The Quantified Self - il Blog di CUP 2000

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The Quantified Self - il Blog di CUP 2000
Settembre 2016
Project work per il Corso di Alta Formazione eHealth 2016, CUP2000
THE QUANTIFIED SELF
di Emiliano Raffo, Unità Operativa Comunicazione & Marketing Azienda USL
di Piacenza
Docente di riferimento: professor Antonio Maturo, Dipartimento di Sociologia
e Diritto dell'Economia, Università di Bologna
Titolo: The Quantified Self
Lunghezza: 10 pagine
Contesto di riferimento: gli inediti orizzonti diagnostici offerti dalle nuove tecnologie
attraverso, soprattutto, le app riguardanti il cosiddetto "self-tracking"
Abstract:
Da ormai diversi anni il vettore programmatico della maggior parte delle
Aziende USL più aggiornate, per non dire avanzate, si è spostato: dalla cura,
ovviamente ancora centrale e non trascurata, alla prevenzione, snodo
cruciale, precedente a quello della cura, che vede protagonisti in prima linea,
non solo il comparto medico di ogni azienda, ma anche il paziente, ormai
sempre più chiamato a un atteggiamento attivo rispetto alla propria salute.
In questo solco si inscrive la teoria del Quantified Self, frontiera ultima di un
processo, ancora in fieri, che sta progressivamente avvicinando l'individuo a
una conoscenza approfondita della propria salute (e di sè) non attraverso i
rituali "check-up" medici, bensì attraverso una costante monitorizzazione del
proprio corpo e delle propre attività; un costante, se non addirittura
martellante e ossessivo, "self-tracking" atto a costruire, pezzo dopo pezzo,
nel tempo, un profilo preciso, mutevole ma comunque in grado di essere
facilmente "controllato", del proprio corpo e della salute di cui esso gode.
Le centinaia di app grazie alle quali un comune individuo (non serve certo un
laureato in medicina) può facilmente controllare il proprio peso, il proprio
battito cardiaco, addirittura le onde sinusoidali del proprio umore, oltre a
generare traffico web/digitale (e quindi ad ingrassare il mercato pubblicitario
online), sono un invito, maneggevole e attraente, eminentemente "userfriendly", al sapersi "leggere", "interpretare". Non tanto, e questo in parte è un
rischio, per diventare "medici di se stessi", bensì per poter intervenire sempre
meglio e in modo sempre più autonomo su di sè, conoscendosi e
programmandosi.
Deborah Lupton, insieme al professor Antonio Maturo e a pochi altri, è oggi
uno degli studiosi che ha capillarmente definito tutte le parti del Quantified
Self, estendendo l'analisi anche su interpretazioni ideologiche (il Quantified
Self è visto, nella sua essenza, come un'arma, particolarmente affilata, del
neoliberismo spinto), poiché il Quantified Self, figlio iperinterattivo del web 3.0
e ormai solo nipote del già passato web 2.0, è una frontiera che può solo
ampliarsi, influenzando ulteriormente la vita di chi lo ha già fatto, o presto lo
farà, proprio.
Descrizione del progetto:
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Contesto e motivazione: il contesto è quello, come citato nell'abstract,
della prevenzione "autonoma". Non più una prevenzione programmata passo
per passo dall'Azienda Sanitaria di riferimento, bensì dall'individuo. Siamo, in
una certa ottica, al livello zero della prevenzione, ossia quel momento,
sempre più cruciale, in cui un individuo, collezionando migliaia di dati su di sé
(le proprie performance fisiche, il proprio stile di vita), riesce a costruirsi uno
specchio, costantemente aggiornato, nel quale riflettersi e osservarsi nel
dettaglio. Per un individuo che padroneggia un tale livello di autoconoscenza, la prevenzione, anche quella su cui le Aziende Sanitarie tanto
insistono, può divenire una realtà sempre più scientifica e sempre meno
empirica.
Mi pare che il Quantified Self costituisca una rivoluzione, forse necessaria (?)
ma anche inquietante, sulla quale sia urgente fare luce.
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Obiettivi: definire il Quantified Self, capire da dove proviene il
movimento che lo supporta e lo promuove e quali possano essere gli sviluppi
presenti e futuri che andranno ad ampliarne la dimensione.
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Destinatari: chiunque, sia questo un comune cittadino o il dipendente
di una AUSL (si tratti di un normale amminstrativo o di un luminare della
medicina).
Il cittadino comune saprà presto, anche inconsapevolmente, cosa sia il
Quantified Self perché già ora, magari, utilizza una app incentrata sul "selftracking" (o potrebbe presto farlo). Chi invece svolge una professione anche
minimamente tangenziale a qualcosa che riguardi la salute (ecco l'inclusione
degli amministrativi in questo ampio ventaglio, anche un operatore allo
sportello, tanto per dire) sarà chiamato ad avere una coscienza ancora
maggiore di questa rivoluzione, affinché la possa incanalare in percorsi già
tracciati e "sfruttarla" in termini di programmazione e comunicazione.
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Risorse: diversi articoli online di Deborah Lupton e del professor
Maturo, le lezioni del professor Maturo medesimo e il testo, essenziale, di
Deborah Lupton ("The Quantified Self"). Nonché, anche molto divertente,
soprattutto nella dimensione forum, il sito ufficiale del Quantified Self.
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Metodologia: recuperare ogni fonte informativa possibile (su puntuale
suggerimento del professor Maturo) e tentare di unire tutti i puntini possibili. Il
mosaico è ampio, il tema nuovo, percui non ho avuto possibilità di solcare
sentieri già battuti.
Risultati:
Credo di essere riuscito a creare un discorso, sufficientemente dettagliato e
panoramico, su un tema, per me, assolutamente nuovo e decisamente
stimolante.
Criticità e punti di forza:
Criticità e punti di forza in casi come questi rischiano quasi di coincidere.
Il terreno del Quantified Self, bibliograficamente, è abbastanza vergine.
Questo è, contemporaneamente, un limite e un'opportunità. Un limite perché,
un po' come avveniva cinque decadi or sono o giù di lì su temi quali
l'Intelligenza Artificiale, le possibilità concrete di "vedere oltre" l'attuale stato
dell'arte sono scarse. Un'opportunità perché la strada da percorrere è ancora
tanta ed è quindi possibile pensare, proprio attraverso una comprensione
approfondita di quel poco (o tanto?) che già si conosce sul tema, di affrontare
questo futuro in gran parte da scrivere con piena coscienza e conoscenza.
Ritengo che in questi casi sia importante stabilire "le regole del gioco" presto,
entro un tempo ragionevole. Prima che il Quantified Self, ad esempio, cresca
in tempi talmente stretti da rendere eccessivamente complessa
l'individuazione delle sue origini.
Bibliografia:

"The Quantified Self", Deborah Lupton, Polity Books, 183 pagine, 2016

Intervento del professor Antonio Maturo al Corso di Alta Formazione
eHealth 2016 a Bologna: "Il Quantified Self e le sue applicazioni alla salute"

Articolo del professor Antonio Maturo: "Doing Things with Numbers. The
Quantified Self and the Gamification of Health", da "EA - Journal of Medical
Humanities"

Articolo di Deborah Lupton: "Digitised Health, Medicine and Risk", da
"EA - Journal of Medical Humanities"

Articolo di Deborah Lupton: "Self-Tracking Cultures: Towards a
Sociology of Personal Informatics", da "EA - Journal of Medical Humanities"

Articolo di Deborah Lupton: "You Are Your Data: Self-Tracking Practices
And Concepts of Data", da "EA - Journal of Medical Humanities"

www.quantifiedself.com
1.
IL QUANTIFIED SELF: COSA E', DA DOVE VIENE
Molto semplicemente. Cos'è il Quantified Self? Ci risponde Deborah Lupton:
"Il Quantified Self è un termine recente, inventato nel 2007 (Gary Wolf e
David Kelly, redattori di "Wired Magazine", gli autori del fortunato
neologismo), che descrive tutte le attività che riguradano l'automonitoraggio
che un individuo può attuare su di sé".
La risonanza culturale ottenuta dal Quantified Self ha a che fare con
l'esponenziale crescita di tutte quelle tecnologie digitali che ne favoriscono la
diffusione e con il fatto che, negli Stati Uniti, il Quantified Self ha generato un
movimento forte e determinato. Gary Wolf, uno dei principali referenti del
movimento, è convinto che qualsiasi nostro gesto "generi dati". Partendo da
questo presupposto, "quantificare se stessi" diventa un modo nuovo,
abbastanza scientifico (l'abbastanza, concedetemelo, riguarda il fatto che,
come qualche genio ebbe già a dire: "Tutti i dati sono interpretabili"; Gitelman
e Jackson, nel 2013, riformularono l'adagio affermando che "i dati non sono
mai crudi, vengono sempre cucinati attraverso schemi e pratiche sociali,
culturali e politiche"), di affrontare la realtà, la vita e se stessi.
I padri del Quantified Self non sono lontanissimi, o addirittura persi nel tempo.
Particolarmente intrigante l'esperimento della capsula del tempo che Andy
Warhol fece nel 1974, impacchettando e archiviando migliaia di oggetti (libri,
lettere, cartoline, volantini...) che, considerati insieme, determinavano la
natura del tempo in cui furono raccolti e collezionati. Era un modo,
rudimentale e non scientifico, per bloccare, fissare, il tempo vissuto.
Conoscerlo e renderlo conoscibile a chi successivamente si sarebbe
affacciato su quel medesimo scenario.
Ma è stata la tecnologia più recente, d'altra parte, a favorire il Quantified Self,
armando i suoi seguaci di convinzioni sempre più strenue (conoscere dati
significa avere potere; padroneggiare la tecnologia e prevederne le evoluzioni
significa dominare i dati e sfruttarli a proprio vantaggio; misurarsi per
migliorarsi è un obbligo etico per diventare versioni di sé più complete, più in
linea con i propri desideri e le proprie aspirazioni). I cosidetti "wearable
devices" (esempio aggiornato: Apple Watch; esempio gà demodé: gli iPod),
protagonisti di un boom ancora relativamente recente, sono stati
probabilmente gli alleati più affidabili dei promotori delle pratiche di "selftracking" (il secondo capitolo andrà ad analizzare più puntualmente il gergo
generato dai seguaci del Quantified Self). Non a caso il "Guardian" ha sancito
solo nel 2013 il grande successo del movimento.
Nafus e Sherman hanno, prevedibilmente, constatato che durante la
Quantified Self Global Conference, estrema importanza hanno avuto
ragionamenti, spesso reiterati, sulla "mindfulness" e la coscienza del proprio
corpo e della propria vita. Il Quantified Self si presenta quindi in tanti modi,
accogliendo sotto il suo ampio cappello una serie di diversi approcci. Da chi
vede una app per dimagrire come un'opportunità da sfruttare al fine di
raggiungere un unico, programmabile, obiettivo (perdere peso) a chi estende
il Quantified Self e il reticolato di esperienze a cui è, più o meno legato o
vincolato, a una grande chance per rivedere la propria filosofia di vita.
Le assicurazioni stanno già utilizzando i nostri dati per profilare premi sempre
più individualizzati e personali, le smart-cars e le smart-homes sono già una
piccola realtà. E' evidente che in questo frangente storico, domanda e offerta
si stanno miracolosamente incontrando. La domanda di dati da parte di
aziende e enti e l'offerta degli stessi, da parte nostra.
2. LA NECESSITA' DI UN NUOVO LESSICO: DAL "SELF-TRACKING"
ALLA "GAMIFICATION"
Ogni rivoluzione, specie quelle che poggiano i piedi sulle vaste e sempre
mutevoli piattaforme tecnologiche, prevede un ampliamento del vocabolario
corrente. Neologismi, voli pindarici, termini composti. Ogni novità lessicale è
benvenuta poiché ideale per tradurre e descrivere ciò che prima non c'era.
Sono tante le parole nuove generate dalla crescita costante del Quantified
Self e dalle tecnologie che lo assistono. Chi è, ad esempio, un "lifelogger"? E'
colui che, attraverso le nuove tecnologie, "registra" la propria vita. Più
comune ancora dell'attività di "lifelogging" è quella, ancor più brutale per la
verità di cui è portatrice, del "self-tracking".
Wolf sul "self-tracking": "Conoscenza del sè attraverso i numeri". Il modo,
insomma, per quantificare se stesso e gli obiettivi fissati.
Lupton, in ogni modo, declina già "l'arte del self-tracking" al plurale, parlando
di culture diverse, e quindi diversamente orientate al "self-tracking". Centrale,
per chiunque intenda utilizzare nei più svariati modi, l'idea che il dato
rappresenti "una forma superiore di conoscenza" sfruttabile, proprio come
osserva un "self-tracker" d'esperienza come Duncan Watts, "per contrastare
l'istinto, la tradizione e la saggezza tramandata oralmente di generazione e
generazione".
Se parliamo di un nuovo lessico, addirittura un nuovo gergo, non poteva
mancare la partecipazione di "Wired Magazine" (impensabile una sua
mancanza, in questo senso, pensando a Gary Wolf), rivista definitiva degli
hipster e stimolante foglio arringapopolo quando si tratta di spingere,
divulgare e promuovere tutto ciò che è nuova/alta tecnologia. Meglio se
flirtante con il mondo della biorobotica.
Maturo, che a sua volta cita Groh: "La "gamification" può essere definita
come l'uso di elementi legati al game-design in contesti estranei ai "games".
Un esempio limpido: uno smartphone che si illumina se corriamo più
velocemente o le congratulazioni virtuali che riceviamo quando consumiamo
una tazzina di caffè in meno sono l'essenza della "gamification".
Fior di psicologi e pedagogisti hanno intuito da decenni quanto il gioco, anche
per l'adulto, sia un mezzo irrinunciabile per coinvolgersi nelle più disparate
attività. Questo lo sanno bene i costruttori di software e app volte al "selftracking", consci che un nudo numero, nella sua poco attraente essenzialità,
mai potrà spingere qualcuno a spendere energie e tempo online.
Nuove parole, nuove trame della comunicazione, ma anche diverse
interpretazioni di cosa voglia dire essere un "self-quantifier", ossia un
individuo che si "misura". E' in questo perimetro che linguaggio e dati (anche
loro, un linguaggio), osserva Davis, danno vita a strane deviazioni: "I "selfquantifiers" non usano solo i dati per imparare cose su se stessi, bensì per
costruire storie, narrazioni, che parlino a loro stessi di loro stessi". Evidente il
riferimento, che in seguito Davis rende esplicito, alle app che misurano
l'umore. Quando le persone si misurano "uno deve prima determinare chi
voglia essere/diventare. Qual è la storia che l'individuo spera presto di
raccontare su di sè'".
Infine, anche i dati giocano a modificare il linguaggio: si parla infatti di
"dataveillance", la sorveglianza costante (strettamente confinante con
"controllo" e "gestione", aggiungo io) dei dati personali di un individuo.
E se fra gli anglosassoni Google è da tempo ormai anche un verbo, non
passerà troppo tempo prima che qualcuno inserisca parole quali "Fitbit",
"Nike Fuelband", "Wakemate", "Moodscope" e "AskMeEvery" nel comune
discorrere. Per ora sono solo alcune fra le più valide app di "self-tracking"; nel
giro di un paio di lustri potrebbero diventare anche verbi, sostantivi o
aggettivi.
3. L'INDIVIDUO DIGITALE SCHIAVO DEI "DATA"?
"Gli strumenti del "self-tracking" sono sia biografici che personali in svariati
modi.
"E quindi: ammassano e registrano dati riguardanti la vita di un individuo;
archiviano questi dati. Gli strumenti medesimi vengono poi trasformati e
personalizzati, segnati in modo unico dai comportamenti e dal corpo degli
utilizzatori come parte di un processo di appropriazione e addomesticazione".
Lupton, in questo caso, evidenzia correttamente la relazione strettissima fra
strumenti di "self-tracking", "self-trackers" e dati personali. Suggerisce che
l'individuo, maneggiando continuamente il suo smartphone, ad esempio
"settando" in modo personale una app o un software, fa sempre più suoi certi
strumenti, rendendoli meno alieni. Quante persone di generazioni passate
fissando un nipotino "nativo digitale" osservano infatti che lo smartphone di
turno sembra quasi essere un prolumgamento della sua mano?
Tuttavia, questa sensazione, soprattutto applicabile ai comportamenti delle
nuove generazioni, questa sensazione di "possedere la tecnologia", resta
ambigua.
Vediamo quindi di capire il ruolo cruciale dei dati nei processi di "selfquantification". Cerchiamo di capire se il dato è più un mezzo o un fine,
quanto l'individuo lo possieda o quanto ne sia posseduto.
Lupton ama ripetere che tutti gli studiosi del Quantified Self convergono
sull'idea che i dati siano "lively", ossia pieni di vita, energia. Eccitanti, quasi. Il
problema, a mio avviso, resta soprattutto il dato personale. I device fisici
saranno sempre più "friendly" e noi saremo sempre più convinti di averli fatti
"nostri" in breve tempo, tuttavia è il contenuto, ossia il dato, ad essere
un'entità sgusciante, difficilmente afferrabile e, anzi, sottilmente insistente.
Un'entità che forte di questa attraente "liveliness" tenderà sempre a spiazzare
chi a lui si affida.
Il dibattito sulla scientificità e sull'uso equilibrato, freddo, dei dati in questa
epoca di "datification" (tutto diventa dato) che offre un "modello/stile di vita
guidato dai dati" (Pullar-Strecker) è vivace e apertissimo. Ancor di più fra i
"self-trackers" o fra gli scettici della cultura del "self". In quest'ottica gli stessi
"self-trackers" si confrontano, finalmente, sulla qualità e non sulla quantità:
quali dati sono davvero utili per interpretarci, leggerci e migliorarci? Quali dati
sono superfluo fumo negli occhi e quali ci dicono qualcosa di pregnante su
chi siamo? Il rischio di affidare ai dati la lanterna della consocenza
esistenziale del sé è un paradosso forse lontano, ma non lontanissimo. Se
negli ultimi 140 anni le discipline psi (psicologia, psichiatria su tutte) hanno
avuto il primato, indiscusso, di una speculazione umana laica, non dottrinale
(in un certo senso), l'odierno boom dei dati (si pensi all'abuso dei numeri per
narrare e informare) sembra suggerire che l'essere umano, per conoscersi,
non dovrà più, in futuro, "speculare", bensì "misurare".
E' il professor Maturo che, in occasione della conferenza bolognese a
CUP2000 e nei suoi articoli per "EA", ha avuto modo di affermare più volte
una verità alla quale dobbiamo, necessariamente, aggrapparci: "I software e
le varie applicazioni digitali" stanno cambiando la nostra relazione con la
salute". Maturo conta circa, al momento, centomila applicazioni riguardanti la
salute e il benessere (giusto distinguere: non sempre i due campi sono
sovrapponibili). A queste app, che vanno imbottite di dati (che in parte
inseriamo noi stessi e in parte le app medesime rilevano e misurano),
l'individuo chiede un aiuto decisivo: grazie ad esse vuole raggiungere un
nuovo obiettivo oppure essere in grado, con un crescente grado di
precisione, di poter "leggere", giorno per giorno, la propria salute. Ecco, come
suggerito prima da Wolf e poi da Ruckenstein, che l'individuo comune,
affidandosi all'interpretazione e alla gestione dei dati in un'ottica pratica (il
raggiungimento di obiettivi), "si trasforma in un imprenditore di se stesso per
ottimizzare la propria performance". "Oggi – aggiunge Deborah Lupton –
siamo chiamati ad organizzare i nostri doveri domestici, persino la nostra vita
sessuale, secondo gli stessi principi e metodi di un'impresa". In ottica
imprenditoriale, l'obbligo di ammassare, conservare e gestire dei dati, pare
quasi inevitabile se davvero si vogliono ottenere obiettivi importanti. Che la
stessa logica possa essere applicata al vivere comune pare, in prima battuta,
ridicolo. Quasi oltraggioso.
Eppure, vedi secondo capitolo quando si parla di "gamification", è la
tecnologia che ci ha già convinto della bontà e della praticità di questi nuovi
costumi: questi benedetti dati personali, un tempo spesso rinchiusi negli
archivi di uno scrupoloso medico di medicina generale, vengono
quotidianamente aggiornati e condivisi poiché la portabilità di questi software
orientati al "self-tracking" e le interfacce delle app sono estremamente
attraenti, dinamiche, colorate. Golose, quasi. L'individuo non ha quasi mai la
sensazione di trasferire o spostare dati, bensì quella di giocare con dei
valori/misure, come se impersonasse un qualsiasi Mario Bros (ecco la
"gamification"!) che deve costruire il suo palazzo nel minor tempo possibile.
E cosa sono i dati, se non dei numeri? Proprio i numeri hanno ormai
cambiato il loro profilo, il loro peso, il loro appeal, non solo agli occhi
dell'individuo comune, ma anche, e in certi casi soprattutto, agli occhi degli
specialisti, dei medici. "Un altro caso – osserva Maturo citando Horowitz dimostra bene il potere dei numeri: il manuale Diagnostico e Statistico, il
famoso DSM, è alla base di ogni diagnosi sulle malattie mentali. Mentre le
prime due edizioni del DSM erano cartterizzate da un forte punto di vista
teorico, principalmente basato sulla psicanalisi, il DSM-III e ancor di più i suoi
due successori tentano di essere non teorici e orientati al sintomo". Ecco la
datificazione totale già applicata.
Acuta, infine, l'osservazione di Bob Troia, che gioca col paradosso: davvero
abbiamo bisogno di qualcosa che ci dice che siamo stressati? Davvero non
riusciamo a capirlo senza cercare numeri, dati, segni che ci restituiscano una
verità spesso già di per sé evidente?
4. IL "SELF-TRACKING" E UN INDEFINITO CONCETTO DI PRIVACY
Con una tale enfasi sul termine "self", che inevitabilmente rimanda a
qualcosa di totalmente personale e individuale, risulta difficile pensare che, in
fondo, tutte queste "self"-attività non siano un fatto solo individuale.
Nell'istante in cui i "self-trackers" formano un gruppo, una comunità, o
condividono la stessa piattaforma online (una chat, un forum), ecco che il
termine "self" si scrolla di dosso la sua aura di assoluta esclusività. Il costante
confronto fra individui, lo scambio di dati, l'interazione collettiva con
determinati software che pongono tutto o quasi in condivisione, sono a
testimoniare che l'osservazione del sè, spesso declinata sul piano della
Sanità, obbligherà cittadini, utenti, operatori, specialisti, a riconsiderare e
riformulare alcuni concetti chiave in ambito sanitario. Uno su tutti: il concetto
di privacy.
Ablon, Libicki e Golay hanno recentemente segnalato che "i dettagli medici
personali, oggi, hanno un valore enorme per i cyber-criminali. Si stima che il
traffico illecito di dati personali sia oggi più profittevole del mercato della
droga". Ehm...
Deuze, più morbido, afferma che stiamo tutti vivendo una "media life",
un'esistenza mediatica che ha frantumato il tradizionale confine fra pubblico e
privato.
La legge, ad esempio la US Federal Trade Commission, può anche
individuare e stanare 12 app che condividevano dati sensibili con altre 76
terze parti, ma stiamo parlando delle cosidette gocce nel mare, un po' come
quando l'FBI, se non ricordo male, tentava di interrompere il traffico di mp3
generato da Napster.
Lupton, come altri, hanno tuttora le mani abbastanza legate quando cercano
di affrontare il problema della privacy. Per questo la studiosa tira corto
quando considera un tema che, comunque, ritiene assolutamente centrale.
Tutto è ancora molto in divenire da questo punto di vista. Non si va molto
oltre l'osservazione, in nessun modo normativa, che pubblico e privato vanno
completamente ridefiniti perché ormai la gente ha mutato completamente
idea su questi aspetti.
Mentre si lavora a una dettagliata "Magna Carta per i big data", i dati, tutt'altro
che leggeri specie se riguardanti la nostra salute, sono bocconcini prelibati
per aziende multinazionali e hackers (in questo caso, stranamente alleati).
Noi medesimi, fruitori di app e siti dedicati alla raccolta e alla rielaborazione
dei dati, diamo una mano a questi predatori. Recenti indagini hanno
determinato che la gente, in linea di massima, tollera di buon grado che
qualcuno possa lavorare i suoi dati se questo è il prezzo da pagare per
qiuesta comoda e veloce interazione digitale a cui tutti siamo abituati. Di più;
dalla diffusione del mio dato sanitario potrebbe anche scaturire qualcosa di
buono per me, ergo, la diffusione, anche occulta, dei miei dati sensibili, non
mi spaventa.
5.
QUANTIFIED SELF: QUALI PROSPETTIVE? CONSIDERAZIONI
CONCLUSIVE
Maturo e Lupton, ma anche Link & Phelan, hanno avuto lungamente modo di
osservare come dietro l'angolo del Quantified Self vi sia un potenziale delirio
neoliberista, un'idea estremizzata ed estremista secondo cui la salute non è
più un affare della società (o della comunità), ma una questione individuale
"disconnessa dalle ineguaglianze sociali, ma anche dai quei fattori socioeconomici che influenzano le possibilità dell'individuo di essere e rimanere in
salute".
La libera e non controllata circolazione di dati nei forum, la gamification che
tende a semplificare (bene!), ma anche a banalizzare, il fatto che un dato non
è mai, di per sè, autoesplicativo (Coughlin ragiona su quali siano gli effetti
anche "emotivi" che certi dati esercitano su di noi quando ci piovono addosso
all'improvviso), sembrano dettagli trascurabili se l'obiettivo finale è quello di
"essere sempre più in grado di controllare la propria vita" (Lupton). Un
obiettivo, riconoscono alcuni studiosi, che ci sta rendendo sempre più ansiosi
e narcisisti.
"La gente è incoraggiata a rendere se stessa centro della propria vita quando
affronta un progetto etico legato al "selfhood" (grosso modo "l'avere una
individualità ben distinta"). Questo accade nel contesto politico neoliberista
del mondo più sviluppato, un quadro politico che incentiva la responsabilità di
se stessi, l'economia di mercato e la competizione. Il tutto in un momento in
cui lo stato sempre di più evita di offrire un supporto economico ai cittadini"
(Lupton). Elliott parla anche di "un nuovo individualismo che implica la
reinvenzione del sé e del corpo".
David Pogue, dalle ancora autorevoli colonne del "New York Times"
ammonisce e ribadisce: "Si tratta di narcisismo. Di nutrire un ego, certo,
sempre più in salute". In passato scrivevo anch'io, non per il "New York
Times", ma mi permetto comunque un'osservazione, assolutamente
personale e non lapidaria: il misurarsi e l'esistere sono cose diverse. Mi
sembra che i più accaniti "self-trackers" stiano pensando che la vita, in fondo,
è quella enorme parentesi spazio-temporale in cui ci misuriamo e
performiamo.
Se alcune considerazioni dei medesimi studiosi del "self-tracking" possono
quindi suonare come eccessivamente legate al vecchio ordine delle cose, è
perché la sensazione serpeggiante è che la tecnologia abbia ingranato una
marcia troppo alto, più da brividi che da ebbrezza.
Le opportunità concesse da app come "Cardiio", "Moves", "Daytum", "Fitbit" e
via dicendo, inserite in un quadro generale di sempre maggiore "portabilità",
sono immense. Tuttavia, le questioni restano soprattutto etico-normativo. E'
ormai chiaro che la tecnologia possa essere la nostra più fedele alleata
quotidiana. E' meno chiare quale sia ormai il nostro livello di intimità con
essa. Ne ha parlato il professor David Kreps della Salford University qualche
giorno fa a Manchester, speculando sulle relazioni fra uomo e robot.
Uomo e robot si frequentano da tempo. Un giorno convoleranno anche a
giuste nozze?