MC Paczkowski--La lettura cristologica dell

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MC Paczkowski--La lettura cristologica dell
LA LETTURA CRISTOLOGICA DELL’APOCALISSE
NELLA CHIESA PRENICENA
M. C. Paczkowski
Per i suoi primi lettori il libro dell’Apocalisse aveva forse un senso più
immediato perché attuale e perciò meno enigmatico che per le generazioni
successive1. In realtà però non si è mai persa la convinzione che tutto
l’ultimo libro scritturistico è la rivelazione del mistero di Dio e la presentazione di Gesù Cristo come “sacramento” dell’incontro con Dio. Così
lo scritto apocalittico si è trovato nell’orbita della cristologia che è “il
cuore dell’annuncio cristiano dei primi secoli”2. Non è perciò da trascurare l’apporto degli scrittori cristiani antichi per la comprensione della
parola divina che rivela la persona del Figlio3. La lettura cristologica delle
Scritture, Apocalisse inclusa, andrebbe ripresa nel contesto della preparazione per il Grande Giubileo del 2000, come raccomanda l’attuale Sommo Pontefice4.
Cristologia e libro dell’Apocalisse
L’ “interpretazione esatta” dell’Apocalisse, elaborata nei primi tempi della
vita della comunità cristiana, è senz’altro difficile da ricostruire. Tuttavia per
la visione apocalittica giovannea e cristiana resta fermo un punto molto importante: l’intervento decisivo e definitivo di Dio nella storia si è già realiz-
1. Cf. E.B. Allo, “Apocalypse”, DBS I (Paris 1928), 321.
2. L. Padovese, Introduzione alla teologia patristica (Introduzione alle discipline teologi-
che 2), Casale Monferrato (AL) 1992, 46.
3. Agli albori della storia della Chiesa sono principalmente i Padri che “tutto riferiscono al
Cristo, ricapitolazione di tutte le cose…, deificatore degli uomini…, fondatore e re della città
di Dio, che è la società degli eletti”; Congregazione per l’educazione cattolica, Lo studio dei
Padri della Chiesa nella formazione sacerdotale (Istruzione), Bologna 1980, 29.
4. “Per conoscere la vera identità di Cristo, occorre che i cristiani, nel corso di questo anno (=
1997), tornino con rinnovato interesse alla Bibbia… Nel testo rivelato, infatti, è lo stesso Padre celeste che ci si fa incontro amorevolmente e si intrattiene con noi manifestandoci la natura del Figlio unigenito e il suo disegno di salvezza per l’umanità”; Giovanni Paolo II, Lett.
Apost. Tertio Millennio Adveniente, 40: AAS 87 (1995) 31.
5. Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Città del Vaticano 1993, 94.
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zato con il Cristo, morto e risorto, Signore della storia e Sposo della Chiesa.
L’Apocalisse non dovrebbe essere classificata tra i libri biblici, la cui portata
cristologica “non è sempre evidente” e che “deve essere messa in luce ogni
qualvolta sia possibile”5. La “chiave cristologica” dell’Apocalisse sembra
decisiva perché le pagine di questo libro, che affascina e sconcerta insieme,
non si presentano più come la descrizione di una realtà strana ed enigmatica,
ma come un messaggio di speranza. L’ultimo libro del NT non si allontana
dall’annuncio di Cristo, centro della Scrittura, e perciò non è meno autorevole, come vorrebbero Lutero e i suoi emuli6.
Nel tentativo di focalizzare gli aspetti cristologici nell’interpretazione
patristica dell’Apocalisse canonica ci si trova di fronte a diverse difficoltà. Da
una parte è ben nota la mancanza di studi sulla storia dell’esegesi patristica
dell’Apocalisse. Risultano, inoltre, assai scarsi anche i contributi parziali o
l’analisi della presenza dell’Apocalisse nei primissimi autori cristiani. Le prime interpretazioni del testo apocalittico venivano del tutto trascurate dagli
esegeti, perché considerate esclusivamente come testimonianza e documentazione in riferimento alle questioni critiche tradizionalmente dibattute, e più
precisamente quelle riguardanti la sua autenticità apostolica, la canonicità,
l’esistenza di una tradizione ostile alla paternità giovannea e, conseguentemente, la contestazione dell’ammissione del libro tra i testi sacri accolti dalla
Chiesa ufficiale.
In questo orizzonte interpretativo assai ristretto non si teneva conto che
gli autori preniceni si preoccupavano di tenere vivi nell’Apocalisse i segreti
riguardanti gli ultimi tempi. Gli sforzi interpretativi dei primi lettori e commentatori non si riducono perciò alla ricerca di indicazioni relative ai tempi
escatologici, anche se è vero che, in genere, l’esegesi a noi nota dell’Apocalisse tende a difendere le immagini e le idee sviluppate dal millenarismo7.
Sembra che la riduzione del panorama esegetico dell’Apocalisse sia stato il
prodotto di una tradizione antica conosciuta nelle sue linee essenziali attraverso Eusebio di Cesarea8 e che è dura a morire.
I motivi potrebbero essere vari. Il principale, che traspare anche nelle rassegne moderne, consiste nel ritenere che l’interpretazione della cristologia
dell’ultimo libro del NT “finisce con l’attribuire implicitamente all’autore
dell’Apocalisse – nota E. Corsini – l’idea di una tal quale incompiutezza nei
riguardi dell’azione salvifica di Cristo nella sua prima venuta. Il che, nella
6. Cf. P. Grech, “Ermeneutica”, Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, 475.
7. Cf. E. Romero Pose, “Apocalisse”, DPAC, I, 268.
8. Cf. C. Mazzucco, “Alla ricerca delle prime interpretazioni dell’Apocalisse”, Parole di vita
25 (1980) 444.
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sostanza, non… sembra poi molto diverso dai discorsi sul fallimento di Cristo e del suo messaggio”9. Questo tipo di riserve si riflette nei manuali di
cristologia che cercano nel NT “gli spunti dinamici che esso contiene per l’interpretazione della persona e dell’evento di Gesù Cristo”10, ma sembrano lasciare un po’ da parte l’Apocalisse.
Da qui anche il fatto che l’interpretazione patristica della cristologia apocalittica non abbia suscitato interesse, anche se gli studi parziali hanno indicato importanti piste da seguire. Una di queste ci indica la produzione
origeniana come ambito in cui bisogna cercare di esplicitare “in tutta la loro
ricchezza e complessità i simboli e le immagini apocalittiche…, dimostrando
come loro gravitassero tutte intorno alla figura del Figlio”11. Difficilmente si
può ammettere che la lettura dell’Apocalisse fosse esclusivamente di dominio alessandrino. In realtà la lettura cristologica delle Scritture ispirate, tra cui
anche il libro giovanneo “di rivelazione”, è una “maieutica” comune a tutti i
Padri, d’Oriente e d’Occidente. Molti di loro, ignorando i tempi dello sviluppo del pensiero teologico, ma non l’ispirazione dello Spirito, riassumono gli
aspetti più importanti della cristologia con la sicurezza di una profonda meditazione. La loro attenta lettura dell’Apocalisse, non sempre facile e pacifica, permette immancabilmente di scoprirvi la conclusione della storia e la
realizzazione delle promesse delle origini per mezzo del Figlio di Dio che è
presente nella storia, dall’origine sino alla fine dei tempi.
Così, il linguaggio cristologico adottato dalle prime generazioni cristiane
forse era semplice, ma nella sostanza esprimeva le medesime idee formulate
dalla teologia successiva, che poteva servirsi di un terminologia tecnica più
ricca ed elaborata12. Verso la metà del III secolo si hanno gli inizi della cristologia speculativa, fondata sulla tradizione e sulla predicazione autentica della Chiesa. I tentativi di speculazione dottrinale devono perciò tenere conto del
complesso di immagini e simboli di Cristo13, tra cui anche i quadri cristologici
dell’Apocalisse. D’altra parte non dobbiamo dimenticare che gli scritti giudaici e giudeo-cristiani, di carattere apocalittico, contribuirono molto ad offrire immagini importanti per la cristologia14. Quindi gli stessi scrittori
9. E. Corsini, “Appunti per una lettura teologica dell’Apocalisse”, in L. Padovese (a cura di),
Atti del II Simposio di Efeso su S. Giovanni Apostolo (Turchia: la Chiesa e la sua storia 37),
Roma 1992, 187.
10. A. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, I, Brescia 1982, 37.
11. A. Monaci, “Apocalisse ed escatologia nell’opera di Origene”, Augustinianum 18 (1978)
149.
12. Cf. Grillmeier, Gesù il Cristo, 288.
13. Cf. Grillmeier, Gesù il Cristo, 361.
14. Cf. Grillmeier, Gesù il Cristo, 195.
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cristiani antichi spingono ad ampliare la prospettiva cercando vari elementi
di lettura cristologica dell’Apocalisse nella Chiesa del loro tempo.
Risulta abbastanza evidente che nella Chiesa dei primi secoli l’ultimo libro del NT era più imitato che commentato. Si costata con facilità la continua
presenza del genere apocalittico nella Chiesa primitiva e non poche testimonianze attestano che si trattava di un mezzo conosciuto e largamente diffuso,
adoperato per consolare i fedeli nei momenti di travaglio e spiegare il senso
degli avvenimenti. Non entriamo qui nella intricata questione delle apocalissi
apocrife, ma generalmente i testi apocalittici intendono risvegliare l’attenzione, nonché richiamare i problemi impellenti che toccano tutti.
Ciò non significa che l’ultimo libro biblico risultasse di facile lettura per
la Chiesa prenicena. L’uso che ne facevano gli eretici o le interpretazioni troppo materialistiche costituivano spesso degli ostacoli molto seri per un’interpretazione globale e pacifica dell’Apocalisse15. Spiccava soprattutto il problema interpretativo più intricato: il millenarismo. Indubbiamente questo è il
dato di fatto e i primi scrittori cristiani, come Giustino, Ireneo e Ippolito, erano concordi nell’interpretare l’Apocalisse alla luce di questa idea, già presente nell’apocalittica tardo-giudaica e con vive aspettative di tipo politico in
alcune comunità cristiane. Tuttavia non si dovrebbe ritenere il millenarismo
come l’unica forma del messianismo ebraico e cristiano nel II secolo16, perché tra le prime interpretazioni dell’Apocalisse non mancano quelle di carattere escatologico17 o di impronta più spirituale.
Nonostante questi “comuni denominatori”, riguardanti l’esegesi dell’Apocalisse, le interpretazioni di questo libro scritturistico assunsero in Occidente e in Oriente fisionomie ben distinte. L’Occidente latino, a partire da
Vittorino di Pettau e da Ticonio, tentava di dare una spiegazione globale del
testo apocalittico. L’asse di questo procedimento era costituita dalla teoria
della ricapitolazione, secondo la quale si riteneva che l’Apocalisse non espone una sola serie continua di avvenimenti futuri, ma ripete le stesse successioni di eventi sotto forme diverse18. Gli alessandrini invece, a quanto pare,
preferivano interpretare allegoricamente pericopi, immagini e versetti isolati
15. Una rassegna degli studi sull’interpretazione patristica dell’Apocalisse viene offerta da C.
Mazzucco; cf. “Alla ricerca delle prime interpretazioni”, 442-443 nota 2.
16. Cf. l’opinione di W. Hourbury, “Messianism among Jews and Christians in the Second
Century”, Augustinianum 28 (1988) 71-88.
17. Cf. C. Mazzucco, “La Gerusalemme celeste dell’ ‘Apocalisse’ nei Padri”, in M.L. Gatti
Perer, “La dimora di Dio con gli uomini” (Ap 21,3). Immagini della Gerusalemme celeste dal
II al XIV secolo, Milano 1983, 49.
18. Cf. E.B. Allo, Saint Jean. L’Apocalypse, Paris 1921, CCXXI. Riferimento rilevato da Monaci, “Apocalisse ed escatologia”, 139 nota 3.
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dell’Apocalisse. Non hanno affrontato, quindi, il problema dell’interpretazione unitaria e complessiva di questo libro neotestamentario19. Clemente e Origene sono da considerare gli esponenti più rappresentativi, se non i precursori,
della spiritualizzazione dei dati apocalittici in Oriente20. Purtroppo dopo
Origene il destino del libro apocalittico nella “pars Orientis” del mondo cristiano diventa sempre più incerto. Dionigi, pur essendo discepolo di Origene,
si è dimostrato incapace di coglierne il senso spirituale. Più tardi Eusebio di
Cesarea mise l’Apocalisse nella lista dei libri contestati e bisognerà aspettare
il VII/VIII secolo per trovare tra gli autori ecclesiastici greci un Andrea di
Creta che fa il commento sistematico di questo libro sacro21.
Nonostante la mancanza di commentari dell’Apocalisse nei primi tre secoli dell’era cristiana, è possibile coglierne degli echi in non pochi scrittori
cristiani22, dove troviamo delle citazioni letterarie, ma anche riprese tematiche
con il ricco repertorio delle immagini e simboli che non solo offriva suggestioni riguardanti i misteri delle cose invisibili, ma anche forniva gli spunti
per l’elaborazione dei dati teologici.
Titoli di Cristo
Nel II e III secolo parecchi scrittori cristiani si occuparono degli appellativi
di Cristo, derivati principalmente dall’AT interpretato in chiave cristologica.
Grazie alla riflessione sui titoli di Cristo non solo si diffuse ampiamente l’idea
della molteplicità dei nomi del Signore, ma vennero puntualizzate importanti
questioni teologiche, come quella del diverso modo di operare del Figlio nel
mondo sia come Dio, sia come uomo. I titoli cristologici e la loro interpretazione, la cui varietà è notevole già nella Scrittura, sono compresi secondo
“esperienze storiche diverse”23. Molteplici testimonianze di autori preniceni
ci rivelano che gli appellativi applicati a Cristo erano suscettibili di una infinità di interpretazioni, anche se l’adesione alla tradizione ecclesiale sembra
giocare un ruolo importante. Così si forma un quadro di cui Ap costituisce una
19. Cf. Monaci, “Apocalisse ed escatologia”, 139-14 0.
20. Non è perciò corretto porre l’affermarsi di questa orientazione esegetica dell’Apocalisse
solo a partire da Ticonio.
21. Cf. Monaci, “Apocalisse ed escatologia”, 150-151.
22. Cf. J. Irmscher, “La valutazione dell’Apocalisse di Giovanni nella Chiesa antica”, Augu-
stinianum 29 (1989) 175.
23. Cf. A. Orbe - M. Simonetti (a cura di), Il Cristo. Testi teologici e spirituali dal I al IV secolo, I, [Milano] 19903, XIII.
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delle componenti più importanti. L’Apocalisse, per i suoi molteplici riferimenti all’AT, facilitava l’applicazione di determinate immagini a Cristo.
Repertorio apocalittico dei titoli cristologici
Trattandosi di un dato tradizionale e diffuso nel cristianesimo dell’epoca
prenicena, già in S. Giustino si sviluppano una filosofia e una teologia degli
appellativi del Signore24, ma solo Melitone di Sardi fa vari richiami cristologici all’Apocalisse25. Con Clemente Alessandrino poi si arrivò alla convinzione che il soggetto delle teofanie veterotestamentarie è sempre il Lógos
preesistente che opera per la salvezza dell’umanità26. Questa speculazione
assorbe tutta la visione giudeo-cristiana di Cristo-angelo. Clemente sostiene:
“il Figlio che è sapienza, scienza, verità…, l’uno-tutto…, è chiamato Alfa e
Omega”27. Questa constatazione deriva dalla giustificazione metafisica del
fatto che il Padre è inconoscibile, mentre invece il Figlio si è manifestato.
Nel commento In Joan. Origene offre un’interpretazione “integralmente
spirituale che vede nell’Apocalisse un documento cristologico”28. Le immagini apocalittiche più sfruttate dall’esegeta alessandrino gravitano intorno alla
figura del Figlio29, perciò egli non si preoccupa come i suoi predecessori di
vedere nelle profezie e nei simboli apocalittici le previsioni dei tempi e delle
modalità della fine, ma l’evento dell’incarnazione. Parimenti le sofferenze
descritte nei testi apocalittici sono riconducibili indirettamente alla sofferenza più grande, quella del Signore. Ciò è dovuto alla convinzione che l’unico
evento decisivo della storia del mondo si è compiuto, e tutto si trova sulla strada dell’ascesa e del graduale ritorno a Dio30. Origene è più attento degli altri
autori alle sfumature e alle differenze che intercorrono fra le diverse denominazioni del Figlio, per cui la riflessione che egli elabora sui vari “aspetti” del
24. Cf. Grillmeier, Gesù il Cristo, 99.
25. L’unico riferimento letterale è solo ad Ap 1,8; cf. In S. Pascha: SC 123, 124-125. Stando
però sulle affermazioni di Eusebio, al centro della predicazione di Melitone c’è Gesù Cristo,
Dio-uomo. Cf. Hist. Eccl. V,28,5: G. Del Ton, Eusebio di Cesarea. Storia Ecclesiastica e i
Martiri della Palestina (testo gr. con trad. e note), Roma - Parigi - Tournai - New York 1964,
420-421.
26. Cf. M. Simonetti, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell’esegesi patristica
(Studia Ephemeridis “Augustinianum” 23), Roma 1985, 70 nota 14.
27. Strom. IV,25,156: GCS 2, 317-318.
28. Cf. Mazzucco, “Alla ricerca delle prime interpretazioni”, 451.
29. Monaci, “Apocalisse ed escatologia”, 146.
30. Cf. Monaci, “Apocalisse ed escatologia”, 149.
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Figlio costituisce l’essenza della sua teologia del Verbo ed è un vero trattato
sui nomi di Cristo31. Per i più, il nome di Cristo, analogamente all’appellativo “Dio”, “racchiude un significato inconoscibile”32. E’ significativo che in
queste occasioni l’Alessandrino riporti e commenti una notevole quantità di
passi apocalittici33. Questo procedimento rappresenta “il punto più alto, e
nello stesso tempo più denso di significato, della sintesi origeniana a proposito della figura del Figlio”34.
Il repertorio dei titoli apocalittici del Signore richiamati da Origene è
molto vario. Il Figlio è “giudice”, secondo Ap 16,5; 17,1435. Egli è anche “Re
dei re”, come appare nel commento In Num.36. A questa sua regalità e alla giustizia del governante37 è connesso il titolo di “Onnipotente” (Ap 1,8)38. Altrove l’Adamanzio coniuga la spiegazione del titolo “Re dei re” con la dignità
regale degli Apostoli e dei capi delle Chiese. Se essi non fossero “re”, continua il nostro autore, il Signore non porterebbe il titolo “Re dei re” (cf. Ap
19,16; 1Tm 6,15)39. Riferendosi alla regalità di Cristo, in un testo del De
princ. Origene tende a precisare che il Signore esercita i suoi poteri di “Onnipotente” nel pieno rispetto del libero arbitrio delle creature, che si sottomettono volontariamente al Lógos dopo l’opera di educazione dispiegata nel
corso di un numero infinito di eoni40.
31. Per Origene la pluralità degli appellativi di origine scritturistica riferiti a Cristo (ejpi/noiai)
non compromette minimamente l’unità della sostanza del Lógos. Cf. soprattutto In Joan. I,2039: SC 120, 123-207.
32. II Apol. 6,5: M. Marcovich (ed. by), Justini Martyris Apologiae pro Christianis (PTS 38),
Berlin - New York 1994, 146.
33. Nelle opere origeniane l’uso dell’ultimo libro scritturistico non sempre risulta omogeneo.
Il Corsini nota, ad esempio, che nella prima parte della produzione origeniana l’Apocalisse è
presente in modo massiccio, ma poi il fenomeno va gradatamente diminuendo nelle ultime
opere del maestro alessandrino; cf. U. Bianchi - H. Crouzel, Arché e Telos. L’antropologia di
Origene e di Gregorio di Nissa. Analisi storico-religiosa (Atti del colloquio. Milano, 17-19
Maggio 1979), Milano 1980, 169.
34. Monaci, “Apocalisse ed escatologia”, 147. Le speculazioni sul “nome” erano assai care ai
giudeo-cristiani. Ne è testimonianza il Pastore di Erma: “Il nome del Figlio di Dio è grande,
immenso e sostiene tutto il mondo” (Simb. IX,14,5: SC 53, 324-325). A questo proposito cf.
E. Testa, “I giudeo-cristiani e San Giovanni”, in San Giovanni. Atti della XVII Settimana
Biblica, Brescia 1964, 286.
35. Cf. Sermo 118: GCS 11, 250; In Joan. I,34,252: SC 120, 185-184.
36. Cf. In Num. XI,4; XII,2: PG 12, 649 B; 660 D-661 A. Su questo brano origeniano cf. G.
Sgherri, Chiesa e Sinagoga nelle opere di Origene (SPM 13), Milano 1982, 383-385.
37. Cristo è re di coloro che regnano sui giusti. Cf. In Num. XI,4; 28,4: PG 12, 649 B-650 B.
38. Cf. In Rom. IX,39: PG 14, 1239 C. In questo brano origeniano il Signore è chiamato “omnitenens” e “omnipotens”.
39. Cf. In Num. XII,2: PG 12, 660 D-661 A.
40. Cf. Monaci, “Apocalisse ed escatologia”, 147 nota 37.
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Al grande Alessandrino non sfugge quindi il fatto che le diverse denominazioni del Signore “mettono in luce l’onnicomprensività e la dilatazione
universale della figura del Figlio, una realtà predicata però da tre punti di vista differenti. Il Figlio è fine e principio41, è ‘colui che è che era e che viene’
(Ap 1,18) in quanto riassume in sé tutti i momenti significativi della storia
della salvezza”42.
Il Figlio è il “primo” e l’ “ultimo”43 perché è il fondamento ontologico di
tutta la gerarchia degli esseri razionali e, in quanto Salvatore, “si è fatto tutto” (Col 3,11)44.
È “Alfa” e “Omega”45 perché allo stesso modo che la parola scritta può
essere intesa solo conoscendo l’alfabeto, così la totalità delle caratteristiche
del Figlio può essere acquisita solo conoscendo la totalità dei suoi aspetti
“distribuiti dall’Alfa via via fino all’Omega”46. Questa immagine suggerisce
anche un altro ordine di idee: come un libro non è che il risultato delle infinite combinazioni delle lettere dell’alfabeto, così il Libro per eccellenza (la
Bibbia) non è che l’epifania multiforme di un’unica realtà che è il Figlio.
Questo è il motivo per cui il Vangelo eterno (cf. Ap 14,6) viene identificato
con il Lógos stesso, secondo cui vivranno i beati47, godendone la contemplazione e la piena comprensione48. Quel Vangelo va visto sempre nella sua
pienezza perché comprende “tutte le cose relative al Figlio di Dio in se stesso
e, insieme, i misteri contenuti nelle sue parole e le realtà di cui erano simboli
le azioni da lui compiute”49.
Origene è quindi in consonanza con la scuola alessandrina, quando
afferma:
il Signore… è “primo” e “ultimo” degli estremi, non perché non sia anche
in mezzo, ma per indicare che Egli “si è fatto tutto” (Col 3,11)… Come in
41. Il Daniélou ricava questo titolo cristologico da Teofilo, Giustino e Clemente Alessandrino
e lo dice di chiara origine giudeo-cristiana. Cf. J. Daniélou, Théologie du Judéo-Christianisme
(Histoire des doctrines chrétiennes avant Nicée 1), Paris - New York - Rome 1958, 219-221.
42. Monaci, “Apocalisse ed escatologia”, 147.
43. Sono titoli cristologici conosciuti nell’ambiente giudeo-cristiano; cf. Testa, “I giudeo-cristiani e San Giovanni”, 280.
44. In Joan. I,31,209-211; 219: SC 120, 162-165; 166-167.
45. Su questo titolo cristologico presso i giudeo-cristiani cf. Testa, “I giudeo-cristiani e San
Giovanni”, 280.
46. In Joan. I,31,221: SC 120, 168-169.
47. Cf. De princ. III,6; IV,3: GCS 22, 5, 290; 343.
48. In Joan. I,16,93: SC 120, 108-109.
49. In Joan. I,7,39-40: SC 120, 80-83.
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questa vita egli ebbe più degli altri uomini, in virtù della sua nascita da una
vergine e in vista di tutta la sua vita (attuatasi) in modo fuori dell’ordinario,
così anche tra i morti, in quanto egli è colà (nell’Ade) l’unico libero – la sua
anima non è abbandonata in balìa dell’Ade. In tal modo, quindi, egli è “primo” e “ultimo”50.
L’esposizione basata sul ragionamento analogico viene fatta a proposito
di altri due appellativi apocalittici del Verbo: “morto” e “vivente”51.
Altrettanto (sono) chiari gli aspetti di “vivente” e di “morto” (allusione a Ap
1,18) … egli si abbassa fino alla nostra mortalità, affinché essendo egli morto al peccato (Rm 6,10), portando la sua morte nel nostro corpo, potessimo
ricevere ordinatamente la sua vita che è oltre la mortalità52.
La complessa teoria cristologica di Origene non si basa soltanto su una
pura speculazione, ma prende in considerazione i vari aspetti del Figlio presentati dalla rivelazione.
I titoli di Cristo sono trattati da Ireneo, Tertulliano e Novaziano53. Tuttavia i Padri latini appaiono più cauti nelle speculazioni cristologiche basate
sull’Apocalisse. Per Cipriano, ad esempio, Ap 21,6 conferma che “Cristo è
primogenito e sapienza di Dio, e per mezzo di lui tutte le cose sono state create”. Lo stesso versetto apocalittico viene citato nella argomentazione sulla
divinità di Cristo. Il vescovo di Cartagine accosta a Ap 21,6 la promessa della “deificazione” degli uomini giusti (iusti… dii dici possunt; citazione di Sl
81,1.6.7)54.
In Ireneo gli aspetti dei “Cherubini”, ossia i quattro esseri viventi secondo Ap 4,6-7, sono interpretati in chiave cristologica. Il leone “rappresenta la
potenza, la eccellenza e la regalità di Cristo”55; il vitello invece “significa la
funzione sacrificale e sacerdotale”. L’aspetto umano del terzo “cherubino”
50. In Joan. I,34,219: SC 120, 166-167.
51. Per una panoramica su questi aspetti di cristologia si veda A. Orbe, Cristología gnóstica:
Introducción a la soteriología de los siglos II y III, II, Madrid 1976, 498.
52. In Joan. I,35,227: SC 120, 170-171.
53. Per Ireneo cf. Adv. Haer. V, 9: SC 153, 116-123; per Tertulliano, Adv. Praxean XIV, 1XV, 9: CCL 2, 1176-1180; Adv. Marcionem II, 27: CCL 1, 505-507; per Novaziano, De
Trinitate XXXI: PL 3, 977 C-981 A.
54. Testim. II,6: CCL III, 37.
55. Alla stessa idea si riferisce Ippolito. Secondo lui, Cristo, “per il suo carattere regale e glorioso è stato preannunciato come un leone (Gen 49,9; Ap 5,5)”; De Antichris. 6,1: E. Norelli (a
cura di), Ippolito. L’Anticristo (Biblioteca Patristica 10), Firenze 1987, 72-73.
56. Adv. Haer. III,11,8: SC 211, 164-165. L’ultimo di questi “esseri viventi”, che ha aspetto di
un’aquila, “indica il dono dello Spirito che vola sulla Chiesa”.
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“descrive chiaramente la sua venuta come uomo”56. Si ha qui un repertorio
tradizionale degli appellativi di Cristo (uomo, potente, offerta) che di solito
sono documentati con altri testi scritturistici.
Figlio dell’uomo
L’interpretazione dell’appellativo “Figlio dell’uomo” viene impostata con
molta evidenza già in Ignazio di Antiochia57. Pur tracciando una ricca e complessa dottrina cristologico-ecclesiale, in cui appaiono elementi paolini e
giovannei58, questo autore è lontano dall’attribuire all’appellativo in questione un significato escatologico, derivato da Dn 7,13-14. Collegando in Cristo
il “Figlio dell’uomo” con il “Figlio di Dio”, Ignazio indica semplicemente la
sua duplice componente, umana e divina59. Adoperando in seguito espressioni simili, il vescovo di Antiochia pone le basi di uno dei pilastri della primitiva fede cristologica: in Cristo si deve vedere Dio, ma incarnato e
veramente nato60 che si è innestato sull’albero dell’umanità, sul tronco di
Davide61. Più tardi il titolo di “Figlio dell’uomo” sarà inteso in questo senso
alla luce di alcuni brani del NT. Giustino già conosce questa tradizione62 e
afferma da una parte che il Salvatore è diventato uomo, dall’altra che la sua
generazione è divina63. Lo stesso si vede in Cipriano che usa l’appellativo
“Figlio dell’uomo” per sottolineare la realtà della natura umana di Cristo,
senza riferimenti alle visioni escatologiche64. In altri autori però il titolo “Figlio dell’uomo” è uno degli elementi dell’apocalittica legati strettamente con
la parusia. In Giustino questa verità occupa un posto importante, anche se
questo Padre della Chiesa è sulla linea ignaziana quando considera l’appel-
57. “Figlio dell’uomo” era un titolo cristologico usato nella Chiesa “ex circumcisione”. Cf.
Testa, “I giudeo-cristiani e San Giovanni”, 280.
58. Cf. Th. Camelot, Ignace d’Antioche. Lettres. Martyre de Polycarpe de Smyrne (SC 10 A),
Paris 1964, 30-31 con nota 2; H. Maurer, Ignatius von Antiochien und das Johannesevangelium,
Zürich 1941, 25-40.
59. Ad Eph. 20,2: SC 10 bis, 90-91.
60. Così anche Vittorino di Pettau; cf. In Apoc. I,6: PLS 1, 110-111.
61. Cristo viene visto come l’artefice dell’unità. Egli, nella sua realtà umana e divina, ricompone ontologicamente l’unità tra Dio e il cosmo, infranta dal peccato, e ricostituisce l’unità degli uomini nella comunità dei redenti. L’incarnazione ha in questo contesto un valore
cruciale.
62. Cf. Dial. 76,7: Biblioth/kh 3, 281.
63. Cf. Dial. 76,1: Biblioth/kh 3, 280.
64. Cf. Testim. II,9: CCL III, 30. Cipriano si rifà però a Dn 7,13.
LA LETTURA CRISTOLOGICA DELL’APOCALISSE
197
lativo “Figlio dell’uomo”65 come equivalente dell’umanità di Cristo. Tuttavia in altri contesti il nostro apologeta non può fare a meno di utilizzare immagini apocalittiche nella presentazione della figura del Signore glorioso.
Polemizzando con Trifone, afferma che alcune parole dei profeti “si riferiscono alla seconda venuta… (di Cristo), quando apparirà nella gloria sopra
le nubi (cf. Dn 7,13; Mt 24,30) e il vostro popolo (= gli ebrei) vedrà e riconoscerà colui che hanno trafitto (cf. Zc 12,10; Ap 1,7)”66. E’ significativo
che per il nostro autore la rivelazione-parusia abbia una doppia valenza. Bisogna riconoscere Cristo, afferma più avanti, “sia come Dio venuto dall’alto, sia come uomo nato tra gli uomini… che ritornerà di nuovo, lui che
guarderanno e si percuoteranno coloro che l’hanno trafitto (Ap 1,7)”67. E’ la
risposta all’obiezione di Trifone che si riferisce all’immagine del figlio dell’uomo presente in Dn. “Le Scritture ci costringono ad attendere – dice il
maestro ebreo – come grande e glorioso colui che come figlio dell’uomo
riceve dall’antico dei giorni il regno eterno”68. La citazione di Ap 1,7 ha chiaro intento polemico. Essa offre, inoltre, gli elementi della “proiezione
escatologica” del tema della “trafittura del costato” che indica la passione e
la morte del Figlio di Dio. Questo elemento appare assai diffuso tra il II e III
secolo e ritorna in Ireneo e Tertulliano69.
Nell’Adv. Haer. è delineata tutta la storia sacra che comprende i principali interventi salvifici di Dio fino al compimento escatologico70. Scrive Ireneo:
Giovanni, il discepolo del Signore, vedendo nell’Apocalisse la venuta sacerdotale e gloriosa del suo regno (= di Cristo), dice: “Vidi sette candelabri
d’oro e in mezzo ai candelabri c'era uno simile a figlio di uomo, con un abito
lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d'oro…, ecc.” (Ap 1,1216). In tutte queste cose una, cioè la testa, significa lo splendore che (Cristo)
riceve dal Padre; un’altra, cioè la tunica lunga fino ai piedi, significa il potere sacerdotale – appunto per questo Mosè rivestì il sommo sacerdote secondo quel modello (cf. Es 28,4; Lv 8,7)71; un’altra, cioè il bronzo splendente
fuso nella fornace significa imminenza della fine, il bronzo che è la saldezza
65. Nel commento a Mc 8,31, Giustino afferma: “(Cristo) chiamava se stesso ‘Figlio dell’uo-
mo’ o proprio perché era nato… da una vergine della stirpe di Davide… oppure a causa di
Adamo stesso”; Dial. 100,3: Biblioth/kh 3, 301.
66. Dial. 14,8: Biblioth/kh 3, 221.
67. Dial. 64,7: Biblioth/kh 3, 299.
68. Dial. 32,1: Biblioth/kh 3, 235.
69. Cf. G. Visonà (intr., trad. e note), Giustino. Dialogo con Trifone, Milano 1988, 155 nota 2.
70. Così SC 100, 234-235.
71. Sull’interpretazione di questo particolare cf. W. Michaelis, leuko/ß, GLNT 6, 677-678.
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della fede e la perseveranza delle preghiere a causa della conflagrazione che
arriverà alla fine72.
Giovanni però non poteva sostenere questa visione e ciò “affinché accadesse ciò che sta scritto: ‘Nessuno può vedere Dio e vivere’ (Es 33,20). Allora il Verbo lo rianimò, gli ricordò che era colui sul cui petto si era adagiato
durante la cena, quando gli aveva chiesto chi era colui che lo avrebbe tradito
(cf. Gv 13,15)”73.
Per Ireneo si tratta di una delle rivelazioni del Lógos. Secondo la sua regola della “consonanza” e della ricapitolazione, l’immagine apocalittica del
Figlio dell’uomo può essere legata con le altre. Non esita quindi a dire: “Il
Verbo… dopo essersi mostrato agli uomini, ci ha dato un Vangelo quadriforme”74, interpretando poi in chiave cristologica Ap 4,6-7.
L’ambiente alessandrino non pare particolarmente interessato alla riflessione sul titolo “Figlio dell’uomo”. Perfino Origene, che tratta tematicamente
i titoli e gli appellativi di Cristo, lo tralascia o ne parla in modo del tutto occasionale75 e senza citare l’Apocalisse76.
Nell’Africa del III secolo la visione apocalittica del “figlio dell’uomo”
non ha suscitato molto interesse, tranne i testi sul martirio e qualche accenno
in Cipriano. Il vescovo di Cartagine è propenso a riferirsi a Dn. Sostiene che
le manifestazioni della divinità di Cristo77 sono profetizzate dal profeta Daniele, secondo la sua visione del “figlio dell’uomo” appunto (cf. Dn 7,13-14),
e confermate dal veggente di Patmos (cf. Ap 1,12)78. Il testo apocalittico di
Giovanni è trattato quindi come una semplice conferma. Invece la Passio
Perpetuae et Felicitatis riporta una visione che, senza costituire una citazione scritturistica alla lettera, ha molti punti in comune con Dn e Ap79. I martiri
72. Adv. Haer. III,11,8: SC 211, 162-163. Orbe analizza questo brano di Ireneo in Parábolas evangélicas en san Ireneo, I-II, Madrid 1972, 185-119; cf. anche Cristología gnóstica, II, 150 nota 50.
73. Adv. Haer. III,11,8: SC 211, 162-163.
74. Adv. Haer. III,11,8: SC 211, 162-163.
75. Cf. analisi di Grillmeier, Gesù il Cristo, 85-89.
76. Origene “dimostra una devozione profondamente effettiva” per l’umanità del Salvatore.
Cf. H. Crouzel, Origene (Cultura cristiana antica), Roma 1986, 267-268. L’alessandrino sostiene, ad esempio, che Gesù è chiamato “Figlio dell’uomo” perché “nato dal seme di Davide
secondo la carne… (e) trae origine da una donna, anch’essa essere umano”. Con questo termine, precisa il nostro autore, “si intende indicare l’uomo in Gesù”; Exhortatio ad mart. 32,1525, passim: GCS 2, 30.
77. Cf. Testim. II,27: CCL III, 65.
78. Cf. Testim. II,26: CCL III, 64.
79. Sulle varie interpretazioni delle visioni dei martiri nella Passio cf. J. Amat, “L’authenticité
des songes de la Passion de Perpétue et de Félicité”, Augustinianum 29 (1989) passim.
LA LETTURA CRISTOLOGICA DELL’APOCALISSE
199
raccontano: “Al centro di quel luogo vedemmo seduto un uomo con le chiome bianche, i suoi capelli erano simili alla neve, il suo volto era giovanile…
Quattro venerabili anziani erano alla sua destra, quattro alla sua sinistra e dietro di loro, molti altri”80. La sottolineatura dell’aspetto giovanile del personaggio sembra essere la conferma che non si tratta dell’“antico dei giorni”,
identificato col Padre, ma del Figlio.
In Vittorino di Petovio alcuni elementi della interpretazione dei quattro
viventi si trovano in relazione con la visione del figlio dell’uomo. Partendo
dalla concezione molto diffusa che vedeva nei viventi i simboli dei Vangeli,
Vittorino aggiunge l’interpretazione cristologica di Ap 4,7. Egli li identifica
con lo stesso Verbo del Dio Padre Onnipotente. Nell’AT il Figlio è stato
vaticinato come leone e “per la salvezza degli uomini si fece uomo, vinse la
morte e liberò tutti” e perciò viene paragonato all’essere umano. Egli è detto
vitello perché offrì se stesso come offerta al Padre per noi. Infine, è chiamato
l’ “aquila che vola” perché avendo “vinto la morte, ascese ai cieli, estendendo le sue ali e proteggendo il suo popolo”.
Lo stesso autore poi, ricollegandosi alla visione del figlio dell’uomo, descrive le conseguenze della venuta del Signore. Nel modo a lui caratteristico,
questo autore si muove nella prospettiva soteriologica. Il Figlio,
accolto come uomo, ha dato la testimonianza nel mondo, in cui “ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue” (Ap 1,5) e, vincendo l’inferno, è
risorto per primo: “la morte non ha più potere su di lui” (Rm 6,9); il dominio di colui che regna nel mondo è stato distrutto. “Ha fatto di noi un regno di sacerdoti” (Ap 1,6), cioè tutta la Chiesa dei fedeli, come dice
l’Apostolo Pietro: “La stirpe eletta, il sacerdozio regale” (1Pt 2,9). “Ecco,
viene sulle nubi e ognuno lo vedrà” (Ap 1,7); prima per salvare l’uomo
venne di nascosto, dopo un poco verrà per il giudizio manifestandosi nella
maestà e gloria81.
Altri elementi che permettono di sviluppare la lettura cristologica
della visione del Figlio dell’uomo sono “antichità e immortalità, origine
divina” che “sono rivelate dal candore del capo; ‘Capo di Cristo è Dio’
(1Cor 11,3)”82. L’altro elemento della stessa visione, cioè il volto del
Signore simile al sole splendente, è accolto invece con alcune chiarificazioni. “Lo splendore del sole è minore (della gloria del Signore).
80. Passio Perpetuae et Felicitatis XII,2-3: C.J.M.J van Beek (ed.), Passio Sanctarum Perpetuae et Felicitatis, Nijmegen 1936, 32.
81. In Apoc. I,1: PLS 1, 105.
82. In Apoc. I,2: PLS 1, 105-106.
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Tuttavia la Scrittura ha fatto questa similitudine a causa del sorgere, tramontare e il nuovo sorgere, perché (Cristo) è nato, morto e risorto”. “Un
abito lungo fino ai piedi” (Ap 1,16) è la veste sacerdotale - dice il
Petoviano. Essa indica “la carne incorrotta dalla morte e (il Signore) che
per mezzo della passione possiede l’eterno sacerdozio”. L’espressione
“cinto al petto con una fascia d'oro”, come avverte il Petoviano, si spiega secondo il senso ecclesiastico-tradizionale come “compatta coscienza
e puro spirito”83.
Agnello
Uno dei temi che richiamano il sacrificio offerto dal Signore per gli uomini è
sviluppato nell’immagine apocalittica dell’Agnello (cf. Ap 5,6; 5,12). L’evidenza di questo simbolo per le prime generazioni cristiane era immediata e
suscitava innumerevoli richiami84. Su questi molteplici significati si basa
l’applicazione al Salvatore. L’identificazione Agnello-Cristo stabilita nell’Apocalisse fa sì che il sacrificio della croce venga ad occupare il centro della
riflessione cristologica che utilizza questa immagine.
Nel commento In Joan. di Origene l’immagine dell’Agnello in Ap 5,6 è
sviluppata nel contesto sacrificale.
Questo è l’Agnello che, secondo certe ragioni ineffabili, è diventato sacrifico di espiazione per tutto il mondo, avendo accettato perfino di essere immolato per esso secondo la misura dell’amore del Padre verso gli uomini…
A condurre questo Agnello al sacrificio fu Dio che era nell’uomo, il sommo
sacerdote grande85.
L’Alessandrino inserisce la figura apocalittica dell’Agnello in un orizzonte più ampio. Commentando Rm 3,11-12 egli pone l’accento sulla relazione
di Cristo con il Padre e la sua funzione rivelatrice.
Nell’Apocalisse di Giovanni, quando davanti all’antico dei giorni viene presentato il libro sigillato e si cerca chi tra quelli di ogni tribù, lingua e popolo
lo possa aprire, non si trovò nessuno se non il solo Agnello della tribù di
Giuda, che fu giustificato di fronte a Dio: ed egli solo meritò di aprire il li-
83. In Apoc. I,2: PLS 1, 106 (passim).
84. Cf. Orbe, Cristología gnóstica, II, 149-153.
85. In Joan. VI,35,273-36,276: SC 157, 336-339.
LA LETTURA CRISTOLOGICA DELL’APOCALISSE
201
bro, egli che è il solo che “quando egli apre nessuno chiude, e quando chiude nessuno apre” (Ap 3,7)86.
Il quadro origeniano sfrutta solo pochi elementi della visione apocalittica
(cf. Ap 5,1-6,1) e li presenta in modo superficiale. Tutto si concentra
sull’ “Agnello della tribù di Giuda” e gli altri elementi perdono la loro
importanza.
Nei Testimonia ciprianei l’appellativo in questione appare in un contesto
abbastanza vasto. Il vescovo di Cartagine, attraverso le citazioni bibliche dimostra che Cristo è detto “pecora” e “agnello” in relazione con la sua passione e morte. Ai brani veterotestamentari di questo Testimonium (Is 53,7-9.12;
Ger 11,18-20; Es 12,3-5) Cipriano accosta Ap 5,6 e Gv 1,2987. La visione gloriosa dell’Agnello (Ap) e la presentazione di Cristo come “agnello che toglie
i peccati del mondo” (Gv) mostrano il tratto caratteristico della cristologia dei
primi secoli, che colloca al primo posto il mistero pasquale e poi l’aspetto
sacrificale della passione del Signore88.
L’immagine dell’agnello è per Vittorino di Pettau “contemplata nella legge (antica) per mezzo delle varie oblazioni e sacrifici”. Ma non basta: “Egli
era il primo e ha legato la morte, era perciò giusto che Dio lo costituisse erede”89. L’aspetto dell’agnello “come immolato” è in riferimento al corpo umano del Salvatore90.
Testimone fedele e verace
Già i martiri di Lione “davano volentieri a Cristo, il testimone ‘fedele’ e
‘verace’ (Ap 3,14)”, l’appellativo di “martire”91. Sicuramente è il testo
dell’Apocalisse92, ricordato dal redattore del racconto, che non solo li invitava a invocare Cristo con questo titolo, ma anche a considerarlo come un modello supremo cui guardare, pur senza sentirsi del tutto conformi a Lui. Così
86. In Rom. III,2: PG 14, 932 A. Cf. F. Cocchini (intr., trad. e note a cura di), Origene. Com-
mento alla lettera ai Romani, I, Casale Monferrato 1987.
87. Cf. Testim. II,15: CCL III, 50.
88. Cf. M.C. Mara, “La catechesi cristologica in S. Cipriano”, in S. Felici (a cura di),
Cristologia e catechesi patristica 2 (Biblioteca di scienze religiose 42), Roma 1981, 33.
In Apoc. V,1: PLS 1, 128.
Cf. In Apoc. V,1: PLS 1, 129.
Eusebio, Hist. Eccl. V,2, 3: Del Ton, Eusebio. Storia, 358-359.
L’Apocalisse vi è citata espressamente come “Scrittura (iºna hJ grafh\ plhrwqhˆ)v ”. Cf. Hist.
Eccl. V,1,58: Del Ton, Eusebio. Storia, 354-355.
89.
90.
91.
92.
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anche nella cristologia si mettono a fuoco alcune questioni cruciali per la comunità primitiva, come la testimonianza del martirio.
Bisognava però aspettare che Origene rivelasse un continuo interesse intorno al martirio collegato con il tema cristologico: infatti la figura del Verbo-testimone è l’oggetto principale della sua riflessione sull’Apocalisse. Commentando Ap 6,9, egli fonda il valore espiatorio delle preghiere dei martiri sull’analogia che intercorre fra il loro sacrificio e quello di Cristo. La stessa analogia,
ma in senso prefigurativo, viene stabilita anche in riferimento alla legge antica
che ha valore purificante solo perché Cristo si è sacrificato ed ha espiato i peccati del mondo93. Le anime dei decapitati (Ap 20,4) ministrano la remissione
dei peccati: “come il sommo sacerdote Gesù Cristo ha offerto se stesso in sacrifico, così i sacerdoti, di cui è sommo sacerdote, offrono se stessi in sacrificio”94.
Il sacrificio dei martiri è in relazione con Cristo. Infatti al suo sacrifico
supremo “si ricollegano per affinità tutti gli altri sacrifici… Affini a questo
sono… le effusioni del sangue di nobili martiri, che non per niente sono contemplati dal discepolo Giovanni disposti intorno all’altare celeste (cf. Ap
6,9)”95. L’unione dei martiri con Cristo va oltre i limiti concettuali. Questo è
il motivo per cui la sua miracolosa presenza orienta il significato del martirio
in una nuova direzione.
L’interpretazione cristologica di Ap 12,1-6
Per alcuni autori della Chiesa antica il complesso simbolo apocalittico della
“donna vestita di sole” risultava facilmente applicabile anche alla realtà di
Cristo, Dio e uomo.
Primo fra tutti, Ippolito inserisce la menzione dell’umanità di Cristo nell’interpretazione del passo apocalittico in questione.
La donna “partorì un figlio maschio, destinato a governare”, il Cristo maschio e perfetto Figlio di Dio, Dio e uomo (to\n a‡rsena kai« te÷leion Cristo/n,
pai√da Qeouv, Qeo\n kai« a‡nqrwpon), che i profeti annunciarono e che la Chiesa partorendo continuamente insegna a tutte le genti. Quando poi dice: “destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e il figlio fu subito
rapito verso Dio e verso il suo trono” indica che è re celeste96.
93. In Joan. VI,54,276: SC 157, 338-339.
94. Exhort. Mart. 30: GSC 2, 26-27.
95. In Joan. VI,35,273-36,276: SC 157, 336-339.
96. De Antichris. 61,1: Norelli, Ippolito. L’Anticristo, 142-145.
LA LETTURA CRISTOLOGICA DELL’APOCALISSE
203
Questa testimonianza ippolitiana fa intuire un’esegesi di Ap 12,1-6 già
complessa e fortemente cristologica. In questa interpretazione, corredata da
lunghe citazioni antico e neotestamentarie, si intreccia il binomio: preannunzio profetico - predicazione della Chiesa. Perciò non senza motivo Ippolito richiama i profeti, i cui vaticini indicano che il Verbo sottende l’intera
storia della salvezza a cominciare dall’AT97. E’ significativo che il Cristo generato dalla Chiesa è risorto e glorioso. Perciò anche nella persecuzione la
Chiesa genera colui che vince ogni afflizione e ostacolo, e li distruggerà alla
fine (Sl 109 [110],1).
Nel commento ad Ap 12,1-6 di Vittorino di Pettau si incontra una sorprendente imprecisione dogmatica. Questo autore afferma che la corona di dodici
stelle posta sul capo della Donna vestita di sole indica i Patriarchi (= padri),
“dai quali lo Spirito ha preso la carne”98. Non desta meraviglia il fatto che S.
Girolamo abbia corretto questa affermazione: si tratta dei “padri, dai quali
Cristo aveva preso la carne”99.
Cristologia e simbolismo dei numeri
Tra i grandi Padri dell’epoca prenicena le acquisizioni aritmetiche e il simbolismo dei numeri sono poco utilizzati nell’esegesi dell’Apocalisse. In alcuni
casi si può supporre una incipiente perdita del filo di congiunzione che legava la Grande Chiesa con la mentalità giudeo-cristiana, per cui veniva trascurata la lettura simbolica di quegli importanti elementi dell’apocalittica.
Un’altra causa è da ricercare nella speculazione gnostica sui numeri. Ireneo,
rivolgendosi nell’Adv. Haer. a Marciano, sostiene che tale speculazione è una
grande follia spacciata per sapienza. Dopo aver descritto il metodo gnostico
di quella speculazione, il vescovo di Lione riassume i suoi esiti: per gli
gnostici Dio onnipotente è stato emanato da una “defezione” e ha prodotto,
alla stessa maniera, altre “defezioni”100.
Tra gli autori preniceni, Metodio si allontana notevolmente dal senso biblico
dei numeri nell’Apocalisse e si basa sulle teorie pitagoriche riguardanti i
97. Dn 9,27; Ml 3,20 (cf. anche 4,2), Sl 109 (110),1 in De Antichrs. 61,3: Norelli, Ippolito.
L’Anticristo, 144-145.
98. In Apoc. XII,1: PLS 1, 150.
99. In Apoc. (Rec. Hieronymi) XII,1: PLS 1, 150. Altri particolari invece non sembrano così
controversi: il sole che è la sua veste indica “la speranza della risurrezione e la gloria della
promessa”. Invece la luna è collegata con la morte e “il riposo nella speranza”, a causa del suo
diminuire e della luce riflessa che illumina le tenebre. Cf. In Apoc. XII,1: PLS 1, 149-150.
100. Cf. Adv. Haer. I,16,3: SC 264, 260-265.
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numeri101. Egli afferma che il numero 60 simbolizza il Figlio perché il 6 è un
numero perfetto, come composto dalle sue proprie parti. Nella sua elaborazione
esegetica delle immagini apocalittiche Metodio ha davanti agli occhi soprattutto
quella parte della Chiesa, costituita dalle vergini, che è sottratta agli oltraggi di
satana perché si trova già in paradiso e nella contemplazione della Trinità102.
Solo negli autori cristiani del IV-VI secolo si è creata, grazie ad un’esegesi più matura, ma spesso lontana dalla “mens” originaria, una mentalità
capace di recepire i valori biblici della simbologia dei numeri. Stando alle
affermazioni del Quacquarelli, molti elementi di “aritmologia” presenti nella
Chiesa postnicena si collegano ai valori cristologici103.
Ap 19,11-14 e la persona del Verbo
L’appellativo di “Verbo”, dato l’ampio uso che se ne faceva nell’età patristica,
occupa un posto a sé. Per alcuni scrittori dell’epoca prenicena il titolo, derivato dal prologo del IV vangelo, era da collegare con Ap 19,11-14. E’ inoltre
significativo che le discussioni vertevano sulla divinità di Cristo e sulla sua
opera. Una delle affermazioni di Origene è emblematica: “Lo Spirito o gli
spiriti angelici… attingono dal Lógos di verità e di sapienza”104.
Giustino sostiene, in definitiva, che attraverso l’opera del Lógos la storia
dell’umanità diviene una costruzione accuratamente progettata, un disegno
che va dal suo inizio al suo compimento. E’ così che il Figlio di Dio diventa
no/moß del genere umano. Questo concetto viene però incorporato in una prospettiva storico-teologica, di cui Giustino trova lo schema nel libro di Dn (7,928) e in Ap (1,8; 4,8)105. Questo riferimento al libro apocalittico sembra cruciale per l’autore, che va considerato il primo teologo della storia cristiana106,
tanto da assumere “un’enorme importanza per il futuro della cristologia”107.
Ireneo è testimone di una tradizione assai favorevole a Ap 19. Nel libro
IV dell’Adv. Haer. il vescovo di Lione riporta la lunga citazione di Ap
19,11-16. Questa scena apocalittica costituisce il culmine e la conclusione
101. Cf. J. Daniélou, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, Bologna 1975, 353-354.
102. Cf. Daniélou, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, 349-350.
103. Cf. A. Quacquarelli, “Recupero della numerologia per la metodica dell’esegesi patri-
stica”, Annali di storia dell’esegesi 2 (1985) 246-247.
104. In Joan. XX,23,263: SC 290: 286-287.
105. Cf. Dial. 31,1-3: Biblioth/kh 3, 234-235.
106. A questo proposito cf. Visonà, Giustino. Dialogo con Trifone, 26-27; 41-45.
107. Cf. Grillmeier, Gesù il Cristo, 272.
LA LETTURA CRISTOLOGICA DELL’APOCALISSE
205
delle manifestazioni del Verbo. Scrive Ireneo: “Così sempre il Verbo di Dio
mostrava agli uomini i tratti di quello che doveva compiere (lineamenta
rerum futurarum) e le figure delle ‘economie’ del Padre (species dispositionum Patris), insegnandoci le cose di Dio”108.
L’immagine del Figlio come Lógos è cara più ancora a Origene, a tal punto che Ap 9,11-16 è uno dei passi apocalittici che egli commenta più distesamente109. Ne risulta un quadro che può essere considerato una sintesi del suo
pensiero sulla figura del Figlio. Il procedimento usato è lineare e sembra rifarsi ad un’interpretazione comune e divulgata110. Le speculazioni di Origene
non si muovono solo nell’ambito della cristologia astratta, ma coinvolgono
anche la “cristologia visibile”111, che si rifà all’evento dell’Incarnazione.
Nella sua lettura di Ap 19,11-16, Origene mette in luce la funzione rivelatrice del Figlio, tema che viene più volte ripreso nel corso del commento ad
altri passi dell’Apocalisse112. Ecco come il nostro esegeta sviluppa questo
tema nel commento al Ct:
Nell’Apocalisse di Giovanni leggiamo che gli apparve un cavallo, e su questo era seduto (un cavaliere), fedele e veritiero e che giudica con giustizia, il
cui nome è Verbo di Dio. Dice così: “Vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo
bianco; colui che lo cavalcava si chiamava Fedele e Verace: egli giudica e
combatte con giustizia. I suoi occhi sono come una fiamma di fuoco, ha sul
suo capo molti diademi; porta scritto un nome che nessuno conosce all’infuori di lui. E’ avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è Verbo di Dio. Gli eserciti del cielo lo seguono su cavalli bianchi, vestiti di lino
bianco e puro” (Ap 19,11-14).
E’ necessario – continua Origene – che la grazia di Dio ci riveli il significato di questo passo, affinché possiamo comprendere che cosa significano
queste visioni, cosa sia il cavallo bianco e chi colui che si siede sopra, il cui
nome è Verbo di Dio. Forse qualcuno dirà che il cavallo bianco è il corpo
del Signore assunto e dal quale è stato, per così dire, trasportato colui che in
principio era presso Dio, il Dio Verbo. Altri dirà piuttosto l’anima, che il
primogenito di tutta la creazione ha assunto e della quale diceva: “Ho il potere di deporla e ho il potere di assumerla di nuovo” (Gv 10,18). Altri poi
l’una e l’altra cosa insieme, il corpo e l’anima, quasi che si parli di cavallo
bianco là dove non c’è stato peccato113.
Adv. Haer. IV,20,11: SC 100, 668-669.
Cf. Monaci, “Apocalisse ed escatologia”, 146.
Cf. Mazzucco, “Alla ricerca delle prime interpretazioni”, 451.
L’espressione usata dall’Orbe in Orbe - Simonetti, Il Cristo, I, XCIII.
Come ad esempio Ap 3,7; 5,1-10.
113. In Cant. II, 6-8: SC 375, 384-387.
108.
109.
110.
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Pur essendo propenso a porre i misteri di fede più nel mondo delle “essenze” che nell’ambito della storia, anche se orientata all’escatologia, Origene non ha nessuna difficoltà a spiegare l’immagine apocalittica a partire
dall’Incarnazione. Egli però insiste con forza sul ruolo dell’anima assunta da
Cristo, cui annette particolare significato in rapporto con gli uomini. L’Alessandrino non trascura le altre possibilità, ma parlando dell’anima assunta dal
Salvatore dà uno spazio più grande alle speculazioni allegoriche, in cui non
mancano le considerazioni morali: l’anima di Cristo si presenta come modello di perfezione cui deve ispirarsi ogni cristiano114.
Nell’In Joan. la complessa descrizione di Ap 19,11-16 è inserita nel contesto dell’esegesi del prologo del IV Vangelo. Riferendosi a questa pericope
biblica Origene poteva puntualizzare le tesi dottrinali che riteneva cruciali.
Così i concetti attinti al prologo giovanneo si incontrano con l’immagine
apocalittica concreta. L’espressività di Ap 19,11-16 fa sì che il prologo giovanneo venga tralasciato, e che sia in realtà il testo apocalittico ad essere commentato! La ragione è forse che le varie funzioni e le qualità del Lógos divino
erano più facilmente raggruppabili nell’analisi dell’immagine apocalittica.
Ecco cosa scrive a questo proposito Origene: “Era necessario che si parlasse
di Lógos sia in assoluto sia con l’aggiunta ‘di Dio’: se una delle espressioni
fosse stata omessa ne avremmo forse tratto occasione per errori e deviazioni
dalla verità intorno al Lógos”115.
Ma occorre comprendere – continua Origene – che cosa significa il cielo
aperto e il cavallo bianco e perché su di esso cavalca il Lógos… Io ritengo
che il cielo sia chiuso per gli empi e per quelli che portano l’immagine del
“Terrestre”, e sia invece aperto per i giusti e per quelli che adorano l’immagine del Celeste. I primi infatti vivono in basso, immersi nella carne e quindi
sono loro precluse le cose migliori… Ma agli altri che sono superiori, in
quanto hanno la loro cittadinanza nei cieli, sono offerte alla contemplazione
le cose celesti aperte dalla chiave di Davide: il Lógos di Dio infatti le apre e
le rende chiare con parole che annunziano i significati reconditi.
Come una nota in parentesi, Origene afferma che le parole divine sono
simboleggiate “dall’atto di cavalcare un cavallo, il cui colore bianco sta per
indicare il carattere di evidenza, di candore, di splendore della conoscenza
spirituale”116.
114. Cf. M. Simonetti (a cura di), Origene. Commento al Cantico dei Cantici, Roma 19913,
158-159 note 232 e 239.
115. In Joan. II,5,44: SC 120, 234-235.
116. In Joan. II,5,47: SC 120, 236-237.
LA LETTURA CRISTOLOGICA DELL’APOCALISSE
207
L’inizio di questo brano del sermone in questione è importante, anche se
rivela un contenuto ovvio: si accenna infatti alla differenza tra il Lógos umano e il Verbo divino. In concordanza con le considerazioni sul significato della parola Lo/goß, abbiamo in filigrana un filo conduttore molto chiaro che
consiste nella costante distinzione e contrapposizione tra il Verbo di Dio, che
è immutabile ed eterno, e le sue interpretazioni errate. Più avanti la contrapposizione sarà dedotta dal concetto del “falso lógos”. Di rincalzo a queste
considerazioni l’Alessandrino adduce l’affermazione, di tono prettamente
teologico, che riguarda il “cielo aperto”. Questo dato, e qui possiamo sorprenderci, non indica l’acquisto della salvezza, ma è apertura alla conoscenza dei
misteri racchiusa nelle parole ispirate. Poi Origene continua:
Colui che è chiamato “fedele” siede sul cavallo bianco: questi significa che
egli è fondato in modo più saldo e, per così dire, più regale su voci che non
possono essere respinte, che corrono più veloci di qualsiasi cavallo e superano nel loro impeto l’avversario, che Lógos… (Egli)… è chiamato “fedele”, non perché abbia fede ma dall’essere credibile e degno di fede. Il
Signore infatti, come dice Mosè, è “fedele e vero”: egli è in contrapposizione
a un’ombra, a un tipo, a un’immagine; e tale è appunto il Lógos che appare
nel cielo aperto. Quello che è in terra è diverso da come è in cielo, perché è
divenuto carne e si esprime attraverso ombre, tipi e immagini. La moltitudine di quelli che son ritenuti credenti è ammaestrata dall’ombra del Lógos e
non dal Lógos vero di Dio che è nel cielo aperto117.
Si vede chiaramente che il vero fulcro della teologia di Origene, che ha
indicato la strada al cammino della Chiesa, è l’Incarnazione. Ma qui essa sembra avere un valore minore, in quanto nasconde o vela l’identità del Verbo che
continua ad esprimersi attraverso ombre, tipi e immagini. Il mistero del Lógos
caratterizza la storia dell’umanità, del cosmo, della Chiesa e dell’individuo,
ma qui appare che il suo compito è quello di ridare all’uomo la partecipazione della luce e della grazia divina.
Questo Lógos di Dio… – continua il nostro autore – è chiamato anche
“verace” e giudica e combatte con giustizia, perché, essendo la giustiziain-sé e il giudizio-in-sé, ha avuto da Dio il potere di giudicare e di rendere
a ciascun essere secondo il merito. Nessuno infatti di coloro che partecipano alla giustizia e al potere di giudicare il popolo potrà imprimere nella
propria anima i tipi della giustizia e del giudizio in modo tale da non essere per nulla inferiore alla giustizia-in-sé e al giudizio-in-sé, così come ne-
117. In Joan. VI,48-49: SC 157, 236-239.
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M. C. PACZKOWSKI
anche il pittore è in grado di riprodurre nella pittura tutte le proprietà della
cosa rappresentata118.
Gli appellativi di “giusto” e “verace” applicati al Verbo devono superare
le concezioni comuni. Gli uomini possiedono la giustizia e attuano il giudizio solo per riflesso, partecipando a queste qualità del Verbo. L’Alessandrino
scrive poi:
E’ compito del Lógos, dunque, non solo giudicare ma anche combattere con
giustizia: in questo modo, eliminati gli aspetti contrari al Lógos e l’ingiustizia, egli abita nell’uomo e lo giustifica, cacciando gli avversari dall’anima
di colui che è diventato, per così dire, schiavo di Cristo per la salvezza. La
guerra combattuta dal Lógos è possibile vederla ancor meglio allorché egli
si adopera a favore della verità… Allora il Lógos, armandosi contro la menzogna, “la distruggerà con il soffio della sua bocca e la annienterà all'apparire della sua venuta” (2Ts 2,8)… Se infatti Cristo è Lógos, verità e sapienza,
che cos’è, se non la menzogna, ciò che è distrutto con lo spirito della sua
bocca? E se Cristo è Lógos e sapienza, che cos’è che è annientato con la manifestazione della sua venuta, se non ciò che va dicendo di essere la sapienza, mentre invece fa parte di quelle cose che Dio coglierà “nella loro astuzia”
(1Cor 3,19)?119.
Il passo è pervaso dall’amplificazione polemica contro false dottrine che
non sono ulteriormente specificate. Idee simili sono inculcate a proposito dei
“molti diademi” che ornano il capo del Lógos. Anche questo particolare è
spiegato in riferimento alla vittoria sulla menzogna.
Sono molte le menzogne che proclamano di essere la verità, contro le quali
combatte e riporta vittoria il Lógos, ecco che vi sono molti diademi sul capo
di colui che le vince tutte: la sua vittoria su ogni singola attività ribelle (alla
verità) gli procura l’imposizione di molti diademi120.
Così la verità rivelata dal Lógos vince ogni falsità. Altrove Origene chiama l’anticristo falsus sermo che siede nel tempio delle Scritture121.
Gli altri particolari diventano l’oggetto dell’interessamento del nostro
esegeta. Gli occhi del Verbo, “come una fiamma di fuoco” (cf. Ap 1,12), “operano la distruzione e l’eliminazione degli aspetti più materiali e crassi dei
118. In Joan. II,6,51-52: SC 120, 238-239.
119. In Joan. II,7,54-56: SC 120, 240-241.
120. In Joan. II,8,59: SC 120, 242-243.
121. Cf. In Matth. 31: GCS 11,57.
LA LETTURA CRISTOLOGICA DELL’APOCALISSE
209
pensieri: poiché a ciò che in una qualche misura è intaccato dalla menzogna,
sfugge completamente l’aspetto sfumato e tenue della verità”122.
L’opera del Lógos-vincitore si trasferisce al piano interiore: viene distrutto l’aspetto terreno e carnale.
Il Lógos di Dio è seguito da tutti gli eserciti del cielo (cf. Ap 19,14):
“(Essi) Lo seguono come loro guida e lo imitano in tutto, specialmente
nel fatto che anch’essi al pari di lui cavalcano cavalli bianchi. Tutto infatti è
manifesto a coloro che comprendono”123. Questo dato è confermato anche altrove. Il nostro Alessandrino pensa che l’immagine del cavallo bianco “sta a
indicare… la chiarezza della voce da cui è portato il Lógos della verità quando viene a noi”124.
L’immagine apocalittica del Lógos commentata con tanto impegno diventa ancora più ricca. Egli, vittorioso e recante su di sé i segni della cruenta battaglia sostenuta, sale al cielo seguito dalle schiere celesti.
Considera il fatto – scrive l’Adamanzio – che i cavalli di coloro che seguono il Lógos sono rivestiti di bisso bianco e puro (cf. Ap 19,14): i vestiti di
bisso – dal momento che il bisso deriva dalla terra – sono forse figura delle
lingue della terra, di cui si rivestono le voci che significano con chiarezza le
realtà (divine)125.
Il simbolo dell’esercito che segue il Verbo vittorioso significa che la sua
opera si dilata in effetti, grazie alla predicazione della verità cristiana, nelle
differenti regioni del mondo con le differenti forme di espressione (lingue).
Il Verbo divino diventa la via immanente che conduce al Padre, unico
strumento di ritorno di tutte le creature intellettuali alla pienezza. Ma è la
persona di Cristo che scioglie l’enigma delle Scritture. Ecco un esempio tratto dal commento a Ez 44,2-3 (la porta chiusa del santuario).
L’Apocalisse di Giovanni contiene più chiaramente (manifestius) il senso di
questo esempio, quando dice: “un angelo proclamava a gran voce: Chi è
degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?”. Ma nessuno né in cielo, né in
terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo… (Ma) colui
che era della tribù di Giuda, lo aprì e manifestò le cose che erano scritte. Fino
a quando non giunse il mio Signore, la Legge era chiusa, chiusa la parola dei
profeti, coperta d’un velo la lettura dell’AT (citazione di 2Cor 3,15). Vi sono
122. In Joan. II,7,57: SC 120, 240-243.
123. In Joan. II,8,62: SC 120, 244-245.
124. In Joan. I,48,278: SC 120, 200-201.
125. In Joan. II,8,63: SC 120, 244-245.
210
M. C. PACZKOWSKI
alcuni che amano questo velo e odiano coloro che ne danno un’interpretazione. Ma noi ci convertiamo al Signore affinché, rimosso il velo, possiamo
dire: “E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria
del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in
gloria” (2Cor 3,17.18)126.
Si ha qui uno dei punti importanti della dottrina origeniana che è la presenza rivelatrice del Lo/goß nella Scrittura127. In un altro testo, servendosi della
simbologia dell’Apocalisse, il maestro alessandrino ribadisce che bisogna
prendersi cura del Verbo presente presso l’uomo, perché “egli possa permanere con più intensità presso coloro che lo nutrono, nutrendo a sua volta coloro che gli offrono cibo. Ecco perché Egli dice che sta alla porta e bussa (cf.
Ap 3,20)”128. Origene fonda sul testo apocalittico il principio della reciprocità nelle relazioni tra uomo e Dio, che appare come una realtà in crescita coinvolgendo in un modo sempre più alto.
Il mantello intriso di sangue
Il mantello intriso si sangue in cui è avvolto il Lógos (Ap 19,13) diventa nella
tradizione ecclesiastica prenicena il simbolo dell’Incarnazione del Signore.
Troviamo la conferma di questo in Ippolito, la cui esegesi trova la sua radice
e il suo centro vitale nella cristologia129. Questo autore evoca Ap 19 per provare, contro Noeto, che nell’Incarnazione il Verbo diventa realmente Figlio.
“Mi si dirà: tu introduci qualcosa di estraneo chiamando il Verbo Figlio, perché Giovanni lo dice Verbo, ma d’altra parte allegorizza. Non allegorizza.
Infatti mostrando che il Verbo di Dio era dall’inizio e che ora è stato mandato
diceva nell’Apocalisse: ‘Vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco; colui
che lo cavalcava si chiamava Fedele e Verace: egli giudica e combatte con
giustizia. I suoi occhi sono come una fiamma di fuoco, ha sul suo capo molti
diademi; porta scritto un nome che nessuno conosce all'infuori di lui. E' avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è Verbo di Dio’. Vedete
fratelli come simbolicamente il mantello intriso di sangue (Ap 19,3) indica la
126. In Ez. XIV,2: SC 352: 438-439.
127. Cf. E. Corsini (a cura di), Origene. Commento a Giovanni (Classici delle religioni UTET),
Torino 1968, 42-44.
128. In Joan. XIII,31,198-199: SC 222, 140-141.
129. Cf. M. Simonetti, “Prospettive escatologiche della cristologia di Ippolito”, Bessarione 1
(1979) 85-101.
LA LETTURA CRISTOLOGICA DELL’APOCALISSE
211
carne, per mezzo della quale giunse alla sofferenza il Verbo di Dio che è impassibile, secondo quanto… testimoniano i profeti”. Dopo aver riportato la citazione di Mi 2,7-8, Ippolito conclude: “Tutto ciò significa che (il Figlio) ha
sofferto nella carne”130. In questo simbolo l’Incarnazione è unita al suo obiettivo: l’azione redentrice del Verbo. Invece la “gloria strappata” del testo profetico non è soltanto quella della carne del Verbo, ma è anche quella del Verbo
stesso, in virtù dell’unione di questi con la carne.
Le stesse linee di riflessione vengono presentate in un brano del Commento alle benedizioni di Mosè. Nell’interpretazione di Dt 33,24, Ippolito inserisce il testo di Gen 49,11 e l’allusione a Ap 19,13. “Giacobbe ha detto: ‘Laverà
nel vino la sua veste e nel sangue dell'uva il suo mantello’ (Gen 49,11), per
mostrare che la carne è divenuta veste intrisa di sangue per il Verbo, che è
giunto sino alla passione, lui che era il Verbo impassibile e immortale”131. In
questo testo ippolitiano il “mantello” di Ap 19,13 viene sostituito dalla “veste”, ma le immagini bibliche rappresentano la carne di Cristo macchiata dal
sangue della passione.
In Origene l’immagine del mantello intriso nel sangue indica che il Signore “reca su di sé i segni di ciò che ha subìto. Forse infatti anche quando giungeremo… al vertice sommo della contemplazione del Lógos e della verità,
non potremo scordare del tutto che la nostra iniziazione (alla verità) è avvenuta per mezzo di lui in un corpo umano”132. Aggiungendo che il Verbo porterà i segni della propria passione per tutta l’eternità, il maestro alessandrino
non ha dubbi che il sacrificio di Cristo non si dovrà ripetere perché è stato
unico, di valore universale ed eterno.
Latini su Ap 19
La complessa esegesi origeniana ha avuto solo pallidi riflessi in Occidente.
Tertulliano cita Ap 19,21 nel contesto della vittoria spirituale di Cristo133.
Novaziano si limita a citare Ap 19,13 descrivendo la generazione di Cristo.
La pericope apocalittica nel De Trinitate è messa in collegamento con i te-
130. Contra Noetum 15,3; cf. Orbe - Simonetti, Il Cristo, I, 350-353.
131. Benedictiones Moysis 192; testo citato da E. Prinzivalli, “Il simbolismo del sangue in Ip-
polito”, in F. Vattioni (a cura di), Sangue e antropologia biblica nella patristica, I (Centro
Studi Sanguis Christi 2), Roma 1982, 374.
132. In Joan. II,8,61: SC 120, 242-245.
133. Cf. Adv. Marcionem III,14,3: CCL I, 526.
212
M. C. PACZKOWSKI
sti classici che parlano dell’Incarnazione e della generazione del Lógos
(nativitatem Christi): Gv 1,14; Sl 44,2134.
Fa eccezione, per quanto sia conciso e sobrio, il commento di Vittorino
di Pettau ad Ap 19,11. Questo autore non fa distinzione tra “cavallo” e “cavaliere”, vedendo nel cavallo bianco la figura della predicazione. La figura di
colui che siede sul cavallo bianco “dimostra il nostro Signore che viene con
l’esercito celeste per prendere possesso del regno”135. La sua venuta è vittoriosa, perché i popoli disobbedienti che si radunano sono vinti con la spada.
Invece gli altri, “più nobili, serviranno in santità in tutto ciò che si addice al
regno compiuto dai Santi prima del giudizio”136. Per opera del Lógos vincitore viene annientato pure il potere del diavolo. Passando all’interpretazione degli altri tre cavalieri, il Petoviano afferma che essi sono apportatori di calamità, ma nell’ottica del piano salvifico voluto da Cristo. Concludendo, Vittorino
afferma, che “di queste cose i profeti predicano in modo consono”137.
Antitesi tra l’azione di Cristo e dell’anticristo
Un tema molto importante è quello dell’anticristo che nell’opera di Giustino
e, più ampiamente, in quella di Ireneo ed Ippolito, è considerato come un’entità personale che ricopre funzioni determinanti nella fine dei tempi.
Giustino, con la sua teologia cristocentrica della storia138, vede solo il valore episodico dell’anticristo che, venendo sulla terra, commetterà brutalità di
ogni sorta139, apparendo come l’ultimo e il più feroce avversario dei cristiani.
Di solito nel presentare l’anticristo l’apologeta si rivela distante dalla tradizione giovannea e segue piuttosto l’interpretazione personale ed individuale
di S. Paolo (2Ts 2)140.
Il vescovo di Lione, Ireneo, è convinto che gli avvenimenti escatologici
“avvengono nelle regioni sovracelesti”. “Tutte le cose di questo genere - so-
134. De Trinitate XIII,1: CCL IV, 32. Già i monarchiani si valevano di questo tipo di interpre-
tazione per suffragare la loro concezione del Lógos divino come parola inconsistente e senza
sostanza, cioè facoltà operativa del Padre (dynamis). Cf. M. Simonetti, La crisi ariana nel IV
secolo (Studia Ephemeridis “Augustinianum” 11), Roma 1975, 21 nota 9.
135. In Apoc. XIX: PLS 1, 163.
136. In Apoc. XIX: PLS 1, 163.
137. In Apoc. XIX: PLS 1, 163.
138. Cf. Grillmeier, Gesù il Cristo, 269.
139. Cf. Dial. 110,2: Biblioth/kh 3, 310.
140. Cf. A. d’Anna, “Note sul concetto di ‘Regno di Dio’ nelle opere di Giustino Martire”,
Studi e ricerche sull’Oriente cristiano 18 (1995) 33-34.
LA LETTURA CRISTOLOGICA DELL’APOCALISSE
213
stiene - sono state dette incontestabilmente in riferimento alla risurrezione dei
giusti, che ci sarà dopo la venuta dell’anticristo e la ricostruzione di tutti i
popoli a lui soggetti”141. Questo autore spiega la figura dell’anticristo mediante il ricorso alla teoria della ricapitolazione: come il sacrificio di Cristo, in cui
si ricapitola l’intera umanità, ha segnato la salvezza di tutti gli uomini, così
l’annientamento dell’anticristo, in cui confluisce e trova sviluppo la malvagità universale, segnerà la scomparsa del male nel mondo142.
Ippolito ha dedicato un’opera intera alla figura dell’anticristo. Sono significativi gli elementi della polemica antigiudaica che si intrecciano con la descrizione dell’anticristo e della sua opera. La caratteristica dominante dell’anticristo consiste nell’imitazione del Signore in negativo. “Il Signore diede un
sigillo ai credenti in Lui (Ap 7,2; 9,47), e quegli parimenti lo darà… Il Signore risuscitò e mostrò la propria carne come un tempio (Mt 28,9), quegli risusciterà il tempio di pietre a Gerusalemme (Ap 13,16-17; 16,2)”143.
Invece il regno dell’anticristo riproduce in forma contratta ed abbreviata
fatti già avvenuti nel corso della storia. Come Augusto al tempo di Cristo, così
anche l’anticristo riunisce sotto il suo dominio il potere di dieci regni144.
L’anticristo, scrive Ippolito, si eleverà
al di sopra di tutti i re e di ogni divinità… (Le genti) piegheranno le ginocchia davanti a lui scambiandolo per il Cristo poiché esse non comprenderanno quanto fu detto dal profeta, come egli… sia falso e ingannatore. Geremia
dice infatti: poiché non hanno creduto alla verità; parlerà a questo popolo, a
Gerusalemme, uno spirito di errore (cf. Ger 4,11)145.
L’azione di “scimmiottare” il Signore da parte dell’anticristo negli ultimi
tempi diviene esplicita e superba146. L’opera materiale dell’anticristo è destinata a perire e alla fine dei tempi sarà consegnato “il regno eterno a quanti ne
sono degni” e “acceso il fuoco inestinguibile e incessante degli empi”147.
L’anticristo è la perfetta antitesi di Cristo. Possiede caratteristiche apparentemente simili a quelle di Cristo, ma in realtà opposte. E’ significativa la
citazione di Is 14,19-21 che, secondo Ippolito, si riferisce all’anticristo. “Su
Adv. Haer. V,35,1: SC 153, 438-439; cf. anche Adv. Haer. V,36,1-2: SC 153, 454-461.
Cf. Adv. Haer. V,29,2: SC 153, 366-367.
De Antichrs. 6,1: Norelli, Ippolito. L’Anticristo, 74-75.
Cf. Monaci, “Apocalisse ed escatologia”, 141.
145. In Dan. IV,49: SC 14, 215-216; testo gr. e trad. it. in F. Sbaffoni, Testi sull’Anticristo.
Secolo III (Biblioteca Patristica 21), Firenze 1992, 40-41.
146. Cf. De Antichrs. 6 a proposito di Ap 5,6. Cf. Norelli, Ippolito. L’Anticristo, 72-73.
147. Cf. In Dan. IV,58: SC 14, 224; tr. it. in Sbaffoni, Testi sull’Anticristo, 51.
141.
142.
143.
144.
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di lui - infatti - Isaia profetizza dicendo: ‘Come un mantello sporco di sangue
non sarà mai puro’, così neppure tu sarai puro, perché tu hai devastato la mia
terra e hai ucciso il mio popolo: non sopravviverai per l’eternità”148. La scelta
delle citazioni bibliche di Ippolito è ben meditata. “Is 14,19-21 è… in parallelo con Ap 19,13 – fa notare la Prinzivalli – quasi a paragonare la carne dell’anticristo, macchiata del sangue innocente, con quella di Cristo, pura”149. E’
importante notare a questo proposito che la riflessione ippolitiana sull’anticristo conduce allo sviluppo di una vera e propria “anticristologia”. Il parallelismo negativo si esprime attraverso il ricorso ai testi biblici, tra cui non c’è
solo Ap. E ciò secondo il principio per cui con lo stesso metodo esegetico si
possono interpretare le profezie relative non solo a Cristo, ma anche al suo
antagonista150.
Un repertorio simile riguardante l’anticristo è presente in Vittorino da Pet151
tau . Per questo autore la gloria di Dio descritta nella visione apocalittica
nell’anticristo ha un suo opponente. Ecco il perché: una delle opere dell’ “avversario” sarà quella di istituire l’idolatria nel luogo santo di Gerusalemme.
A questo proposito Vittorino evoca Mt 24,15: “Quando dunque vedrete l’abominio della desolazione, di cui parlò il profeta Daniele, stare nel luogo santo
- chi legge comprenda”. E spiega: “Dice ‘abominio’ poiché Dio viene irritato
a causa dell’adorazione degli idoli; dice poi ‘sconvolgimento’, poiché gli
uomini instabili, ingannati da segni e portenti falsi (dell’anticristo), vengono
sviati dalla salvezza”152.
Un caso interessante è l’interpretazione dell’anticristo che dà Origene.
Anche per questo autore l’anticristo imita e simula in tutto il Cristo, ma non
ricopre particolari funzioni nel tempo della fine. E’ piuttosto una realtà negativa presente in tutti i tempi, esemplificata nell’Apocalisse non dalla bestia,
ma dal dragone, identificato spesso con satana153.
Il trionfo di Cristo e dei suoi fedeli
Applicare i simboli dell’Apocalisse alla situazione concreta e presente richiedeva una continua operazione ermeneutica. Per comprendere la figura di Cri148.
149.
150.
151.
152.
153.
In Dan. IV,56: SC 14, 222.
Prinzivalli, “Il simbolismo del sangue in Ippolito”, 375.
Cf. Norelli, Ippolito. Sull’Anticristo, 52.
In Apoc. XIII et XVII: PLS 1, 154-160.
In Apoc. XIII et XVII,4: PLS 1, 160.
Cf. Monaci, “Apocalisse ed escatologia”, 142.
LA LETTURA CRISTOLOGICA DELL’APOCALISSE
215
sto e la sua opera si faceva riferimento alla propria esperienza di fede, e si
comunicava una precisa visione della vita e del mondo. L’autore dell’ultimo
libro biblico ha voluto instaurare la comunanza di intenti fra “colui che legge
e coloro che ascoltano” (Ap 1,3). I suoi interpreti invece hanno stabilito un
legame fra “Colui in cui si crede” e “coloro che credono”. Guardiamo un
esempio con riferimenti espliciti all’Apocalisse.
S. Cipriano accosta il trionfo del Signore alla vittoria dei suoi fedeli. “Viene l’anticristo – scrive – là soggiunge Cristo. Infuria e distrugge il nemico,
ma subito segue il Signore a vendicare i nostri martiri e le ferite. Si adira e
minaccia l’avversario, ma c’è chi ci può liberare dalle sue mani”. Dopo la citazione di Mt 10,28 e Gv 12,25, il vescovo di Cartagine aggiunge: “Anche
l’Apocalisse ci ammaestra e ci ammonisce dicendo: ‘Chiunque adora la bestia e la sua statua e ne riceve il marchio sulla fronte o sulla mano, berrà il
vino dell’ira di Dio che è versato puro nella coppa della sua ira e sarà torturato con fuoco e zolfo al cospetto degli angeli santi e dell'Agnello. Il fumo del
loro tormento salirà per i secoli dei secoli, e non avranno riposo né giorno né
notte quanti adorano la bestia e la sua statua e chiunque riceve il marchio del
suo nome’ (Ap 14,9-11)”154.
La concezione del trionfo di Cristo si concentra nel rinnovamento escatologico e nella preparazione ad esso. Perciò per i primi cristiani l’attesa della
“parusia escatologica” era vissuta intensamente e questo evento era considerato prossimo. Così anche l’ordine politico e sociale esistente appariva ai cristiani come un fatto temporaneo e secondario.
Regno di Cristo
La visione del Signore che viene e la preparazione a questo avvenimento, pur
occupando un posto importante nel pensiero e nella prassi della Chiesa nascente, non ha impedito il raffreddamento degli entusiasmi escatologici155. Indubbiamente però restavano le immagini e le problematiche: gli eventi che
154. Ep. 58,7: CSEL III/2, 6.
155. Cipriano di Cartagine citando un versetto dell’Apocalisse (la frase riferita alla Chiesa di
Filadelfia) lo applica alla necessità di mostrare la pazienza nelle fatiche della vita. Dice espressamente: “(Il Signore) ci ammonisce che nessuno venga meno nelle sue opere buone per impazienza, che nessuno, sedotto o vinto dalle tentazioni, si fermi sulla strada della fede e della
gloria e lasci perdere le sue opere antecedenti, che cesserebbero così di essere perfette, come
sta scritto: ‘La giustizia del giusto non lo salva se pecca’ (Ez 33,12); e ancora: ‘Tieni saldo
quello che hai, perché nessuno ti tolga la corona’ (Ap 3,11). Questa voce ci esorta a perseverare con pazienza e fortezza, perché colui che è già prossimo ad ottenere la corona giunga, per la
sua pazienza, ad esserne incoronato”; De bono pat. 11,13: CCL III A, 126.
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M. C. PACZKOWSKI
preannunziavano e accompagnavano i tempi della fine del mondo e la previsione cronologica degli stessi.
Malgrado una certa evoluzione dell’uso dell’apocalittica nella Chiesa prenicena la visione del “regno di Cristo” entra inevitabilmente nella sfera della
dottrina millenarista156 e molti tra gli autori millenaristi si rivelano debitori
della lettura teologica dei testi biblici con solidissime radici nella tradizione
primitiva. E’ significativo che il millenarismo, pur caratterizzato da pochi elementi schematici e quasi stereotipati, possedesse la saldissima credenza in un
regno di Cristo sulla terra, successivo alla risurrezione dei giusti.
La dottrina millenarista ebbe anche alcuni elementi spirituali e teologici,
che si possono riscontrare soprattutto in quegli autori che cercavano di conservare un certo equilibrio. Alcuni, come Ippolito157, nel timore di poter favorire il movimento montanista per il quale la dottrina del millennio era essenziale158, attenuano fortemente la propensione per questa idea. In genere questa dottrina andrebbe vista come un’appendice nei sistemi dottrinali dei grandi Padri preniceni. Le concezioni millenaristiche sembrano ridurre la portata
cristologica della loro riflessione.
In Giustino vari aspetti della regalità di Cristo si inseriscono nel tema del
regno di Dio159. Esso, sostiene l’apologeta, si manifesta metafisicamente con la
risurrezione e l’ascensione del Salvatore. La vittoria di Cristo che si è rivelato
nella sua prima venuta “fulgido e potente”160, si manifesta già nei suoi effetti161.
Coerentemente con la propria fede, Giustino attende la seconda parusia di Cristo nella gloria, quale manifestazione piena del suo regno e compimento della
sua vittoria. La presentazione fatta dal nostro autore privilegia la centralità della figura di Cristo, riferendosi palesemente alla “rivelazione giovannea”162
156. Gli autori della Chiesa postcostantiniana, come Eusebio di Cesarea, collegano l’Apoca-
lisse con il millenarismo e presentano in luce negativa i propagatori di questa dottrina. Questo
pregiudizio fa piazza pulita di ogni elemento utile per un’indagine sui dati cristologici utilizzati dai lettori millenaristi dell’ultimo libro neotestamentario.
157. Cf. l’opinione di A. Zani riportata da Dattrino, Patrologia. Introduzione (Manuali di base
8), Casale Monferrato 1991, 82.
158. Così Simonetti citato da Sbaffoni, Testi sull’Anticristo, 140 nota 4.
159. Il grande apologeta costituisce un’eccezione tra gli autori delle prime generazioni cristiane. Cf. E. dal Covolo, “ ‘Regno di Dio’ nel Dialogo di Giustino con Trifone giudeo”, Augustinianum 28 (1988) 111-114.
160. Dial. 124,3: Biblioth/kh 3, 324.
161. Cf. Dial. 76,6; 85,1-6; 121,3: Biblioth/kh 3, 281; 288; 321; I Apol. 40,7: Ch. Munier (éd.
et trad.), Saint Justin. Apologie pour les chrétiens, Fribourg 1995, 86-87.
162. Cf. Dial. 81,4: Biblioth/kh 3, 286. Tra le fonti scritturistiche dirette non c’è Ap; a questo
proposito cf. E. Norelli, “Il duplice rinnovamento del mondo nell’escatologia di S. Ireneo”,
Augustinianum 18 (1978) 93.
LA LETTURA CRISTOLOGICA DELL’APOCALISSE
217
come all’unica fonte autorevole nella descrizione del millennio presentato
come un prologo terreno e temporale alla parusia finale163. Manca tuttavia la
concezione del “trono di Dio e dell’Agnello” (Ap 22,3) al centro del regno, data
l’assoluta trascendenza di Dio propria del pensiero giustineo.
Attingendo alle concezioni millenariste Ireneo mostra i tentativi di chiarire diverse concezioni del “regno dei giusti” e dello stato di eterna perfezione che lo segue164. Egli accenna alle vicende drammatiche che precedono l’instaurazione del regno millenario, ispirandosi a Ap 19-20: “la venuta dell’anticristo e la distruzione di tutti i popoli a lui soggetti”165. In questo modo egli
interpreta in chiave escatologica un racconto fondamentalmente simbolico,
ma incentrato sulla risurrezione di Cristo166. Per il vescovo di Lione è importante la prospettiva ultraterrena del regno di Cristo. I giusti prospereranno
“grazie alla manifestazione del Signore e per mezzo di lui si abitueranno ad
accogliere la gloria del Padre”167. Così la risurrezione dei giusti “adempie le
promesse nel regno del Figlio e… (Dio) nella sua bontà paterna comunica ‘ciò
che né occhio vide, né orecchio udì, né passò per la mente di alcun uomo’
(1Cor 2,9)”168. Ireneo sembra riferirsi alla conferma delle predizioni profetiche, che viene dall’insegnamento del Maestro e dall’Apocalisse del Discepolo Amato. L’affermazione sulla realizzazione delle promesse profetiche
non dovrebbe far dimenticare che il Cristo “rinnoverà e ristabilirà per il servizio della gloria dei figli di Dio… l’eredità della terra”. Si tratta di una “eredità” reale e materiale, come testimonia l’interpretazione di Mt 26,27-29 proposta dal vescovo di Lione. Pur tenendo fermo il principio che “la carne risorge in una condizione nuova… non si può pensare che (Cristo) beva il frutto della vite, stando con i suoi discepoli in alto, in un luogo sovraceleste” e
neppure “saranno senza carne quelli che ne berranno”169.
Tra i giusti che avrebbero regnato con Cristo nel millennio ci sono in prima
fila i martiri. E’ giusto infatti, sostiene il vescovo di Lione, che “in questo stesso mondo nel quale furono uccisi per amore verso Dio, siano vivificati, e che
in questo stesso mondo in cui subirono la schiavitù, siano essi a regnare”170.
Ireneo giustifica quindi il regno millenario come compenso dei passati dolori
163.
164.
165.
166.
167.
168.
169.
170.
Cf. d’Anna, “Note sul concetto di ‘Regno di Dio’ ”, 34.
Cf. Norelli, “Il duplice rinnovamento del mondo”, 93.
Adv. Haer. V,35,1: SC 153, 438-349.
Cf. Orbe - Simonetti, Il Cristo, I, 422 nota 44.
Adv. Haer. V,35,1: SC 153, 438-439.
Adv. Haer. V,36,3: SC 153, 464-465.
Adv. Haer. V, 33,1: SC 153, 406-409.
Adv. Haer. V, 32,1: SC 153, 396-399.
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sopportati nel nome di Cristo. Evita in questo modo di presentare il millennio
in modo materiale e identifica questo periodo con la risurrezione dei corpi171.
Cristo e la Chiesa
Non possiamo passare in rassegna le moltissime immagini di cui si servono i
Padri per descrivere la Chiesa e che sono riconducibili all’Apocalisse. Gli autori cristiani non introducono innovazioni in questo, perché l’Apocalisse, insieme con tutto il NT, offriva una base ecclesiologica già abbastanza ampia.
Bastava riprenderla e svilupparla ulteriormente, offrendo una rappresentazione del destino della Chiesa, delle sue funzioni e della sua essenza più profonda.
Origene, che commenta Ap 19,11-16, dà un esempio molto chiaro del legame che si è stabilito tra i riferimenti cristologici e la realtà ecclesiale. L’immagine apocalittica in questione è riferita principalmente all’Incarnazione,
ma basandosi sull’opinione altrui egli sostiene che
la Chiesa, che è definita suo corpo (cf Col 1,24), è il cavallo bianco in quanto non ha macchia né ruga (cf. Ef 5,26.27), che egli ha santificato per sé nel
lavacro dell’acqua. Secondo questi concetti interpretano anche ciò che segue: la milizia del cielo e l’esercito del Verbo di Dio seggono sui cavalli
bianchi e sono vestiti di lino perfettamente bianco. Perciò a questo cavallo
bianco, dal quale è trasportato colui che è detto Verbo di Dio, e a questa cavalleria celeste, che lo segue su cavalli ugualmente bianchi, Cristo paragona
e rende simile la sua Chiesa172.
La cavalleria, che “purificata dal lavacro dell’acqua e resa candida ha
meritato di avere come cavaliere il Verbo di Dio”, è da identificare con la
Chiesa legata con il suo Signore e Sposo.
Nella lettura della stessa immagine apocalittica subentra poi il simbolismo legato con le anime dei credenti.
Sono beate quelle anime – osserva l’Adamanzio – che hanno piegato la loro
schiena per accogliere sopra di sé come cavaliere il Verbo di Dio e sopportare il suo morso, in modo che egli le indirizzi ovunque e le guidi con le briglie dei suoi precetti. Infatti non procedono secondo la loro volontà, in tutto
sono guidate e moderate secondo la volontà del cavaliere173.
171. Cf. Orbe - Simonetti, Il Cristo, I, 422 nota 43.
172. In Cant. II,9-10: SC 375, 386-387.
173. In Cant. II,12: SC 375, 388-389.
LA LETTURA CRISTOLOGICA DELL’APOCALISSE
219
La descrizione dell’unione dell’anima con il Verbo è descritta qui dal nostro autore in un modo assai curioso. Tuttavia con evidenza traspare tutta la
sua mentalità di asceta e di mistico174, e non nasconde l’aspetto costrittivo
insito nell’azione “pedagogica” del Signore.
Per Vittorino di Pettau un peso notevole ha il significato del numero
sette in riferimento alle Chiese. Egli vede l’importanza di questo elemento
nelle lettere paoline175, ma anche nell’AT (Is 4,1: “Sette donne afferreranno
un uomo solo”). Si tratta di “una prefigurazione data dallo Spirito Santo per
mezzo di Isaia”. In realtà “quell’unico uomo è Cristo, non nato da seme
umano, le sette donne sono le Chiese che si nutrono del suo pane e vestono
le sue tuniche”176.
Lo stesso autore, in modo curioso, divide la storia della Chiesa in due periodi: il primo in cui “sotto Elia, negli ultimi tempi il numero dei credenti è di
144 mila” e il secondo, “quando verrà il Signore nostro Gesù Cristo” e il popolo dei salvati raddoppierà177. Il destino finale della Chiesa è condizionato
dalla parusia del Signore.
Cristo e la “Gerusalemme celeste”
Il simbolo della “nuova Gerusalemme” si prestava in modo del tutto particolare ad illustrare il trionfo escatologico. Nonostante ciò, le immagini di una
città gloriosa o paradisiaca non sempre possono essere ricondotte all’Apocalisse ed è difficile trovarvi connessioni con la cristologia178. Le visioni della
“Gerusalemme celeste” sono inserite nella complessa riflessione teologica sui
rapporti tra Cristo e Chiesa. A quanto pare, questa possibilità era offerta da
Ap 21-22, che compare con altre citazioni bibliche, tra le quali Gv 7,38179.
174. Gregorio il Taumaturgo non ammira in Origene il profondo speculativo o erudito, ma
“l’uomo di Dio e maestro delle anime”. Cf. l’analisi del Discorso di ringraziamento fatta da
Crouzel, Origene, 53.
175. Vittorino osserva che “Paolo non ha oltrepassato il numero (= sette) delle Chiese (nelle
sue lettere)…; poi scrisse alle singole persone”; In Apoc. I,6: PLS 1, 110-111.
176. In Apoc. I,6: PLS 1, 110-111.
177. In Apoc. XII,4: PLS 1, 152.
178. Cf. M.C. Paczkowski, “Gerusalemme negli scrittori cristiani del II-III secolo”, LA 45
(1995) 165-202.
179. Questo brano scritturistico ha trovato una complessa esegesi in Origene che lo interpreta
come un traboccare, dall’intimo del credente, delle acque attinte da Cristo. Secondo l’Adamanzio dalla vita intima di Dio scaturiscono tre torrenti: Padre, Verbo e Spirito. Cf. H. Rahner,
Symbole der Kirche. Die Ekklesiologie der Väter, Saltzburg 1964, 181-185.
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M. C. PACZKOWSKI
Secondo la Mazzucco si tratta di una concezione che “deriva direttamente
dall’ambiente giovanneo”180. Così è nel caso di Ireneo181. Invece nella letteratura del martirio, Gerusalemme è la condizione spirituale da raggiungere
nella pienezza dell’amore che consente l’identificazione con Cristo crocifisso e la partecipazione al suo Spirito182.
In Origene la simbologia della Gerusalemme “dell’alto” è fortemente
connessa col Cristo. Egli afferma, nel commento a Gv, che il Salvatore è venuto per trasferire “lassù (e˙pi« ta» a‡nw) quelli di quaggiù (ka¿tw)” e che hanno
la “cittadinanza di quaggiù”183. Il Signore però è il suo fondamento o “pietra
angolare”184, su cui si edifica la comunità dei credenti185. Nelle omelie sui Nm
l’Alessandrino vede in Gesù Cristo la porta (cf. Gv 10,9) della Città Celeste.
A colui che è puro da ogni macchia di idolatria “apre la porta il Cristo Gesù,
nostro Signore (cf. Ap 3,7)”186.
Ippolito di Roma in uno dei passi del commentario In Danielem descrive
Gerusalemme-paradiso irrigata da “un fiume d’acqua perenne” da cui si dipartono “quattro fiumi che scorrono per tutta la terra”. Su questa immagine si
basa l’interpretazione che fa confluire nella riflessione ecclesiologica le considerazioni su Cristo: “(Egli) che è il fiume, attraverso i quattro Vangeli viene
annunziato in tutto il mondo e scorrendo per tutta la terra santifica tutti quelli
che credono in lui, come dice anche il Profeta: ‘Fiumi scaturiscono dal suo
corpo’ (cf. Gv 7,38)”187.
Queste brevi considerazioni mostrano una caratteristica compenetrazione
di tematiche: essendo Cristo il vero fondamento della città escatologica nei
cieli e il “fiume di grazia” del paradiso spirituale, tutto sussiste in quanto gode
della sua presenza.
180. Mazzucco, “La Gerusalemme celeste dell’ ‘Apocalisse’ nei Padri”, 64-65.
181. Si veda soprattutto Adv. Haer. III,4,1: SC 211, 44-45.
182. Cf. Mazzucco, “La Gerusalemme celeste dell’ ‘Apocalisse’ nei Padri”, 64. Eusebio dice
che il martire è “irrorato e fortificato dalla celeste fonte d’acqua di vita che esce dal ventre di
Cristo”; Hist. Eccl. V,1,22: Del Ton, Eusebio. Storia, 342-343.
183. In Joan. XIX,22,143: SC 290, 134-135. Il testo è corrotto. Sulla sua trad. cf. Corsini, Origene. Commento a Gv, 597 nota 28.
Melitone di Sardi contrappone la realtà della “Gerusalemme di quaggiù” e la “Gerusalemme
di lassù”, il “tempio di quaggiù” e il “Cristo di lassù”. Cf. In S. Pascha: SC 123, 82-85.
184. Cf. ad es. Hom In Jos. IX,1: GCS 10, 346-347.
185. Cf. In Ez. XIII,3: PG 13, 763 D-764 B. Origene fa riferimento a 1Cor 3,10-12.
186. In Num. XXV,6: PG 12, 770 D. Cf. Mazzucco, “La Gerusalemme celeste dell’ ‘Apocalisse’ nei Padri”, 71.
187. In Dan. I,17: SC 14, 105; cf. Mazzucco, “La Gerusalemme celeste dell’ ‘Apocalisse’ nei
Padri”, 65.
LA LETTURA CRISTOLOGICA DELL’APOCALISSE
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Conclusioni
Certamente un trattato di cristologia non si può basare esclusivamente sull’Apocalisse. Tuttavia gli scrittori della Chiesa prenicena fanno capire che
l’ultimo libro della Bibbia contiene dati importanti sulla persona e l’opera del
Salvatore. Del resto, l’impronta simbolica e spirituale delle immagini apocalittiche viene sfruttata dai Padri e dagli scrittori dei primi secoli a fini teologici. Perciò per loro riferirsi all’Apocalisse non significava cercare consensi con
l’arma del terrore e della superstizione. Gli scrittori dei primi secoli hanno
intuito che l’Apocalisse non si presenta come un testo “teorico” di teologia,
ma che è un dossier illustrativo pieno di vigorose condensazioni, formule sintetiche e immagini travolgenti, in cui si nota la ripresa di linee tematiche diffuse nelle varie tradizioni: da quella giudeo-cristiana e asiatica alla speculazione alessandrina.
Il testo dell’ultimo libro del NT fu non solo accettato, ma commentato e
utilizzato in vari modi anche da quelli che avversavano apertamente le interpretazioni millenariste. Grazie all’interpretazione teologica dell’Apocalisse
gli autori dei primi secoli seppero cogliere vari aspetti di questo misterioso
ed affascinante libro biblico. Ciò è prova sufficiente a dimostrare che l’ultimo libro del NT sia stato meditato nel cuore dell’esperienza vivente del cristianesimo, rappresentato dalle sue figure più eminenti. Gli spunti che sono
stati presentati sono isolati e, per di più, tratti da contesti orientati verso altre
finalità e lontani dalla preoccupazione di interpretare sistematicamente l’ultimo libro biblico. Inoltre, i tratti della lettura dell’Apocalisse nei vari Padri
spesso si sono rivelati non solo differenziati, ma perfino in opposizione. Queste divergenze erano dovute al fatto che i diversi autori erano concentrati sulla polemica contro le false interpretazioni della figura di Cristo. Non pochi
tra gli autori giudeo-cristiani e asiatici si servivano dell’illustre nome del Discepolo Amato e dell’autorità dei suoi scritti per proporre principi teologici
loro propri, arcaici e indecifrabili per i Padri successivi. Nonostante questi
inconvenienti, non sono rari i concetti attinti dal testo dell’Apocalisse che
spesso si incontrano con sorprendente frequenza. Ciò indubbiamente testimonia la familiarità degli autori cristiani, in particolare di Origene, con l’ultimo
libro del NT. Inoltre, si è potuto constatare che il testo apocalittico costituiva
per lo sviluppo della cristologia una riserva di immagini e di idee.
I Padri preniceni mostrano una riflessione corale su Cristo unita all’anelito verso il compimento finale della sua vittoria e della sua rivelazione nella
gloria. Dal punto di vista esegetico vari titoli di Cristo, presenti nell’Apocalisse, attirano l’attenzione di Origene al punto che ne dovette fare un’analisi
particolareggiata. Alcune delle sue citazioni apocalittiche si ritrovano anche
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nelle opere di altri autori. Il brano commentato più a lungo è Ap 19, dove si
riflette la ricchezza della riflessione origeniana sul Verbo. Altre tematiche ricorrenti nell’esegesi cristologica dell’Apocalisse si collegano con i titoli di
Cristo “Figlio dell’uomo”, “Agnello”, “Testimone”. All'interpretazione cristologica non sfugge la pericope di Ap 12,1-6. I temi cristologici si intrecciano con l’interpretazione della figura dell’anticristo, creando perfino una sorta
di “anticristologia”. Infine il tema molto caro agli autori preniceni è il trionfo
di Cristo e dei suoi fedeli che costituiscono la realtà della Chiesa e camminano verso la “Gerusalemme celeste”. La varietà delle tematiche rivela le potenzialità insite nella simbologia apocalittica, ed esse permisero un agevole
passaggio dalla speculazione teologica alla spiritualità, dalla realtà divina di
Cristo alla concretezza della sua umanità.
Mieczysław Celestyn Paczkowski, ofm
Studium Theologicum Jerosolymitanum