L`incerto convivio
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L`incerto convivio
Acli_BI______________________working‐paper______________________Fabio Pettirino L’incerto convivio. Considerazioni etnologiche sull’ambito alimentare nel contesto del lavoro di cura domiciliare (nel biellese) Nota metodologica_______________________________________________________ Il presente studio si è svolto a seguito del progetto Lapis (Le Acli Per l’Immigrazione Sostenibile) con l’obiettivo principale di far luce sulle rappresentazioni e sulle pratiche che ruotano intorno alla preparazione ed al consumo del cibo in una situazione lavorativa che prevede la coresidenza tra assistente familiare ed anziano nell’ambito professionale della cura domiciliare. Che tipo di relazioni si instaurano tra le assistenti familiari straniere, gli anziani assistiti e le loro famiglie in relazione ad un ambito così importante della sfera quotidiana? Che ruolo hanno le abitudini culturali, le preferenze individuali o i divieti religiosi in tale ambito? Che grado di consapevolezza delle esigenze reciproche hanno le persone che condividono tale esperienza, come affrontano potenziali conflitti, quali soluzioni propongono? Abbiamo cercato di raccogliere testimonianze al riguardo attraverso l’organizzazione di cinque focus group. Tenendo in considerazione il fatto che, nel territorio biellese, la domanda di impiego nel lavoro di cura domiciliare è in gran parte soddisfatta da assistenti familiari straniere, sono stati organizzati i primi tre focus group coinvolgendo persone (5/6 per gruppo) suddivise per provenienza; dai Paesi dell’Est europeo (principalmente Romania, Ucraina, Moldova), dal Perú e dal Marocco. In seguito sono stati organizzati altri due gruppi della medesima consistenza numerica dei precedenti coinvolgendo alcuni membri delle famiglie datrici di lavoro. Le interviste collettive si sono svolte sulla base un temario elaborato in precedenza che ha fatto da canovaccio per la conversazione. La disponibilità degli intervistati ha consentito di raccogliere interessanti testimonianze rispetto all’argomento anche se molte delle assistenti familiari intervistate ritrovandosi a parlare di situazioni attinenti all’ambito lavorativo con persone da loro comunque percepite come in grado di influenzare ed orientare le loro prossime scelte professionali hanno spesso mitigato in maniera evidente alcuni giudizi espressi informalmente cercando di dare un’immagine della propria condotta professionale il più possibile equilibrata. Alla stessa maniera i membri delle famiglie che hanno partecipato ai focus group (dedicando comunque parte del loro tempo a fine giornata per parlare delle collaboratrici alle loro dipendenze) erano necessariamente (e comprensibilmente) da 1 annoverare fra quelli con le vedute più ampie in tema di immigrazione e fra i più attenti alla dimensione contrattuale e professionale delle loro assistenti familiari. In più, trattandosi dei figli degli anziani assistiti, spesso non avevano conoscenza diretta delle tematiche. Nonostante ciò, si sono comunque potuti individuare elementi di interesse ed ambiti di criticità che sono divenuti oggetto di questa relazione che presenta il materiale raccolto organizzato secondo uno sguardo antropologico che pone l’attenzione soprattutto sulla dimensione simbolica e sociale della sfera alimentare. Introduzione____________________________________________________________ Il contesto. La presenza nel territorio biellese di lavoratrici domestiche straniere risale agli inizi degli anni ’80 quando avere una “filippina” in casa era divenuto un vero e proprio segno di distinzione sociale per le famiglie borghesi. Se lo stereotipo della colf rispondeva al ritratto della filippina, maggiordomi singalesi e successivamente babysitter peruviane hanno completato nell’immaginario locale il compendio dei lavoratori domestici fino agli anni ’90, quando esigenze diverse, hanno ridefinito le professionalità in ambito domestico. La necessità di prestare cure ad anziani in situazioni di fragilità facendo minor ricorso alle strutture residenziali in una emergente spinta verso la domiciliarità, trova una risposta nel mutamento del contesto sociodemografico ed economico del nostro territorio. Biella è una tra le città italiane con l’incidenza maggiore di popolazione anziana e conta un numero oggettivamente elevato di strutture residenziali per anziani. Del resto l’elevata tendenza al ricovero in struttura in passato era da riferire alla vocazione industriale del Biellese che ha sempre garantito la piena occupazione anche della manodopera femminile1 che dunque non poteva occuparsi degli anziani secondo un più diffuso modello mediterraneo di assistenza familiare femminile a cui sono sempre stati tradizionalmente delegati i compiti di cura. La cultura della domiciliarità è dunque un fatto piuttosto recente. Di fatto oggi, nelle numerose case di riposo, sono molti i posti non assegnati. La progressiva de-industrializzazione e l’incremento della volontà da parte delle famiglie di mantenere in casa gli anziani hanno trovato un nuovo assestamento nel modello di cura legato alle prestazioni delle assistenti domiciliari provenienti soprattutto dai paesi dell’Est europeo la cui presenza sul territorio fu attestata soltanto dopo la sanatoria del 2002 che fece emergere il fenomeno nella sua importante consistenza numerica. Nell’ultimo decennio ucraine, romene, moldave, ma anche peruviane e, più recentemente marocchine, hanno stretto patti di collaborazione nell’assistenza domiciliare (non sempre regolati da contratti, sia per reciproca convenienza, sia per l’esiguità dei posti resi disponibili dal decreto flussi) anche con famiglie appartenenti a ceti non abbienti prefigurando nuovi modelli di coresidenza e convivenza a cui spesso non erano preparate né le famiglie né le badanti. 1 Anche oggi il territorio biellese, seppur in situazione di crisi, esprime dati di occupazione femminili vicini a quelli richiesti dall’UE 2 Va da sé che le prime esperienze furono gestite in maniera spontanea ed informale e lasciarono spesso le assistenti familiari in condizioni di assoluto smarrimento. Spesso arrivate senza neppure sapere quali mansioni avrebbero ricoperto e di quali compiti avrebbero dovuto farsi carico erano completamente inconsapevoli anche riguardo ai minimi diritti di cui potevano godere e si trovarono spesso a fronteggiare situazioni di forte emarginazione ed invisibilità sociale. Allo stesso modo, le famiglie si dovettero affidare a persone impreparate il cui livello di professionalità sarebbe dovuto crescere in un percorso che inizialmente doveva basarsi esclusivamente sulla fiducia reciproca. Furono i patronati sindacali i primi a cercare di affrontare le nuove problematiche ed a fornire le prime risposte ad un fenomeno complesso2. Il dialogo con i servizi socioassistenziali e la nascita contemporanea di sportelli informativi, corsi di formazione e di specializzazione professionale diedero una prima risposta sia alle esigenze delle famiglie in cerca di badanti sia alle stesse assistenti familiari, quasi tutte provenienti dall’estero. Grazie a tali differenti iniziative oggi molti stranieri si sono inseriti regolarmente nell’ambito lavorativo della cura, non solo nel ruolo di assistenti familiari, ma anche progressivamente nei servizi sanitari e socio assistenziali come operatori socio-sanitari territoriali (distribuzione pasti a domicilio, igiene personale, etc.) o di struttura (case di riposo) o ancora, infermieri. L’argomento. Come detto Acli Colf Bi ormai da anni si è proposto come una risorsa per l’ambito della cura offrendo informazioni e sostegno alle famiglie impegnate nella ricerca di una badante e per le assistenti familiari che necessitano di formazione per aumentare le loro capacità professionali e rafforzare la loro consapevolezza riguardo ai propri diritti e competenze. Su un altro versante i progetti sono stati pensati anche per favorire una maggiore conoscenza del territorio dove esse risiedono producendo uno sforzo per aumentare le occasioni di incontro ed integrazione per delle persone il cui problema principale è sempre stato quello della solitudine, della segregazione, dell’esclusione sociale. Fra le varie attività pensate in questa direzione il progetto dell’ultimo anno ha previsto anche la visita ad un caseificio della Valle Elvo3. Una mattinata piacevole, il cui scopo era quello di costituire una ulteriore occasione di incontro, scambio e formazione relativamente ad un prodotto alimentare diffuso ed apprezzato nel nostro territorio. Alla fine del percorso, in cui sono stati spiegati tutti i procedimenti necessari a trasformare il latte nei diversi tipi di formaggio ed un successivo giro nei locali della stagionatura, svolto secondo la modalità tipica delle gite scolastiche4, ci attendeva una piacevole sorpresa. Su un grande tavolo disposto in un locale prospiciente a una veranda assolata erano presenti vari assaggi di prodotti freschi, formaggi molli, yougourt, tome fresche, maccagno, etc. Al convivio non parteciparono tutti. Qualcuno dovette declinare l’invito per una forma allergica al formaggio, ma per Elvira il 2 Il Filo d’Arianna ed Acli Colf dialogando con Iris e Cissabo. Nell’ambito di un più ampio progetto che prevedeva anche un corso di cucina. 4 Il sarcasmo dell’inciso è volto ad incoraggiare l’organizzazione di tali importanti occasioni di incontro, scambio e formazione in una dimensione maggiormente partecipativa. 3 3 problema era diverso, stava semplicemente rispettando il digiuno di Quaresima e non toccò nulla. Ci siamo dunque domandati come le diverse esigenze alimentari dettate da differenti approcci culturali al cibo potessero essere gestite nello spazio alimentare della domiciliarità e come ciò potesse influenzare i momenti dell’acquisto, della preparazione, della cottura e del consumo dei cibi in un ambiente lavorativo che in qualche misura costringe ad un confronto diretto. L’Altro nella domiciliarità__________________________________________________ Il lavoro di cura domiciliare ha avuto il ruolo di sovvertire le normali pratiche di interazione tra residenti ed immigrati che normalmente sono caratterizzate da quella che potremmo definire una contiguità senza interazione. Lo scambio culturale si verifica infatti soltanto in ambiti marginali; per i residenti normalmente si riduce in un’incursione nell’esotico che non mette in discussione le identità di appartenenza (vedi conclusioni). Con il lavoro di cura l’Altro si sposta da questi ambiti marginali di interazione assente o superficiale con i residenti e si introduce nello spazio domestico in cui pratiche e significati quotidiani (e consolidati) si offrono a nuove interpretazioni e negoziazioni. Ma quali sono gli strumenti a disposizione degli individui per raffigurarsi e classificare l’Altro? Spesso si fa ricorso alle cosiddette antropologie spontanee o implicite, ovvero al discorso e alle retoriche che i gruppi umani adottano per definire e collocare socialmente se stessi e gli altri. Inutile dire che gli altri sono solitamente classificati in una posizione di subordine. Infatti questo metodo di rappresentazione sociale della diversità culturale si basa su pregiudizi che normalmente ostacolano la comunicazione e causano incomprensioni iniziali. Il necessario passaggio dal piano del giudizio a quello della comprensione non è un obiettivo di facile raggiungimento: Sono arrivata nel 2003, partita con il solo intento di guadagnare quanti più soldi possibili chiamata da una zia che in quel momento lavorava a Bari e che raggiunsi dopo un viaggio di oltre cinquanta ore in autobus. Non sapevo che lavoro avrei dovuto fare, sapevo soltanto che sarei dovuta stare in casa. Tre anni di clandestinità che hanno reso questa esperienza molto dura, bisognava stare attenti a fare qualsiasi richiesta di aiuto o di informazioni. Dopo tre anni sono arrivata a Biella per sostituire un'amica. Soltanto in quel momento iniziai a rendermi conto di ciò che significava il lavoro di badante e la convivenza con anziani di cui avere cura. A Bari la famiglia dell'anziana (nonna) si è anche adoperata per farmi conoscere un poco la città facendomela visitare ed invitandomi ad assaggiare la loro cucina, i piatti tipici, che poi ho appreso a cucinare. Anche il pesce crudo, le alici, le cozze... Mi sono trovata bene, una bella esperienza, mi ha colpito il modo di vivere, in riva al mare, le tante gelaterie. Mi hanno fatto sentire un'ospite (hai mai assaggiato, patate riso e cozze?). Il risvolto invece più oscuro di quella bella esperienza erano alcune domande che rivelavano un pregiudizio nei miei confronti in quanto straniera. Ma al tuo paese si mangiano i cani? Una domanda che comunque doveva sottolineare la mia diversità. Ho poi compreso che queste persone nemmeno sapevano dove si trovasse la Romania forse soltanto qualcuno aveva accennato alla figura di Ceauşescu ed ai fatti del '89, ma in generale ho anche dubbi che sapessero collocarla su una cartina geografica. Avevo già avuto una sensazione sgradevole quando, appena arrivata, fra le varie informazioni e raccomandazioni, mi è stato detto, di fronte al lavandino del bagno che il colore blu corrispondeva all'acqua fredda mentre il rosso a quella calda... Non mi sono offesa, ma ho capito che loro non sapevano assolutamente nulla di me, di noi. Insomma ho trovato grande ospitalità, ma anche una sorta di inferiorizzazione della mia persona in quanto straniera. 4 Le qualità simboliche degli alimenti_________________________________________ L’alimentazione non ricopre una sola funzione biologica legata alla sopravvivenza, ma svolge anche una funzione di carattere socio-culturale ed è in tal senso che viene studiata dagli antropologi. L’essere umano è classificato come onnivoro, ma in realtà non mangia tutto ciò che potrebbe mangiare. Vi sono molte sostanze come sottolinea Marvin Harris che gli uomini si guardano bene dal mangiare pur essendo perfettamente commestibili dal punto di vista biologico. Lo dimostra il fatto che in certi luoghi certi gruppi mangiano proprio quello che altri gruppi disdegnano e detestano. È evidente che l’alimentazione non mira soltanto alla soddisfazione di un bisogno primario, il nutrimento, ma é anche un codice di comunicazione, attraverso cui un gruppo mette in rilievo la propria identità etnica, sociale, culturale. In questo senso possiamo certamente dire che l’alimentazione ricopre un ruolo centrale nei processi identitari degli immigrati: C'è un pullman che arriva e porta viveri. Qui a Biella se ti rivolgi alle macellerie halal paghi i prodotti a caro prezzo mentre se te li fai arrivare direttamente dal Marocco sono più economici: io faccio arrivare lo zucchero per il the, formaggio, caramelle, dado per il brodo, olive piccanti, olio d'oliva, cous‐cous, aranciata ed altre bibite, tajin. Dalla Romania normalmente facciamo arrivare paté vari (de foie gras, di soia), halva un dolce fatto con semi di girasole, Jeleuri e Rahat (gelatine alla frutta che si trovano anche al discount e si consumano anche in Turchia e Grecia). C'è anche un negozio di prodotti romeni qui a Biella, ogni tanto ci andiamo. Ogni volta che torno dal Perù ho delle valigie piene di prodotti: patate, frutta (mango, papaya, granadilla, una specie di maracujá dolce, camotes, mais, cereali per fare colazione, mais viola per fare la chicha morada, porto tutto. Anche una mia amica fa arrivare molti generi alimentari dal Perù. Qui a Biella c'é un negozio filippino che dispone anche di moltissimi prodotti peruviani, così se voglio ad esempio preparare un ceviche posso acquistare del maíz e del rocoto (peperoncino piccante). Molti tra gli alimenti elencati potrebbero tranquillamente essere acquistati qui senza necessità di importarli, ma soltanto l’idea che quei prodotti arrivino dalla propria terra aiuta a mitigare la nostalgia, a rafforzare i legami culturali ed identitari, anche quando ciò non comporta un vantaggio economico: La signora filippina va a fare la spesa anche a Torino: compra chicharrón (grasso del maiale), involtini di carne e il balut, un uovo con pulcino di anatra o di gallina dentro, viene bollito nel suo guscio poco prima della sua schiusa, quando l'embrione al suo interno è già quasi completamente formato, si mangia in molti paesi del Sud-est asiatico. Poi alla domenica fuori dalla chiesa di S. Filippo oppure al “palazzetto” dopo la partita di pallacanestro rivende tutto per pochi euro. Lei compra ogni uovo ad un euro e poi lo rivende a due. Tutto sto casino e cosa ci guadagna? Guadagnerebbe più soldi a stare il fine settimana a casa con mio padre ma lei preferisce cosi, va fino a Torino a fare la spesa e poi rivende tutto. L’identità viene poi rafforzata in particolari periodi attraverso la celebrazione di varie festività. I legami di appartenenza vengono rinnovati anche attraverso la realizzazione di preparazioni che richiedono lunghi tempi di cottura e notevoli costi: 5 Aid el Kabir è la pasqua islamica, qualcuno ancora oggi, benché sia vietato, usa acquistare degli agnelli che poi vengono sacrificati. In passato venivano uccisi e preparati addirittura in casa, nella vasca da bagno, oppure in boschi al riparo da sguardi indiscreti. Nel biellese da qualche anno si ricorre ad un allevamento in una cascina vicino a Mottalciata dove si reca un imam (per la preghiera) ed un macellaio halal che garantisce la corretta uccisione delle bestie prima della vendita a numerose famiglie marocchine che accorrono tramite passaparola. Non solo agnelli per quella festa ma anche altre bestie, capre, polli. Il legame culturale tra cibo e identità collettive non costituisce certo una novità nel panorama degli studi sull’argomento. Il cambiamento di prospettiva risiede nell’incontrare tali questioni di ordine culturale in uno spazio di relazione nuovo nel quale gli individui coinvolti sono spesso cognitivamente impreparati per affrontarle e gestirle: D.: aah, mangia quello che passa il convento, ovvero ciò che entra in casa, d’altronde le passiamo il vitto e l'alloggio e si deve accontentare, d'altra parte se è li per curare mia mamma, ed è risaputo che comunque la dieta dell'anziano è una dieta di un certo tipo (che va comunque bene per tutti), non capisco perché debbano essere preparati due pranzi! Nel momento in cui l’Altro penetra nella domesticità interrompe in qualche maniera certe abitudini consolidate innescando nuove dinamiche di confronto anche sul tema alimentare introducendo elementi insoliti che spesso risultano di difficile comprensione. Le testimonianze che seguono riguardano ad esempio la distinzione dei prodotti alimentari fra quelli consentiti (halal) e quelli proibiti (haram) come ad esempio la carne di maiale (ma anche tutti i suoi derivati come i salumi e gli alimenti contenenti strutto) e tutte quelle degli altri animali non macellati secondo le regole islamiche, oltre alle bevande alcoliche: K.: ho convissuto con una anziana signora che non ha dimostrato alcun rispetto per le mie esigenze alimentari, non mi capiva. Mi ha forzata in più occasioni invitandomi a sedermi tavola con lei anche durante il mese di digiuno islamico. Non solo, ma non mi era consentito di comprare carni halal né avevo disponibilità di denaro per l'acquisto di altri prodotti necessari, ero obbligata a mangiare quello che c’era… J. ammette che il problema più importante per lei a livello alimentare si è verificato durante il mese di ramadan perché la signora voleva che a pranzo e a cena si sedesse e cenasse con lei, che invece non poteva, volendo rispettare il digiuno sino al tramonto: Anche i figli lo dimenticavano continuamente e mi chiedevano di sedere a tavola. Alla fine abbiamo optato per mangiare ad un ora più tarda quando il sole era già tramontato. Per C. invece non è stato possibile trovare il medesimo accordo ed era visto male il fatto che lei mangiasse da sola ad un ora più tarda. J. racconta di aver contattato una cooperativa che le aveva proposto un lavoro ma la signora aveva esplicitamente detto che non voleva musulmani che facessero il ramadan. Per questo motivo ha dovuto rinunciare al lavoro. Durante il ramadan estivo è anche necessario svegliarsi molto presto per potersi alimentare prima dell'alba e questo può causare altre incomprensioni quando non adeguatamente intesa come necessità culturale. 6 La presenza di assistenti famigliari marocchine che vivono in regime di coresidenza con gli anziani è comunque un fatto piuttosto recente. Le prime donne marocchine che arrivarono al seguito dei propri mariti con il ricongiungimento famigliare avevano il solo scopo di formare una famiglia e di sostenere il consorte badando soprattutto alle necessità domestiche. L’esigenza di trovare un’occupazione non era una prospettiva inizialmente contemplata ma in seguito divenne necessario per molte di loro integrare le entrate economiche provenienti dal solo stipendio del marito. Erano ricercati però soltanto incarichi ad ore che non pregiudicassero la possibilità di accudire la propria famiglia. Furono altre donne marocchine, emigrate talvolta sole, con un diverso progetto migratorio ad accettare prospettive lavorative che si configuravano come una vera novità nel panorama occupazionale delle donne provenienti dal Marocco. Spesso l’entrata nel lavoro di cura a tempo pieno è avvenuto per la sostituzione temporanea o definitiva di una badante solitamente proveniente dall’Est europeo. Questo tipo di occupazione si configura di fatto come molto distante dai loro iniziali riferimenti culturali e necessita di una rielaborazione che renda plausibile l’assunzione del ruolo professionale di assistente familiare: J.: in Marocco non ci sono le case di riposo, gli anziani continuano ad abitare in famiglia e le persone che vanno a prestare servizio presso altre famiglie lo nascondono e dicono bugie per coprire un lavoro che ritengono vergognoso. E’ ritenuto vergognoso anche fare le pulizie per altre famiglie oppure nei ristoranti. Essere visti servire qualcuno è proprio causa di profonda vergogna. Oggi fare la cameriera, ad esempio per le ragazze giovani in grandi città, è ovviamente accettato, ma nei piccoli centri di campagna permane questo senso di vergogna legato al servizio. C. dice che nei piccoli centri si dice anche di non volersi sposare con quella donna che lavora in un ristorante. Per il lavoro di badante è diverso, è una professione che non esiste in Marocco, ma è comunque un lavoro che è difficile da accettare… Per molte di queste ragazze c’è una crescente disponibilità ad elaborare le proprie concezioni culturali, anche in tema alimentare, in relazione al nuovo contesto. Ad esempio un’applicazione restrittiva delle regole alimentari islamiche imporrebbe di non poter nemmeno toccare (oltre che ingerire ovviamente) il cibo haram (proibito) come la carne di maiale o il vino. Oggi queste difficoltà sembrano superate e la carne di maiale viene tranquillamente maneggiata per essere preparata alla cottura e lo stesso vale per l’utilizzo del vino per la cottura di quei cibi che lo richiedono (il lavoro è lavoro, affermano…): S.: la signora marocchina aveva inizialmente avanzato la sua richiesta di non mangiare carne di maiale (perfetto anche noi non ne mangiamo molta), poi in generale la carne non uccisa tramite la tecnica del dissanguamento (io le ho detto che secondo me era molto più crudele ucciderla in questa maniera, ma va beh…). Abbiamo fatto un patto per cui lei andava nelle sue macellerie halal, mi portava lo scontrino che io regolarmente le rimborsavo e lei metteva la carne acquistata nel freezer (faceva la spesa per una settimana) e per un periodo è andata bene così. Poi ad un certo punto è saltato fuori che anche il pollo doveva essere musulmano perché non poteva essere ammazzato senza guardare verso la Mecca. Secondo me si sono lamentati alla macelleria halal che vendevano meno polli, perché improvvisamente per un anno il pollo del supermercato andava bene poi... si è dovuto aggiungere anche il pollo musulmano alle sue esigenze alimentari. L'unica cosa che 7 mangia con noi è il pesce (il pesce del resto non si può pescare con tecniche e riti islamici…). Durante il mese di ramadan lei preparava da mangiare e poi andava in un’altra stanza, si gestiva i suoi pasti come meglio desiderava. Vede, lei è arrivata come colf poi mia mamma (con la quale vivo anch'io con mio fratello) è peggiorata e dunque fa anche un po' da badante, ma fa parte della famiglia, cucina per tutti e se non fosse che spezia un po’ troppo con il cumino, non avremmo di cui lamentarci in fondo5 Da questa testimonianza, di cui si apprezza un certo sarcasmo in alcuni passaggi, possiamo evincere come le persone con più ampie vedute possano comunque facilmente trovare accordi che favoriscano una reciproca soddisfazione. Al contempo, la medesima testimonianza, evidenzia l’importanza di non trascurare la gestione dell’ambito alimentare per le famiglie che si avvalgono della collaborazione di un’assistente familiare che, inevitabilmente, potrà avanzare specifiche richieste ed esigenze nel rispetto delle proprie abitudini alimentari che possono anche prevedere regole particolari riguardo alle modalità di assunzione dei cibi con prescrizioni (periodi ed orari in cui è consentito mangiare ed altri in cui è proibito) e proscrizioni (ovvero divieti relativamente a determinati alimenti) di vario genere. Ma la gestione dello spazio alimentare non si configura come ambito problematico soltanto al cospetto di esigenze alimentari che riteniamo culturalmente molto distanti dalle nostre come quelle indotte dalle restrizioni della religione islamica: C.: Carne latte formaggio uova ed altri cibi proteici sono da evitare il venerdì secondo la religione cristiano-ortodossa. Così un venerdì decisi di fare assaggiare un puré di fagioli alla nonna fatto con un po' d'aglio e di cipolla per dare sapore ed altre verdure. Si è offesa dicendo che lei era una povera pensionata e questa cena era cattiva e costava troppo. Lei voleva la carne e la pasta, come al solito. Per noi la Quaresima è molto importante è un momento di riflessione in cui bisogna evitare molti cibi. E' una nostra tradizione che si ripete anche per la festività di Pentecoste, 50 giorni dopo la ascesa di Gesù risorto. A Bari ad esempio non ho avuto difficoltà perché la verdura che si consumava in casa era moltissima e sono riuscita ad alimentarmi secondo le mie esigenze senza nessun problema. Qui invece la scarsità di verdura e la presenza di pasta e carne ogni giorno mi hanno fatto avanzare la richiesta di poter avere più verdura per qualche settimana, ma niente la risposta fu che le persone che vengono da fuori si devono adattare e non devono venire qui a rompere le scatole... 5 Altre criticità sono emerse, ad esempio, riguardo all'esigenza delle cinque preghiere quotidiane soprattutto quando vengono fatte di notte e (come spesso accade) la badante dorme nella medesima stanza dell'anziano che assiste. K. risolve la questione affermando che comunque il Corano prevede una minor rigidità per coloro che si trovano in una situazione lavorativa e per tal motivo non possono ottemperare con estrema diligenza ai precetti religiosi. Sulla scorta di tale discorso è stato affrontato anche il tema della pertinenza del velo islamico in ambito lavorativo. Fatto salvo che il velo può essere vestito per le più diverse concezioni legate all’ambito religioso, ma rimane una pratica fortemente influenzata dal contesto sociale costituito tanto dalla società ricevente quanto dalla comunità marocchina locale (cfr. Guglielminotti, Pettirino, 2004), molti datori di lavoro si sono dimostrati disinteressati alla questione o comunque assolutamente permissivi mentre in molte strutture residenziali per anziani è stato vietato portare il velo ed alcune testimonianze raccolte raccontano di esplicite richieste di non vestire il foulard in casa. 8 In altri casi invece è stata una sorpresa per le famiglie presso le quali ho lavorato a tal punto che ha fatto in parte ricordare i fondamenti e le pratiche del cristianesimo e si sono aperte discussioni rispetto alle somiglianze ed alle differenze fra cattolicesimo e cristianesimo ortodosso. E.: Ricordo che la badante di prima era ortodossa ed ogni mercoledì e venerdì digiunava. Non tutte fanno il digiuno allo stesso modo, si fa per periodi più o meno lunghi e c'è chi si limita ad evitare la carne e chi invece evita anche i latticini oppure si nutre dei soli prodotti della terra e basta. C.: sono insorti problemi su piatti davvero simili. Ad esempio ho preparato un polpettone con carne trita e uova con aggiunta di interiora dell'agnello (cuore, polmoni, fegato) e per questo motivo è stato rifiutato (con espressione di disgusto) quando so bene che la tradizione pugliese prevede comunque il ricorso in cucina alle interiora. Anche le melanzane preparate in puré, all'improvviso (nonostante fossero mangiate in casa con la pasta oppure in deliziose preparazioni sott'olio) non erano apprezzate. Forse per l'odore della cipolla... Gente molto ospitale, ripeto, ma alquanto diffidente rispetto alle mie proposte anche quando evidentemente molto simili alle preparazioni viste fare in casa. C fit! Che puzza, con riferimento alla cipolla soffritta. Mi hanno lasciato fare, ma credo che le offese non arrivassero per una volontà precisa ma piuttosto per una sorta di ignoranza che comunque impediva di vedere le molte somiglianze tra le ricette ed i prodotti mentre si badava a sottolineare ogni differenza, anche in buona fede. A casa tua Cristina come si puliscono le cozze? A casa mia non esistono le cozze... A.: Io ho avuto dei problemi durante la Pasqua. Ho preparato delle uova colorate e una sorta di colomba e carne uova o verdura come si usa fare in Romania, ma loro non hanno mangiato. Troppo grasso, troppe uova, non sono abituati. Non solo il dolce che comunque è molto simile alla colomba che si mangia in Italia, ma anche la carne trita con uova, una sorta di polpettone, dicevano che era troppo grasso. Ma quello che mi ha lasciato sconcertata è che non hanno nemmeno voluto mangiare le uova. Erano normali uova sode pitturate poi di rosso (con colori alimentari venduti anche nel negozio di prodotti romeni) che per noi rappresenta il colore della Pasqua, del sangue di Cristo. Ma come?! Mangi le uova sode normalmente ma se sono rosse le rifiuti? Dentro sono uguali! Mangi quel che c'è dentro, il guscio lo butti! Dunque anche esigenze potenzialmente più comprensibili come quelle legate al digiuno di quaresima e al cibo pasquale possono diventare ostacoli da rimuovere nella gestione di uno spazio alimentare condiviso tra persone che possiedono abitudini differenti. Tralasciando il pur frequente adagio secondo il quale “chi viene da fuori si deve adattare senza rompere le scatole” che denota un atteggiamento di chiusura profondo, abbiamo visto come talvolta vengano avanzate scuse di qualsiasi genere per evitare di cibarsi anche di alimenti piuttosto comuni come un polpettone di carne (ritenuto troppo unto) o addirittura delle uova sode. Tale atteggiamento illustra processi culturali più ampi che riguardano il rapporto culturale con gli alimenti. Per Levi-Strauss un cibo per essere ritenuto buono da mangiare deve essere prima valutato come “buono da pensare”. Anche secondo Poulain per poter gustare un alimento bisogna in qualche modo riconoscerlo altrimenti si potrebbe configurare come un cibo potenzialmente rischioso: E.: a volte mi viene regalato dalla badante del lardo con uno strato di muffa alto così, ma io non posso mangiarlo, morirei il giorno dopo. Alle volte anche caviale, ne ho moltissimo, ma non capisco le scadenze dunque solitamente butto le scatolette e poi con la questione di Cernobyl, lasciamo perdere, quel che arriva di là io preferisco non mangiarlo! 9 J.: ho provato in una occasione a fare del pane arabo sottile e morbido per l'anziano a cui badavo e gli è piaciuto, ma ne ha mangiato poco, perché aveva paura che gli facesse male "mangiato metà e lasciato metà"… In questo caso la diffidenza si esprime addirittura sul pane, un alimento che pur con forme e pezzature diverse richiama comunque, tra chi lo riconosce come alimento di base, al tema della convivialità. Un cibo non riconosciuto può essere concepito come contaminato, in qualche misura pericoloso, non solo per le sue caratteristiche intrinseche, ma anche per le mani che lo hanno preparato (mani straniere, diverse, sconosciute). Per gli islamici il pericolo della contaminazione può assumere forme molto più subdole visto che non potendo mangiare neanche i prodotti derivati del maiale sono costretti a fare attenzione agli ingredienti degli alimenti confezionati per assicurarsi ad esempio l'assenza di liquori o di strutto che in qualche caso può anche essere presente nel pane. Anche per questo motivo si preferiscono i prodotti acquistati presso le macellerie halal o si predilige la produzione casalinga del pane. Lo spazio alimentare_____________________________________________________ Si è visto quanta importanza possa avere la dimensione simbolica degli alimenti nella gestione dell’ambito alimentare nella quotidianità della convivenza domiciliare. Per rendere il discorso più ampio possiamo organizzare le testimonianze raccolte facendo anche riferimento alle qualità biologiche degli alimenti e suddividere analiticamente lo spazio alimentare domiciliare in più parti (o momenti) per meglio affrontare l’argomento: il momento dell’acquisto dei prodotti alimentari6, quello della loro preparazione e conservazione, per concludere poi con la cottura ed il consumo dei cibi. 6 In contesti non urbani si dovrebbe prevedere anche la produzione degli alimenti. Del resto molti migranti arrivano direttamente da contesti rurali e difficilmente rinunciano a coltivare alcuni ortaggi quando ne hanno l’opportunità. Molti infatti hanno avuto esperienza nella cura di un orto. J. Ci ha raccontato di prendersi cura dell’orto dell’anziano per il quale lavora approfittandone per piantare anche papas amarillas e rocoto. S.: “Noi non abbiamo l'orto, ma sul balcone abbiamo dei grossi vasi ed un giorno sono arrivato lì e mi sono accorto che aveva seminato di tutto, prezzemolo, insalata, pomodori...” E: “Io ho un giardino e all'improvviso un giorno, vicino alle camelie, abbiamo trovato piantati dei pomodori! Ci siamo messi a ridere, una pianta di rose ed una di pomodori alternate...” Mi sia ora consentito al riguardo un aneddoto che ha avuto come protagonisti una famiglia di cinesi che abitava al primo piano (sopra ad una pizzeria al taglio) in una palazzina di tre piani prospiciente la strada principale di un piccolo paese in provincia di Biella. Il padrone della pizzeria al taglio lamentava una macchia di umidità sul soffitto, ma non riusciva a contattare i vicini di casa che rientravano sempre a notte fonda. Dopo qualche tempo la macchia divenne enorme e cominciò a gocciolare così si decise di far intervenire i vigili del fuoco che, dopo aver sfondato la porta, trovarono una stanza riempita con almeno mezzo metro di terra e coltivata ad ortaggi che venivano regolarmente annaffiati! 10 Una questione ampiamente rilevata riguarda l'eventualità per le famiglie di dover provvedere del denaro da destinare a spese separate per le diverse esigenze dell’anziano e della sua assistente. Abbiamo avuto conferma che molte domande allo sportello, da parte dei datori di lavoro, sono relative proprio alla obbligatorietà di dare del denaro per la spesa in proprio della badante, pratica che continua ad essere assolutamente mal vista o poco compresa: F.: io faccio la spesa con circa 120-180 euro al mese al discount, scontrini alla mano. Io devo dire una cosa: "voi italiani siete tirchi". Tirchi nel mangiare e in tutto, anche nei detersivi ed in tutto il resto. A me piace veramente molto il latte. Soltanto che compravamo soltanto sei cartoni che dovevano durare un mese intero. Bevevo il latte nella tazzina del caffè. Poi, niente carne, a lui non piaceva e dunque niente carne neanche per me. Soltanto dopo due anni mi sono stati riconosciuti duecento euro per la mia spesa personale ed ho potuto finalmente ricominciare a nutrirmi con la quantità di carne e di latte che desideravo. C.: Io ho avuto problemi non solo per fare la spesa , ma anche su tutti gli altri consumi come il gas per cucinare, la luce elettrica o la tv, etc. In questi casi per evitare problemi ho preferito far la mia spesa utilizzando il denaro dello stipendio. C.: racconta di aver lavorato per una famiglia del centro di Biella il cui frigo era perennemente vuoto. La prima volta che lo ha aperto vi ha trovato soltanto un petto di tacchino ed un sugo preconfezionato alle noci. “Le disposizioni della figlia, che si occupava di tutto, riguardavano anche una stretta dieta per la madre, mi è quasi sembrato che lei non avesse inteso che io ero un essere umano. Ho bisogno di mangiare anch'io, non potevo vivere soltanto con qualche frutto ed il semolino con cui si alimentava la nonna. Mi diceva sempre: domani andremo a fare la spesa e poi mi diceva (a me suonava ironico) prendi tutto quel che vuoi!... Ho sempre fatto attenzione ai prodotti in offerta, ma in pratica ogni prezzo le sembrava proibitivo”. Il vero problema è che anche molte altre famiglie sono davvero tirchie. Ci fu poi il problema dello zucchero, mi dissero che stavo consumando troppo zucchero. Ho risolto comprando con i miei soldi, durante il giorno libero, alcune cose che poi nascondevo, anche se soltanto si trattava di passata di pomodoro che poi ogni tanto utilizzavo per fare qualcosa di diverso anche per la nonna che comunque dimostrava di apprezzare. Ma la figlia ancora una volta mi sgridò per aver comprato e cucinato prodotti diversi da quelli pattuiti anche per salvaguardare la salute di sua madre che doveva mangiare assolutamente in bianco. Poi il rapporto di lavoro terminò perché comunque non mi volevano mettere in regola. G.: Nella mia esperienza lavorativa in regime di coresidenza ho notato senz'altro una vera difficoltà ad incrementare la spesa in presenza di un assistente familiare. Insomma la volontà a risparmiare il più possibile anche sul cibo, e questo è comprensibile. Ma io sono cresciuto in una realtà diversa. Ho sempre visto il cibo come accoglienza e festa. Ricordo che quando mio padre prendeva la busta paga (lavorava in miniera), tutto veniva speso in cibo. Questo è poi da inserire in un contesto più ampio di avarizia, una volta la signora mi si avvicina e mi dice “Tanta carta igienica usi?” D'accordo, da domani porterò la mia personale... Anche riguardo al cibo in tavola, vedevo espressioni di sofferenza ad ogni fetta di prosciutto che mi servivo... Il risparmio si estendeva addirittura ai tovaglioli di carta che, sebbene sporchi, venivano riutilizzati anche il giorno successivo. E' una questione di rispetto, preferisco cambiare lavoro piuttosto che avere problemi con il cibo, mi voglio sentire libero di poter mangiare tranquillo. S.: Io ho risolto con una carta prepagata (trecento euro al mese), lei gestisce autonomamente la spesa e io posso controllare facilmente i movimenti. Devo dire che molte badanti che ho avuto sono state piuttosto attente anche ai prezzi. Credo che tutto sommato permettere loro di andare a far la spesa possa essere anche uno svago visto che passano molto tempo in casa. 11 Per quanto riguarda la cottura dei cibi le famiglie affermano di risolvere il problema con un periodo di addestramento dell’assistente familiare che prevede un minuzioso insegnamento relativamente ai prodotti da utilizzare, alle preparazioni dei cibi e alle varie modalità di cottura. Da notare che la maggior parte delle badanti arriva da esperienze lavorative diverse, svolte anche in altre regioni italiane, dove hanno appreso differenti modalità di preparazione dei cibi, ma le famiglie appaiono su questo punto piuttosto conservatrici e non accettano facilmente variazioni sul menu abituale: J.: all’inizio vi era una presenza costante di un familiare che mi seguiva segue passo passo e controllava minuziosamente la realizzazione delle ricette per assicurarsi di non dover cambiare le proprie abitudini alimentari. H.: mi sono abbastanza facilmente adattata e per quel che riguarda la cucina ho imparato attraverso il controllo da parte della signora anziana che (nonostante l'ictus) mi diceva la quantità d'olio, di sale, etc. da utilizzare per ogni pietanza. E.: La mia mamma ha avuto una sudamericana e poi una ucraina, una bulgara ed una romena. Gli abbiamo insegnato noi a fare da mangiare secondo il nostro gusto. Poi, essendo stata prima di qui, anche al sud, sa fare bene la pasta al pomodoro. S.: Abbiamo dovuto intervenire sulle due precedenti badanti ucraine perché in cucina utilizzavano molto cavolo e può essere un po' difficile per chi ha gusti differenti, soprattutto perché solitamente le loro preparazioni erano davvero molto grasse e pesanti… Per divenire parte dell’alimentazione umana i cibi debbono possedere qualità nutritive, organolettiche ed igieniche ritenute conformi. Ma differenti interpretazioni ed abitudini spostano il livello ritenuto accettabile anche per le qualità biologiche dei cibi. Molto spesso gli anziani hanno necessità di seguire con una certa attenzione un particolare regime alimentare di ordine medico. In altri casi sono maggiormente liberi di stabilire la propria dieta che viene concepita in base a differenti e libere interpretazioni anche delle badanti, soprattutto per quel che concerne le proprietà nutritive degli alimenti: G.: Sono convinto che un anziano debba comunque mangiare abbastanza per stare in forze, così le porzioni che io gli servo sono abbondanti e sono contento di vedere che lui apprezza e finisce le pietanze. Prima mangiava molto poco. Da quando sono arrivato gli ho cambiato un po' le abitudini, perché sono convinto che prendendo tante medicine sia poi importante nutrirsi abbondantemente per limitare gli effetti collaterali, soprattutto allo stomaco. E' già ingrassato quattro chili. Questo è il mio pensiero, può anche essere sbagliato... S.: Mio padre ha poca salivazione, non riesce a masticare con facilità e allora la badante gli cucina spesso wurstel o formaggi. M.: Mia mamma aveva bisogno di un'alimentazione molto attenta con tabelle ristrette alle quali lei si è attenuta scrupolosamente. La ragazza che cura mia madre non cucina male, in più lei ci tiene molto alla linea, è sempre a dieta e quindi si trova bene con mia madre che ormai anziana deve fare attenzione a ciò che mangia. 12 Le caratteristiche organolettiche ed igieniche costituiscono altre proprietà fondamentali degli alimenti riguardo alle quali si lamenta una diffusa scarsa attenzione: L.: Un appunto che voglio fare riguarda le scadenze dei cibi. Molto spesso dice di voler usare una mozzarella scaduta il giorno precedente, non si rende conto del rischio! Credo che "loro" mangino anche cose scadute da molti giorni senza problemi, non badano al colore della carne, anche quando è diventata scura, si vede che non è più buona... Sono terrorizzata, ho fatto una lista con le cose che scadono, da un po' di tempo faccio molta più attenzione su questo argomento… F.: in casa ho trovato molto scatolame scaduto e poi molte pietanze avanzate che dal piatto ritornavano in pentola e poi nel frigorifero per essere consumate il giorno dopo. Mi ha fatto schifo. E.: al contrario le badanti che arrivano dall'Est sono solite guardare molto attentamente le scadenze (anche troppo) buttano anche prodotti che scadono il giorno stesso e che sarebbero a rigor di logica ancora ben commestibili. L.: poi lei ad esempio starnutisce e poi si mette ad impastare le polpette, ma no! Gentilmente, devi capire che così non può andare. Poi cerco di farle capire che è importante che le mani siano sempre ben lavate, anche con l'alcol o con prodotti disinfettanti specifici, soprattutto per chi fa da mangiare, ma lei fatica a farlo ed io non ho raggiunto risultati apprezzabili su questo, non sono riuscita ad intervenire adeguatamente. Un ultimo ambito che, potremmo dire, chiude lo spazio alimentare è il consumo dei cibi a tavola. Anche in questo caso le abitudini differiscono. Dall’utilizzo delle posate o delle mani per prendere direttamente il cibo, piuttosto che la postura da tenere a tavola oppure l’orario più consono in cui servire i pasti, sono ambiti nei quali alle volte le famiglie sembrano voler dedicare nei confronti della badante una vera e propria attenzione pedagogica. Dalla maniera di stare a tavola insieme molto spesso si evince il tipo di rapporto instaurato fra anziano/famiglia ed assistente familiare: J.: ho lavorato presso una signora diciamo "altolocata", molto raffinata (dai gusti difficili per quanto mi riguarda, ad esempio relativamente al grado di cottura degli alimenti, voleva la verdura al dente, etc.) Preparavo da mangiare per la signora, la servivo e soltanto dopo potevo sedermi a mangiare da sola. Lei mangiava in salone sul divano e soltanto quando aveva finito io potevo mangiare, ma in cucina. Si era immediatamente raccomandata fin dal primo momento di chiamarla "signora". Da notare che uno spartiacque determinante pare essere definito dal ceto di appartenenza della famiglia datrice di lavoro. Le famiglie borghesi, abituate ad avvalersi “storicamente” di collaboratori domestici, molto spesso definiscono i rapporti in maniera piuttosto formale. In questo caso i confini della relazione sono definiti da una collaborazione subordinata ad un contratto lavorativo che impedisce una confusione di ruoli. Diversamente, in ambienti più popolari, in cui non vi è un abitudine consolidata alla convivenza con personale domestico ed in assenza un registro codificato per entrare in relazione con esso, spesso le relazioni sono soggette ad eccessi che vanno dallo stringere amicizie emotivamente molto forti con la badante alla sua più totale 13 subordinazione e sfruttamento, entrambe le situazioni sono spesso accompagnate dal mancato rispetto dei più elementari diritti lavorativi con orari e mansioni proibitivi. Infine riportiamo alcuni stralci dalle testimonianze raccolte che evidenziano come la questione del cibo legata alla particolare situazione esistenziale delle badanti possa alle volte orientarsi verso un principio di disagio o disordine alimentare: F.: Appena sono arrivata mi è sembrato di subire una tortura con il cibo. Io non volevo mangiare. Per me a colazione era sufficiente un bicchiere di latte. Non mangiavo mai e spesso piangevo. E invece ero obbligata a mangiare di più. Mangia! Devi mangiare per poter lavorare e crescere tuo figlio... Mi sono sforzata di mangiare e poi ho vomitato. Avevo nostalgia di casa, ho sofferto. Una cosa che ho notato è la velocità con cui si mangia solitamente, in Perù si mangia con molta più calma. Ho imparato anch'io a mangiare veloce. H. racconta di aver lavorato per una famiglia che aveva un'attività commerciale di pasticceria e quindi mangiava in continuazione pasticcini sino ad ingrassare molto. “Mi mancavano la mia mamma e le mie sorelle, era tanta la nostalgia e quindi mi sono buttata sul cibo, avevo sempre fame volevo sempre riempirmi per soddisfarmi, ero ingrassata moltissimo”. A.: il mio budget mensile era di ottanta euro con i quali si supponeva che avrei dovuto fare la spesa per lei e l'anziano. Dimagrii a vista d'occhio. Fu il datore di lavoro di mia sorella che mi diede una mano parlandone con la famiglia e dicendo loro che evidentemente il denaro per i viveri doveva essere aumentato. In pratica mangiavo ogni tanto da mia sorella, saltuariamente. In poco meno di un anno dice di essere dimagrita addirittura trenta chili, da 85 a poco più di 50, tanto che un anno dopo quando tornai in Romania non mi riconobbero nemmeno i miei familiari. Ora invece mi trovo bene, l'anziano si alimenta con la sonda, ma io posso mangiare quel che voglio. Conclusioni: l’incerto convivio______________________________________________ Dalle testimonianze raccolte, organizzate in questa breve relazione riteniamo di poter trarre delle conclusioni che evidenziano il raggiungimento di un paio di obiettivi che ci eravamo prefissati. Il primo di tali risultati va nella direzione di una sensibilizzazione rispetto ad un tema specifico della convivenza domiciliare che non è solo quello della cucina intesa come l’insieme delle tecniche della preparazione (o delle ricette) e dell’adeguata conservazione dei cibi, ma riguarda, in particolare, lo spazio alimentare domiciliare inteso come quell’ambito dove, attraverso il cibo, si mettono in gioco anche le identità e la cultura di individui che si trovano giocoforza ad interagire in una nuova dimensione di senso. Lo spazio alimentare domiciliare diventa, in questa prospettiva, una dimensione fondamentale di un incontro problematico e complesso. Un altro obiettivo che riteniamo di aver raggiunto è quello di aver svincolato e sottratto, almeno in termini teorici, lo spazio alimentare della domicialiarità dalla vulgata di un multiculturalismo ingenuo che propone un approccio semplicistico al tema del cibo in ambito migratorio. 14 L’ideologia multiculturalista ha infatti prodotto visioni fin troppo ottimistiche dell’incontro con l’Altro che hanno coinvolto anche lo spazio alimentare. Anzi, proprio il cibo è divenuto, nella sua funzione sineddotica (la parte per il tutto), un pretesto ritenuto fondamentale per approfondire la conoscenza della cultura dell’Altro attraverso la degustazione di ricette e preparazioni tradizionali esotiche. In questo senso la cena etnica si è configurata come un vero e proprio paradigma dell’incontro e dello scambio culturale. Si tratta di un problema più generale. Le culture sono entità storiche mutevoli, frutto di commistioni continue, ma i gruppi umani continuano a ridefinire i confini delle loro appartenenze che hanno necessità di concepire come pure ed incontaminate anche dal punto di vista culturale. I nazionalismi (intesi come ideologie) hanno inventato gli stati nazione e con essi anche i piatti tipici che dovevano rappresentarne essenzialmente l’identità anche in ambito culinario. Quella del multiculturalismo è dunque una visione che eredita una rappresentazione dell’umanità semplificata come mosaico di culture7 che si rivela in tutta la sua ingenuità (pur nella bontà delle sue intenzioni) nel momento in cui si evince che in realtà l’incontro avviene tra rappresentazioni dell’identità costruite in modo artefatto e fittizio. L’assaggio delle preparazioni tradizionali altrui non rappresenta che un superficiale e sterile incontro estetico con l’Altro, una breve incursione nell’esotico. Spesso poi, gli stessi piatti tradizionali sono oggetto di dispute fra membri della stessa provenienza i quali rivendicano versioni assai più originali e aderenti alla tradizione fra le innumerevoli varianti possibili di una medesima ricetta. La natura interculturale8 delle preparazioni alimentari non si discute, è un dato di partenza, non di arrivo, ma la furia architettonica del multiculturalismo che si intestardisce a voler costruire ponti (per avvicinare la diversità) sembra prevalere sulla pazienza archeologica di chi vuole scavare in profondità per trovare analogie, differenze e corrispondenze accettando di fatto la complessità del mondo. 7 O di nazioni, spesso i due termini vengono confusi nella retorica multiculturalista. I cultori della cucina piemontese rivendicano con orgoglio l’assenza del pomodoro dai piatti tradizionali locali (tumatica è il nome in dialetto piemontese del pomodoro che deve la sua origine etimologica alla lingua nahuatl xitomatl). Il pomodoro fu introdotto nel territorio piemontese non prima della fine del XVI secolo insieme ad altri prodotti americani come il mais e il topinambur che curiosamente sono ingredienti alla base di due fra le preparazioni considerate come particolarmente legate all’identità alimentare biellese: la polenta concia e la bagna caoda (il cui ingrediente principale sono le alici, che anticamente i biellesi ottenevano dai liguri dando in cambio delle mele, preziosi scrigni di vitamine da imbarcare sulle navi che attraversavano l’oceano, per scongiurare lo scorbuto). In realtà ai biellese inizialmente importava poco delle alici che finirono in poltiglia mescolate al burro e all’aglio, mentre erano piuttosto interessati al sale che le ricopriva in abbondanza. 8 15 Gli antropologi ci hanno messo in guardia relativamente all’utilizzo disinvolto dei concetti di tradizione e di identità che sono in realtà concetti problematici, per nulla oggettivi, spesso frutto di costruzioni strumentali (consapevoli o inconsapevoli). Adottando uno sguardo maggiormente critico, che ci collochi al di fuori della vulgata ottimistica, possiamo notare come invece i confini culturali ed identitari siano spesso disegnati proprio sulla base di prescrizioni e proscrizioni alimentari di tipo religioso, oppure costruiti in base a gusti ed abitudini culturali, che risultano spesso assolutamente inconciliabili9. 9 Il convivio è dunque incerto. Ed in termini generali è destinato a divenire ancora più incerto alla luce di stili alimentari emergenti culturalmente definiti (vegetarianismo, veganesimo, dieta macrobiotica, etc.) oppure legati a specifiche esigenze mediche sempre più diffuse (celiachia, diabete, intolleranze ed allergie, etc.) 16