Transazioni commerciali: i ritardi nei pagamenti

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Transazioni commerciali: i ritardi nei pagamenti
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Transazioni commerciali:
i ritardi nei pagamenti
Il D.Lgs. 192/2012, che ha recepito la dir. n. 2011/7/UE in tema di ritardati
pagamenti, ha introdotto le nuove regole sui termini di pagamento
e sulla decorrenza degli interessi moratori per le transazioni commerciali
tra i soggetti che operano nel settore della contrattualistica pubblica e privata.
Le novità investono pienamente il settore dei pagamenti negli appalti di lavori
pubblici e dei pagamenti relativi a contratti tra imprese nell’ambito del settore
dell’edilizia privata e pubblica sia concernenti l’esecuzione dei lavori sia
la progettazione delle opere.
Elisabetta Mariotti
Avvocato
La modifica del D.Lgs. 231/2002, a opera del
D.Lgs. 192 del 9 novembre 2012 (G.U. 267 del
15 novembre 2012), riprende ampiamente le
indicazioni della normativa europea che ha
ritenuto necessario un passaggio deciso verso una cultura dei pagamenti rapidi, in cui,
tra l’altro, l’esclusione del diritto di applicare
interessi di mora sia sempre considerata una
clausola o prassi contrattuale gravemente
iniqua, per invertire tale tendenza e per disincentivare i ritardi di pagamento.
Tale passaggio dovrebbe inoltre includere
l’introduzione di disposizioni specifiche sui
periodi di pagamento e sul risarcimento dei
creditori per le spese sostenute e prevedere,
tra l’altro, che l’esclusione del diritto al risar-
cimento dei costi di recupero sia presunta
essere gravemente iniqua.
Nei considerando della dir. n. 2011/7/UE1
si legge (considerando n. 12) che i ritardi di
pagamento costituiscono una violazione
contrattuale resa finanziariamente attraente
per i debitori nella maggior parte degli Stati
membri dai bassi livelli dei tassi degli interessi di mora applicati o dalla loro assenza e/o
dalla lentezza delle procedure di recupero.
Di conseguenza, secondo l’Europa, si dovrebbe provvedere a limitare, di regola, i termini di
pagamento previsti dai contratti tra imprese
a un massimo di 60 giorni di calendario.
Le novità della direttiva europea, introdotte
nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 192/2012,
Dir. n. 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento
nelle transazioni commerciali.
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investono pienamente il settore dei pagamenti negli appalti di lavori pubblici e dei
pagamenti relativi a contratti tra imprese
nell’ambito del settore dell’edilizia privata e
pubblica sia concernenti l’esecuzione dei lavori sia la progettazione delle opere.
Le fonti della nuova disciplina
In ordine cronologico le norme di riferimento per regolare i ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali in materia sono:
– codice civile;
– Codice dei contratti pubblici (D.Lgs.
163/2006 e successive modificazioni, in
seguito Codice);
– regolamento di attuazione del Codice dei
contratti pubblici D.P.R. 207/2010;
– dir. n. 2011/7/UE;
– D.Lgs. 231/2002 come modificato dal
D.Lgs. 192 del 9 novembre 2012;
– circolare del Ministero dello sviluppo economico e del Ministero delle infrastrutture
e dei trasporti n. 1293 del 23 gennaio 2013.
L’entrata in vigore
del D.Lgs. 231/2002
Le nuove disposizioni del D.Lgs. 231/2002 e
successive modificazioni si applicano alle
transazioni commerciali (e quindi ai contratti pubblici e privati del settore edile) concluse dal 1° gennaio 2013.
Quindi dal 1° gennaio 2013, i debitori soggetti al diritto privato così come la Pubblica
amministrazione dovranno pagare i propri
creditori/fornitori ordinariamente entro 30
giorni, salvo poter derogare dal predetto termine al più entro 60 giorni.
Nelle transazioni commerciali tra imprese
private, se non diversamente specificato in
contratto, il termine di pagamento ordinario
è di 30 giorni.
Tuttavia le parti possono stabilire contrattualmente un diverso termine che, però, non
dovrebbe superare i 60 giorni e non deve ri-
sultare gravemente iniquo per il creditore.
La deroga al termine ordinario di pagamento di 30 giorni si applica alle imprese
pubbliche tenute al rispetto dei requisiti di
trasparenza e agli enti pubblici che erogano prestazioni di assistenza sanitaria, nonché – previo accordo tra le parti – in tutti
quei casi in cui vi sia una oggettiva giustificazione in base alla natura o all’oggetto del
contratto, ovvero in relazione a particolari
circostanze esistenti al momento della conclusione dell’accordo.
Trascorsi tali termini, senza che sia avvenuto il pagamento, decorre automaticamente il
computo degli interessi di mora al tasso BCE
(vigente al 1° gennaio o al 1° luglio, come comunicato dal MEF in Gazzetta Ufficiale entro
5 giorni) maggiorato di 8 punti percentuali.
Le clausole presenti nei contratti sottoscritti dopo il 1° gennaio 2013 che rechino termini diversi da quelli indicati nella nuova
disciplina possono essere qualificate come
clausole inique per il creditore e, in tal caso,
saranno soggette a nullità parziale e verranno automaticamente sostituite dalle nuove
disposizioni.
È il caso delle clausole o pattuizioni che,
sottoscritto dopo il 1° gennaio 2013, rechino
termini per la decorrenza degli interessi diversi da quelli imposti dalle nuove disposizioni: le nuove regole impongono alle parti
di dare l’espressa motivazione della eventuale previsione di tali diversi termini contrattuali superiori a quelli stabiliti nel D.Lgs.
231/2012, soprattutto quando sono maggiori di 60 giorni.
Altrettanta cautela andrà impiegata nel caso
di contratti redatti mediante formulari antecedentemente alla data di applicabilità del
decreto, ovvero per quei rapporti che, pur
essendo riconducibili alla transazione commerciale o al contratto, vengono conclusi
in forma orale o attraverso l’accettazione di
proposte unilaterali di contratto.
Anche tra imprese private l’addebito degli
interessi di mora è automatico e computato
al tasso BCE maggiorato di 8 punti percenConsulente immobiliare 936-2013
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tuali; tuttavia le parti possono concordare
l’applicazione di un diverso tasso.
Tutti gli accordi tra debitore e creditore formalizzati in contratti e volti a escludere l’operatività delle norme relative agli interessi
di mora in caso di ritardato pagamento sono
nulli per presunzione assoluta, senza possibilità di prova contraria.
Le clausole e le prassi gravemente inique per
il creditore nel caso in cui si verifichi qualsiasi
grave scostamento dalla corretta prassi commerciale sono nulle.
La nullità colpisce anche clausole che escludono il risarcimento dei costi sostenuti per
il recupero delle somme non tempestivamente pagate.
L’art. 8 del nuovo testo del D.Lgs. 231/2002
per stabilire mezzi efficaci e idonei a impedire il continuo ricorso a clausole contrattuali
inique, delega alle associazioni di categoria
rappresentate nelle Camere di commercio,
ovvero nel CNEL, di proporre azioni in giudizio al fine di far sanzionare adeguatamente
clausole contrattuali e prassi inique.
La regola secondo cui le nuove norme si applicano ai contratti sottoscritti a partire dal
1° gennaio 2013 opera anche per i subcontratti stipulati in esecuzione dei contratti
principali e per l’esecuzione dei primi, ancorché questi siano stati stipulati anteriormente
e dunque siano regolati dalle vecchie regole.
Le finalità
della normativa europea
Nei considerando della dir. n. 2011/7/UE
si leggono le finalità della riforma imposta
dall’Europa agli Stati membri, le quali, in
sintesi, esprimono le ragioni di policy e gli
aspetti giuridici posti alla base della riforma
della disciplina per i ritardi nei pagamenti
nelle transazioni commerciali.
Sulla base dei principi di diritto privato, nel
mercato interno europeo la maggior parte
delle merci e dei servizi è fornita da operatori economici ad altri operatori economici
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e ad amministrazioni pubbliche secondo un
sistema di pagamenti differiti, in cui il fornitore lascia al cliente un periodo di tempo per
pagare la fattura, secondo quanto concordato tra le parti, precisato sulla fattura del fornitore o stabilito dalla legge.
Nelle transazioni commerciali tra operatori
economici o tra operatori economici e amministrazioni pubbliche molti pagamenti
sono effettuati più tardi rispetto a quanto
concordato nel contratto o stabilito nelle
condizioni generali che regolano gli scambi.
La direttiva sottolinea che sebbene le merci
siano fornite e i servizi prestati, molte delle
relative fatture sono pagate ben oltre il termine stabilito.
Tali ritardi di pagamento influiscono negativamente sulla liquidità e complicano la gestione finanziaria delle imprese.
Essi compromettono anche la loro competitività e redditività quando il creditore deve
ricorrere a un finanziamento esterno a causa di ritardi nei pagamenti.
È chiaro alla Commissione europea che «il
rischio di tali effetti negativi aumenta considerevolmente nei periodi di recessione economica, quando l’accesso al finanziamento
diventa più difficile».
Oltre al ricorso alla giustizia nei casi di ritardi di pagamento, agevolato dai regolamenti che istituiscono un procedimento
europeo d’ingiunzione di pagamento, per
disincentivare i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali è stato riconosciuto come necessario stabilire disposizioni aggiuntive.
Nella comunicazione del 25 giugno 2008 dal
titolo “Una corsia preferenziale per la piccola impresa – Alla ricerca di un nuovo quadro fondamentale per la piccola impresa (un
Small Business Act per l’Europa)”, la Commissione europea aveva già sottolineato la
necessità di agevolare l’accesso al credito
per le piccole e medie imprese (PMI) e di creare un contesto giuridico ed economico che
favorisca la puntualità dei pagamenti nelle
transazioni commerciali.
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È utile evidenziare che nei considerando della direttiva viene riconosciuta alle Pubbliche
amministrazioni una particolare responsabilità al riguardo.
Già con una delle azioni prioritarie della
comunicazione della Commissione del 26
novembre 2008 intitolata “Un piano europeo di ripresa economica” veniva prevista
la riduzione degli oneri amministrativi e la
promozione dell’imprenditorialità, in particolare assicurando, in linea di principio,
il pagamento entro un mese delle fatture relative a forniture e servizi, comprese
quelle alle PMI, per alleviare i problemi di
liquidità.
Pertanto con la dir. n. 2011/7/UE l’ambito di applicazione della presente direttiva
viene limitato ai pagamenti effettuati a titolo di corrispettivo per una transazione
commerciale, suggerendo l’esclusione alle
transazioni con i consumatori, agli interessi relativi ad altri pagamenti, per esempio
pagamenti a norma di legge per assegni o
titoli di credito o pagamenti effettuati a
titolo risarcimento danni, ivi compresi i
pagamenti effettuati da un assicuratore,
ai debiti oggetto di procedure concorsuali,
comprese le procedure finalizzate alla ristrutturazione del debito.
Nel considerando n. 9 la direttiva traccia
l’ambito di applicazione delle nuove regole a tutte le transazioni commerciali a
prescindere dal fatto che siano effettuate tra imprese pubbliche o private ovvero
tra imprese e Amministrazioni pubbliche,
dato che alle Amministrazioni pubbliche
fa capo un volume considerevole di pagamenti alle imprese. Essa pertanto si riferisce a tutte le transazioni commerciali tra
gli appaltatori principali e i committenti e
tra gli appaltatori principali e i loro fornitori e subappaltatori.
L’art. 1 ribadisce che «Lo scopo della presente direttiva è di lottare contro i ritardi di
pagamento nelle transazioni commerciali, al
fine di garantire il corretto funzionamento
del mercato interno, favorendo in tal modo
la competitività delle imprese e in particolare delle PMI».
L’ambito di applicazione
della direttiva
e della normativa interna
L’art. 2 della dir. n. 2011/7/UE stabilisce che
per “transazioni commerciali” si intendono
le transazioni tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni che comportano la fornitura di merci o la prestazione di
servizi dietro pagamento di un corrispettivo.
Per “Pubblica amministrazione” si intende
qualsiasi amministrazione aggiudicatrice
quale definita all’art. 2, par. 1, lett. a), della
dir. n. 2004/17/CE e all’art. 1, par. 9, della dir.
n. 2004/18/CE, indipendentemente dall’oggetto o dal valore dell’appalto.
Per “impresa” si intende ogni soggetto organizzato, diverso dalle Pubbliche amministrazioni, che agisce nell’ambito di un’attività economica o professionale indipendente,
anche quando tale attività è svolta da una
sola persona.
Il D.Lgs. 192/2012 che ha modificato il D.Lgs.
231 del 9 ottobre 2002, recependo la dir. n.
2011/7/UE, ha accolto letteralmente le previsioni europee stabilendo il campo di applicazione a ogni pagamento effettuato a
titolo di corrispettivo in una transazione
commerciale, con esclusione dei debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a carico del debitore, comprese le procedure finalizzate alla ristrutturazione del debito e ai
pagamenti effettuati a titolo di risarcimento
del danno, compresi i pagamenti effettuati a
tale titolo da un assicuratore.
Quanto alla definizione di “transazioni commerciali”, l’art. 2 della norma interna, ha
ribadito, come la norma europea, che tali
devono intendersi i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e
Pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna
di merci o la prestazione di servizi contro il
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pagamento di un prezzo e quindi tutti i contratti oggetto della disciplina del Codice dei
contratti pubblici (D.Lgs. 163/2006 e successive modificazioni) e i contratti che riguardano i lavori e attività tecniche nell’edilizia
privata.
Per “Pubblica amministrazione” si devono
intendere le amministrazioni di cui all’art. 3,
comma 25, del D.Lgs. 163 del 12 aprile 2006,
e ogni altro soggetto, allorquando svolga attività per la quale è tenuto al rispetto della
disciplina di cui al D.Lgs. 163/2006 (cosiddetto Codice dei contratti pubblici ovverosia
la disciplina degli appalti pubblici di lavori,
servizi e forniture).
Il diritto agli interessi di mora
senza necessità di sollecito
L’art. 3 della dir. n. 2011/7/UE ha stabilito
che gli Stati membri, nel recepire la direttiva
con un proprio provvedimento legislativo,
assicurino che nelle transazioni commerciali tra imprese il creditore abbia diritto agli
interessi di mora senza che sia necessario
un sollecito, qualora siano soddisfatte le seguenti condizioni:
a. il creditore ha adempiuto agli obblighi
contrattuali e di legge; e
b. il creditore non ha ricevuto nei termini
l’importo dovuto e il ritardo è imputabile al
debitore.
Qualora siano soddisfatte queste condizioni
il creditore avrà diritto agli interessi di mora
a decorrere dal giorno successivo alla data di
scadenza o alla fine del periodo di pagamento stabiliti nel contratto.
Se la data di scadenza o il periodo di pagamento non sono stabiliti nel contratto, il creditore avrà diritto agli interessi di mora alla
scadenza di uno dei termini seguenti:
– 30 giorni di calendario dal ricevimento da
parte del debitore della fattura o di una richiesta equivalente di pagamento;
– se non vi è certezza sulla data di ricevimento della fattura o della richiesta equi-
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valente di pagamento, trenta giorni di
calendario dalla data di ricevimento delle
merci o di prestazione dei servizi;
– se la data in cui il debitore riceve la fattura o la richiesta equivalente di pagamento
è anteriore a quella del ricevimento delle
merci o della prestazione dei servizi, trenta giorni di calendario dalla data di ricevimento delle merci o di prestazione dei
servizi;
– se la legge o il contratto prevedono una
procedura di accettazione o di verifica
diretta ad accertare la conformità delle merci o dei servizi al contratto e se il
debitore riceve la fattura o la richiesta
equivalente di pagamento anteriormente
o alla stessa data dell’accettazione o della
verifica, trenta giorni di calendario da tale
data.
Infine, la direttiva dispone che, ove sia prevista una procedura di accettazione o di
verifica diretta ad accertare la conformità
delle merci o dei servizi al contratto, la durata massima di tale procedura non dovrà
superare 30 giorni di calendario dalla data
di ricevimento delle merci o di prestazione
dei servizi, se non diversamente concordato espressamente nel contratto e purché
ciò non sia gravemente iniquo per il creditore.
Secondo la direttiva europea il periodo di
pagamento stabilito nel contratto non deve
superare i sessanta giorni di calendario, se
non viene diversamente concordato espressamente nel contratto e purché ciò non sia
gravemente iniquo per il creditore.
Ai sensi dell’art. 4 della direttiva, anche nelle
transazioni fra imprese e Pubbliche amministrazioni, quando il debitore è la Pubblica
amministrazione, alla scadenza del periodo
di pagamento, il creditore deve avere diritto agli interessi legali di mora senza che sia
necessario un sollecito, qualora il creditore
abbia adempiuto agli obblighi contrattuali
e di legge e non abbia ricevuto nei termini
l’importo dovuto e il ritardo è imputabile al
debitore.
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Il calcolo degli interessi di mora
Già nel considerando n. 15 , la dir. n. 2011/7/
UE stabilisce che interessi legali di mora
per ritardato pagamento dovrebbero essere calcolati come interessi semplici su base
giornaliera secondo il reg. n. 1182/71 (CEE,
Euratom) del Consiglio del 3 giugno 1971,
concernente le norme applicabili ai periodi
di tempo, alle date e ai termini.
La decorrenza e i termini
per applicare gli interessi
Secondo i dettami della dir. n. 2011/7/UE,
in caso di ritardo di pagamento, il creditore
dovrebbe applicare interessi di mora senza
alcun preavviso di inadempimento o altro
simile avviso che ricordi al debitore il suo
obbligo di pagare.
Ancora secondo la direttiva europea, ai fini
del diritto agli interessi di mora, è tardivo il
pagamento del debitore qualora il creditore
non possa disporre della somma a lui dovuta alla data di scadenza, a condizione che
egli abbia adempiuto ai suoi obblighi legali
e contrattuali.
La direttiva sottolinea che l’equo risarcimento dei creditori, relativo ai costi di recupero sostenuti a causa del ritardo di pagamento, serve a disincentivare i ritardi di
pagamento.
Per questa ragione, la norma europea stabilisce che tra i costi di recupero dovrebbero
essere inclusi anche i costi amministrativi e i
costi interni causati dal ritardo di pagamento.
Il risarcimento delle spese di recupero dovrebbe essere determinato fatte salve le disposizioni nazionali in base alle quali l’autorità giurisdizionale nazionale può concedere
al creditore un risarcimento per eventuali
danni aggiuntivi connessi al ritardo di pagamento del debitore.
Oltre ad avere diritto al pagamento di un importo forfetario per coprire i costi interni legati al recupero, il creditore dovrebbe poter
esigere anche il risarcimento delle restanti
spese di recupero sostenute a causa del ritardo di pagamento del debitore.
Tali spese dovrebbero comprendere, in particolare, le spese sostenute dal creditore per
aver affidato un incarico a un avvocato o a
un’agenzia di recupero crediti.
Per quanto riguarda la posizione delle Pubbliche amministrazioni, la direttiva osserva
che esse godono di flussi di entrate più certi,
prevedibili e continui rispetto alle imprese.
Molte Pubbliche amministrazioni possono
inoltre ottenere finanziamenti a condizioni
più interessanti rispetto alle imprese.
Allo stesso tempo, per raggiungere i loro
obiettivi, le Pubbliche amministrazioni dipendono meno delle imprese dall’instaurazione di relazioni commerciali stabili.
Lunghi periodi di pagamento e ritardi di
pagamento da parte delle Pubbliche amministrazioni per merci e servizi determinano
costi ingiustificati per le imprese.
Di conseguenza, la direttiva prescrive che
«per le transazioni commerciali relative
alla fornitura di merci o servizi da parte di
imprese alle Pubbliche amministrazioni
è opportuno introdurre norme specifiche
che prevedano, in particolare, periodi di pagamento di norma non superiori a trenta
giorni di calendario, se non diversamente
concordato espressamente nel contratto
e purché ciò sia obiettivamente giustificato alla luce della particolare natura o delle
caratteristiche del contratto, e in ogni caso
non superiori a sessanta giorni di calendario» (considerando n. 23).
Nel considerando n. 24, si osserva che occorre tener conto della situazione specifica delle Pubbliche amministrazioni che svolgono
attività economiche di natura industriale
o commerciale offrendo merci o servizi sul
mercato come impresa pubblica.
A tal fine, gli Stati membri dovrebbero essere
autorizzati, a determinate condizioni, a prorogare il periodo legale di pagamento fino a
un massimo di sessanta giorni di calendario.
È sicuramente nuova la previsione comunitaria secondo cui dovrebbe essere proibito
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l’abuso della libertà contrattuale a danno del
creditore.
Di conseguenza, quando una clausola contrattuale o una prassi relativa alla data o al
periodo di pagamento, al tasso di interesse di
mora o al risarcimento dei costi di recupero
non sia giustificata sulla base delle condizioni
concesse al debitore, o abbia principalmente
l’obiettivo di procurare al debitore liquidità
aggiuntiva a spese del creditore, si può ritenere che si configuri un siffatto abuso.
A tale riguardo e conformemente al progetto
accademico di quadro comune di riferimento, qualsiasi clausola contrattuale o prassi
che si discosti gravemente dalla corretta
prassi commerciale e sia in contrasto con il
principio della buona fede e della correttezza dovrebbe essere considerata iniqua per il
creditore.
In particolare, secondo il dettame europeo,
l’esclusione esplicita del diritto di applicare
interessi di mora dovrebbe essere sempre
considerata come gravemente iniqua, mentre
l’esclusione del diritto al risarcimento dei costi di recupero dovrebbe essere presunta tale.
a. 30 giorni dalla data di ricevimento da par-
I termini di decorrenza
nel diritto interno
La deroga ai termini
di decorrenza
• I patti tra operatori privati
Il D.Lgs. 231/2002, come modificato dal
D.Lgs. 192/2012, all’art. 3 recepisce l’impostazione europea e sancisce che «il creditore
ha diritto alla corresponsione degli interessi
moratori sull’importo dovuto, ai sensi degli
artt. 4 e 5, salvo che il debitore dimostri che il
ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato dall’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile».
L’art. 4, disciplinando la decorrenza degli
interessi moratori, dispone che «gli interessi
moratori decorrono, senza che sia necessaria la costituzione in mora, dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento».
Ai fini della decorrenza degli interessi moratori si applicano i seguenti termini:
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te del debitore della fattura o di una richiesta
di pagamento di contenuto equivalente. Non
hanno effetto sulla decorrenza del termine le
richieste di integrazione o modifica formali
della fattura o di altra richiesta equivalente
di pagamento;
b. 30 giorni dalla data di ricevimento delle
merci o dalla data di prestazione dei servizi,
quando non è certa la data di ricevimento
della fattura o della richiesta equivalente di
pagamento;
c. 30 giorni dalla data di ricevimento delle
merci o dalla prestazione dei servizi, quando
la data in cui il debitore riceve la fattura o
la richiesta equivalente di pagamento è anteriore a quella del ricevimento delle merci o
della prestazione dei servizi;
d. 30 giorni dalla data dell’accettazione o della verifica eventualmente previste dalla legge
o dal contratto ai fini dell’accertamento della
conformità della merce o dei servizi alle previsioni contrattuali, qualora il debitore riceva
la fattura o la richiesta equivalente di pagamento in epoca non successiva a tale data.
Il nuovo testo dell’art. 4, comma 3, del D.Lgs.
231/2002 (come modificato dal D.Lgs.
192/2012) ammette che «nelle transazioni
commerciali tra imprese le parti possono
pattuire un termine per il pagamento superiore rispetto a quello previsto dal comma 2.
Termini superiori a sessanta giorni, purché
non siano gravemente iniqui per il creditore ai sensi dell’art. 7, devono essere pattuiti
espressamente. La clausola relativa al termine deve essere provata per iscritto».
• Le clausole dei contratti pubblici
Il D.Lgs. 231/2002, come modificato dal
D.Lgs. 192/2012, all’art. 4, comma 4, riconosce la possibilità alle Pubbliche amministra-
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zioni di derogare al termine di trenta giorni
per il pagamento dei debiti e per la decorrenza degli interessi moratori.
La disposizione citata prevede che «Nelle
transazioni commerciali in cui il debitore
è una Pubblica amministrazione le parti
possono pattuire, purché in modo espresso, un termine per il pagamento superiore
a quello previsto dal comma 2, quando ciò
sia giustificato dalla natura o dall’oggetto
del contratto o dalle circostanze esistenti
al momento della sua conclusione. In ogni
caso i termini di cui al comma 2 non possono essere superiori a sessanta giorni. La
clausola relativa al termine deve essere provata per iscritto».
Merita senz’altro attenzione la previsione
che il patto tra le parti diretto a deroga il termine di 30 giorni fino al massimo termine di
60 giorni deve essere esplicitato e accompagnato da una motivazione che rappresenti
che l’esigenza della Pubblica amministrazione trova fondamento nella natura o nell’oggetto del contratto o nelle circostanze esistenti
al momento della sua conclusione.
Il comma 5 dell’art. 4 del novellato D.Lgs.
231/2002 stabilisce che il termine di trenta
giorni è raddoppiato ope legis:
a. per le imprese pubbliche che sono tenute
al rispetto dei requisiti di trasparenza di cui
al D.Lgs. 333 dell’11 novembre 2003;2
b. per gli enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria e che siano stati debitamente riconosciuti a tale fine.
Anche in tal caso, come per le transazioni
tra soggetti privati, l’accordo deve essere
provato per iscritto.
La nullità delle clausole
contrattuali
L’art. 7 del D.Lgs. 231/2002, come modificato
dal D.Lgs. 192/2012, introduce una ipotesi di
nullità per contrasto con una norma imperativa di legge.
Il comma 1 stabilisce che «Le clausole relative al termine di pagamento, al saggio degli
interessi moratori o al risarcimento per i costi di recupero, a qualunque titolo previste o
introdotte nel contratto, sono nulle quando
risultano gravemente inique in danno del
creditore. Si applicano gli artt. 1339 e 1419,
comma 2, cod. civ.».
Ai sensi dell’art. 1339 cod. civ. le clausole, i
prezzi di beni o di servizi, imposti dalla legge (o da norme corporative) sono di diritto
inseriti nel contratto, anche in sostituzione
delle clausole difformi apposte dalle parti.
Il combinato di queste disposizione permette di comprendere che in caso di previsione contrattuale antecedente alla entrata
in vigore della nuova disposizione oppure
nel caso di clausole introdotte nel contratto
successivamente, queste sono nulle quando
risultano gravemente inique in danno del
creditore e si applica l’art. 1339 cod. civ. con
l’effetto di avere la sostituzione delle clausole legali del D.Lgs. 231 al posto delle clausole
difformi apposte dalle parti.
Il giudice dichiara, anche d’ufficio, la nullità
della clausola avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, tra cui il grave scostamento
dalla prassi commerciale in contrasto con
il principio di buona fede e correttezza, la
natura della merce o del servizio oggetto
del contratto, l’esistenza di motivi oggettivi
per derogare al saggio degli interessi legali di
mora, ai termini di pagamento o all’importo
forfetario dovuto a titolo di risarcimento per
i costi di recupero.
Il comma 3 dell’art. 7 offre un supporto interpretativo al concetto di clausola gravemente
iniqua, precisando che si considera tale la
clausola che esclude l’applicazione di interessi di mora.
Secondo il comma 4 del medesimo art. 7 si
D.Lgs. 333 dell’11 novembre 2003, “Attuazione della dir. n. 2000/52/CE, che modifica la dir. n. 80/723/CEE relativa alla trasparenza delle relazioni finanziarie tra gli Stati membri e le loro imprese pubbliche, nonché alla trasparenza finanziaria all’interno
di talune imprese”, G.U. 276 del 27 novembre 2003.
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presume che sia gravemente iniqua la clausola che esclude il risarcimento per i costi di
recupero di cui all’articolo 6 del decreto.
In ordine alla circostanza che non hanno alcuna validità le clausole predisposte dalla
stazione appaltante in deroga ai tempi di pagamento previsti dal D.Lgs. 231/2002 e gli interessi per ritardato pagamento scattano oltre il
termine di pagamento fissato dal citato D.Lgs.
231/2002 senza necessità di previa costituzione in mora del debitore, si era già pronunciata
l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici e la giurisprudenza amministrativa.
L’AVCP con il parere n. 170 del 6 ottobre 2011,
aveva chiarito che «la dir. n. 2000/35/CE, recepita in Italia con il D.Lgs. 231/2002, contiene norme imperative applicabili anche alle
Pubbliche amministrazioni, che non sono derogabili mediante la presentazione, nell’ambito di una gara di appalto, di una offerta che
tacitamente accetti dichiarazioni difformi
imposte dalla stazione appaltante. Pertanto,
devono ritenersi inique le clausole di un bando di gara che prevedono: il pagamento del
corrispettivo a 60 giorni dal ricevimento della
fattura, anziché ai 30 giorni, previsti dall’art.
4 del D.Lgs. 231/2002; la decorrenza degli interessi moratori dal 180° giorno, anziché dal
30° giorno successivo alla scadenza del termine di pagamento, previsto dall’art. 4; il saggio
di interesse dell’1% anziché dell’8% (1% tasso
BCE, più 7 punti di maggiorazione) previsto
dall’art. 5 (cfr. sul punto, Cons. Stato, Sez. V,
1° aprile 2010, n. 1885; Cons. Stato, Sez. IV, 2
febbraio 2010, n. 469; TAR Lazio, Roma, Sez. I,
26 giugno 2009, n. 6277)».
La giurisprudenza aveva evidenziato che
la normativa comunitaria di cui alla dir. n.
2000/35/CE si applica anche agli appalti
pubblici con la conseguente declaratoria
di invalidità delle norme di capitolato che
prevedono il pagamento della fatture oltre
i 30 giorni e un saggio di interessi inferiore a quello prescritto dall’art. 5 del D.Lgs.
231/2002, che ha recepito detta direttiva
(Cons. Stato, Sez. IV, 2 febbraio 2010, n. 469;
Cons. Stato, Sez. V, 30 agosto 2005, n. 3892;
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TAR Piemonte, Torino, Sez. I, 4 dicembre
2009, n. 3260).
Le sentenze amministrative avevano precisato che la PA non ha il potere di stabilire
unilateralmente le conseguenze del proprio
inadempimento contrattuale (come gli interessi moratori o le conseguenze del ritardato
pagamento), né può subordinare la possibilità di partecipare alle gare all’accettazione
di clausole aventi simili contenuti, se non a
costo di ricadere sotto le sanzioni di invalidità, per iniquità, vessatorietà e mancanza di
specifica approvazione a seguito di trattative.
Analoghe clausole introducono un ingiustificato vantaggio per l’amministrazione predisponente, concretandosi nella aperta violazione della disciplina di riequilibrio delle diverse
posizioni di forza, la cui tutela la direttiva comunitaria è proprio diretta a rafforzare.
Secondo la giurisprudenza, le clausole che
si pongono in diretta violazione degli artt. 4
e 5 del D.Lgs. 231/2002 non sono legittime
poiché dispongono una deroga non ammessa dalla legge né dall’autonomia delle parti;
nella presentazione della offerta può rinvenirsi il diverso accordo contrattato dalle parti solo a seguito di apposita contrattazione e
trattativa sul punto, che evoca un concetto
di contatto di tipo pararapportuale (o precontrattuale) che non può rinvenirsi certo
nel binomio “bando-presentazione dell’offerta”, che già integra (quantomeno in parte)
la conclusione del contratto.
Inoltre, tali clausole si pongono in modo indubbio nel senso di introdurre un ingiustificato vantaggio per l’amministrazione predisponente, concretandosi nella aperta violazione
della disciplina di riequilibrio delle diverse
posizioni di forza, la cui tutela la direttiva comunitaria è proprio diretta a rafforzare.
La prima interpretazione
ministeriale della nuova disciplina
Con circ. prot. n. 0001293 del 23 gennaio
2013 il Ministero dello sviluppo economico
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congiuntamente con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti hanno offerto la
prima interpretazione delle disposizioni del
D.Lgs. 192/2012 (recante modifiche al D.Lgs.
231 del 9 ottobre 2002).
Con riguardo all’ambito di applicazione, la
circolare, richiamando la nota prot. n. 2667
del 20 dicembre 2012, della Presidenza del
Consiglio dei Ministri – Settore legislativo
del Ministro per gli affari europei, ha rilevato che l’ambito di applicazione del decreto
legislativo concerne tutti i settori produttivi.
La Presidenza ha precisato che, sebbene il
provvedimento in parola non lo menzioni
espressamente, esso deve ritenersi applicabile anche al settore edile.
Ciò è stato argomentato sia sotto il profilo
formale, rimarcando che l’espressione “prestazione di servizi” abbraccia inevitabilmente anche i lavori, sia a livello sistematico, rilevando che la disciplina generale, di matrice
sovranazionale, in tema di ritardati pagamenti, non può che prevalere su regolamentazioni nazionali con essa eventualmente
confliggenti.
Per quanto riguarda il settore dei lavori
pubblici, la circolare ne afferma l’attinenza
sulla base dell’esplicita opzione del concetto ampio di “Pubblica amministrazione” di
cui all’art. 2 della predetta dir. n. 2011/7/UE
e la necessità, espressa nel considerando n.
14, di applicare, ai fini della direttiva medesima e per motivi di coerenza della legislazione dell’Unione Europea, la definizione di
“amministrazioni aggiudicatrici” di cui alla
dir. n. 2004/18/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa
al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di
forniture e di servizi.
Si aggiunge che il complesso dei lavori preparatori e prodromici all’adozione della direttiva sui ritardi di pagamento e le corrispondenti normative nazionali di recepimento
degli altri Stati membri costituiscono tutti
elementi che concorrono a far ritenere assoggettati alla normativa europea sui ritardi di
pagamento anche i pagamenti di corrispettivi dell’intero settore dei pubblici appalti.
I due Ministeri, richiamando il considerando n. 11 della dir. n. 2011/7/UE ribadiscono
lo scopo perseguito dalla direttiva stessa di
assoggettare anche i lavori pubblici a un’uniforme regolamentazione per i pagamenti
derivanti dai relativi contratti.
La necessità di un’uniforme regolamentazione, applicabile anche in caso di contratti di
lavori pubblici, si afferma inoltre perché nella
stessa direttiva si stabilisce che è da intendersi come Pubblica amministrazione «qualsiasi
amministrazione aggiudicatrice quale definita all’art. 2, paragrafo 1, lett. a), della dir.
n. 2004/17/CE e all’art. 1, par. 9, della dir. n.
2004/18/CE, indipendentemente dall’oggetto
o dal valore dell’appalto» (art. 2, comma 1, n.
2, dir. n. 7/2011), con la conseguenza che, ove
una di tali amministrazioni si rivolga al mercato per acquisire dietro corrispettivo un’utilità necessaria alla propria organizzazione o
alla propria attività (sia essa un bene, un servizio, un lavoro), vale comunque la disciplina
sui pagamenti posta dalla direttiva stessa.
Tale regolamentazione, che si vuole uniforme per l’intero territorio dell’Unione Europea e per tutti i casi di ricorso al mercato
da parte delle Pubbliche amministrazioni
di tutti gli Stati membri, risponde alla finalità già evidenziata “di garantire il corretto
funzionamento del mercato interno” (art.
1, comma 10, dir. n. 7/2011), perché i ritardi nei pagamenti rappresentano un fattore distorsivo della concorrenza influendo
negativamente sulla “liquidità”, “gestione
finanziaria”, “competitività” e “redditività”
delle imprese che trattano con le pubbliche
amministrazioni, a maggior ragione «nei
periodi di recessione economica, quando
l’accesso al finanziamento diventa più
difficile» (considerando n. 3, dir. n. 7/2011).
Occorre considerare anche la nuova definizione di “Pubbliche amministrazioni”, le
quali sono tutte le “amministrazioni di cui
all’art. 3, comma 25, del D.Lgs. 163 del 12
aprile 2006 e ogni altro soggetto, allorquanConsulente immobiliare 936-2013
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do svolga attività per la quale è tenuto al rispetto della disciplina di cui al D.Lgs. 163 del
12 aprile 2006” (nuovo art. 2, comma 1, lett.
b), D.Lgs. 231/2002).
Si tratta di una definizione che non solo individua gli enti soggetti alla nuova disciplina
sui pagamenti, ma contribuisce a definire
anche le tipologie di contratti pubblici per i
quali s’applica tale nuova disciplina, considerato che l’affidamento dei contratti aventi a oggetto l’esecuzione dei lavori pubblici
rientra nell’ambito di applicazione del predetto D.Lgs. 163/2006, recante il Codice dei
contratti pubblici.
Con questa impostazione risulta chiaro che
nell’ambito di applicazione della nuova regolamentazione rientrano tutti gli organismi di diritto pubblico e le società miste e di
capitali che sono soggette all’applicazione
del Codice dei contratti pubblici.
La circolare ministeriale aggiunge, de jure
condendo, che la nuova proposta di direttiva
in tema di appalti pubblici, che sostituirà la
vigente dir. n. 2004/18/CE, all’art. 2, punto
9, definisce gli “appalti pubblici di servizi”
come appalti pubblici aventi per oggetto la
prestazione di servizi diversi da quelli relativi alla progettazione e all’esecuzione dei
lavori, da cui si desume che i lavori sono comunque, in via generale, compresi nell’accezione dei servizi.
Sulla scorta di queste considerazioni, la circolare ministeriale ritiene che la nuova disciplina dei ritardati pagamenti si applica
ai contratti pubblici relativi a tutti i settori
produttivi, inclusi i lavori, stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2013, ai sensi dell’art. 3,
comma 1, del D.Lgs. 192/2012.
Ne consegue che, secondo l’interpretazione
dei due Ministeri, le disposizioni dettate dal
Codice dei contratti pubblici e dal regolamento di attuazione già vigenti per il settore
dei lavori pubblici, relative ai termini di pagamento delle rate di acconto e di saldo nonché alla misura degli interessi da corrispondere in caso di ritardato pagamento, devono
essere interpretate e chiarite alla luce delle
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disposizioni del D.Lgs. 192/2012, ritenendosi
prevalenti queste ultime sulle disposizioni
di settore confliggenti, tenendo conto anche
dell’espressa clausola di salvezza, secondo
cui restano «salve le vigenti disposizioni del
codice civile e delle leggi speciali che contengono una disciplina più favorevole per il creditore» (art. 11, comma 2, D.Lgs. 231/2002).
I chiarimenti sull’applicabilità
del termine di decorrenza
degli interessi
La circ. prot. n. 0001293 del 23 gennaio 2013
del Ministero dello sviluppo economico congiuntamente al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti offre ulteriori chiarimenti
sull’applicabilità delle nuove disposizioni sul
termine di decorrenza degli interessi rispetto alla disciplina di settore dettata dal D.P.R.
207/2010 (regolamento del Codice dei contratti pubblici) in tema di esecuzione e contabilità dei contratti pubblici di lavori.
La disciplina vigente prevede la corresponsione all’esecutore di pagamenti in acconto nel corso dell’esecuzione dei lavori, sulla base di Stati avanzamento lavori (SAL)
emessi dal direttore dei lavori al raggiungimento dell’ammontare dei lavori eseguiti fissato dal contratto e la corresponsione della
rata di saldo a seguito del collaudo.
La difficoltà interpretativa sottoposta dagli
operatori al Ministero deriva dalla circostanza che i pagamenti sono comunque soggetti
a verifiche della corrispondente prestazione
eseguita; in particolare per le rate di acconto, il responsabile del procedimento, entro
45 giorni dalla maturazione di ciascun SAL,
emette il certificato di pagamento con il
quale è liquidato il credito, da corrispondere all’esecutore entro i successivi 30 giorni;
mentre per la rata di saldo, è prevista la verifica della conformità della prestazione complessiva attraverso il certificato di collaudo
provvisorio o di regolare esecuzione, sulla
base del quale entro 90 giorni è effettuato,
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dietro presentazione di garanzia fideiussoria, il pagamento del saldo, fermo restando
che il termine decorre dalla data di presentazione della garanzia fideiussoria se non
presentata preventivamente.
Gli operatori hanno osservato che talune
delle previsioni sopra descritte non sono
compatibili con i termini massimi di pagamento previsti all’art. 4 del D.Lgs. 231/2002,
come modificato dal D.Lgs. 192/2012.
Infatti, il comma 2 stabilisce che il pagamento è corrisposto entro il termine di trenta
giorni decorrente, secondo le circostanze,
dalla data di ricevimento della fattura ovvero
dalla data della prestazione ovvero dalla data
dell’accettazione o della verifica della prestazione, nel caso in cui siano previste dalla legge o dal contratto.
Il successivo comma 4, relativamente alle
transazioni commerciali in cui il debitore
è una Pubblica amministrazione, prevede,
inoltre, che le parti possono pattuire, purché
in modo espresso, un termine per il pagamento superiore a trenta giorni, e comunque non superiore a sessanta giorni, quando
ciò sia giustificato dalla natura o dall’oggetto
del contratto o dalle circostanze esistenti al
momento della sua conclusione.
Il comma 6 dello stesso articolo stabilisce infine che, quando è prevista una procedura diretta ad accertare la conformità dei servizi al
contratto, essa non può avere una durata superiore a trenta giorni dalla data della prestazione, salvo che sia diversamente ed espressamente concordato dalle parti e previsto nella
documentazione di gara e purché ciò non sia
gravemente iniquo per il creditore.
Le difficoltà applicative sopra richiamate
vengono risolte dall’interpretazione ministeriale, la quale offre una serie di soluzioni
interpretative secondo cui:
– il termine di 30 giorni di cui all’art. 143,
comma 1, secondo periodo, del regolamento per il pagamento delle rate di acconto dall’emissione del certificato di
pagamento, risulta ancora applicabile
in quanto coincidente con quello fissato
dall’art. 4, comma 2 del D.Lgs. 231/2002;
– il termine di 45 giorni previsto dall’art. 143,
comma 1, primo periodo, del regolamento
per l’emissione del certificato di pagamento dalla maturazione del SAL, risulta non
compatibile con la previsione del comma 6
dell’art. 4 del D.Lgs. 231/2002, che fissa in
trenta giorni il termine per la verifica preordinata al pagamento; detto termine deve
pertanto essere inteso come ridotto a trenta
giorni, ove non sia previsto nella documentazione di gara – e pattuito espressamente
nel contratto – un termine maggiore, ma
comunque, in virtù del già richiamato art.
11, comma 2, D.Lgs. 231/2002 che fa «salve le vigenti disposizioni del codice civile e
delle leggi speciali che contengono una disciplina più favorevole per il creditore» non
superiore ai 45 giorni;
– il termine di 90 giorni previsto dall’art. 141,
comma 9, del Codice e dall’art. 143, comma 2, del regolamento, per il pagamento
della rata di saldo a decorrere dal collaudo,
risulta non compatibile con la previsione
del comma 2 dell’art. 4 del D.Lgs. 231/2002,
che prevede il termine di trenta giorni dalla
verifica della prestazione, ovvero un termine superiore, pattuito dalle parti in modo
espresso, comunque non superiore a 60
giorni, quando ciò sia giustificato dalla
natura o dall’oggetto del contratto o dalle
circostanze esistenti al momento della sua
conclusione; detto termine deve pertanto
essere inteso come ridotto a 30 giorni, ove
non sia pattuito espressamente nel contratto un termine maggiore, comunque
non superiore a sessanta giorni, al ricorrere delle condizioni sopra indicate previste
dall’art. 4, comma 4, del D.Lgs. 231/2002;
– il termine di 6 mesi, elevabile fino a un
anno, di cui all’art. 141, comma 1, del Codice dei contratti pubblici previsto per l’emissione del certificato di collaudo, nonché il termine di tre mesi di cui all’art. 141,
comma 3, del medesimo Codice, previsto
per l’emissione del certificato di regolare
esecuzione, risultano ancora applicabili,
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laddove siano espressamente concordati
dalle parti e previsti nella documentazione di gara ai sensi dell’art. 4, comma 6, del
D.Lgs. 231/2002.
Il superamento
dell’applicazione dei commi 2 e 3
dell’art. 144 del regolamento
sui contratti pubblici
Secondo l’interpretazione offerta dalla circ.
prot. n. 0001293 del 23 gennaio 2013 del Ministero dello sviluppo economico e del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, non
sono più applicabili i commi 2 e 3 dell’art. 144
del regolamento che prevedono per il ritardato pagamento, rispettivamente, degli acconti
e del saldo, la corresponsione degli interessi
nella misura del tasso legale per i primi sessanta giorni e degli interessi moratori al saggio stabilito annualmente con decreto interministeriale previsto dal successivo comma
4, a decorrere dal giorno successivo fino alla
data del pagamento. Per le stesse motivazioni,
il Ministero ritiene che non sia più applicabile l’art. 142, commi 1 e 2, del regolamento che
prevedevano rispettivamente che «nel caso
di ritardato pagamento delle rate di acconto rispetto ai termini indicati negli artt. 143 e
144 sono dovuti gli interessi a norma dell’art.
133, comma 1, del Codice» e che «I medesimi
interessi sono dovuti nel caso di ritardato pagamento della rata di saldo rispetto ai termini
previsti dall’art. 141, comma 9, del Codice, con
decorrenza dalla scadenza dei termini stessi».
Il ritardo nell’emissione
del certificato di pagamento
Riguardo all’ipotesi relativa al ritardo nell’emissione del certificato di pagamento per
causa imputabile alla stazione appaltante,
la circ. prot. n. 0001293 del 23 gennaio 2013
del Ministero dello sviluppo economico e del
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti
ritiene che sia ancora applicabile il comma
1 dell’art. 144 del regolamento che prevede
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la decorrenza degli interessi corrispettivi al
tasso legale per sessanta giorni e, in caso di
ritardo ulteriore, la decorrenza degli interessi moratori nella misura stabilita dal sopra
richiamato decreto interministeriale.
Infatti il D.Lgs. 231/2002, come modificato
dal D.Lgs. 192/2012, nel fissare un termine di
trenta giorni per la fase di verifica della prestazione (che, come detto, si conclude con
l’emissione del certificato di pagamento),
non prevede alcuna conseguenza nel caso
che il termine non venga rispettato.
Per tale ipotesi dunque, rimane salva la disciplina speciale contenuta all’art. 133, comma 1, del Codice e all’art. 142, comma 4, del
regolamento, che non presenta profili di
contrasto con le disposizioni della direttiva.
È infatti da ritenersi che, per effetto dalla nuova
normativa, il comma 1 dell’art. 133 del Codice
dei contratti pubblici (D.Lgs. 163/2006) rimane applicabile, con le modalità ivi indicate, relativamente agli interessi conseguenti al ritardo nell’emissione del certificato di pagamento
e non anche dei titoli di spesa relativi agli acconti e alla rata di saldo, atteso che per questi
ultimi, come sopra specificato, si applicano le
nuove regole in tema di interessi moratori.
Infine, poiché il D.Lgs. 231/2002 specifica
che gli interessi moratori decorrono senza
che sia necessaria la costituzione in mora
dal giorno successivo alla scadenza del termine di pagamento, rimane fermo il principio stabilito dall’art. 142, comma 4, del regolamento che esclude la necessità di apposite
domande o riserve e precisa che l’importo
degli interessi per ritardato pagamento viene computato e corrisposto in occasione del
pagamento immediatamente successivo a
quello eseguito in ritardo.
Il ritardo per la mancanza
di disponibilità del finanziamento
della PA
Ben prima dell’entrata in vigore della nuova
regolamentazione sui ritardi nei pagamenti,
a fronte della prassi consolidata del ritardo
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della Pubblica amministrazione ascritta al
ritardo nel ricevere il finanziamento del contratto da enti terzi, la giurisprudenza e l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici sono
intervenute per chiarire che tale ritardo per
mancata erogazione del finanziamento di
un ente terzo non costituisce causa di forza
maggiore, tale da escludere l’imputabilità
del ritardo all’amministrazione che ha sottoscritto il contratto con l’operatore privato.
La mancata tempestività dell’ente finanziatore nel mettere a disposizione le risorse
finanziarie, non può ricadere sul terzo contraente perché costituisce, secondo la giurisprudenza, la conseguenza di fattori organizzativi dell’amministrazione stessa.
Quindi in siffatti casi, si sarà di fronte a un
ritardo ascrivibile unicamente all’amministrazione e quindi inidoneo a inibire l’applicazione delle nuove disposizioni sui termini
di pagamento e sulla decorrenza automatica
degli interessi moratori.
Quanto all’incidenza del patto di stabilità
interno sull’imputabilità dei ritardi nei pagamenti, l’art. 9 del D.L. 78/2009, in materia
di tempestività dei pagamenti da parte delle
Pubbliche amministrazioni, prevede l’obbligo, per le Pubbliche amministrazioni stesse,
di adottare le opportune misure organizzative per garantire il tempestivo pagamento
delle somme dovute per somministrazioni,
forniture e appalti ed evitare la formazione
di debiti pregressi.
Dunque, il funzionario che adotta provvedimenti che comportano impegni di spesa ha
l’obbligo di accertare preventivamente che il
programma dei conseguenti pagamenti sia
compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica (il
Patto di stabilità interno).
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