un libro di paolo rossi sull`idea del mangiare tra bisogno, desiderio e
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un libro di paolo rossi sull`idea del mangiare tra bisogno, desiderio e
UN LIBRO DI PAOLO ROSSI SULL’IDEA DEL MANGIARE TRA BISOGNO, DESIDERIO E OSSESSIONE di Alfonso Pascale Paolo Rossi, professore emerito nell’Università di Firenze e membro dell’Accademia dei Lincei, è uno storico delle idee e della “lunga durata”, abituato a sottolineare anche i “moti pendolari” della storia. E’con questo approccio che ha scritto uno stimolante libro intitolato “Mangiare”, edito da “Il Mulino” (2011). Chi coltiva esclusivamente una visione edonistica del cibo, senza curare altri aspetti fondamentali che ad esso si legano, forse non troverà soddisfacente la lettura del volume perché l’autore non racconta solo le storie fatte di cose piacevoli ma anche quelle piene di orrori che si configurano, a volte, come inimmaginabili. Tutti noi non vorremmo vederle mescolate quando si parla del cibo, ma purtroppo sono dannatamente intrecciate; e questo libro ci dà la misura di quanto siano legate indissolubilmente tra loro. La lettura è, tuttavia, avvincente perché il testo è molto documentato, a partire dalle testimonianze dirette di chi si è trovato o si trova a vivere le esperienze drammatiche che vengono descritte. Il tema della fame primeggia perché ancora oggi quasi un miliardo di persone nel mondo sono denutrite. Ma il problema non riguarda solo quella parte del pianeta dove non c’è cibo a sufficienza. Anche da noi, che fortunatamente viviamo dove il cibo è in abbondanza, s’incontrano persone per le quali il mangiare è fonte di preoccupazione quotidiana: ci sono quelle che, per sfamarsi, frugano nella spazzatura e ci sono giovani persone per le quali il mangiare costituisce un nemico a cui opporre uno strenuo, distruttivo e totale controllo. Vengono così raccontati gli studi sull’inedia come malattia che conduce alla morte, sia quelli condotti su volontari, come l’”Esperimento Minnesota”, sia quelli ricavati dalle memorie di medici che vissero l’atroce esperienza del ghetto di Varsavia, nel 1940, quando gli ebrei residenti vennero ermeticamente rinchiusi entro un’area di 14 chilometri quadrati. E descrivendo gli studi sulle carestie del Novecento, in Ucraina e in Cina, nonché quelli sulle deportazioni nei lager nazisti e nei gulag sovietici, lo storico conclude che la tragedia della fame è stata di certo strutturalmente connessa al mondo dei campi di concentramento, ma molto spesso è stata comunque il frutto di errate o incaute scelte politiche. Oltre ai capitoli sul cannibalismo e il vampirismo, ampio spazio è dedicato ai disturbi alimentari e alle malattie del benessere. Prima di tutto l’obesità, diventata ormai una vera e propria epidemia, che colpisce i paesi ricchi ma anche quelli emergenti. L’autore riporta le conclusioni del recente lavoro del neuroscienziato André Holley, in cui si afferma che “dopo mezzo secolo di ricerche e dopo aver speso centinaia di migliaia di dollari per demonizzare i grassi nell’alimentazione, la scienza della nutrizione non è riuscita a provare che una dieta con pochi grassi può aiutare a vivere a lungo”; e questo perché “di fronte a fatti così complessi come quelli che caratterizzano la nutrizione, non ci è concesso di affidare l’indagine a un solo ramo del sapere”. Occorre, in sostanza, mettere insieme più discipline e assumere un approccio olistico per fronteggiare la malattia. E questo ancora non si fa. Più drammatico è il caso dell’anoressia, una malattia mentale che si accompagna ad una vera e propria propaganda volta a diffonderla tra le nuove generazioni. E’forse l’unico caso di apologia di un morbo. Ci sono, infatti, decine di siti web che incitano i giovani al controllo totale del cibo come mezzo di autoaffermazione. Inoltre, il mondo della moda adotta modelli di bellezza che si fondano sull’idea dell’essere magri a tutti i costi. I mezzi di comunicazione di massa hanno assunto come valori esclusivi della nostra società la bellezza e l’efficienza fisica e diffondono questo messaggio con un’aggressività e volgarità senza misura. Si è in tal modo verificata una sorta di saldatura tra modelli culturali di vita e forme patologiche. Negli ultimi decenni, una folla di filosofi, antropologi, psicologi, psicanalisti e psichiatri ha insistito sugli effetti deleteri provocati dall’immagine di un corpo emaciato che viene divinizzato fino a configurarsi come un’entità da raggiungere posta ad un’infinita distanza e, per questa ragione, mai raggiungibile. Nonostante tale impegno – conclude sconsolato l’autore – nel mondo della moda non diventano ancora decisive e vincenti quelle posizioni che si richiamano a problemi etici o a faccende che riguardano la coscienza o la responsabilità che si assume davanti agli altri. Un’attenzione particolare il volume dedica anche al rapporto tra il digiuno e la religione, richiamando i diversi riti di buddisti, induisti, musulmani, ebrei e cristiani. Nel riferire sulla recente letteratura riguardante la vita delle sante e il loro rifiuto ascetico del cibo, si condivide l’opinione dello psichiatra Paolo Santonastaso, secondo il quale vanno evitate semplificazioni grossolane ed erronee identificazioni, accostando le forme di digiuno della prima età moderna all’anoressia dei nostri giorni, perché i significati dei fenomeni non sono facilmente separabili dai contesti. E si mette, inoltre, in risalto come nella Chiesa cattolica la riduzione della pratica del digiuno a due sole giornate all’anno -mercoledì delle ceneri e venerdì santo – abbia aperto veri e propri crepacci nelle sue secolari mura se si sono dovute registrare reazioni di segno opposto da parte dei teologi: di preoccupazione quella di Enzo Bianchi, che vede nella scomparsa del digiuno il rischio per il credente di una caduta nella capacità di confessare la propria fede anche attraverso il corpo; di insoddisfazione quella di Adriana Zarri, che avrebbe voluto una più drastica eliminazione della cultura penitenziale e un maggiore spazio nella letteratura religiosa alla dimensione festosa delle mense, partendo dall’idea di Cristo che si fa cibo e offre se stesso da mangiare ai suoi discepoli sotto i segni del pane e del vino. E’ qui che l’autore sembra cogliere un filo sottile che lega il riemergere di due antichi temi: quello del cibo come convivialità e quello della condanna dell’impresa umana volta al controllo della natura. “E’come se nel mondo del benessere – scrive Paolo Rossi – fosse presente una nascosta forma di nostalgia per il mondo del malessere”. E’in realtà il rimpianto per i tempi felici che non ritornano, per l’ipotetica vita innocente e serena di “primitivi” che nella realtà vivono molto duramente, muoiono giovani e vedono morire molti dei loro figli. “Ancora una volta si realizza – osserva l’autore richiamandosi a Odo Marquard – quel frequente mutuo scambio tra fedi progressiste e angosce apocalittiche (che sono spesso alla base del primitivismo) attraverso un meccanismo quasi automatico: i vantaggi che la cultura concede all’uomo dapprima vengono accolti con favore, successivamente diventano ovvii, in ultimo, si scorge in loro il nemico. Sicché “proprio la liberazione dalle minacce fa diventare minaccioso ciò che libera”, come la medicina, la rivoluzione chimica e la stessa democrazia parlamentare. E’ all’interno di questi processi culturali che si affermano convinzioni errate come queste: “un tempo si mangiava naturale” oppure “per i nostri nonni e bisnonni il cibo era genuino e gustoso”. “Luoghi comuni che dovrebbero crollare – rileva lo storico - di fronte ai dati e alle serie ricerche. Invece resistono impavidamente”. I toni del libro sono qua e là polemici, ma il discorso è condotto con argomentazioni stringenti richiamando spesso sia opere letterarie, teatrali e cinematografiche che studi scientifici non solo e non tanto di storici, filosofi, sociologi e antropologi, ma soprattutto di agronomi, chimici, biologi, neurobiologi e psicologi comportamentali. Il tutto partendo da una descrizione puntuale di ciò che è “natura” e di ciò che è “cultura” e dimostrando come la preparazione del cibo e il mangiare siano sempre una mediazione tra l’una e l’altra. Ma c’è un aspetto che non convince. L’attenzione crescente che nei paesi ricchi si riserva al cibo, tanto da far ritenere ad una studiosa del fenomeno come Alessandra Guigoni che l’alimentazione sarà, nel terzo millennio, uno dei grandi scenari dell’antropologia, è considerata da Paolo Rossi “qualcosa di molto simile ad un’ossessione”. Ed eccessiva appare allo studioso anche l’affermarsi di una cultura locale del cibo. Ci si sarebbe aspettati anche qui dall’autore l’individuazione di uno di quei “moti pendolari” della storia sottolineati per altri risvolti del problema alimentare: il ruolo dei mercati locali, della convivialità, dei legami informali, dei beni collettivi e delle economie del dono, la loro capacità di garantire forme reciprocamente solidali nel tenere insieme le comunità e di contenere gli orrori della fame e la loro possibile rivitalizzazione in forme moderne per offrire nuove opportunità alle odierne società del benessere. Ma tale rilievo ha come attenuante la mancanza di studi storici al riguardo, se si fa eccezione per quelli condotti da Paolo Grossi sui diritti collettivi. Al di là di queste lacune, il libro è utile per comprendere che i grandi dilemmi posti dall’idea del mangiare hanno bisogno per essere affrontati di far interagire sfere diverse della conoscenza scientifica, scongiurando il pericolo di affidarsi a credenze e a saperi nostalgici.