1 - Rotary Rimini Riviera

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1 - Rotary Rimini Riviera
ANNO XIX NUMERO 119 - PAG I
IL FOGLIO QUOTIDIANO
GIOVEDÌ 22 MAGGIO 2014
EST UCRAINO, STRANA EUROPA
Sul treno 27M da Mosca a Kharkiv per vedere da vicino chi crede nella Novorossiya,
chi vuole combattere per non finire con i russi e chi spera che tutto si sistemi da solo
l treno 27M segna i confini della Russia
al tempo di Vladimir Putin. Nella notte
scende da Mosca a Belgorod, che è l'ultima
città prima dell’Ucraina, attraversa
Kharkiv, passa per Slovyansk, Gorlovka e
Kramatorsk, torna in Russia dalle parti di
Rostov, s’allunga sulla costa del mar Nero,
sbuca dopo trenta ore a Sochi, ai piedi del
Caucaso. E la donna all’ingresso della carrozza numero cinque non spreca sorrisi
per i viaggiatori: è bassa, tozza, porta la
gonna sopra le ginocchia e calze di nylon
sotto le ginocchia, quando le chiedo di controllare il biglietto risponde di salire e
aspettare il mio turno, così le domando a
ventina di uomini in divisa che si riposano,
sono tutti molto giovani, solo due di loro
hanno il fucile in spalla, gli altri lo tengono sulle ginocchia. Seguo i due in fondo a
una scala, mi fanno sedere, mi chiedono di
aspettare che il capitano si liberi per potermi interrogare.
Il capitano ha una trentina d’anni, è vestito in borghese e siede in un ufficio che
evidentemente fa anche da stanza da letto. La camera è così piccola che manca il
posto per sedere, a meno che uno dei due
decida di sedersi sul letto, così resto in piedi nonostante l’invito educato a mettermi
comodo. Mi chiede: Perché hai quei libri?
Gli rispondo che non sono contrario al possesso di libri: forse la polizia ha disposizioni diverse? Lui precisa che non appartiene
alla polizia, ma alle guardie di frontiera,
poi viene al dunque: che cosa facevi a Mosca, chi hai visto lì? E’ l’unica cosa che gli
interessa davvero, perché il timore principale delle guardie di frontiera è che “provocatori russi” entrino nel paese. E’ già accaduto, continua a succedere, è praticamente impossibile fermare gli infiltrati.
Quando si convince che non faccio parte
della categoria gli chiedo com’è la vita da
“Se tutto andrà bene, domani
entrerai in un nuovo paese”, dice
Pavel. E’ l’11 maggio, il giorno
del referendum a Donetsk
L’uomo più ricco del paese,
Rinat Akhmetov, sembrava
contrario alle elezioni, ora invece
le vuole legittimare
che ora si arriva in Ucraina per essere certo che sia il treno giusto, e lei ripete senza
voltarsi: sedete, partiremo presto, all’alba
saremo alla frontiera.
“Se tutto andrà bene domani entrerai in
un nuovo paese”, mi ha detto Pavel quando ha saputo che sarei partito. E’ l’11 maggio, è il giorno del referendum a Donetsk e
Lugansk, il treno corre alla periferia di Mosca mentre migliaia di ucraini, nella parte
orientale del paese, decidono l’indipendenza delle loro regioni e la nascita della
“Novorossiya”. Pavel è un giornalista di
Itar-Tass e segue questa crisi praticamente dal primo giorno. A dire il vero tutti i
russi lo fanno in un modo o nell’altro perché da mesi giornali e tv non parlano d’altro, prima gli scontri a Kiev e la fuga di Viktor Yanukovich, poi l’annessione della Crimea, ora i disordini vicino al confine: è come se non esistesse altra notizia al mondo.
Ma il referendum non è l’unica scelta
per l’Ucraina. Domenica si andrà di nuovo
alle urne per le presidenziali, il favorito è
Petro Poroshenko, un magnate dell’industria alimentare che spera di avere rapporti più solidi con l’Ue. In qualche modo le
elezioni in Ucraina sono un’altra piega della crisi europea. Una parte del paese si
sente occidentale, l’altra crede che benessere e pace possano venire soltanto con i
soldi e la benedizione di Mosca, ma intanto il paese si sgretola. Il fatto che le presidenziali si tengano lo stesso giorno in cui
l’Europa vota i suoi rappresentanti è decisamente simbolico. Anche Rinat Akhmetov, l’uomo più ricco e più influente del
paese, dice ora che le elezioni sono fondamentali per il futuro del paese e che si devono svolgere. Pochi giorni fa ha fatto capire quasi l’opposto, chiedendo al governo
di Kiev, lui industriale nell’est, federalismo. Lungo questa divisione si combatte la
battaglia per l’Ucraina, con cinquanta milioni di civili, decine di oligarchi, e milizie
che portano insegne di nuove nazioni.
L’altro enorme fattore della crisi è la
Russia: nessun paese europeo ha confini
molli come i suoi, le frontiere cambiano
continuamente, anche se poco, secondo l’epoca e l’uomo che governa. Negli anni Ottanta la Russia di Mikhail Gorbacev contava su un impero chiamato Unione sovietica grande da Chisinau a Vladivostok, e
da Novaya Zemlya nel mare dell’Artico sino a Dushanbe, in Tagikistan. Poi è venuta la Russia di Boris Eltsin: via i paesi Baltici, via le Repubbliche dell’Asia centrale,
via la Bielorussia, l’Ucraina e il Caucaso
meridionale. Con lui il Cremlino ha perso
anche due regioni del Caucaso settentrionale, la Cecenia e il Daghestan. Era una
Russia bella ed ebbra, ma pur sempre in
ritirata. Esiste anche una Russia di Putin?
Sì, esiste, e si contrappone in modo netto
a certi valori dell’occidente, offre un’alternativa che molti vogliono cogliere. Putin
ha spostato un’altra volta i confini del paese, ha riportato la legge nel Caucaso dopo
battaglie maledette, ha usato le armi contro la Georgia, infine ha annesso la Crimea. Oggi muove una guerra di nervi con
l’Ucraina.
Chi vuole ancora percorrere in treno la
strada verso Kharkiv? Il governo ucraino
ha bloccato i voli dalla Russia e non si ca-
queste parti dopo il referendum. Lui risponde che è tutto tranquillo, poi dice che
la madre lavora in Italia, che ha pensato di
raggiungerla con la famiglia, ma ricominciare da capo sarebbe impossibile. Si alza
e mi offre da bere, e mentre timbra il mio
passaporto chiede per l’ultima volta: dimmi la verità, perché sei venuto a Kharkiv?
Così gli dico: sono qui per vedere il rabbino Moskovitz.
Il problema è che Moshe Moskovitz del
movimento ortodosso Chabad-Lubavitch
non si trova in Ucraina da giorni, come
spiegano le tre segretarie all’ingresso del
suo ufficio, nella sinagoga di Kharkiv. E’
volato ad Haifa per assistere il sindaco
della città, Gennady Kernes, trasferito in
Israele per le cure dopo che uno sconosciuto gli ha sparato mentre faceva jogging.
Le segretarie dicono che c’è la moglie, si
chiama Miryam e ha qualche minuto da
dedicarmi. Non esiste riparo più meraviglioso della volontà di Dio. Non ricordo dove ho letto questa frase ma è la prima cosa che mi viene in mente quando Miryam
inizia a parlare. “Qui crediamo in Dio e
sappiamo che, in un modo o nell’altro, lui
risolverà ogni cosa – mi spiega, seduta dietro la sua scrivania – Quel che ci spaventa
oggi è l’anarchia, la gente che va in strada
armata e si comporta come se la legge non
esistesse. So che è assurdo, ma gran parte
del paese oggi si trova in questa condizione. E quando c’è una rivolta l’antisemitismo viene sempre a galla: è scritto nella
storia dell’Europa”. La comunità ebraica
di Kharkiv è una delle più importanti in
Europa orientale, qui c’è la sinagoga più
grande dell’Ucraina e migliaia di giovani
arrivano ogni anno in cerca delle loro origini. “Non tutti fra noi hanno la stessa opinione sulla crisi – prosegue Miryam – C’è
chi crede che la colpa sia del governo
ucraino e chi maledice la Russia. Non dovete pensare che il parere dipenda soltanto dalla politica, perché anche gli affari
hanno un peso. Chi aveva rapporti con la
Crimea ora è sul lastrico, chi ce li ha con la
Russia spera che il governo di Kiev non
faccia sciocchezze. Non credo che il governo ucraino sia antisemita, oggi non conviene a nessuno esserlo. Ma mi inquieta il fatto che un movimento come Svoboda, guidato da un leader antisemita, sia riuscito a
infiltrarsi nel governo e ne faccia parte ancora oggi”.
Il leader di Svoboda si chiama Oleh
Tyahnybok, nel 2004 è stato escluso dal partito Nostra Ucraina dopo alcune dichiarazioni su una presunta “mafia moscovita e
giudaica”. Negli ultimi mesi ha proposto di
inserire la voce “etnia” sui passaporti
ucraini, e oggi è candidato alle elezioni
presidenziali. “Il pericolo è che gli ebrei
siano usati come pretesto da una parte o
dall’altra per accusare avversari e nemici
politici – conclude Miryam nel suo ufficio
alla sinagoga di Kharkiv – Guardate che cosa è accaduto con Kernes: gli hanno sparato, i separatisti dicono che è stata una provocazione dei nazionalisti, quelli rispondono che in realtà si tratta di un’azione russa, ma intanto nessuno pensa di prendere
i colpevoli”. Poi suona il telefono, è il rabbino Moskovitz che chiama da Haifa per di(segue nell’inserto II)
re che va tutto bene.
di Luigi De Biase
“Del resto da quanto tempo – i vecchi se
ne ricordavano ancora – si erano introdotti pesi e misure? C’erano solo le bilance,
una volta. Nient’altro che le bilance. Le
stoffe si misuravano col braccio e tutti sanno che un braccio di un uomo, dal pugno
chiuso sino al gomito, misura un braccio
esatto, né più né meno”.
Joseph Roth, “Il peso falso”
I
Un veterano dell’Armata rossa in piazza Lenin a Kharkiv lo scorso 9 maggio, giorno della commemorazione della vittoria sul nazismo
pisce se sia una mossa difensiva (impedire
che altri giovani russi si uniscano alle milizie paramilitari che si trovano da mesi
nella regione), oppure un contrattacco (rendere la vita più difficile a quanti, su questa rotta, spostano ogni giorno merci e denaro, e sono molti a farlo). Così il treno è
rimasto il modo più sicuro per passare da
un paese all’altro, e questo viaggio lento su
vagoni di radica e letti di pelle marrone
prende un’aria da Guerra fredda.
Sulla quinta carrozza viaggiano una piccola famiglia, madre, figlio e madre della
madre; c’è una ragazza sui venticinque che
si è cambiata appena salita sul treno, ha
tolto i jeans e s’è infilata un vestito leggero a strisce bianche e blu; c’è un uomo che
passa di cabina in cabina cercando un accendino in prestito, ma a quanto pare nessuno fuma qui, questo è l’unico vagone in
tutta la Russia in cui nessuno esce a fumare e a parlare di città lontane. La donna
Domenica si vota per le
presidenziali, ma non è detto che
si riesca a farlo in tutto il paese.
E questo creerà altri guai a Kiev
delle ferrovie con la gonna sopra il ginocchio e le calze di nylon ha tolto le scarpe,
si è messa un paio di pantofole, ha distribuito le lenzuola in ogni scompartimento
ed è entrata nella cucina per mettere l’acqua a bollire. La cucina è minuscola ed è
occupata quasi interamente da un grosso
bollitore. Sul tavolo ci sono pane, formaggio e biscotti. L’acqua minerale costa cento rubli (due euro circa). Il caffè ottanta, così come il tè. Lei è responsabile di tutto qui:
è ufficiale delle ferrovie di stato, custode di
materassi e lenzuola, barista, cassiere, donna delle pulizie. Il vagone è suo, ha già
quello a cui pensare e come se non bastasse di tanto in tanto deve rispondere anche
alle domande dei viaggiatori. Nessuno sa
dire di preciso che cosa aspettarsi dal giorno successivo, perché nella notte i separatisti di Donetsk vincono il referendum sull’indipendenza con il 90 per cento dei voti,
a Lugansk vanno oltre il 95, l’esito non era
certo in discussione, ma ora si cerca di sapere come reagiranno le autorità ucraine.
Attaccheranno Lugansk e Donetsk? Costringeranno i ribelli a fuggire? Oppure isoleranno le province bloccando ogni treno,
auto, ogni volo diretto nel paese? Di questo si parla nella notte sul treno 27M.
L’alba è fresca e Belgorod appare all’o-
rizzonte come uno spettro: si vedono sagome bianche di palazzi alti venti piani, insegne pubblicitarie e vagoni fermi all’imbocco della stazione passeggeri. Alla periferia
della città l’esercito russo ha ammassato le
truppe pronte per intervenire in Ucraina,
se mai ce ne fosse bisogno. Pochi giorni fa
il ministero della Difesa ha detto di avere
allontanato gli uomini dal bordo, ma si
tratta di uno spostamento minimo, appena
dieci chilometri, e non si sa con precisione quanti soldati ci sono in questa striscia
di terra. Sono cinquantamila? Forse centomila? Né i servizi segreti, né i satelliti, né
i reporter del New York Times sono riusciti a fare chiarezza, e non l’hanno fatta neppure i loro colleghi russi, sebbene i giornali e le televisioni non parlino d’altro. Forse per loro questa informazione non è fondamentale. Sulle strategie di Putin è stata
scritta ogni cosa: secondo una versione abbastanza popolare in Europa, “Putin inganna l’occidente”, dice una cosa e poi fa
l’opposto. In realtà la Russia ha mantenuto una posizione lineare rispetto alla maggior parte dei paesi europei. Putin ha detto di essere pronto a difendere con ogni
mezzo i russi e quelli che parlano russo, la
Duma gli ha affidato il potere di usare l’esercito per svolgere il compito e lui l’esercito l’ha usato, con estrema prudenza,
quando la Crimea ha chiesto di entrare
nella Federazione russa. Ora lo tiene
schierato a Belgorod e sui mille chilometri
di confine con l’Ucraina. A giudicare dalla sua popolarità in patria (oggi oltre l’80
per cento, il livello più alto nei tre mandati da presidente), si direbbe che i russi capiscano bene le sue parole e considerino
gli impegni mantenuti. In Europa si può dire che la politica russa sia violenta o senza senno, non che manchi di chiarezza. L’unica parte “non chiara” riguarda gli strumenti usati per portare a termine l’obiettivo, ma quello ha a che fare con l’abilità
dei diplomatici russi, che sembrano sempre più preparati degli altri.
In confronto, la politica estera europea
è un rompicapo. I governi si riuniscono, i
ministri firmano sanzioni, i cancellieri minacciano provvedimenti ancora più gravi.
E poi che succede? I russi lo domandano
ogni volta che ti incontrano: che cosa pensate voi di questa crisi? Che cosa farete alla Russia? Non temono le sanzioni ma il
passaparola sui mercati, l’incertezza che
già spinge molti in Europa a cancellare i loro affari in Russia. E’ quella che chiamano
“sanzione segreta”: non è scritta da nessuna parte, quindi è invulnerabile come tutti i fantasmi. Le misure ufficiali sono fasti-
diose, ma fanno anche sorridere. “Ecco le
sanzioni italiane: visti gratis per tre anni”,
ha scritto il quotidiano Pravda pochi giorni fa, sulla prima pagina, con un po’ d’ironia per le scelte – a volte contraddittorie –
del nostro governo.
* * *
“Tutti sapevano poi che un candeliere
d’argento pesava una libbra e venti grammi, un candeliere di ottone circa due libbre.
Sì, da quelle parti c’era molta gente che
non si fidava per nulla di pesi e misure.
Pesavano con la mano e con l’occhio. Non
era una regione propizia per un verificatore statale”.
Joseph Roth, “Il peso falso”
La stazione di Belgorod è anche il posto
di confine, quindi sui vagoni salgono gli
agenti della dogana russa per mettere i timbri sui passaporti. Sono donne, portano un
borsello legato alla cintura, chiedono i documenti, fanno qualche domanda senza
ascoltare le risposte. Il controllo dura pochi minuti – che importanza ha per loro sapere che qualcuno ha deciso di lasciare il
paese? Dopotutto si occupano di numeri, di
statistiche e carte bollate, un cittadino in
meno non può essere un problema serio.
Questo è il confine politico, ma la terra offre meno segni d’orientamento: non c’è un
fiume a Belgorod, non c’è una valle, una
montagna, una rottura netta fra i due territori. Anche i villaggi sono uguali: cominciano con case di legno, proseguono con case
basse in muratura e finiscono fra gli alberi. Così si avanza, lenti fra le campagne,
aspettando un segno. La donna delle ferrovie si sveglia intorno alle sette, lascia il suo
scompartimento e attraversa il corridoio
senza salutare sino alla cucina. L’unico sorriso lo fa quando chiede di aspettare che
l’acqua sia calda prima di preparare il
caffè. Quasi tutti i viaggiatori sono scesi a
Belgorod: il bambino con la madre e la madre della madre, l’uomo anziano che cercava disperatamente un accendino e la ragazza con il vestito a strisce. “Perché andate a
Kharkiv – mi domanda la donna mentre
versa il caffè – E’ lì che vivete?”. Le rispondo che sono soltanto un turista. “Strani
tempi per essere turista”, dice lei, tornando nella cabina. Si capisce che il confine è
superato perché all’altezza di un villaggio
chiamato Tzupivka c’è un ponticello azzurro con l’erba accanto ai binari e uomini chini a raccogliere fragole vicino a campi di
fiori viola. Ora la donna delle ferrovie è seduta in una cabina e discute con un’altra,
parlano di guerra e di quel che sentono nei
loro viaggi. Poi s’interrogano: ricordate la
Yugoslavia? Finirà allo stesso modo qui?
Avranno viaggiato per anni sul quel treno,
ma nessun viaggio pesa come questo. Perché dopo Kharkiv viene Slovyansk e lì si
spara, perché si deve attraversare la parte
più pericolosa dell’Ucraina prima di tornare in Russia, perché la guerra non l’hanno
mai vista, neppure quando è caduta l’Urss.
A loro bastano le facce di quelli che passano sul vagone numero cinque per sapere
che la vita non è come prima.
Quando il treno arriva a Kharkiv sono
quasi le otto del mattino. Le crisi politiche
aprono sempre un’epoca d’oro per gli
ispettori. Il primo agente della polizia di
frontiera sale e controlla i bagagli, è una
donna, verifica ogni cosa, chiede di vedere anche l’iPad, vuole sapere se ho con me
materiale pornografico o video che incitano alla violenza. Il primo controllo passa
A Kharkiv la moglie del rabbino
dice: “M’inquieta che Svoboda,
guidato da un antisemita, faccia
oggi parte del governo”
senza problemi. Poi arrivano quelli del
passaporto, e per il passaporto non basta
un solo agente, ne arrivano due, hanno la
tuta mimetica, uno guarda i documenti e
l’altro siede e fa domande. Perché vieni da
Mosca? Che cosa porti con te?, chiede uno.
Vuole controllare di nuovo i bagagli e
quando apre lo zaino spalanca gli occhi al
collega: grida “meterialy, materialy!”, e la
parola viaggia rapidamente di cabina in
cabina, sino agli orecchi della donna delle ferrovie, che attraversa il corridoio a
passi stretti e rapidi, inciampa, si riprende
e mi fissa come se qualcuno avesse rubato sulla sua santa carrozza. Il termine “materialy” indica carte potenzialmente pericolose, nel mio caso si tratta di due quotidiani russi e cinque libri (Gogol’, Tolstoj e
Joseph Roth). L’uomo in divisa mi chiede:
“Perché hai questi libri? Che cosa vuoi fare in Ucraina?”. Lo guardo ma non trovo
una risposta adatta ai suoi pensieri, gli dico soltanto che tutti dovrebbero leggere.
Così mi ordina di scendere dal treno e di
seguirlo alla centrale, nella caserma delle
guardie di frontiera, che si trova nei sotterranei all’ingresso della stazione. Ci fermiamo di fronte a un cancello di metallo, un
uomo apre, ci guarda dall’altra parte e ci
lascia passare. Dietro il portone vedo una