
nessuno», ripete tre volte. Cioè non sa chi sta aspettando; il
volto di chi aspetta è misterioso, ma c’è.
Nella seconda parte avviene una brusca accelerazione del
ritmo e del significato, data dalla certezza dell’avvento che si
attende e resa attraverso la ripetizione martellante del verbo
venire (ripreso ben sette volte, di cui sei nella forma al futuro). In un’ideale lettura ad alta voce anche la velocità del lettore dovrebbe aumentare:
ma deve venire;
verrà, se resisto,
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.
Da una parte si vede la certezza di questo avvento, nel «deve» che riporta quasi un imperativo categorico, un fatto ineluttabile. Dall’altra parte questa venuta è discreta, di chi non si
impone ma, al massimo, propone, come dice espressamente
l’ultima parola della poesia. Senza un progetto, una consequenzialità logica, anzi sbaragliando le immagini possibili, nel per29
donare e in quella rima, «tesoro/ristoro» che è estremamente
significativa, come tutte le rime, non sempre regolari, del testo:
«tesa/attesa/accesa»; «istante/spande»; «deserto/avverto/certo»;
«venire/morire»; «resisto/non visto»; «pene/viene».
Che l’atteso non sia più una donna, lo notiamo dal volgersi al maschile dell’oggetto dell’attesa: «a sbocciare non
visto». E questo avvento sarà discreto, quasi invisibile, un
bisbiglio che lenirà, ristorerà le pene e, addirittura, perdonerà «quanto fa morire». È l’avvento di Dio, ne ha tutte le
caratteristiche. In un’altra testimonianza successiva, il poeta
confesserà che durante la composizione di questa poesia
aveva in mente un brano ben preciso del terzo capitolo
dell’Apocalisse di Giovanni:
All’angelo della Chiesa di Laodicea scrivi: Queste cose dice
l’Amen, il testimone fedele e veritiero, il principio della creazione di Dio: Io conosco le tue opere: tu non sei né freddo né fervente. Oh, fossi tu pur freddo o fervente! Così, perché sei tiepido e non sei né freddo né fervente, io ti vomiterò dalla mia
bocca. Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno
di niente!». Tu non sai, invece, che sei infelice fra tutti, miserabile, povero, cieco e nudo. Perciò io ti consiglio di comperare da
me dell’oro purificato dal fuoco, per arricchirti; e delle vesti
bianche per vestirti e perché non appaia la vergogna della tua
nudità; e del collirio per ungerti gli occhi e vedere. Tutti quelli
che amo, io li riprendo e li correggo; sii dunque zelante e ravvediti. Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia
voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con
me. Chi vince lo farò sedere presso di me sul mio trono, come
anch’io ho vinto e mi sono seduto con il Padre mio sul suo trono.
Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.
Importante, in questo caso, è soprattutto la frase: «Ecco, io
sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la
porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me». Ecco,
quella porta ad un certo punto della vita di Rebora si è aperta.
30
ANDREA CASPANI
LE PRIMAVERE ARABE A RISCHIO D’INVERNO?
UNO SGUARDO ALL’ALTRA SPONDA
DEL MEDITERRANEO
s
U
Questa breve presentazione delle primavere arabe e dei
loro possibili sviluppi vedrà l’alternarsi di sintesi scritte con
slide illustrative dei principali punti di svolta del fenomeno.
e
d
t
s
1. L’inizio della primavera
È nella Tunisia “modernizzante” (ovvero non legata ad
una visione islamista e con una discreta possibilità di emancipazione sociale e culturale riconosciuta alla società civile)
del regime autoritario (ogni espressione di dissenso politico
è ferramente controllata, anche sul web) di Ben Alì che inizia il fenomeno cosiddetto della primavera araba.
È in un paese che non è militarista né islamista, che non
è “chiuso” al mondo o alla modernità, che scatta qualcosa di
originale rispetto alle rivolte mediorientali del XX secolo.
È da notare che la Tunisia, proprio per le sue aperture
all’Occidente e alla globalizzazione, risente molto di più di
altri paesi della grande crisi economico-finanziaria che dal
2008 ha “invaso” tutto il mondo occidentale.
In Tunisia il contraccolpo economico-sociale della crisi
è fortissimo, meno opportunità di sbocchi lavorativi all’estero,
il rischio di ricadere nella povertà, un desiderio di libertà e di
31
L
espressione di sé che non trova più strade aperte all’interno. Il
tutto mentre continua la corruzione del regime… (fig. 1).
2. La rivoluzione dei gelsomini
Il fatto sorprendente è che questo piccolo episodio di
prevaricazione quotidiana (da parte della polizia che probabilmente voleva imporgli una qualche forma di “pizzo”) sia
diventato la miccia di un’esplosione popolare.
Come osserva la studiosa Ouejdane Mejri, in realtà lo
spontaneo gesto di disperazione di Bouziza è stato la goccia
che ha fatto traboccare il vaso dell’ignavia di tanta parte della
popolazione contro le ingiustizie e le forme di corruzione di
quella “dittatura morbida” che era il regime.
La Tunisia era diventata un regime di dittatoriali, ovvero
«donne e uomini costretti dal regime a comprimere insieme
alla libertà personale anche la dinamica pubblica delle loro
relazioni» (OUEJDANE MEJRI e AFEF HAGI, La rivolta dei dittatoriati, Mesogea, Messina 2013, p. 7) e quel gesto risveglia
la passione per la libertà di espressione e comunicazione.
Non è un caso allora che la rivoluzione si diffonda in primo luogo attraverso la comunicazione (spesso via web) delle
immagini e dei video delle varie dimostrazioni nei diversi
paesi della Tunisia, prima di sfociare nelle grandi manifestazioni di Tunisi (fig. 2).
3. La rivoluzione del Nilo
In seguito ai diversi casi di protesta estrema che hanno
visto darsi fuoco diverse persone nel gennaio 2011, il 25
dello stesso mese violenti scontri si sviluppano al centro del
Cairo, con feriti ed arresti, durante le manifestazioni della
32
“giornata della collera” convocata da opposizione e società
civile contro la carenza di lavoro e le misure repressive. I
manifestanti contrari al regime di Mubarak invocano la liberazione dei detenuti politici, la liberalizzazione dei media, e
inneggiano alla rivoluzione dei gelsomini come modello contro la corruzione e i privilegi dell’oligarchia.
Tra il 29 e il 31 gennaio il presidente Hosni Mubarak licenzia il governo e nomina come suo vice l’ex capo dell’intelligence, Omar Suleiman. La protesta si ingrossa e continuano manifestazioni nelle città egiziane.
Gli assai numerosi manifestanti del Cairo, sia giovani sia
anziani, sia uomini sia donne, sia musulmani sia copti si
radunano in piazza Tahrir, contravvenendo al coprifuoco, e
lanciano l’invito affinché si raccolgano, in una mobilitazione
generale, un milione di dimostranti nella sola Il Cairo. I militari, sfidando l’autorità di Mubarak, decidono di non usare
la forza contro la popolazione che intende dimostrare per
richiedere la fine del potere del presidente.
All’indomani della manifestazione svoltasi nella capitale
alla quale, si viene a sapere, hanno partecipato due milioni di
egiziani, e dopo che Mubarak annuncia in televisione di
voler aprire un dialogo con le opposizioni, promettendo la
libera scelta di colui che gli subentrerà alla carica di presidente e una riforma costituzionale, anche il presidente USA
Obama invita il rais a lasciare la carica auspicando l’inizio
immediato della transizione democratica.
Alla fine Mubarak cede e si dimette: il potere passa ai
militari che predispongono un referendum sugli emendamenti alla Costituzione della Repubblica araba d’Egitto, il
cui successo consente l’implementazione di nuove elezioni
parlamentari e presidenziali. Di fronte alle diverse voci della
società civile che sono state fondamentali per i moti di piazza ora si riorganizza il movimento dei Fratelli Musulmani,
33
che si trasforma in partito e vince le elezioni, portando alla
presidenza nel 2012 Mohamed Morsi.
Ma la società civile egiziana capisce che c’è il rischio del
passaggio da un regime autoritario ad uno islamista, e torna
in piazza nel novembre 2012 all’indomani dell’auto-attribuzione, mediante decreto, del presidente Mohamed Morsi di
ampi poteri nel campo del potere giudiziario, per rendere
non impugnabili i suoi decreti presidenziali da parte
dell’Assemblea Costituente incaricata di redigere una nuova
Costituzione.
A questo punto si costituisce il movimento del Tamàrrud
(“ribellione”) che, nato il 28 aprile 2013, ha ottenuto una
vasta partecipazione popolare, e ha raccolto oltre ventidue
milioni di firme per chiedere la destituzione del presidente
Morsi e per ottenere elezioni anticipate, propugnando l’istituzione di un governo tecnico in attesa di nuove elezioni.
Il 3 luglio 2013, di fronte al movimento di protesta,
Mohamed Morsi è stato rimosso dalla carica da un colpo di
stato messo in atto dall’esercito egiziano.
È notizia di questo inizio del 2014 che dovrebbero presto
avvenire nuove elezioni per garantire la continuazione della
transizione dell’Egitto a una nuova e reale vita democratica
(fig. 3).
4. La rivoluzione libica
In Libia tutto comincia il 16 febbraio 2011 quando si
verificano nella città di Bengasi scontri fra manifestanti, che
protestano per l’arresto di un attivista dei diritti umani, e la
polizia, sostenuta da militanti del governo.
Il 17 febbraio si registrano numerosi morti in accesi conflitti a Bengasi (località tradizionalmente poco fedele al leader libico e più influenzata dalla cultura islamista).
34
Cresce (spontaneamente o influenzata da realtà straniere?) in tante parti della Libia un movimento che aspira a
rovesciare il regime di Gheddafi al potere da oltre quarant’anni. Il 17 febbraio è proclamato “giornata della collera”.
Il 21 febbraio la rivolta si allarga anche alla capitale
Tripoli dove i contestatori danno fuoco a edifici pubblici.
Contemporaneamente cominciano i tradimenti politici: la
delegazione libica all’Onu prende nettamente le distanze dal
leader Muammar Gheddafi. Il vice-ambasciatore libico, Ibrahim Dabbashi, a capo della squadra diplomatica libica, accusa il colonnello di essere colpevole di «genocidio» e di aver
praticato «crimini contro l’umanità».
Certamente una serie di potenze occidentali (non l’Italia)
sta organizzando l’opposizione al regime, ma anche l’influsso islamista comincia ad emergere in alcune zone del paese.
Si sviluppa una furibonda e cruenta guerra civile perché
il regime non esita ad impegnare tutte le forze rimastegli, ma
il 20 ottobre 2011 Muammar Gheddafi viene catturato e
ucciso vicino a Sirte.
Mentre l’influenza occidentale cerca di concretizzare il
suo interessamento ridiscutendo contratti e forniture petrolifere l’influenza islamica cresce (uccisione dell’ambasciatore
americano) e le diverse fazioni non riescono a raggiungere
un accordo per la transizione.
Il Paese di fatto è diviso in macro regioni e macro fazioni (fig. 4).
5. La rivoluzione siriana
Il 15 marzo 2011 iniziano le prime dimostrazioni pubbliche contro il regime siriano.
35
Le iniziali proteste hanno I’obiettivo di spingere alle dimissioni il presidente Bashar al-Assad ed eliminare la struttura istituzionale monopartitica del Partito Ba’ath.
Nell’aprile 2011 il governo dispiega le forze armate siriane per reprimere le rivolte. Dopo un mese, la rivolta si trasforma in opposizione armata, anche grazie alle prime diserzioni tra le forze armate. I militari che si uniscono alla rivolta permettono di superare la totale mancanza di una struttura organizzata e formano, insieme a dei civili, l’Esercito
Siriano Libero (ESL).
Gli scontri durante la seconda metà del 2011 dilagano nel
Paese senza però che si formi un vero e proprio “fronte”. Di
fatto si combatte una guerra asimmetrica tra esercito regolare e rivoltosi in ogni città.
Col radicalizzarsi degli scontri si aggiunge all’opposizione, con sempre maggiore forza, una componente estremista
di stampo salafita (peraltro divisa in molti gruppi, alcuni
dichiaratamente vicini all’ideologia di Al-Qaeda, tutti concordi comunque nell’avere come principale obiettivo l’instaurazione della Sharia in Siria) anche grazie agli aiuti di
alcune nazioni sunnite del Golfo Persico.
Nel 2012 la rivolta diviene guerra civile perché sia il regime di Assad sia le diverse forze di opposizione possono contare sul consenso di parti della popolazione e su appoggi
internazionali.
In quest’anno l’opposizione sembra vincente perché riesce a realizzare una sostanziale avanzata in molte città, ma
soprattutto ad Aleppo, centro economico del Paese.
Sempre nel 2012 si crea una nuova area di conflitto a
nord della Siria, quando la minoranza di etnia curda si organizza in gruppi armati e rivendica l’indipendenza del Kurdistan siriano. I miliziani curdi operano con finalità diverse
dall’opposizione siriana, quindi operano in autonomia con
momentanee alleanze di convenienza.
36
La situazione muta a favore del governo siriano nel 2013
grazie all’ingresso in Siria dei miliziani libanesi sciiti di Hezbollah, che permettono la riconquista decisiva della cittadina
di Al-Qusayr al confine con il Libano e, di fatto, il controllo
di Homs e delle vie di comunicazione per la costa. Il fronte
dei ribelli invece si indebolisce e, tra l’ESL e i miliziani jihadisti le divergenze sull’amministrazione dei territori conquistati degenerano in scontri aperti, mentre dal luglio del 2013
anche la convivenza dei curdi con i militari dell’ESL e soprattutto con i combattenti jihadisti termina in scontro continuo,
generando un nuovo fronte di guerra civile (fig. 5).
6. La crisi siriana è geopolitica
Purtroppo il conflitto in atto in Siria è complicato anche
a causa della sua posizione strategica nel Medio Oriente.
La crisi coinvolge infatti sia i paesi confinanti sia l’intera
comunità internazionale.
Gli organi dirigenti del Partito Ba’ath (che ha costituito
un regime dittatoriale ispirato ad una parvenza di socialismo
islamico tollerante sul piano religioso) e lo stesso presidente
appartengono alla comunità religiosa alawita, una branca
dello sciismo (minoritaria nella stessa Siria). Per questo motivo, le nazioni a maggioranza sciita sono intervenute a protezione del governo siriano. In particolare l’Iran cerca di mantenere un governo alleato che permetta di creare una macroregione che arrivi fino al Libano. Il fronte dei ribelli è invece sostenuto dalla Turchia e soprattutto dai Paesi sunniti del
Golfo, in particolare Arabia Saudita e Qatar che mirano a
contrastare la presenza sciita in Medio Oriente.
In ambito ONU si è verificata una profonda spaccatura
tra Stati Uniti, Francia e Regno Unito, che hanno espresso so37
stegno ai ribelli, e Cina e Russia che invece sostengono il governo siriano sia in ambito diplomatico che militare.
La situazione attuale, al di là dei fallimentari tentativi di
accordi diplomatici, è tragica:
– più di 4 milioni di siriani sfollati all’interno del paese
e almeno 2,5 milioni fuggiti in altri paesi quali la Turchia, la Giordania, il Libano e il Kurdistan iracheno;
– continue stragi perpetrate dalle componenti fondamentaliste dei ribelli nei confronti della minoranza
religiosa cristiana (che ha portato le Nazioni Unite a
definire la guerra civile come un “conflitto di natura
settaria”);
– rapimento di ostaggi da parte delle componenti fondamentaliste dei ribelli (visti come strumenti di contrattazione per ottenere armi e denaro dagli occidentali).
N.B. Per quanto riguarda l’Italia ricordiamo la lunga detenzione del giornalista Domenico Quirico, da poco liberato, e l’attuale detenzione del gesuita padre Paolo Dall’Oglio, da anni impegnato sul fronte del dialogo islamocristiano (fig. 6).
7. Riflessioni conclusive
Da questa panoramica si può trarre subito una considerazione: ciò che unifica l’inizio di tutte le primavere arabe è
evidentemente il fatto che – almeno in Tunisia, in Egitto e in
Siria, perché la questione della Libia con la partecipazione
alle manifestazioni fin dall’inizio di civili armati appoggiati
dall’estero la fa assomigliare ad un colpo di stato orchestrato dall’esterno, è decisamente diversa – non nascono originariamente da un complotto, ma da una vera crisi economi38
ca e di occupazione e da una vera domanda di libertà e di
espressione sociale, emersa da una voglia di libertà.
Una seconda considerazione si impone: questa rivendicazione di «pane, libertà e giustizia» (come recitavano molti
slogan degli inizi in Tunisia, Egitto e Siria e come sono documentati da tutti i social network) non è affatto una rivendicazione laicista, di giovani che mirano ad una società postislamica nel senso occidentale, cioè emancipata da ogni riferimento alla propri tradizione religiosa e che rivendicano
solo beni e diritti di stampo occidentale.
In realtà ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso: basta
riflettere sul fatto che la richiesta di giustizia, di libertà personale e di una società che sia in grado di garantire pane e
lavoro a tutti in modo dignitoso è valore intrinseco dell’Islam (molte volte noi usiamo categorie occidentali nel valutare i fenomeni di altre civiltà), trascurato, per non dire
dimenticato dai regimi contro cui è nata la spontanea protesta popolare dell’Islam umanista, che poi costituisce la grande maggioranza dei musulmani (purtroppo oggi sembra visibile quasi solo l’estremismo fondamentalista).
In questo senso le rivolte popolari hanno sancito (senza il
suggerimento occidentale, ma per una esigenza autentica che
scaturiva dal profondo della loro umanità) la crisi di quel
modello geopolitico che «aveva consentito ai regimi in carica» alleati e sorretti dall’Occidente, «di sopravvivere oltre la
fine della guerra fredda e degli anni dell’emergenza della
lotta al terrorismo transnazionale» (GIOVANNI SALE, Islam
contro islam, Jaca Book, Milano 2013).
Il punto più interessante a nostro avviso è proprio l’originaria istanza di questa protesta, che non è affine alle rivendicazioni del fondamentalismo islamico perché non vuole
abbattere il Faraone di turno che rovina la vita del popolo islamico per sostituirvi un regime basato sulla Sharia, ma desidera abbattere tutti i despoti che impediscono il fiorire della
39
vitalità espressiva e della dignità di popoli che vogliono vivere liberamente il riferimento alla propria tradizione religiosa.
Per la prima volta si osservano sull’altra sponda del Mediterraneo movimenti non animati dall’islamismo o dal nazionalismo, ma da una domanda sociale, di libertà e di maggiori possibilità per tutti. Cristiani e musulmani si trovano insieme a rivendicare uno spazio per l’uomo. Si vede rinascere,
o nascere, una nuova dimensione umanistica, che parte non
da una risposta ideologica, ma da domande umane.
A detta di molti osservatori dello stesso mondo islamico,
tra cui cito solo Wael Farouk, le rivoluzioni sono nate per
manifestare contro sistemi corrotti che erano contrari al bisogno più profondo delle persone, e caratterizzate dall’unione di cristiani e musulmani, uniti dal desiderio di rispettarsi
a vicenda.
Un segnale importante di ciò è il fatto che in Egitto, dopo
l’attentato alla chiesa di Alessandria, musulmani e cristiani
insieme hanno vigilato contro altri atti terroristici.
Naturalmente quanto è stato detto fin qui non impedisce
di riconoscere che passati pochi mesi dall’inizio della primavera l’Islam politico, inizialmente defilato ma ben radicato
nei Paesi del Medio Oriente è ritornato prepotentemente
sulla scena: ad esempio in Egitto i Fratelli Musulmani hanno
vinto le prime elezioni libere, così come in Tunisia il partito
islamico di Ennahda ha guidato in un primo tempo il Paese
da solo, anche se la recente approvazione della Costituzione
sembra preannunciare una nuova stagione di convivenza tra
islamisti e laici tunisini.
Ma è corretto decretare, con il fallimento di Morsi e dei
Fratelli Musulmani anche quello dell’Islam politico, quello
che ritiene che «la soluzione è l’Islam»?
Forse è troppo presto per dirlo, perché se indubbiamente
è rassicurante, per restare al caso egiziano, il fatto che 22 milioni di firme e una piazza Tahrir nuovamente straripante de40
terminarono il 3 luglio 2013 un rocambolesco avvicendamento al vertice dello Stato, con la liquidazione di Morsi e
l’esercito, di nuovo, nel ruolo di garante, salvaguardando
così il Paese dal tentativo di instaurare uno Stato basato sulla
sharia, rimane il fatto che i vuoti di potere che caratterizzano le diverse transizioni (per non parlare delle ripercussioni
della guerra di Libia e del conflitto siriano) hanno dato nuova linfa a uno jihadismo fondamentalista che dopo il fallimento della strategia terroristica contro gli USA e l’Occidente e la morte di Osama bin Laden sta cercando nuove
strategie per imporsi nel mondo musulmano.
Un nota bene sulla influenza delle grandi potenze in questo scenario.
Tradizionalmente siamo abituati a pensare che gli Stati
Uniti siano molto influenti in Medio Oriente, ma questa
amministrazione rischia di convincerci del contrario. Obama
è stato finora molto favorevole a parole verso ogni transizione alla democrazia ma di fatto è stato molto oscillante sull’atteggiamento concreto da assumere di volta in volta (rilevanti le incertezze sul rapporto con i Fratelli Musulmani, il
silenzio nei confronti dell’ultimo colpo di Stato dei militari
egiziani e la minaccia rientrata all’ultimo momento di attacco al governo siriano per l’uso di armi chimiche che potrebbero essere state invece utilizzate dai ribelli); ora sembra che
i suoi consiglieri lo abbiano indotto a lasciare che la Siria si
autodistrugga. Almeno fino a quando non crescerà ulteriormente il conflitto con la Russia di Putin, che dal canto suo
cerca in Siria la rivincita per avere perduto ogni influenza
sulla Libia, oltre che su buona parte dell’Europa Orientale.
Per concludere un’osservazione: per l’evoluzione di tutta
la sponda sud del Mediterraneo sicuramente saranno molto
importanti le prossime elezioni politiche egiziane promesse
dal governo ad interim del Cairo.
41
Intanto, in questo inizio del 2014, viviamo con speranza
questa manifestazione dell’anelito del cuore alla libertà, che
non può essere tolto a nessuno qualunque siano la latitudine
e il contesto sociale e culturale, e che unisce in profondità
l’umanità che vuole vivere fino in fondo la propria identità,
come mostra l’ultima slide in cui croce e Corano appaiono
insieme nelle mani degli uomini che cercano libertà (fig. 7).
42
Fig. 1
Fig. 2
Fig. 3
Fig. 4
Fig. 5
Fig. 6
Fig. 7
Concorso di scrittura (2014)
“La memoria del Novecento”
Incontro all’«altro»
1° classificato
SARA PASINI
V B Liceo Scientifico “Marie Curie” - Savignano sul Rubicone
SE L’«ALTRO» SONO IO
APPUNTI DALLA VITA DI UN NEOROMANTICO
Il poster di Eric Cantona alla parete si è spostato: è storto. Non è colpa del vento, e la sorellina oggi non è venuta a
giocare di nascosto nella sua cameretta. A muoverlo è stata
una manina furtiva come un gatto selvatico, quel tanto che
basta per appiccicare la faccia al muro e osservare dal foro le
amiche della sorella maggiore mentre provano le nuove
minigonne nella stanza accanto.
Questa scena sarà stata impressa almeno un milione di
volte nelle pellicole di tutto il pianeta: il classico ragazzino
che spia timidamente un nuovo mondo, regolarmente scoperto dalla mamma e trascinato via per un orecchio, ritornando poi di malavoglia col naso sui compiti.
Oggi non c’è più nessuno che si attacca ai nostri lobi per
riportarci con i piedi per terra e con gli occhi nelle orbite. Per
di più non esiste silicone abbastanza forte da poter oscurare
la serratura d’accesso alla nostra intimità: chiamasi social
network. Una microscopica finestra sulle vite degli altri,
attraverso la quale si può vedere senza essere visti.
Dall’immagine tesa / vigilo l’istante / con imminenza di attesa - / e non aspetto nessuno. Clemente Rebora aveva capito tutto. Anch’io, come lui, spulcio ogni millimetro di facebook in
cerca della notifica, del mi piace, del fidanzato ufficialmente,
49
dell’ultima foto in costume della bellona di turno in vacanza a
Saint-Tropez. Qualsiasi cosa va bene, ma datemi una novità, datemi qualcosa con cui riempire le palpebre e la scatola cranica!
Nella home, però, non c’è nulla di nuovo: dunque mi dedico al trastullo, ai giochi online, a candy crush saga. Naturalmente la chat è sempre piena di pervertiti in cerca di sollecitazioni
sottombelicali (per citare l’autore dell’oroscopo su «La Gazzetta
dello Sport») via webcam. Di colpo ho voglia di morire.
Sono stanco di vedere: desidero solamente scorgere.
Sono stanco di sentire: è ora di lasciarmi cullare.
Sono stanco di leggere: voglio immaginare.
Sono stanco di scrivere, di fotografare e di postare: è arrivato il momento di vivere.
E di colpo sono il Pascoli de Il gelsomino notturno, che
registra da lontano l’amore di due sposi, protetto dalla sua
invulnerabilità di poeta. Lui è esterno, lui è altro.
Non gli resta che prendere atto del non so che felicità
nuova covato dentro un’urna molle e segreta, ma passa oltre.
Non preme il pulsante i like, non sa cosa vuol dire amare corporalmente una donna e desiderare con ogni fibra del proprio corpo essere padre. Lo ignora e si accontenta di questo.
Io sono così: mi chiamo fuori. Da oggi, mi basta il peso
dei miei pensieri.
Occuparsi delle vite degli altri così assiduamente come
richiederebbe Facebook è un secondo lavoro e se il tempo
passato ad aggiornare il proprio profilo fosse valido per i
contributi dell’INPS, avremo tutti delle pensioni da record!
Io non voglio essere perennemente incorniciato da una
striscia blu punteggiata da fumetti rossi numerati. Voglio
poter descrivere gli occhi della mia nuova ragazza a mio
padre senza che questi mi dica: “Sì, l’ho vista su facebook. È
carina” o parlare male del professore che mi ha appena dato
un quattro senza rischiare una denuncia per diffamazione.
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Non me ne importa più nulla di cosa facciate, di cosa abbiate visto al cinema o se avete diffuso una nuova notizia riguardo a uno scandalo dei nostri politici. A meno che voi non
siate Confucio, il Dalai Lama, Eugenio Montale o la Szymborska non abbiamo nulla da dirci.
A prescindere da quanto si è vissuto / il curriculum dovrebbe essere breve, scrive a proposito la poetessa polacca. Io non
sono inscrivibile, portatile, comprimibile. Voi lasciatevi pure
classificare sotto Nome, Cognome, Indirizzo, Luogo e Data di
Nascita. Io sono mondo, sono mondo e non sono nessuno: l’osteria nella quale prendo i miei pasti è uno dei luoghi
nei quali amo l’Italia. Entrano cani festosi, che non si sa di
chi sono, bambini nudi con in mano un fiasco impagliato.
Mangio, solo come il Papa, non parlo a nessuno e mi diverto
come a teatro. Saba mi ha insegnato che non è necessario
ridere dei saltimbanchi computerizzati per sentire scorrere il
sangue frizzante nelle vene, perché qualunque cosa tu dica o
faccia / c’è un grido dentro: / non è per questo, non è per questo! / E così tutto rimanda / a una segreta domanda... Ancora
una volta è Rebora a suggerirmi le parole, a ricordarmi che
dietro ogni sciocchezza concernente la nostra vita si nasconde un abisso oscuro, che siamo soliti ignorare, preferendo
abbandonarci allo scintillio di uno schermo a cristalli liquidi.
Io voglio toccarne il fondo, lanciare un sasso nella voragine
e contare i secondi prima di sentire il rumore di un arresto
secco, come di ossa che si spezzano. Non ho idea di come
possa fare, non so quale sia la formula magica che possa convertire il mio portatile di ultima generazione in una vita fatta
di peli irti per la pelle d’oca, di sospiri e di buonasera cantati al pigolio di stelle, in poche parole: di poesia!
Mi chiamano pazzo, diverso, secchione. Dicono che sono il
Changez Khan italiano, il protagonista de Il fondamentalista
51
riluttante, ovvero il giovane che rinuncia ad una brillante carriera da analista di Wall Street per tornare in Pakistan, sua
terra d’origine, a causa del crescente razzismo nei suoi confronti a seguito dell’11 settembre. Il crollo a cui ho assistito io,
invece, è quello degli ideali della mia generazione: mi sento
vecchio e stanco come il Pompeo descritto da Lucano, un’antica quercia che sta in piedi solo grazie alle spesse radici che la
tengono ancorata al terreno e che presto cederà il posto ad
arbusti più vigorosi e flessibili. Nel giro di un millisecondo
verrà un Cesare a portarmi via tutte le certezze e che mi obbligherà ad avere un profilo su un social network per essere tracciabile, che mi ricorderà quanto siano datati i libri che leggo e
che mi rinfaccerà l’inconsistenza della mia vita sociale. E di
nuovo torneranno similitudini, nomignoli, sberleffi: mi chiameranno Machiavelli in compagnia degli antichi. Ma sto bene
così. Per citare Van Gogh: non è malsano.
Voglio essere una cosa lasciata in un angolo e dimenticata, al caldo buono delle mie certezze narrato da Ungaretti,
certezze che, ahimè, non coincidono con quelle degli altri.
Ma l’altro sono io... e non aspetto nessuno. Nuovamente
Rebora s’innesta nel mio soliloquio. Sarà un vizio.
Quindi, se mai avrete la sciagurata idea di chiedermi
qualcosa, non mandatemi una mail, perché non le controllo
mai. Evitate di scrivermi un SMS, perché mi dimentico sempre di ricaricare il credito del cellulare. Ah, non chiamatemi
nemmeno, perché il telefono lo tengo in modalità silenziosa:
non me ne accorgerei! Sono latitante: mi sono persino
dimenticato la password che usavo per i social network...
E se dopo avere letto tutto ciò vi è rimasta ancora voglia
di incontrarmi, fate una passeggiata fino al lago, senza
dimenticare del pane secco per le anatre: mi troverete solo,
al molo, a verseggiare o a far due chiacchiere con il mio cane.
52
2° classificato
ELENA BELLUZZI
V A Liceo Scientifico “Sacro Cuore” - Cesena
INCONTRO ALL’«ALTRO»,
CHIAVE PER LA SCOPERTA DI SÉ
La mia partecipazione al ciclo di lezioni e proiezioni dal
titolo “Incontro all’«altro»” si è inserita, a livello personale,
nel contesto di una riflessione suscitata in me dalla domanda
che, sempre presente e talvolta insistentemente ricorrente,
mi accompagna da tempo e, in particolare, durante quest’anno scolastico: chi sono io? Questo interrogativo è il
punto di partenza da cui ha preso avvio la mia personale
ricerca di una risposta attendibile ed esauriente. E nella dinamica di tale ricerca, mi sono innanzitutto scoperta del tutto
simile non solo a tanti amici coetanei, ma anche, nel mio piccolo, ai grandi protagonisti della storia dei quali, in questi
anni, ho conosciuto e studiato il pensiero, gli scritti, le azioni e le invenzioni, a dimostrazione del fatto che davvero l’uomo, qualunque uomo, in quanto tale, porta inscritto in sé il
desiderio incessante di rispondere alle proprie domande e, in
particolare, alla domanda per eccellenza, che è quella sul
senso di sé.
Ma nel percorso della mia ricerca, la seconda scoperta
che appare sempre più evidente alla mia riflessione è che il
senso di sé si svela, per lo più e quasi sempre, nell’incontro
con l’altro. Questa prospettiva mi pare mirabilmente esplicitata dal film Il figlio dell’altra di Lorraine Lèvy. Privo di qua53
lunque sentimentalismo, il film mette in scena la drammaticità di una vicenda paradossale e apparentemente assurda:
Joseph e Yacine, palestinese l’uno, ebreo l’altro, vengono
scambiati alla nascita e consegnati l’uno alla madre dell’altro.
I due ragazzi sono costretti ad affrontare, tanto improvvisamente quanto drasticamente, il dramma che sconvolge la
loro esistenza a seguito della sconcertante scoperta di avere
vissuto, ignari per tutta la giovinezza, l’uno la vita dell’altro
(Vuoi dire che sono l’altro e che l’altro è me?): in altre parole, di aver vissuto, fino ad allora, ciascuno senza conoscere
veramente se stesso.
La reazione immediata, istintiva e disperata che essi
hanno di fronte al crollo di ogni certezza e del fondamento
stesso delle proprie esistenze è quella dello scontro e dell’ostilità: dunque, la domanda sul senso di sé può scaturire,
paradossalmente, anche dallo “scontro” con qualcosa d’altro
da sé. Ma poi non si può giungere ad una fruttuosa conoscenza di sé, capace anche di riappacificare l’animo, se lo
scontro e l’ostilità non si trasformino in un incontro: questo
è ciò che, in seguito, accade a Joseph e Yacine, per i quali,
perciò, l’assurda vicenda che li ha sconvolti non li ha, tuttavia, travolti e distrutti, divenendo, al contrario, un’opportunità di rinascita e di ricostruzione di un’identità rinnovata,
nella ricerca di una nuova appartenenza.
Senza frutto, invece, è la posizione di coloro che, ottusi e
limitati, non sono in grado di abbattere la barriera dei pregiudizi e dei preconcetti e varcare la soglia di quella misteriosa, e forse per questo temibile e poco rassicurante, alterità. Sono questi I ciechi, descritti da Baudelaire, che, simili
ai manichini; vagamente ridicoli; / terribili, singolari come i
sonnambuli […] dardeggiano non si sa dove i loro globi tenebrosi: il loro sguardo in cui s’è spenta la scintilla divina non
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solo non si alza a vedere il cielo, ma non è rivolto neanche
alla strada (non li si vede mai verso i selciati, / chinare, pensosamente, la loro testa appesantita): in altre parole, è indifferente alla realtà tutta.
Nel nero sconfinato della propria misura e limitatezza,
l’uomo non si accorge della città che intorno canta e ride,
innamorata del piacere. Solo una domanda, come un grido
strozzato, risuona nelle tenebre di questa poesia e riaffiora
talvolta sempre più insistente: cosa chiedono al Cielo, tutti
questi ciechi?, cosa cercano e qual è la loro verità?. Ed è con
questo interrogativo che la poesia si chiude, come a ricordare che gli uomini “ciechi” sono destinati a quel “silenzio eterno” di una mancata risposta.
Solo sormontando la propria ed esclusiva individualità e
“incontrando” la realtà – se necessario anche quella più
scioccante e sconvolgente –, è possibile iniziare un cammino
di conoscenza della realtà stessa e conseguentemente anche
di sé. Changez, protagonista del film Il fondamentalista riluttante, giovane e brillante consulente finanziario a New York,
è talmente concentrato sull’evoluzione della sua ambiziosa
carriera e talmente calato nella cultura americana, a cui pur
non appartiene, che solo l’evento dirompente dell’attentato
alle torri gemelle riesce a scuoterlo, facendogli provare la
volontà di recuperare la propria identità, anche al prezzo di
rendersi inviso e sospetto a quella stessa società che fino ad
allora lo aveva fatto suo e reso simile a sé. È nella scoperta
dell’alterità di quella cultura che lo ha inglobato finora che
Changez può riscoprire il desiderio di appartenenza alla sua
origine.
Ma la realtà, anche quella più prossima e apparentemente già conosciuta, sfugge alla sua verità ultima, aprendo un
baratro sull’infinito. Il mistero dell’altro è semplicemente un
55
richiamo al mistero di sé e dunque alla domanda “chi sono
io?”, da cui sono partita, lasciando nuovamente aperta e
piena di una grande aspettativa la strada della ricerca.
L’uomo scopre così che “l’incontro all’altro” non è altro
che una iniziale ma incompleta e non esaustiva risposta alla
propria domanda, che rimane dunque – come scrive Clemente Rebora in Canti anonimi – una sostanziale attesa, come la
speranza dell’avverarsi di una promessa fatta: Dall’immagine
tesa / vigilo l’istante / con imminenza di attesa – / e non aspetto nessuno […]. Ma deve venire, / verrà, se resisto / a sbocciare non visto / verrà d’improvviso, / quando meno l’avverto.
Andare “incontro all’altro”, dunque, è la dinamica più
efficace per rendere possibile l’“incontro con l’altro”, fonte
a sua volta di apertura al mistero e quindi chiave indispensabile per aprire la porta dell’animo umano alla scoperta di sé.
56
3° classificato
CLAUDIA FIACCONI
V Bf Liceo Scientifico “Augusto Righi” - Cesena
«C’È UN OLTRE IN TUTTO»
Basta non fermarsi a un primo sguardo fugace e veloce
che a volte coglie solo le banalità ed è sufficiente evitare di
limitarsi all’apparenza delle cose, come purtroppo c’induce a
fare la società attuale, per capire che «c’è un oltre in tutto»,
come affermava Pirandello in Quaderni di Serafino Gubbio
operatore. Tutto ciò che ci circonda presenta un alone di
mistero, un’incognita, tante piccole verità che ci sfuggono,
spesso perché siamo troppo concentrati su noi stessi e sul
nostro piccolo mondo interiore. Ma se iniziassimo a guardarci intorno con occhi diversi, occhi pieni di attenzione e
curiosità, occhi non offuscati da alcun genere di pregiudizio
e pieni di meraviglia come quelli di un bambino, probabilmente riusciremmo a cogliere cosa si nasconde dietro l’apparenza o quantomeno a realizzare che spesso tutto quello
che diamo per scontato o crediamo ovvio cela dell’altro.
Diventa fondamentale, a questo punto, andare incontro
all’altro e andargli incontro a braccia aperte, mettendo da
parte quel genere di timore che, immancabilmente, si fa
avanti ogni qual volta ci si deve rapportare con qualcosa di
nuovo e diverso, fuori da tutto ciò che risulta familiare e prevedibile. Il rischio, altrimenti, è quello di restare chiusi in sé
stessi, con le nostre idee e le nostre certezze, o meglio quel57
le che ci illudiamo essere certezze. Perché, come dimostra il
film Il figlio dell’altra del regista Lorrain Levy, in un attimo
anche qualcosa che credevamo certo e sicuro, come le nostre
origini o la nostra famiglia, può essere messo in discussione,
può rivelarsi diverso da ciò che ci aspettavamo e pensavamo
di conoscere. Tuttavia la storia dei due protagonisti è emblematica: infatti Joseph e Yacine imparano a riconoscersi fratelli e ad amare le proprie differenze di costume e culturali,
oltrepassano il confine religioso e “corrono” incontro all’altro mettendo da parte la diffidenza e lo sconvolgimento iniziale dato dalla scoperta di essere stati scambiati alla nascita.
Entrambi, conoscendosi meglio, accrescono la stima reciproca, ma soprattutto maturano per l’altro rispetto, la parola
chiave per ogni genere di rapporto che instauriamo. Infatti,
oltre ad una certa dose d’interesse che deve spingerci nella
direzione dell’altro e a un minimo di umiltà che fa in modo
che ci si ponga sullo stesso piano, eliminando così ogni genere di pregiudizio o vana aspettativa, l’ingrediente fondamentale è il rispetto per chiunque o qualunque cosa si ha davanti. Come ben sintetizza Siddharta, il protagonista del romanzo di Hesse, dicendo: «a me importa solo di poter considerare il mondo, e me e tutti gli esseri, con amore, ammirazione e rispetto», non bisogna vedere nell’altro un nemico, un
pericolo o una minaccia ma bisogna piuttosto andargli incontro con disponibilità cercando di capire le sue abitudini e i
suoi interessi, le esperienze che ha vissuto e il suo punto di
vista.
È necessario, dopotutto, impostare le nostre relazioni su
questo piano per poterle vivere nel migliore dei modi: dal
momento che «il nesso con l’alterità è costitutivo della persona», come sottolinea Virgilio Melchiorre in Essere e persona, ed è quindi impossibile rapportarsi unicamente con la
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realtà del nostro io senza prendere in considerazione altre
persone, è importante che ciascuno di noi si metta in gioco
nell’incontro con l’altro che spesso, inoltre, diventa un’ottima occasione per scoprire nuovi aspetti e nuovi lati della
nostra personalità, per rivelarci qualcosa di nuovo su di noi.
D’altronde la chiusura in sé stessi non porta nessun genere di
ricchezza, nessuno stimolo, come evidenzia Edwin Abbott in
Flatlandia:
Osserva quella miserabile creatura. Quel Punto è un Essere
come noi, ma confinato nel baratro adimensionale. Egli stesso
è tutto il suo Mondo, tutto il suo Universo; egli non può concepire altri fuor di se stesso: egli non conosce lunghezza, né
larghezza, né altezza, poiché non ne ha esperienza; non ha
cognizione nemmeno del numero Due; né ha un’idea della pluralità, poiché egli è in se stesso il suo Uno e il suo Tutto, essendo in realtà Niente. Eppure nota la sua soddisfazione totale, e
traine questa lezione: che l’essere soddisfatti di sè significa
essere vili e ignoranti, e che è meglio aspirare a qualcosa che
essere ciecamente, e impotentemente, felici».
Quindi, anche se il desiderio di restare fissi nei propri
schemi è forte, è opportuno “uscire” da sé stessi per andare
incontro all’altro mettendosi in discussione, aprendosi ad
ogni genere di prospettiva, dando libero sfogo alla curiosità
di sapere chi ci sta di fronte e alla voglia di ascoltare la storia che ha da raccontare.
Dovremmo liberare il «bisogno insoddisfatto e innaturalmente represso di conoscenza» di cui parla Mann nel romanzo La morte a Venezia e magari scoprire che anche le persone che incontriamo tutti i giorni, dal vicino di casa al compagno di scuola, sono in realtà completamente diverse da
come le immaginavamo.
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Menzione d’onore
FRANCESCA PAPULI
III B Liceo Classico “Vincenzo Monti” - Cesena
IL BISOGNO DELL’ALTRO
Oggi molti affermano che viviamo in un “villaggio globale”, dove le informazioni viaggiano velocemente da un angolo all’altro del pianeta. Affermare ciò è, però, riduttivo dal
momento che, invece, esistono tanti villaggi quante sono le
culture umane. Credere che esista un unico villaggio è vedere solo l’Occidente e non rendersi conto di come stia esportando il suo modello dappertutto.
L’altro è colui che abita un villaggio diverso dal nostro,
legge il mondo con altri occhi, parla un’altra lingua, invoca
Dio con un altro nome. Il futuro consiste, quindi, nella capacità di “gettare ponti” tra le culture, tra i villaggi, posto che
l’uomo, a differenza degli altri animali, può difendersi non
solo con la forza ma anche con la parola, quindi con il dialogo. La specificità dell’uomo, infatti, non è quella di aggredire, ma quella di parlare, di dialogare. Noi ci troviamo in
una condizione anomala: da una parte il progresso tecnologico ci permette di raggiungere ogni angolo del mondo in
poco tempo, e ciò dà all’uomo la possibilità di conoscere
altre culture, ma dall’altra ci pone di fronte al problema di
come gestire i rapporti tra le varie civiltà.
Del resto, “l’altro” è già tra noi: l’incontro avviene per
strada, nelle fabbriche, nei mercati e ci pone il problema
61
della nostra identità, perché l’incontro la destabilizza, nel
momento in cui si delinea inevitabilmente il confronto con
quella dell’altro. Il problema è come decidiamo di risolvere
questo conflitto. Insomma, l’incontro con l’altro è inevitabile e conflittuale, ma anche positivo, perché ci arricchisce e
soprattutto perché rappresenta l’unica alternativa veramente
percorribile.
Sono dell’opinione che l’unica modalità d’instaurare rapporti positivi e reciprocamente rispettosi con una diversa cultura sia quella di ascoltarla ed accettarla per quello che effettivamente è, e non per quello che noi vogliamo che sia.
Spesso la nostra civiltà guarda gli altri e li valuta con le lenti
deformanti dei nostri valori. Ascoltare l’altro ed entrare in
sintonia con lui è l’unico atteggiamento che gli permette di
essere se stesso e di esprimere la propria parola.
In passato impostare i rapporti con la cultura all’insegna
del dialogo è stato sempre sottovalutato: tale approccio oggi
però diventa essenziale se vogliamo sopravvivere. Entrare in
dialogo significa che entrambi esprimiamo un aspetto della
verità, ma nessuno di noi due rappresenta la totalità della
verità. Solo col dialogo possiamo liberarci dall’ossessione del
possesso e della sicurezza, che ha tanto angustiato la cultura
occidentale. Noi possiamo imparare molto dagli altri: in una
cultura di parole e d’immagini come la nostra, riuscire a capire che esiste qualcosa che oltrepassa l’aspetto mentale è fondamentale.
Proprio a proposito della necessità del dialogo come
incontro fra culture è importante ricordare il film del 2012
Il figlio dell’altra, nel quale la regista francese Lorraine Lèvy
parte da uno spunto di cronaca per raccontare un caso esemplare. Durante la visita per il servizio di leva nell’esercito
israeliano, Joseph scopre di non essere il figlio biologico dei
62
suoi genitori, poiché appena nato è stato scambiato per errore con un bambino palestinese dei territori occupati della
Cisgiordania. La rivelazione getta lo scompiglio tra le due
famiglie, costringendo ognuno a interrogarsi sulle rispettive
identità e convinzioni, nonché sul senso dell’ostilità che continua a dividere i due popoli. È un mondo di abitudini e di
comportamenti che viene messo in crisi dallo scambio d’identità, portando i personaggi a riflettere su una vita che a
volte sembra assolutamente “normale”, e altre volte appare
in tutta la sua crudeltà e sofferenza. Questo film, attraverso
una riflessione morale sul tema della tolleranza verso le
diversità, sostiene l’importanza proprio delle ragioni del dialogo, dell’apertura all’altro come necessario presupposto al
superamento dei contrasti e dei pregiudizi. Tutto ciò a conferma che l’incontro fra culture è una grande possibilità e
una chance positiva.
63
Menzione d’onore
PAOLO LIISTRO
V A Istituto Tecnico per Geometri “Leonardo da Vinci” - Cesena
USA: PAURA AL POTERE
La tragica mattina dell’11 settembre 2001 quattro aerei
di linea statunitensi furono dirottati e colpirono i simboli del
potere economico e militare americano: le torri gemelle del
World Trade Center di New York e la sede del ministero della
Difesa, il Pentagono. L’attacco – rivendicato più volte dall’organizzazione terroristica di stampo islamico Al-Qaeda1 –
causò più di 3000 vittime e centinaia di feriti. La reazione
agli attacchi fu durissima. Il presidente americano George
W. Bush attaccò militarmente l’Afghanistan a meno di un mese dall’attentato. Due anni più tardi, durante un discorso
Bush individuò l’asse del male fra Corea del Nord, Iran ed
Iraq: i paesi sospettati di possedere armi di distruzione di
massa – e quindi di potersi alleare con i terroristi – entrarono nel mirino. Era iniziata la guerra al terrore. «Non esiste
nessuna prova che Saddam Hussein sia stato coinvolto negli
attentati dell’11 settembre»2. Queste le parole dello stesso
presidente, che tuttavia nel 2003 dichiarò guerra all’Iraq con
l’obiettivo di rovesciarne il leader Saddam, appunto.
1 Al Qaeda rivendica l’11 settembre. «L’alba della vittoria imminente»,
repubblica.it, 13 settembre 2011.
2 Nessuna prova del legame tra Saddam e le Torri, «Corriere della Sera»,
18 settembre 2003.
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Sebbene l’ex presidente affermasse che «la guerra contro
il terrorismo è una guerra contro il male, non contro l’Islam»3, i provvedimenti presi dalla sua Amministrazione sono in netto contrasto con tale affermazione.
Il sogno americano assunse i lineamenti di un incubo per
i cittadini di fede musulmana o dai tratti somatici medioorientali come Changez, il protagonista de Il fondamentalista riluttante. George W. Bush ha fatto leva sulle paure di un
popolo ferito. La politica improntata al militarismo ed alla
difesa della Nazione ha causato infatti molti danni collaterali. Dalla visione del film Il fondamentalista riluttante – arricchita da documenti ed articoli – emerge che la vita di molti
cittadini americani divenne più difficile dopo gli attacchi. Il
gruppo etnico medio-orientale – in realtà ai più sconosciuto – venne presto stereotipato. È stato inoltre possibile aumentare i controlli sulle linee di comunicazione – che daranno vita allo scandalo NSA – ed aprire il campo di prigionia
di Guantanamo, tristemente noto per le molteplici violazioni dei diritti umani subite dai detenuti, più volte condannate
dall’ONU.
L’attuale presidente Barack Obama, insediatosi nel 2009,
dichiarò che dopo l’11 settembre l’Amministrazione Bush
prese «decisioni affrettate e dettate dalla paura, pur motivata dal sincero desiderio di proteggere il popolo americano»4.
Il nuovo corso avrebbe corretto gli errori del passato. O almeno si sperava.
La cultura della paura ha alimentato l’intolleranza, il sospetto nei
confronti degli stranieri. [...] Il principio secondo il quale si è
ENNIO CARETTO, Bush: lottiamo contro il male non contro il mondo islamico, «Corriere della Sera», 29 settembre 2001.
4 PAOLO VALENTINO, Neo Realismo Americano, «Corriere della Sera»,
24 settembre 2009.
3
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innocenti fino a quando la colpevolezza non è dimostrata si è
stemperato, se già non si è dissolto del tutto5.
Sono passati pochi giorni dagli attacchi quando Changez,
senza una reale motivazione, viene sottoposto ad un’umiliante perquisizione in aeroporto. A subire un simile trattamento – non nella finzione di un film, ma nella realtà – furono decine di americani colpevoli di avere origini medioorientali. Samar Kaukab, una giovane universitaria statunitense di origini pakistane, nel 2002 si trovava nell’aeroporto
di Chicago O’Hare e indossava l’hijab, il velo che lascia scoperto solo il viso. Sebbene il metal detector non suonasse, le
Guardie Nazionali la fermarono e la costrinsero a rimuovere
il copricapo.
Kaubab rimosse il suo hijab [in privato e in presenza di sole
donne; ndr] e le Guardie [...] le sbottonarono la maglia, le toccarono i seni ed una delle perquisitrici le sbottonò i pantaloni.
Quindi le mise una mano sotto ai pantaloni e le ispezionò il basso
ventre6.
La perquisizione non portò a nulla. Samar in seguito
affermò indignata: «Continuavo a domandarmi cos’altro mi
sarebbe potuto succedere; se volessero imprigionarmi o assoggettarmi ad ispezioni corporali»7. Prima degli attacchi
dell’11 settembre la comunità musulmano-asiatica era pressoché sconosciuta alla maggior parte degli statunitensi. La
prima conseguenza della guerra al terrore fu la stereotipizzazione di alcuni dei caratteri musulmani.
5 ZBIGNIEW BRZEZINSKI, La guerra al terrore ha snaturato gli Usa, «La
Repubblica», 2007, trad. di ANNA BISSANTI.
6 ACLU of Illinois Challenges Ethnic and Religious Bias in Strip Search of
Muslim Woman at O’Hare International Airport, aclu.org, 16 gennaio 2002.
7 Ivi.
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Se qualcuno è nero ed ha certe caratteristiche somatiche, dev’essere musulmano, giusto? – scrive la giornalista americana Nadra
Kareem Nittle – ecco perché tutti, dai Sikh ai messicani, sono stati
vittime dell’odio anti-musulmano negli Stati Uniti8.
Le conseguenze della morsa mediatica ricaddero anche
sui bambini, come dice Fatma, una donna musulmana americana che al tempo dell’attacco aveva solo 5 anni:
Siamo visti come anti-americani solo perché siamo musulmani.
Ho perso il conto delle volte che a scuola i miei compagni mi accusavano di far parte di Al-Qaeda o di essere una terrorista9.
La causa principale del successo della guerra al terrore va
ricercata nella paura. Come scrive il politologo polacco
Zbigniew Brzezinski,
[…] la paura obnubila la ragione, intensifica le emozioni e rende
più facile per i politici demagogici mobilitare l’opinione pubblica
nell’interesse delle politiche che si prefiggono di perseguire10.
Ed infatti, «approvato dal Congresso USA 45 giorni dopo
l’11 settembre 2001 con 98 voti contro 1»11, venne introdotto lo USA Patriot Act. Con la nuova legge i corpi di polizia e le principali agenzie di spionaggio statunitensi – quali
CIA, FBI e NSA – videro aumentato il loro potere a scapito
della privacy dei cittadini. Grazie al materiale fornito dall’extecnico della CIA Edward Snowden, nel 2013 vennero pubblicati sul quotidiano britannico «The Guardian» le prove di
un’operazione di spionaggio internazionale ad opera del08 NADRA KAREEM, Nittle Religious Intolerance Is Making American Muslims Live in Fear, racerelations.about.com, 13 settembre 2010.
09 JOSEPH MAYTON, It Is Hard Emotionally To Be A Muslim In America,
thedailybeast.com, 17 agosto 2013.
10 BRZEZINSKI, La guerra al terrore ha snaturato gli Usa, cit.
11 ENNIO CARETTO, Bush: «Il Patriot Act ci difenderà per sempre», «Corriere della Sera», 10 giugno 2005.
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l’NSA12. James Bamford, un giornalista americano specializzato in materia, afferma che
[…] i documenti dettagliano una massiccia operazione finalizzata
a tracciare ogni telefonata ogni giorno – miliardi di miliardi di dati
privati – e un’altra operazione [Prism; ndr] per dirottare verso
Fort Meade [sede del quartier generale della Nsa; ndr] le comunicazioni internet che entrano ed escono da Google, Apple, Yahoo
e altri giganti della Rete13.
La difesa della Casa Bianca, apparsa sul «Wall Street Journal», è la seguente: «Barack Obama ha saputo solo questa
estate dello spionaggio ai danni dei 35 leader mondiali e, in
quel momento, ha ordinato lo stop alle operazioni»14. La giustificazione è quantomeno sconcertante, «visto che l’Intelligence ha preso di mira personaggi con i quali Obama parla
di frequente»15, «fra i quali la Merkel»16.
Ulteriore conseguenza della guerra al terrore fu l’apertura
– a soli quattro mesi dagli attacchi – del campo di prigionia di
Guantanamo, a Cuba. Nel campo vengono detenuti ed interrogati i terroristi catturati in ogni parte del mondo. A partire
dall’11 gennaio 2002 «779 persone sono state trasferite a
Guantanamo e la maggior parte di esse è rimasta in detenzione senza accusa né processo»17 informa Amnesty International.
12 Usa, agenzia per la sicurezza sotto accusa: ‘spiate’ le telefonate di milioni di clienti, repubblica.it, 6 giugno 2013.
13 STEFANIA MAURIZI, Caso Snowden: cosa c’è in gioco, repubblica.it,
25 giugno 2013.
14 GUIDO OLIMPIO, Intercettazioni, in estate lo stop di Obama, «Corriere
della Sera», 29 ottobre 2013.
15 Ivi.
16 La Nsa ha tracciato in Italia 46 milioni di dati in un mese, repubblica.it,
28 ottobre 2013.
17 AMNESTY INTERNATIONAL, Decimo anniversario di Guantánamo: fatti e
cifre, amnesty.it, gennaio 2012.
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Sei [detenuti; ndr] sono stati soggetti [...] a torture e altri trattamenti crudeli disumani e degradanti e a periodi d’isolamento
durati anche quattro anni. Due di essi sono stati sottoposti al
waterboarding18
una terribile forma di tortura. Va ricordato che quest’ultima
è bandita dall’articolo 5 della Dichiarazione Universale dei
Diritti Umani, che recita: «Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti». La Dichiarazione è sottoscritta dalle Nazioni Unite che nacquero proprio negli States, a San Francisco, nel 1945. Ancora una volta deludente l’atteggiamento
di Barack Obama.
Sebbene il primo giorno del suo insediamento il presidente americano, premio Nobel per la pace, s’impegnasse a
far chiudere la struttura nel giro di un anno, il campo di prigionia è tuttora aperto e funzionante. Dura la condanna dell’ONU, che afferma che
[…] l’esistenza del carcere cubano [...] mette gravemente in dubbio la posizione degli Stati Uniti come difensore dei diritti umani
e indebolisce il ruolo di Washington quando affronta temi di diritti umani in altre parti del mondo19.
In conclusione, la documentazione dimostra che la risposta del governo americano – guidato da Bush – agli attacchi
terroristici dell’11 settembre si è dimostrata non solo inefficace ma deleteria. La guerra al terrore, seppur involontariamente, ha permesso la discriminazione di una minoranza
etnica negli Stati Uniti. Con l’arrivo di Obama sembrava che
gli sbagli commessi potessero essere corretti. Così non è
stato. Se non fosse esploso lo scandalo NSA, lo spionaggio
Ivi.
L’appello dell’Onu agli Stati Uniti: «Chiudete Guantanamo, viola i diritti», lastampa.it, 5 aprile 2013.
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19
70
mondiale ad opera degli Stati Uniti sarebbe probabilmente
ancora in corso; nel campo di Guantanamo avvengono tuttora orribili torture e la situazione non sembra destinata a
cambiare.
A mio modesto parere, lo scenario sopra descritto mal si
addice ad un paese democratico. Se poi esso rappresenta una
delle maggiori potenze economiche e militari al mondo, è
proprio il caso di dire che non siamo in buone mani.
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Centro Culturale
“Campo della Stella”
Eventi 2013-2014
Centro Culturale
CAMPO DELLA STELLA
per San Giovanni
in collaborazione con
VINCENT VAN GOGH, Esterno di caffè, di notte (1888), Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Müller - Stampa: Stilgraf Cesena
ASSOCIAZIONE
“PAOLA PIRACCINI”
Poeti a
San Giovanni
Omaggio a NINO PEDRETTI
poeta e narratore
intervengono
STEFANO MALDINI (poesia) e WALTER RAFFAELLI (narrativa)
voce recitante ILARIO SIRRI
conduce GIANFRANCO LAURETANO
VENERDÌ 21 GIUGNO 2013 - ore 21,15
CESENA - Giardini pubblici
Con il patrocinio del Comune di Cesena - Assessorato alla Cultura
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con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura
del Comune di Cesena
Da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI e Francesco
Interviene
Arcivescovo di Ferrara-Comacchio
GIOVEDÌ 7 NOVEMBRE 2013 - ore 21
Salone di Palazzo Ghini - CESENA
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Centro Culturale “Campo della Stella”
Andar per arte
in compagnia
Visita a Trento e Rovereto
Venerdì 27 dicembre
Ore 11.30 Visita guidata al Castello del Buonconsiglio a Trento
Ore 16.00 Visita guidata al Muse, il nuovo Museo delle Scienze di Trento
ideato da Renzo Piano
Sabato 28 dicembre
Ore 10.00 Visita guidata alla Mostra “Antonello da Messina” al Mart di
Rovereto
Ore 14.10 Visita guidata al Mart, il cui percorso di arte contemporanea è
organizzato attualmente nella mostra “La magnifica ossessione”
77
Centro Culturale
“CAMPO
DELLA STELLA”
MARC CHAGALL, Il figliol prodigo, Collezione privata, St. Paul de Vence, 1975-’76
In collaborazione con
Con il patrocinio
dell’Assessorato
alla Cultura
del Comune
di Cesena
M
A
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“INCONTRO ALL’«ALTRO»”
I FILM
Martedì 11 febbraio - ore 10,45
CESENA - CINEMA ASTRA
Venerdì 7 marzo - ore 10,45
Il figlio dell’altra di LORRAINE LÈVY
Il fondamentalista riluttante di MIRA NAIR
(Francia 2012)
(USA 2012)
• I referenti delle scuole che aderiscono alle proiezioni (gratuite), dovranno far pervenire le adesioni entro il 5 febbraio 2014 on line
([email protected]) o telefonicamente (347 9683024), specificando il numero delle classi e degli alunni. Le adesioni verranno accolte fino
ad esaurimento dei posti, rispettando l’ordine di iscrizione.
• A tutti i partecipanti verrà data in omaggio una copia del libretto Personaggi e destino che raccoglie i testi della precedente edizione del
ciclo “La memoria del Novecento”.
IL CICLO STORICO-LETTERARIO CESENA - Sala “E. Cacciaguerra” della Banca di Cesena (viale G. Bovio, 76)
Mercoledì 5 febbraio - ore 15
“Le primavere arabe a rischio d’inverno?
Uno sguardo all’«altra» sponda del Mediterraneo”
ANDREA CASPANI
(direttore della rivista “Linea Tempo”)
Mercoledì 12 febbraio - ore 15
“L’alterità nelle «Myricae»
di Pascoli”
ANDREA BATTISTINI
Mercoledì 19 febbraio - ore 15
(Università di Bologna)
“Il passaggio dalle idealità dell’Ottocento a quelle del Novecento in poesia.
La vicenda esemplare di Clemente Rebora”
GIANFRANCO LAURETANO
(direttore delle riviste “ClanDestino” e “Graphie”)
• Agli studenti partecipanti al corso verrà rilasciato un attestato di partecipazione.
• Il corso, organizzato in collaborazione con DIESSE, agenzia di formazione riconosciuta dal MIUR, è riconosciuto valido anche ai fini
dell’aggiornamento dei docenti.
Concorso di scrittura:
La memoria del Novecento
• Gli studenti sono invitati alla redazione di un saggio breve (secondo le modalità dell’esame di Stato) sul tema “Incontro all’«altro»”.
Premi ai tre vincitori: 1º classificato, € 400,00; 2º classificato, € 300,00; 3º classificato, € 200,00; alle scuole di appartenenza dei tre studenti
vincitori andranno un TABLET ed una raccolta di film in DVD; inoltre verrà premiata la classe che avrà presentato il maggior numero di
elaborati di qualità.
78
Famiggllie ppeperer
l’Accogl
Acc
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A coglienza
La carità:
arità:: via
v della solidarietà.
Dall’ospedale di Santa Maria della Scala
a storie dei giorni nostri.
Proiezione del video
sugli affreschi del Pellegrinaio
dell’Ospedale di Santa
Maria della Scala di Siena
curato dalla prof.ssa
Mariella Carlotti.
Video-collegamento
con Antonino Masuri,
responsabile del progetto
AVSI
V a Nairobi Scuola
Secondaria “Cardinal Otunga”.
presso il Centro di Servizi per il Volontariato
olontar
ASS.I.PRO.V
V.
via Serraglio 18 - Cesena
VENERDÌ 14 MARZO ORE 21
le offfer
erte saranno devolute a favore della Campagna Tende AVSI
VS
In collaborazione con:
Centro Culturale Campo della Stella - Ass. Adamantina
Ass.. Consultorio
Consulto per la famiglia Don A.. Giorgini
Gi
- Ass.. P
Papa Giovanni XXIII
79
INDICE
Presentazione
5
ANDREA BATTISTINI
L’alterità delle cose in Myricae
di Giovanni Pascoli
7
GIANFRANCO LAURETANO
Commento a Dall’immagine tesa
di Clemente Rebora
27
ANDREA CASPANI
Le primavere arabe a rischio d’inverno?
Uno sguardo all’altra sponda del Mediterraneo
31
Concorso di scrittura (2014)
“La memoria del Novecento”
Incontro all’«altro»
47
Centro Culturale “Campo della Stella”
Eventi 2013-2014
73
81
Finito di stampare nella Stilgraf di Cesena
nel mese di maggio 2014