Parte Decima LETTERATURA, ARTE E MEDICINA

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Parte Decima
LETTERATURA, ARTE E MEDICINA
Cap. 23. DISPERAZIONE, MALATTIA E SOLITUDINE NELLA
LETTERATURA CONTEMPORANEA1
“L’uomo contemporaneo sembra condannato dalla sua stessa società”. Può
questa affermazione sembrare eretica, ma nella realtà non è così. Attraverso la
lettura di poesie, romanzi, opere d’arte costruite dall’uomo stesso, si può
verificare quanto questa affermazione sia valida.
Alla base della vita vi è la ricerca della felicità, del benessere, della
soddisfazione materiale ed intellettiva.
Passiamo ad una disamina cronologica della società italiana per meglio
comprendere il significato del tema: disperazione, malattia, solitudine.
Alla fine della “Grande Guerra”, gli uomini scampati all’immane tragedia si
trovano a vivere un’altra tragedia: affrontare un mondo in cui i valori sono stati
completamente superati se non addiritura stravolti.
La letteratura dalla fine dell’800 all’inizio del’ 900 è caratterizzata da due aspetti
opposti: la malinconica ed introspettiva poesia di Pascoli e, per certi aspetti,
l’esaltante poesia di D’Annunzio. Poeti, oggi quasi completamente dimenticati
(Corazzini, Locchi, morti giovanissimi durante la prima guerra mondiale), si
chiedono perché definirsi poeti, in definitiva, sono soltanto dei giovani testimoni
di quella immane tragedia.
Gozzano crea un mondo particolare di malinconia e di solitudine alla ricerca di
una felicità che pensava di poter trovare da una semplice realtà di provincia. E
Gozzano cercò di superare il suo disagio esistenziale ricorrendo a paradisi
artificiali.
Nel ventennio fascista si assiste ad un dualismo costante tra gli intellettuali di
regime che vengono incentivati ed osannati, e non sempre sono i migliori, e gli
intellettuali dissidenti che spesso sono costretti a tacere o a cambiare aria in
Paesi stranieri confinanti per cui la produzione letteraria langue e i grandi poeti
e scrittori tacciono, soprattutto quelli in vernacolo. Esempio, il poeta Dino
Campana, trascorre una parte dalla sua vita in un ricovero coatto per demenza
e la sua composizione poetica è all’insegna della disperazione e dell’impotenza.
Alla fine degli anni ’30 c’è un ritorno della grande poesia con Ungaretti,
Quasimodo e Montale.
Ungaretti denuncia la solitudine dell’uomo-soldato davanti alle atrocità della
guerra (partecipò alle battaglie sul Carso).
Più vicini a noi, Quasimodo e Montale hanno vissuto la tragicità e la miseria del
dopoguerra, il primo ha descritto l’orrore della guerra civile nella poesia “Alle
fronde dei salici”, il secondo, molto più chiuso di indole, parla del mal di vivere
dell’uomo che paragona ad “un rivo strozzato o ad un foglia accartocciata”.
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Questo capitolo è stato tratto dal testo “Sofferenza e salvezza”. C’è un perché al dolore dell’uomo?” (ed.
Centro Ambrosiano”. Il capitolo è di Maria Decorato, pp. 157-160.
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Lo stesso concetto del mal di vivere viene ripreso da Cesare Pavese che non
riesce a superare la sua angoscia e pone fine ai suoi giorni in un albergo di
Torino.
Durante le riprese del film “Riso amaro” lo scrittore si innamora non corrisposto
dell’interprete americana, Constance Dowling alla quale rivolgerà la frase
sintomatica della sua disperazione: ”Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi”.
Lo scrittore Giuseppe Berto, ben consapevole della grave malattia che lo aveva
colpito, ne scrive nel suo romanzo ”Il male oscuro” da cui si evince il suo dolore
e la sua solitudine.
Moravia nel romanzo “La noia” ed in tutta la sua produzione evidenzia
l’angoscia esistenziale dell’uomo moderno che perde il gusto per la vita poiché
tutto gli viene concesso con facilità. Stigmatizza il falso perbenismo della
società romana e della borghesia medio-alta che ha perduto tutti i valori etici e
non li ha mai sostituiti con altri.
Italo Svevo nei suoi romanzi denunzia il disagio, il mal di vivere nel rapporto tra
lui e la società contemporanea.
Da qui nasce la disperazione dell’uomo moderno chiuso nel suo egoismo e
nella sua ricerca della felicità attraverso l’acquisizione solo di beni materiali e il
raggiungimento di uno “Status simbol”.
Per quanto riguarda il tema specifico della malattia e del dolore, evidenziamo le
opere di alcuni autori recenti.
Luigi Pirandello: (1867-1936): “Il dovere del medico”, appartenente alla raccolta
“La vita nuda”.
La domanda che il protagonista del racconto si pone è: “un medico può non
curare un malato che guarito, l’attende la prigione? E’ più giusto lasciarlo
morire? E’ la storia di un giovane uomo feritosi nel tentativo di togliersi la vita,
dopo aver ucciso il marito dell’amante che l’aveva sorpreso in flagrante
adulterio con la propria moglie.
Albert Camus (1913-1960): “La peste”. Con questo romanzo che è la cronaca di
una epidemia immaginaria, l’autore intende descrivere la reazione umana di
fronte ad un male che può accadere da un momento all'altro, sconvolgendo la
vita quotidiana.
Due elementi balzano all’attenzione in più momenti: la testi dell’epidemia come
castigo di Dio e quello della solidarietà. Un sentimento così vivo da far dire ad
un giornalista americano che aveva prima tentato in tutti i modi di uscire dalla
città, che bisognava condividere la sventura degli altri anche col sacrificio della
propria felicità, perché “ci può essere vergogna a essere felici da soli”.
Mario Tobino (1910-1991), forse poco conosciuto, esordì prima come poeta per
poi affermarsi come romanziere, ed essendo medico con specializzazione in
neurologia e psichiatria, si dedica con tutte le sue forze morali e spirituali alle
sofferenze dei malati di mente. Quindi, le sue opere sono segnate da uno
spiccato autobiografismo e da un forte connotato psicologico e sociale.
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Tobino ha saputo comunicare con l’orrore di una immane tragedia, quello
manicomiale, ma anche la pietà per quel povero mondo di abbruttiti senza
colpa.
Prendendo come spunto i suoi malati ha scritto “Le libere donne di Magliano”
(1953) e “Per le antiche scale” (Premio Campiello 1972): documenti umanissimi
di colui che ha fatto del manicomio la propria casa e della comunità dei pazzi la
propria famiglia.
Patrick Victor Martindale White (1912-1990), australiano, è stato scrittore,
drammaturgo e saggista, oltre che uno dei maggiori autori del ventesimo
secolo. La sua grandezza è stata riconosciuta con l’assegnazione del premio
Nobel per la letteratura nel 1972.
Il libro più interessante per la nostra tematica è “L’occhio dell’uragano”; un
romanzo di seicento pagine che narra il violento uragano di egoismi,
risentimenti, odi ed ipocrisie che ruotano attorno al letto di una vecchia
novantenne che però non si rassegna mai alla sconfitta. Con il suo “occhio”,
nonostante l’età e la malattia, continua ad imporre con inalterata inflessibilità, la
sua volontà.
Rodolfo Doni (1919-), è secondo il quotidiano Avvenire, il maggior scrittore
cattolico vivente. Doni, in una intervista, ha affermato di avere “due anime”:
quella letteraria e quella spirituale-religiosa. Ha poi spiegato come ha riscoperto
la fede: “Ho trovato la mia fede in guerra e quindi ha radici profonde. Orgoglioso
com’ero da ragazzo, la fede volevo trovarla da solo, non volevo che fosse
quella che avevo ricevuto dalla parrocchia o dalla mamma”. Ha cercato la fede,
l’ha voluta e l’ha trovata durante un lungo ricovero in un ospedale militare,
quando ebbe anche modo e tempo di leggere e di studiare; per questo si
definisce uno scrittore “autodidatta”.
Il suo testo che tratta della sofferenza è “Muro d’ombra” (Premio Campiello
1974), dove descrive, attraverso gli occhi di un industriale fiorentino
cinquantenne ricoverato in ospedale per una frattura, la triste e stereotipata
quotidianità di un reparto e i vissuti dei singoli malati presenti.
Il tempo del ricovero e la lunga convalescenza sono stati provvidenziali al
protagonista del romanzo per mettere un po’ di ordine nella sua vita.
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