L`approfondimento

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L`approfondimento
lunedì 14 aprile 2014
L’approfondimento
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Sergio Devecchi, 66 anni, internato tra Ticino e Grigioni perché figlio illegittimo, racconta la sua storia. Gli interni dell’istituto Von Mentlen di Bellinzona come era un tempo
(ARCHIVIO VON MENTLEN)
Io, internato in Ticino
Strappato a sua madre, collocato a Pura
da bebè perché figlio illegittimo. Diventa
educatore e dirige un istituto. Oggi Sergio
Devecchi è in pensione, vuole aiutare
chi era internato, come lui, in Ticino.
Abusi, lavori forzati dall’alba alla sera,
interminabili ore di preghiera... infanzie
rubate che il Ticino deve saper ricordare
come fanno altri cantoni. ‘Io ce l’ho fatta,
ma tanti altri sono finiti in miseria’.
di Simonetta Caratti
Un senso di vergogna gli ha impedito di parlare
per tanti anni. Oggi Sergio Devecchi è in pensione, pedagogista, ha diretto un istituto a Zurigo, presieduto la Società svizzera di pedagogia
sociale, sempre celando il suo passato di figlio
illegittimo cresciuto in orfanotrofio tra Ticino e
Grigioni. «Sono state esperienze talmente prostranti che mi è stato impossibile parlarne prima. Ho fatto il mio lutto, ma altri bambini che
erano in istituto con me in Ticino, oggi sono
adulti che ancora soffrono per i maltrattamenti
subiti. Non parlano perché si vergognano, perché il Ticino è piccolo», dice Sergio Devecchi che
si ingaggia per far conoscere la storia di quegli
anni.
Nato il 2 ottobre del 1947 a Lugano, resta con sua
madre un paio di giorni: «Sono un figlio illegittimo, strappato a mia madre per ordine delle au-
torità, sostenute dalla Chiesa. A Lugano, quelli
come me, dovevano sparire, finivano in orfanotrofio».
All’oscuro della madre, Sergio Devecchi, viene
portato all’istituto ‘Dio aiuta’ di Pura, dove resta
fino all’età di 11 anni. «Si pregava e lavorava finché era buio. A 5 anni ero in stalla, nella vigna da
mattina a sera. C’era poco da mangiare. Quando
ho iniziato la scuola in paese, ho capito, che esistevano una mamma e un papà. Mi sono sentito
diverso dai compagni», dice. Ricorda un’educatrice ‘down’: «Lei mi ha salvato, è l’unica che mi
abbia comunicato affetto, per gli altri c’erano
solo la Bibbia e il lavoro».
Una vita dura, segnata anche da abusi sessuali.
«Il primo è avvenuto a Pura, avevo 9 anni. Ne
sono seguiti altri nei Grigioni da parte di educatori. Li ho denunciati al direttore, ma mi sono
preso una sberla. Nessuno mi credeva. Nel mio
lavoro di educatore e direttore ho fatto di tutto
per evitare che succedesse ad altri», dice.
Le fughe al Ceneri e quel poliziotto gentile
A 11 anni, viene spostato da Pura al Von Mentlen
di Bellinzona. «Nessuno mi ha spiegato perché.
Ero come un pacco». Adattarsi alla nuova struttura non è facile. «Appena potevo scappavo, volevo tornare a Pura dove era dura, ma avevo lasciato gli amici e la mia mucca preferita. Quella
era la mia unica casa». Viene fermato più volte
dalla polizia sul Monte Ceneri. «Gli agenti mi
portavano a pranzo, mi davano la cioccolata,
una volta sono stato con loro sulla volante tutto
il pomeriggio. Sono i ricordi più belli del Ticino».
Dopo pochi mesi, viene trasferito al Santa Maria
di Pollegio. «Eravamo stipati in 30 in una stanza, dietro una tenda dormiva il prete, mi ricordo
le tazze in alluminio, il caos in refettorio e le interminabili ore a pregare. Erano molto severi.
Appena potevo scappavo». Resiste poco, viene
spostato all’istituto ‘Dio aiuta’ a Zizers, nei Grigioni, dove lo rinchiudono in una stanza senza
vestiti, per togliergli la voglia di scappare. «Mi
hanno rubato l’infanzia. Non si giocava. Violenze e abusi erano quotidiani, vivevi nel terrore di
essere la prossima vittima. La sera se c’era rumore in camerata, ci facevano camminare per 3
chilometri nella neve a piedi nudi. Quando rientravi piangevi dal male».
Ma grazie alle sue capacità, la direttrice decide
di farlo studiare: «Ero l’unico su sessanta ragazzi che usciva per andare a scuola. Mi alzavo alle
5.30, c’erano i lavori in stalla, la colazione, poi la
scuola. Puzzavo sempre di letame e mi scherzavano. Poi la sera si lavorava fino alle 20». L’istruzione dà una svolta alla sua vita, finché il Canton Ticino smette di pagare per il suo internamento e si trova in strada. «Avevo 17 anni, ero
solo, sono tornato a Lugano, dove ho iniziato un
tirocinio: mi davano 80 franchi, a metà mese
non avevo più i soldi per mangiare». Sarà un assistente sociale ad aiutarlo indirizzandolo a Basilea dove studierà pedagogia sociale. E la sua
vita prende finalmente quota. Ma non è stato
così per tanti altri internati in Ticino.
(Al tema dedichiamo alcune pagine. Per intervenire: [email protected]).
L’APPELLO
Strappato da mia madre a Lugano: la Città mi aiuti a ricostruire
Sergio Devecchi, 66 anni, vuole sapere chi ha segnato così duramente il suo destino: «È stata
una decisione del parroco a Lugano, sostenuto
da mia nonna, ma vorrei ricostruire il mio passato. Spero che la Città di Lugano mi aiuti, forse
avrò finalmente delle risposte».
Come tanti altri bimbi internati in Ticino, Devecchi si sente un uomo senza storia, non sa
neppure chi è suo padre. Eppure lui, una madre
l’aveva a Lugano. Perché lo Stato gli ha rubato
l’infanzia? «Negli archivi del Dipartimento opere sociali, grazie all’aiuto dell’ex ministro Patrizia Pesenti, ho trovato un foglietto con scarabocchiato il mio nome. C’era scritto, figlio illegit-
timo». Negli istituti dove è stato internato non
ha avuto grande fortuna. Troviamo apertura
però dall’istituto Von Mentlen a Bellinzona:
«Qui abbiamo i dossier di ogni ragazzo ed è accessibile agli interessati», promette l’attuale direttore Carlo Bizzozero, che incontrerà Sergio
Devecchi. Bisogna vedere che cosa resta in cantina, perché in Ticino è dagli anni 60 che c’è l’obbligo di documentare tutto. Prima, veniva fatto
in modo sommario. Restano poche tracce di
quelle migliaia di innocenti (bambini e bambine) imprigionati, costretti ai lavori forzati, privati dei genitori, che spesso venivano obbligati
ad abortire solo perché non erano sposati, per-
ché erano poveri, perché si comportavano in
modo strano, perché erano figli di nomadi, o ribelli. Si chiamavano «internati amministrativi».
A decidere non era un tribunale, ma un giudice
di pace, o un ‘notabile’ del luogo: il sindaco, il notaio, il prete, un istitutore, un commerciante. Nel
Paese che ospita il Consiglio per i diritti umani
dell’Onu gli abusi durarono almeno fino ai primi anni 80. «Tanti internati come me in Ticino,
oggi hanno grossi problemi. Io non chiedo nulla
allo Stato, ma tanti altri hanno bisogno. In Ticino questo tema va affrontato dalla politica,
come fanno altri Cantoni che hanno chiesto
scusa alle vittime», conclude.
LA POLEMICA
Tema ancora tabù
‘Il governo reagisca
C’è chi soffre ancora’
La deputata socialista Marina Carobbio
«Dal profondo del cuore, a nome del governo,
chiedo scusa per la sofferenza inflitta»: così la
consigliera federale Simonetta Sommaruga si
è rivolta a decine di migliaia di orfani, figli illegittimi che in tutta la Svizzera, fino al 1981, sono
stati internati in penitenziari o istituti contro la
volontà dei genitori. Bimbi maltrattati, venduti,
costretti a lavorare senza paga. Madri sterilizzate. Un capitolo oscuro della storia svizzera oggetto dell’iniziativa ‘per la riparazione’, lanciata
a inizio aprile da un comitato trasversale, che
oltre alle scuse, chiede indennizzi per le vittime
e un’analisi storica. «È un capitolo difficile della
nostra storia, se ne è parlato molto in Svizzera
tedesca, perché alcune vittime hanno raccontato i loro vissuti. In Ticino è un tema ancora tabù,
le autorità politiche dovrebbero proporre il dibattito, perché tante persone soffrono ancora
per quanto accaduto», dice la deputata al Nazionale Marina Carobbio. Alcuni Cantoni hanno
chiesto scusa, in Ticino nemmeno si sfiora il
tema: «Il governo ticinese dovrebbe ricostruire il
fenomeno dei collocamenti coatti, riconoscere
eventuali errori, chiedere scusa alle vittime. È
importante anche in un’ottica educativa per non
rifare gli stessi errori. Ora si discute di risarcimenti, anche i Cantoni dovranno contribuire».