novita`legislative e giurisprudenza costituzionale

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novita`legislative e giurisprudenza costituzionale
La Rivista del Consiglio
Novità legislative e giurisprudenza costituzionale
n. 1/2013
NOVITÀ LEGISLATIVE
E GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE
LA NUOVA LEGGE PROFESSIONALE:
IL PUNTO SUI VARI PROBLEMI
I - IN GENERALE
1. Premessa
Nell’ultimo giorno della legislatura è stata approvata la nuova normativa che
disciplina l’ordinamento della professione forense e sostituisce la preesistente
legge del 1933. È la legge 31 dicembre 2012, n. 247.
È un risultato atteso, fortemente voluto dall’Avvocatura per dare maggiore
dignità, essenzialità ed efficacia all’attività difensiva.
Il tempo dirà se questi obiettivi sono stati raggiunti, poiché da un lato mancano i regolamenti per l’attuazione pratica della legge, e d’altro lato è sempre la sensibilità degli interpreti e degli esecutori che contrassegna la qualità dei risultati.
Per il momento è necessario conoscere la nuova legge in tutte le sue implicazioni, sottolineando le novità realizzate e le disposizioni in vigore e richiamando la disciplina transitoria. A questo tendono i nostri primi commenti, lasciando senza rimpianti la vecchia normativa sulla quale ci siamo intrattenuti
per cosı̀ tanti anni.
2. La nuova legge professionale forense (l. 31 dicembre 2012, n. 247)
L’approvazione della nuova legge professionale (entrata in vigore il 2 febbraio 2013) impone alcune preliminari osservazioni soprattutto se si tiene conto dei tempi programmati per la sua attuazione pratica.
Dispone infatti la legge che:
– entro due anni dalla entrata in vigore devono essere adottati i regolamenti
di attuazione con decreto del Ministro della giustizia;
– entro quattro anni dalla data di entrata in vigore dell’ultimo dei regolamenti previsti possono essere adottate le necessarie disposizioni integrative e
correttive;
– fino alla data di entrata in vigore dei regolamenti «si applicano se necessario
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e in quanto compatibili le disposizioni vigenti non abrogate, anche se non richiamate».
È stata data poi delega al Governo di disciplinare la societa` tra avvocati e la
difesa d’ufficio (artt. 5 e 16), e ancora delega al Governo di emanare, entro
ventiquattro mesi dalla entrata in vigore della legge, un Testo Unico di riordino
delle disposizioni vigenti, attraverso uno o più decreti legislativi, nel rispetto dei
principi e criteri direttivi indicati, volti ad accertare la vigenza delle singole
norme e procedere al coordinamento di tutte le disposizioni ‘‘per garantire la
coerenza logica e sistematica della disciplina, anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo’’ (art. 64.1 l.p.f.).
In sintesi, tutta la normativa è in vigore, ma l’attuazione pratica di gran parte delle norme dipende dalla emanazione dei regolamenti (e per quanto di ragione dall’esercizio delle deleghe).
È stato considerato che la legge prevede ben 15 decreti del Ministro della
Giustizia, 16 regolamenti del Consiglio nazionale forense e altri ancora dei
Consigli dell’ordine e della Cassa di previdenza!
Insomma una legge ancora in formazione.
3. Le norme immediatamente applicabili
Pur dipendendo dai regolamenti gran parte della nuova normativa, vi sono
numerose disposizioni che sono già applicabili perché non richiedono l’emanazione di regolamenti, come ad esempio le norme che riguardano:
– l’attività riservata o di competenza degli avvocati (art. 2.5 e 2.6);
– le associazioni professionali (art. 4), salvo le associazioni multidisciplinari;
– il segreto professionale (art. 6);
– il domicilio (art. 7);
– l’impegno solenne (art. 8);
– la pubblicità informativa (art. 10);
– la pattuizione del compenso ((art. 13.3) e il divieto del patto di quota lite
(art. 13.4);
– il mandato professionale (art. 14);
– i requisiti per l’iscrizione (art. 17);
– le incompatibilità (artt. 18 e 19);
– la sospensione dall’esercizio professionale (art. 20);
– l’iscrizione nell’albo speciale (art. 22.1);
– gli avvocati degli enti pubblici (art. 23);
– i compiti e le prerogative del Consiglio dell’ordine (artt. 29 e 32);
– il collegio dei revisori (art. 31);
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– il Congresso nazionale forense (art. 39);
– il tirocinio per diciotto mesi (artt. 41.5 e 48.1) e i doveri dei praticanti
(art. 42).
Tutte queste disposizioni sono in vigore e immediatamente applicabili, non
essendo richiesta l’emanazione di regolamenti sui punti specifici indicati.
4. Il giudizio critico sulla nuova legge
Se si vuole dare un giudizio di sintesi della nuova legge, si possono individuare i dati positivi e quelli negativi.
In pratica la nuova legge può essere particolarmente apprezzata perché:
– riconosce la specificità della professione forense e il ruolo sociale e costituzionale dell’avvocatura;
– ridefinisce la partecipazione delle società professionali escludendo i soci di
capitali;
– introduce nuove modalità per la determinazione del compenso;
– riconosce le specializzazioni e il titolo di specialista;
– riserva agli avvocati la consulenza legale e l’assistenza stragiudiziale;
– tende a realizzare la parità dei generi nella composizione degli organi forensi;
– tende a riqualificare l’iscrizione all’albo avanti le giurisdizioni superiori;
– risolve in vario modo i problemi emersi nella disciplina precedente (ad esempio, con la creazione dei Consigli distrettuali di disciplina o con la sospensione
dall’esercizio dell’attività per gli avvocati eletti alle più alte cariche dello Stato).
Critiche invece possono essere sollevate perché:
– la legge rinvia troppo frequentemente ai regolamenti da emanare da parte
del Ministro della giustizia e dal Consiglio nazionale forense, allungando considerevolmente nel tempo l’attuazione delle riforme;
– la procedura per l’adozione dei regolamenti è particolarmente complessa
(art. 1.3);
– la legge rinuncia a regolare alcuni aspetti fondamentali (ad esempio, la società tra avvocati o la difesa d’ufficio) dando delega al Governo di provvedere
al riguardo;
– la legge si sofferma minuziosamente su alcuni particolari aspetti o su dettagli, ma lascia irrisolti o non chiariti altri punti su questioni non marginali;
– la legge si dilunga sulle definizioni, mentre dovrebbe essere soprattutto
prescrittiva (lex imperat, non docet);
– la legge non accompagna l’idea che una riforma tanto impegnativa possa
contribuire al miglioramento complessivo della giustizia, rispetto ai tempi e alle modalità di attuazione esistenti.
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II - GLI ORGANI ISTITUZIONALI
5. L’ordine forense
Fatti questi rilievi di carattere generale, si deve riconoscere che la nuova legge ha il lodevole intento di regolare la professione di avvocato, tenuto conto
della specificita` della funzione difensiva e della primaria rilevanza giuridica e sociale dei diritti tutelati (art. 1.2), e a questo fine, essa si propone di:
– assicurare l’idoneità professionale degli iscritti, nell’interesse pubblico;
– garantire l’indipendenza e autonomia degli avvocati, indispensabili condizioni dell’effettività della difesa e della tutela dei diritti;
– tutelare l’affidamento della collettività e della clientela;
– favorire l’accesso con criteri di valorizzazione del merito.
Queste essendo le linee programmatiche, la legge delinea la struttura dell’ordine forense precisando espressamente (art. 24.1 l.p.f.) che ‘‘gli iscritti negli albi degli avvocati costituiscono l’ordine forense’’.
L’ordine forense si articola negli Ordini circondariali (ovvero nei Consigli degli ordini circondariali) e nel Consiglio nazionale forense (C.N.F.), che sono gli
organi professionali ai quali sono demandate le funzioni per il corretto esercizio
dell’attività professionale. Essi sono definiti dalla stessa legge come enti pubblici
non economici, a carattere associativo, per la tutela dei cittadini e degli interessi
pubblici connessi all’esercizio della professione e alla funzione giurisdizionale.
Essi sono:
– dotati di autonomia patrimoniale e finanziaria con i contributi esclusivi
degli iscritti,
– regolati da appositi regolamenti,
– soggetti esclusivamente alla vigilanza del Ministro della giustizia (art. 24.3
l.p.f.).
L’ordine circondariale ha in via esclusiva la rappresentanza istituzionale dell’avvocatura a livello locale (art. 25.1 l.p.f.), mentre al Consiglio nazionale forense spetta in via esclusiva la rappresentanza istituzionale dell’avvocatura a livello nazionale (art. 35.1, lett. a).
Il C.N.F. e i Consigli dell’ordine in carica alla data di entrata in vigore della
legge sono prorogati fino al 31 dicembre dell’anno successivo (art. 65.2), cioè
fino al 31 dicembre 2014.
6. Il Consiglio dell’ordine circondariale
Minuziosa è la legge nel regolamentare il nuovo Consiglio dell’ordine cir26
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condariale (che sarà eletto per quattro anni e nessun consigliere potrà essere
eletto per più di due volte).
Poiché questa normativa entrerà in vigore nel 2015, e dovranno essere emanati i relativi regolamenti, riteniamo sufficiente richiamare soltanto alcune delle novita` introdotte:
a) nella elezione possono essere eletti consiglieri gli avvocati iscritti nel circondario ‘‘in base a un criterio che assicuri l’equilibrio tra i generi’’, nel senso
che il genere meno rappresentato deve ottenere almeno un terzo dei consiglieri
eletti;
b) il Consiglio dell’ordine perde la potestà disciplinare che è conferita invece
a un diverso organismo, il Consiglio distrettuale di disciplina (C.d.d.);
c) presso ogni Consiglio dell’ordine è costituito il Collegio dei revisori (per
verificare la regolarità della gestione patrimoniale e contabile del Consiglio) e
il Comitato pari opportunita`;
d) deve essere costituito anche il c.d. sportello per il cittadino, volto a fornire
gratuitamente informazioni e orientamenti ai cittadini per la fruizione delle
prestazioni professionali degli avvocati e per l’accesso alla giustizia, secondo le
modalità determinate dal regolamento che sarà disposto dal C.N.F. (art. 30
l.p.f.). Si tratta anche in questo caso di una iniziativa lodevole per sensibilizzare i cittadini ai problemi della giustizia e rimuovere ogni motivo di opposizione e contrasto.
7. Il Consiglio distrettuale di disciplina
La nuova legge professionale forense istituisce anche un nuovo organismo,
come abbiamo detto, il Consiglio distrettuale di disciplina, al quale attribuisce
la funzione disciplinare nei confronti degli iscritti, un tempo di competenza
del Consiglio dell’ordine (artt. 50 e seguenti).
In verità, il procedimento disciplinare per gli avvocati è sempre stato fonte
di critiche, essendo in discussione da un lato il rapporto esistente tra l’incolpato e i consiglieri dell’ordine giudicante che lo stesso incolpato concorre a nominare, e d’altro lato la terzieta` del giudice, data la concentrazione dei poteri
nel Consiglio e l’immedesimazione esistente tra l’organo di iniziativa, l’organo
istruente e l’organo giudicante.
Per di più la normativa previgente è sempre stata estremamente lacunosa e
la giurisprudenza è stata costretta a intervenire con numerose pronunce, richiamando di volta in volta le norme del codice di procedura civile o penale, secondo le circostanze.
Sono queste le ragioni che hanno indotto alla radicale modifica del sistema
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esistente, ed è sorto cosı̀ il Consiglio distrettuale di disciplina (C.d.d.), istituito
e regolamentato dalla legge professionale (artt. 50 e segg.).
Il Consiglio distrettuale di disciplina realizza la separazione dell’incolpato dal
Consiglio dell’ordine presso il quale lo stesso è iscritto, ma risolve solo parzialmente la separazione tra le varie fasi del giudizio, poiché ogni attività è svolta
ora dal Consiglio distrettuale di disciplina, salvo la precisazione che il consigliere istruttore non può far parte del collegio giudicante (art. 58.3).
Il Consiglio distrettuale di disciplina esercita dunque il potere disciplinare
(art. 50.1 e 51.1.), per accertare le infrazioni ai doveri e alle regole di condotta
dettati dalla legge o dalla deontologia. Esso è composto da membri eletti «su
base capitaria e democratica» con il rispetto della rappresentanza di genere, secondo il regolamento che sarà approvato dal Consiglio nazionale forense, sentiti gli ordini circondariali. Il numero complessivo dei componenti del Consiglio
distrettuale è pari a un terzo della somma dei componenti dei Consigli dell’ordine del distretto.
Il C.d.d. opera attraverso sezioni composte da cinque titolari e tre supplenti.
Nella sezione giudicante non vi possono essere membri appartenenti all’ordine
a cui è iscritto l’incolpato (art. 50.3).
8. Il Consiglio nazionale forense
Come è noto, il Consiglio nazionale forense è un organo giurisdizionale speciale (in materia disciplinare, di tenuta degli albi e altro) ed esercita un potere
dello Stato (pronuncia le proprie decisioni ‘‘in nome del popolo italiano’’). Ciò
sulla base della legge che lo ha istituito (art. 52 e segg. r.d.l. 27 novembre
1933, n. 1578, conv. in legge 22 gennaio 1934, n. 36; e art. 59 e segg. r.d.
22 gennaio 1934, n. 37) e delle successive norme intervenute (d.lgs.lgt. 23 novembre 1944, n. 382).
Come pure è noto, questa giurisdizione speciale è sopravvissuta malgrado la
Costituzione italiana avesse imposto, entro cinque anni dalla sua entrata in vigore (e quindi dal 1º gennaio 1948), la revisione di tutti gli organi di giurisdizione speciale (cosı̀ la VI disposizione transitoria). È stata infatti ripetutamente
respinta l’eccezione di incostituzionalità sul presupposto tra l’altro della non
perentorietà del termine previsto dalla Costituzione e della sussistenza delle garanzie per il corretto esercizio della funzione di giurisdizione con riguardo alla
indipendenza del giudice e alla imparzialità dei giudizi (cosı̀, ad esempio, tra le
tante, Cass., sez. un., 19 luglio 1974, n. 2177; Cass., sez. un., 7 febbraio
2002, n. 1732; Cass., sez. un., 8 agosto 2011, n. 17064; e per una analisi più
approfondita, si veda il nostro articolo Il procedimento disciplinare e il giusto
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processo, in Rass. forense, 2003, 15 e 18, e nel volume Deontologia e giustizia,
2003, 103 e 107, nonché Il procedimento disciplinare nella professione di avvocato, Milano, 2005, 233).
Questa essendo la situazione, la nuova legge ha confermato in più punti che
il C.N.F. è ‘‘previsto e disciplinato’’ dagli artt. 52 e segg. e 59 e segg. delle leggi
previgenti (art. 34.1), e la funzione giurisdizionale ‘‘e` esercitata secondo le previsioni degli artt. da 59 a 65’’ della normativa previgente (art. 35.1, lett. c; art.
36.1; art. 37.1 e 34.6).
Con ciò, dichiaratamente (e con molta sovrabbondanza!), si è voluto affermare che non si tratta di una giurisdizione speciale oggi costituita (come tale
radicalmente illegittima e incostituzionale), ma dello stesso organo giurisdizionale che è stato legittimamente istituito ed è stato riconosciuto esistente, senza
rilevanza essendo eventuali difformità sulla futura composizione dello stesso
(ad esempio, sul numero dei consiglieri, che viene aumentato in dipendenza
del numero degli iscritti nel distretto, o sulla durata del mandato, che è fissata
ora in quattro anni).
Insomma, una operazione accettabile per conservare al Consiglio nazionale
forense le prerogative di cui fino a oggi ha goduto.
9. Il Congresso nazionale forense
Una norma immediatamente in vigore è quella dedicata al Congresso forense (art. 39).
Come è noto infatti, il momento di maggior rilievo nella vita associativa
professionale è il Congresso nazionale forense, che è convocato periodicamente
(generalmente presso il Consiglio dell’ordine costituito nella sede di una delle
Corti d’Appello). Il Congresso è infatti l’occasione per dibattere i problemi
che riguardano la professione forense, comunque collegati all’attività professionale e all’amministrazione della giustizia (in passato non sono mancati temi su
specifici problemi giuridici).
L’ultimo Congresso (il XXXI) si è tenuto a Bari nel novembre 2012 con
grande partecipazione di avvocati, attesa l’importanza dei temi in discussione
(dalla nuova disciplina dell’ordinamento ai più recenti assetti per il miglioramento della giustizia).
La legge professionale ha ora codificato il momento congressuale stabilendo
(art. 39 l.p.f.) che il Congresso nazionale forense si tiene almeno ogni tre anni
ed è convocato dal Consiglio nazionale.
Con intento poi definitorio (francamente non usuale nelle disposizioni normative) la legge precisa che ‘‘il congresso nazionale forense e` la massima assise
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dell’avvocatura italiana nel rispetto dell’identita` e dell’autonomia di ciascuna delle
sue componenti associative. Tratta e formula proposte sui temi della giustizia e delle tutela dei diritti fondamentali dei cittadini, nonche´ le questioni che riguardano
la professione forense’’.
È anche precisato che il Congresso delibera autonomamente le proprie norme regolamentari e statutarie ed elegge l’organismo chiamato a dare attuazione
ai suoi deliberati.
III - LA PRATICA FORENSE E IL TIROCINIO
10. I praticanti
Cosı̀ delineata la struttura dell’ordinamento possiamo sottolineare brevemente le figure professionali la cui attività è subordinata alla iscrizione negli albi o
nei registri.
Le regole sono quelle usuali, salvo le specifiche innovazioni introdotte dalla
nuova legge, tra le quali quelle che riguardano i praticanti, cioè i laureati in
giurisprudenza che intendano svolgere il tirocinio o pratica forense e richiedono
di essere iscritti a domanda, nel registro dei praticanti avvocati (art. 15.1 lett.
g e 17.4).
Il tirocinio deve avere la durata di 18 mesi (per almeno sei mesi presso un
avvocato o l’Avvocatura dello Stato) e può essere effettuato in vari modi e in
particolare:
– presso un avvocato, con anzianità di iscrizione all’albo non inferiore a cinque anni, o anche presso due avvocati (in dipendenza della mole di lavoro);
– presso l’Avvocatura dello Stato o presso l’ufficio legale di un ente pubblico o presso un ufficio giudiziario (per non più di dodici mesi), e con rinvio
nell’ultimo caso a un regolamento da emanarsi dal Ministro della giustizia,
sentito il C.N.F. e il Consiglio superiore della magistratura (art. 44);
– in altro Stato dell’Unione europea presso professionisti legali abilitati (per
non più di sei mesi);
– durante l’ultimo anno di laurea in giurisprudenza, previa convenzione
con le università (e per non più di sei mesi);
– presso le scuole di specializzazione, e in tal caso il diploma conseguito è
valutato per il periodo di un anno (art. 41.9);
– con la frequenza di corsi di formazione (art. 43).
Come si vede sono state accolte tutte le istanze prospettate per consentire la
più ampia formazione.
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Al termine del tirocinio viene rilasciato il certificato di compiuto tirocinio
(art. 45).
La legge si preoccupa anche di stabilire (art. 41.11) che «il tirocinio non determina di diritto l’instaurazione di rapporto di lavoro subordinato anche occasionale», e questa precisazione accompagna il sistema retributivo-compensativo
che la legge disciplina in questo modo:
– al praticante è sempre dovuto ‘‘il rimborso delle spese sostenute per conto
dello studio’’ (non è chiaro tuttavia quali siano queste spese);
– decorsi sei mesi, al praticante ‘‘possono essere riconosciuti una indennita` o
un compenso per l’attivita` svolta’’, che sono commisurati (i) all’effettivo apporto
professionale e (ii) tenuto conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello
studio (e anche in questo caso è difficile davvero comprendere quale sia la ratio di indicare tale possibilità con i limiti indicati).
Ciò non vale per gli enti pubblici e per l’Avvocatura dello Stato che possono riconoscere «un rimborso», ove previsto e nei soli limiti delle risorse disponibili.
Insomma, uno statuto professionale ancora abbastanza incerto, anche tenuto
conto del fatto che il tirocinio può essere svolto contestualmente ad attività di
lavoro subordinato, alle condizioni indicate (art. 41.4).
11. I praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo
Trascorsi sei mesi di pratica (e a patto che il praticante sia in possesso della
laurea: ciò che non avviene se i primi sei mesi siano stati svolti con la frequentazione dell’ultimo anno di corso presso l’università), il praticante può chiedere
di esercitare attività professionale in sostituzione dell’avvocato presso il quale
svolge la pratica (art. 41.12). Nella ricorrenza dei requisiti viene quindi iscritto
nell’apposito elenco allegato al registro (art. 15.1, lett. h).
È questa una profonda innovazione rispetto alla regolamentazione del passato, che consentiva al praticante abilitato al patrocinio una attività autonoma,
anche al di fuori di uno studio di avvocato di riferimento.
Di fatto, il patrocinio sostitutivo del praticante si svolge ‘‘sotto il controllo e
la responsabilita` dell’avvocato, anche se si tratta di affari non trattati direttamente
dal medesimo’’, e può durare al massimo per cinque anni (art. 41.12).
L’abilitazione al patrocinio sostitutivo consente di trattare:
– nell’ambito civile, i procedimenti di fronte al tribunale e al giudice di pace;
– nell’ambito penale, i procedimenti di competenza del giudice di pace,
quelli per reati contravvenzionali e quelli che rientravano nella competenza del
pretore (alla data del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 5).
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IV - L’ESERCIZIO CONTINUATIVO E LE INCOMPATIBILITÀ
12. L’esercizio in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente
Per esercitare l’attività occorre essere iscritti negli appositi albi o elenchi, come
abbiamo detto, sul presupposto dei requisiti già in passato richiesti dalla legge.
È stato modificato soltanto, sul piano formale, il requisito della condotta,
poiché la legge ha sostituito la formula utilizzata in passato (la condotta specchiatissima e illibata, utilizzata per la prima volta con la legge del 1926) e richiede ora la condotta irreprensibile secondo i canoni previsti dal codice deontologico (art. 17.1, lett. h).
Peraltro, per poter mantenere l’iscrizione all’albo occorre anche esercitare
l’attività in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente. È questa una innovazione introdotta dalla legge (art. 21.5), in adesione alle richieste ripetutamente sollecitate, tendenti ad avere professionisti iscritti all’albo di qualità adeguata ed effettivamente esercenti l’attività professionale.
Anche in questo caso le modalità di accertamento, le eccezioni consentite e
quant’altro sono disciplinate dal regolamento. Deve essere peraltro escluso ogni
riferimento al reddito professionale.
È anche prescritto (art. 21.4) che la mancanza del requisito indicato, se non
vi siano giustificati motivi, comporta la cancellazione dall’albo secondo la procedura prevista.
13. Le incompatibilità
L’art. 18 della legge professionale prevede varie ipotesi di incompatibilità riconducibili sostanzialmente a quattro gruppi:
a) l’esercizio di altra attivita` di lavoro autonomo,
b) l’attivita` commerciale,
c) l’assunzione di cariche societarie,
d) l’attivita` subordinata.
Le ipotesi di incompatibilità, per quanto ampie, sono state sempre ritenute
costituzionalmente legittime perché esse si ricollegano a libere scelte del cittadino, nelle varie ipotesi lavorative, e trovano giustificazione nella necessità di
assicurare, in relazione a interessi di ordine generale, la piena autonomia ed efficienza della professione forense.
14. Le incompatibilità: a) l’esercizio di altra attività di lavoro
autonomo
La legge ha abbandonato l’indicazione della precedente normativa (che vieta32
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va variamente l’attività relativa ad alcuna figure professionali) e si è limitata
giustamente a precisare che è incompatibile lo svolgimento di qualsiasi altra attivita` di lavoro autonomo, svolta continuativamente e professionalmente, escluse
quelle di carattere scientifico, letterario, artistico e culturale (art. 18.1, lett. a).
È espressamente vietato il cumulo con l’attività di notaio (contrariamente a
quanto avviene in alcuni Paesi europei).
È invece consentita l’iscrizione nell’albo dei dottori commercialisti e degli
esperti contabili, nell’elenco dei pubblicisti e nel registro dei revisori contabili
o nell’albo dei consulenti del lavoro: in pratica sono le attività professionali
che oggi vengono svolte in taluni casi dagli avvocati, senza che si siamo mai
posti problemi di incompatibilità. Deve ritenersi ugualmente consentita l’attività di amministratore di condominio.
15. Le incompatibilità: b) l’attività commerciale
La legge dispone poi l’incompatibilità dell’attività di avvocato con l’esercizio
di qualsiasi attività di impresa commerciale svolta in nome proprio o in nome
o per conto altrui (art. 18.1, lett. b).
È certamente incompatibile con la professione forense l’esercizio di una attività commerciale in nome proprio, e ugualmente è incompatibile con la professione forense l’esercizio di un’attività commerciale in nome o per conto altrui, e questa è ravvisabile, ad esempio, nel caso di persona incaricata dell’esercizio dell’azienda di un terzo, ovvero preposta con mandato institorio (art.
2203 c.c.) o con procura generale (art. 2209 c.c.).
La legge peraltro fa salva la possibilità di assumere incarichi di gestione e vigilanza nelle procedure concorsuali o in altre procedure relative a crisi di impresa (e possiamo ricordare a questo proposito che l’art. 28 della legge fall.
consente espressamente l’attività di curatore fallimentare non solo agli avvocati
ma anche agli studi professionali associati o societa` tra professionisti, sempre che i
soci abbiano la qualifica di avvocato).
16. Le incompatibilità: c) l’assunzione di cariche societarie
La legge ha inteso chiarire una serie di situazioni che hanno determinato fino ad oggi discussioni senza fine e soluzioni non sempre uniformi.
Per fugare ogni dubbio la legge ha quindi ora lodevolmente posto questi
princı̀pi (art. 18.1, lett. c):
– anzitutto l’incompatibilità sussiste con la qualita` di socio illimitatamente
responsabile o di amministratore di societa` di persone, aventi quale finalità l’esercizio di attività di impresa commerciale, in qualunque forma costituite. Occor33
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re tuttavia, anche in tale caso, che l’attività svolta sia commerciale, non essendo
sufficiente la forma societaria a determinare l’incompatibilità;
– inoltre l’incompatibilità sussiste con la qualità di amministratore unico o
consigliere delegato di società di capitali, anche in forma cooperativa, nonché
con la qualità di presidente di consiglio di amministrazione con poteri individuali di gestione. È stata accolta dunque la distinzione (risultante sulla base dei poteri conferiti dallo statuto) tra presidente con poteri gestori e presidente con soli
poteri rappresentativi, ed è stato prescritto che l’incompatibilità sussiste soltanto
nel primo caso (essendo i poteri del presidente limitati nel secondo caso, a
norma di statuto, a funzioni di mera rappresentanza).
In ogni caso, l’incompatibilità non sussiste se l’oggetto dell’attività della società sia limitato esclusivamente all’amministrazione di beni, personali o famigliari,
nonché per gli enti e consorzi pubblici e per le societa` a capitale interamente pubblico. Anche in questo caso sono state accolte le istanze dell’avvocatura che da
un lato ha sottolineato l’opportunità per gli avvocati di partecipare alla gestione della cosa pubblica, e dall’altro lato ha sempre ritenuto incongrua una proibizione all’assunzione di una carica societaria (anche di amministratore unico),
quando si tratti di una società personale o costituita tra famigliari per la mera
amministrazione dei beni comuni.
17. Le incompatibilità: d) l’attività subordinata
Prescrive infine la legge (art. 18.1, lett. d), che la professione di avvocato è
incompatibile «con qualsiasi attivita` di lavoro subordinato, anche se con orario di
lavoro limitato».
Con ciò la legge abbandona il concetto di retribuzione (che era invece esistente nella legge preesistente, quale presupposto per il divieto) e non fa distinzioni tra impiego privato e impiego o ufficio pubblico, risolvendo anche drasticamente il problema dei dipendenti pubblici part-time.
Fermi questi principi, la legge pone tre eccezioni (art. 19 l.p.f.) che riguardano:
– coloro che svolgono insegnamento o ricerca in materie giuridiche nell’università, nelle scuole secondarie pubbliche o private parificate e nelle istituzioni
ed enti di ricerca e sperimentazione pubblici;
– i docenti e ricercatori universitari a tempo pieno, nei limiti consentiti dall’ordinamento universitario;
– i dipendenti degli enti pubblici, nei limiti fissati dalla legge.
Questa disposizione non si applica agli avvocati già iscritti (art. 65.3).
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18. Le incompatibilità c.d. funzionali (la sospensione dall’attività)
Vi sono infine casi particolari che non permettono l’esercizio dell’attività
professionale in connessione con l’esplicazione di altre funzioni. Si deve parlare, in tali casi, di incompatibilità relativa o funzionale.
A questo riguardo la legge è intervenuta per risolvere situazioni che avevano
determinato discussioni in passato, e ha espressamente indicato (art. 20 l.p.f.)
alcune ipotesi di sospensione dall’esercizio professionale, durante il periodo della
carica, per l’avvocato che sia stato eletto o nominato a esercitare alte funzioni
quali:
– le più alte cariche dello Stato (Presidente della Repubblica, del Senato,
della Camera, del Consiglio dei Ministri, vice-ministro e sottosegretario),
– le più alte cariche regionali, provinciali e comunali,
– membro della Corte costituzionale (art. 134 Cost.),
– membro del Consiglio superiore della magistratura (art. 104 Cost.).
Non è stata invece accolta l’idea di sospendere anche gli avvocati eletti al
Parlamento, caldeggiata da molti al fine di assicurare la più ampia neutralità di
fronte a possibili conflitti di interesse.
È anche prevista la possibilità di richiedere la sospensione volontaria (art.
20.2).
La sospensione è annotata nell’albo.
È anche previsto che i componenti del Consiglio dell’ordine non possano accettare incarichi giudiziari da parte dei magistrati del circondario (art. 28.10).
V - L’ATTIVITÀ PROFESSIONALE E IL COMPENSO
19. L’attività professionale
La legge dispone con molta precisione e stabilisce che:
a) è attività esclusiva dell’avvocato ‘‘l’assistenza, la rappresentanza e la difesa
nei giudizi davanti a tutti gli organi giurisdizionali e nelle procedure arbitrali rituali’’ (art. 2.5);
b) è anche di competenza dell’avvocato (art. 2.6.) ‘‘l’attivita` di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all’attivita` giurisdizionale, se
svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato’’.
In questo caso, infatti, e per l’attività stragiudiziale prevista, non vi e` una
esclusiva poiché l’attività può essere consentita dalla legge anche per gli esercenti di altre professioni regolamentate (tali possono essere i notai, i dottori
commercialisti, i consulenti del lavoro e altri), e d’altro lato, ancora, la presta35
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n. 1/2013
zione può essere oggetto di un contratto di lavoro subordinato, come avviene
per i giuristi di impresa.
Questa essendo la specifica normativa, l’art. 2.5 fa salvi i casi espressamente
previsti (come avviene, ad esempio, nei giudizi tributari), mentre è importante
l’esclusiva affermata negli arbitrati rituali (cosı̀ anche l’art. 816-bis c.p.c.).
È peraltro di estrema rilevanza l’innovazione introdotta con riferimento all’attivita` stragiudiziale, che è stata oggetto in passato di molte contestazioni e
di decisioni variamente ondeggianti da parte della giurisprudenza.
20. La pattuizione del compenso e i (nuovi) parametri
Come è noto, le tariffe sono state abrogate e il d.m. 20 luglio 2012, n. 140
ha introdotto i parametri.
La nuova legge (si tratta di legge speciale e posteriore) supera sostanzialmente
tutta la precedente normativa e stabilisce ora che ‘‘il compenso spettante al professionista `
e pattuito di regola per iscritto all’atto del conferimento dell’incarico professionale’’ (art. 13.2).
La pattuizione ha grande libertà di contenuti. Infatti (art. 13.3):
– è ammessa la pattuizione a tempo,
– in misura forfetaria,
– per convenzione avente ad oggetto uno o più affari,
– in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione,
– per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività,
– a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene,
non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione.
È peraltro ora nuovamente vietato il patto di quota lite, indicato come il patto con cui l’avvocato percepisca come compenso, in tutto o in parte, ‘‘una
quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa’’ (art. 13.4).
Oltre al compenso è dovuto all’avvocato il rimborso delle spese effettivamente
sostenute e di tutti gli oneri o contributi anticipati nell’interesse del cliente,
nonché un rimborso delle spese forfetarie da determinare con il regolamento che
verrà emanato (art. 13.10).
Di tutto questo l’avvocato è tenuto a rendere edotto il cliente, informandolo
in particolare del livello di complessita` dell’incarico, e degli oneri ipotizzabili fino
alla conclusione dell’incarico.
A richiesta, l’avvocato deve comunicare al cliente, in forma scritta, la prevedibile misura del costo delle prestazioni, distinguendo fra oneri, spese, anche forfetarie, e compenso professionale (art. 13.5). È il c.d. preventivo, al rilascio del
quale l’avvocato è tenuto solo in caso di richiesta.
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n. 1/2013
Quando il compenso non sia determinato per iscritto, deve provvedere il
giudice, e in tal caso si dovrà fare riferimento ai (nuovi) parametri, che saranno
stabiliti ogni due anni attraverso il regolamento previsto, su proposta del
C.N.F. (art. 13.6). I parametri devono favorire la trasparenza e assicurare l’unitarietà e semplicità nella determinazione dei compensi (art. 13.7).
Fino alla emanazione dei (nuovi) parametri, si ritiene debbano essere presi
in esame i parametri e le relative tabelle stabilite con d.m. 140 del 2012 (salve
le successive modifiche).
Naturalmente, in mancanza di accordo tra avvocato e cliente può essere richiesto l’intervento del Consiglio dell’ordine, che può rilasciare un parere sulla
congruità della richiesta (artt. 13.9 e 29.1, lett. l).
21. Il patto di quota lite
Il patto di quota lite è ora nuovamente vietato (è il patto, secondo la definizione della legge, con il quale l’avvocato percepisce come compenso, in tutto o
in parte, «una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa»).
Non è chiaro che cosa si intenda per «ragione litigiosa», ma è certa la volontà
del legislatore di colpire ogni ipotesi di pattuizione che renda partecipe l’avvocato delle sorti della lite, cioè condizioni il compenso al risultato.
È invece ammesso (art. 13.3) che il compenso possa essere pattuito ‘‘a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto
a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione’’.
La contrapposizione è formalmente ambigua perché, quando si tratti di somma di denaro, può essere difficile operare sulla distinzione tra quota e percentuale e, d’altro lato, ragione litigiosa e valore dell’affare presentano molti aspetti in
comune. Vale comunque la ratio che impone il divieto di un patto ragguagliato
al risultato, mentre è consentito un accordo iniziale con indicazione di una percentuale sul valore (ad esempio, il 3% sul valore del bene oggetto di compravendita, come era nelle vecchie tariffe), indipendentemente dal risultato.
In ogni caso, è sempre in vigore l’art. 1261 c.c. che vieta ai magistrati, funzionari delle cancellerie e segreterie giudiziarie, ufficiali giudiziari, avvocati, patrocinatori e notai, di rendersi cessionari dei dritti sui quali è sorta contestazione davanti all’autorità giudiziaria di cui fanno parte o nella cui giurisdizione
esercitano le loro funzioni, sotto pena di nullità e dei danni.
22. La solidarietà delle parti nel pagamento del compenso
Disponeva l’art. 68 della vecchia legge professionale che tutte le parti fossero
solidalmente obbligate al pagamento del compenso in favore degli avvocati,
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n. 1/2013
per tutte le prestazioni svolte nel precedente triennio, quando il giudizio fosse
stato definito con una transazione.
Ora l’art. 68 è caduto, ma ... la nuova legge ne ripercorre integralmente la
disposizione, risolvendo anche alcuni casi sorti in precedenza, in relazione al
significato da dare al presupposto della intervenuta transazione.
Dispone infatti ora l’art. 13.8 che, quando una controversia è definita con
«accordi presi in qualsiasi forma», tutte le parti sono solidalmente tenute al pagamento del compenso e delle spese a tutti gli avvocati costituiti che abbiano
prestato la loro attività negli ultimi tre anni, e risultino (ovviamente) ancora
creditori.
Tutti i patroni, dunque, possono pretendere il pagamento del compenso da
entrambi i contendenti (salva la espressa rinuncia al beneficio della solidarietà),
quando sia stato raggiunto comunque un accordo (cioè la lite sia stata abbandonata, in qualsiasi forma).
VI - SOCIETÀ E ASSOCIAZIONI
23. Le associazioni professionali e la società tra avvocati (la storia)
Naturalmente gli avvocati possono esercitare la loro attività anche in forma
associativa. Una breve sintesi storica è quindi utile per comprendere i problemi
che ruotano intorno alle associazioni e alle società professionali.
Infatti:
a) con la legge 23 novembre 1939, n. 1815, anche per ragioni storico-sociali
ben definite, è stata proibita la costituzione di societa` e si è permessa soltanto la
costituzione di associazioni tra professionisti, con la dizione di ‘‘studio legale’’ (o
tecnico, commerciale, contabile o altro) e l’indicazione del nome e cognome e
titolo professionale dei singoli associati. È stato dunque possibile costituire gli
studi associati, identificando tutti i soggetti e utilizzando la dizione indicata,
con il vantaggio di avere un centro di imputazione di rapporti giuridici per la
suddivisione dei costi e degli utili (Cass., sez. I, 23 maggio 1997, n. 4628);
b) questa legge è rimasta in vigore fino al 1997, quando è intervenuta la
legge 7 agosto 1997, n. 266, che ha reso possibile la costituzione di società
(per tutte le professioni), demandando a un regolamento di determinare le specifiche modalità per la costituzione e organizzazione di tali società. Di fatto,
questa legge non ha mai avuto attuazione, poiché il regolamento non è mai
stato approvato;
c) successivamente è intervenuta la legge 21 dicembre 1999, n. 526, che ha
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fissato alcuni principi generali, e poi il d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 96, che ha
dato attuazione a tali principi, consentendo per la prima volta, per i soli avvocati, di costituire una società tra professionisti (s.t.p.), secondo le specifiche disposizioni prescritte e rinviando per quanto non previsto alle norme sulla società in nome collettivo (art. 16, commi 1 e 2);
d) nel 2011 è intervenuta la legge di stabilita` (legge 12 novembre 2011, n.
183, art. 10, commi da 3 a 11, e successive modifiche), che ha permesso di
costituire società professionali, anche multidisciplinari, secondo tutti i modelli
societari vigenti, con soci anche non professionisti ‘‘per prestazioni tecniche o
per finalita` di investimento’’, fino a un terzo; inoltre la legge ha abrogato la legge 23 novembre 1939, n. 1815, sulle associazioni professionali (art. 10.11),
ma al contempo ha fatto ‘‘salvi i diversi modelli societari e associativi gia` vigenti’’
(art. 10.9);
e) ora è intervenuta la legge professionale forense con due precise disposizioni (art. 4 e art. 5): con la prima é confermata la possibilità per gli avvocati di
costituire associazioni professionali e associazioni multidisciplinari, con la seconda
é conferita delega al Governo di adottare entro 6 mesi un decreto legislativo
per disciplinare le societa` tra avvocati.
Si tratta dunque ora di attendere l’intervento legislativo per avere la disciplina compiuta anche per le società tra avvocati.
24. In particolare: a) l’associazione tra avvocati (a.t.a)
Come abbiamo detto la legge del 1939, nella parte in cui consentiva la costituzione delle associazioni professionali, è rimasta in vigore per oltre settant’anni, fino al 2011, a testimonianza del fatto che - pur con i limiti riconosciuti anche dalla giurisprudenza - il sistema associativo comunque rappresentava e rappresenta una utilità per gli avvocati.
Abrogata la legge del 1939, ma ‘‘fatti salvi i modelli associativi vigenti’’, la
legge professionale ha ora ricostituito le associazioni professionali tra avvocati
(a.t.a.), che devono ritenersi immediatamente in vigore, poiché il regolamento
a cui si fa cenno (art. 4.2) sembra riguardare soltanto l’individuazione delle categorie professionali i cui iscritti sono ammessi a costituire associazioni multidisciplinari con gli avvocati.
In sintesi, la legge ribadisce tutti i principi già sostanzialmente realizzati nella disciplina precedente, e in particolare dispone che:
– la partecipazione all’associazione non può pregiudicare l’autonomia, la libertà e l’indipendenza intellettuali e di giudizio dell’avvocato, anche perché
l’incarico è conferito in via personale (art. 4.1);
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– possono far parte delle associazioni solo gli iscritti all’albo (salva la costituzione di associazioni multidisciplinari con gli iscritti di altre categorie professionali);
– la sede dell’associazione è nel circondario ove è il centro principale degli
affari;
– gli associati hanno il domicilio professionale nella sede dell’associazione;
– le associazioni sono iscritte nell’elenco tenuto dal Consiglio dell’ordine
nel cui circondario hanno sede (art. 4.3);
– l’avvocato può essere associato a una sola associazione (art. 4.4);
– i redditi delle associazioni sono determinati secondo criteri di cassa (art. 4.7);
– l’avvocato è escluso se cancellato o sospeso dall’albo (art. 4.9);
– le associazioni non possono essere assoggettate alle procedure fallimentari
e concorsuali (art. 4.10).
Fin qui le disposizioni normative, che tendono a sciogliere alcuni punti di
discussione, ma non risolvono compiutamente il problema della rappresentanza delle associazioni, la loro capacità di stare in giudizio autonomamente e i
problemi conseguenti (ad esempio sul privilegio spettante in caso di procedure
concorsuali).
Insomma, l’associazione professionale rappresenta un momento importante
per la gestione dello studio, e come tale deve poter avere uno statuto proprio,
nel rispetto di tutti i principi e doveri professionali.
25. (Segue) b) la società tra avvocati (s.t.a.).
Come abbiamo detto è attualmente in vigore il d.lgs. 2 febbraio 2001, n.
96, che consente di costituire una societa` tra avvocati (s.t.p.) secondo le specifiche disposizioni indicate (artt. 16-33) e rinviando per quanto non previsto alle
norme sulla societa` in nome collettivo.
In sintesi, la società:
– è iscritta all’albo,
– riceve l’incarico professionale,
– percepisce il compenso,
– risponde con il suo patrimonio,
– risponde delle violazioni deontologiche.
Questa normativa non risulta formalmente abrogata, poiché da un lato l’art.
5 l.p.f. concede delega al Governo di disciplinare l’esercizio della professione di
avvocato in forma societaria nel termine di sei mesi, e d’altro lato lo stesso art.
5.2, lett. n, indica, tra i principi da richiamare, le disposizioni «compatibili»
del d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 96.
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Sono dunque ora previste le società tra avvocati (s.t.a.), che saranno regolate
dal decreto legislativo nel rispetto dei principi e criteri direttivi che ripercorrono per gran parte le norme vigenti, fermo il divieto di costituire società con la
presenza di soci di capitale.
VII - LA DEONTOLOGIA
26. La deontologia in generale
La nuova legge richiama la deontologia e le regole deontologiche in numerosi articoli. Tra gli altri:
– l’art. 2.4 precisa che ‘‘l’avvocato, nell’esercizio della sua attivita`, `
e soggetto
alla legge e alle regole deontologiche’’;
– l’art. 3 (con la rubrica ‘‘doveri e deontologia’’) fissa i principi da osservare
(autonomia, indipendenza, lealta`, probita`, dignita`, decoro, diligenza, competenza,
corretta e leale concorrenza) e stabilisce in particolare (art. 3.3 e 3.4) che l’avvocato deve rispettare ‘‘i principi contenuti nel codice deontologico’’, che viene pubblicato nella G.U.;
– l’art. 35.1, lett. d, stabilisce che il C.N.F. ‘‘emana e aggiorna periodicamente il codice deontologico’’;
– l’art. 65.5 dispone che il codice deontologico sia emanato entro un anno.
In sintesi, le norme deontologiche attualmente esistenti (il Codice deontologico del 1997, con le modifiche successivamente intervenute) rimangono in vigore e sono applicate fino alla emanazione del (nuovo) codice deontologico.
Il nuovo codice deve essere emanato ‘‘entro il termine massimo di un anno
dalla data di entrata in vigore della legge’’ (art. 65.5), e cioè entro il 2 febbraio
2014, e deve essere pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. Decorsi sessanta giorni
dalla pubblicazione esso entra in vigore (art. 3.4), e da tale data cessano di
avere efficacia le norme previgenti.
Per i procedimenti disciplinari in corso al momento della entrata in vigore
del nuovo codice deontologico, continuano ad applicarsi le norme esistenti al
momento della commissione del fatto, salvo che le nuove norme siano più favorevoli per l’incolpato (art. 65.5).
Fin qui le disposizioni anche transitorie, che prevedono un cammino molto
articolato, con l’intervento anche del Ministro della Giustizia. Forse sarebbe
stato sufficiente dire, per superare ogni problema di precarietà, che il codice
deontologico attualmente esistente nel testo del 1997, e con le modifiche successivamente apportate, é in vigore fino all’aggiornamento che verrà disposto
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dal Consiglio nazionale forense, lasciando solo a quest’ultimo ogni determinazione in ordine ai contenuti e alle modalità per realizzare il testo e farlo conoscere.
27. Il codice deontologico, in particolare
In verità, nel lungo avvicinamento alla codificazione, nella legislazione precedente si era dovuto rilevare che mancava una specifica attribuzione al Consiglio nazionale forense e quindi si poneva in discussione la potestà regolamentare dello stesso.
Infatti, nella legislazione passata, la legge professionale faceva riferimento alle
regole deontologiche soltanto in due articoli (l’art. 12 e l’art. 38 l.p.f. previgenti) e questo sembrava insufficiente, attribuendosi con essi al Consiglio nazionale forense la potesta` sanzionatoria ma non la potesta` regolamentare.
Vi è stata dunque la necessità di un attento approfondimento dottrinale per
riconoscere che nella potestà sanzionatoria del Consiglio nazionale forense era
ricompresa anche la potestà regolamentare: se infatti l’art. 38 l.p.f. previg. consentiva al C.N.F., in sede giurisdizionale, di sanzionare i comportamenti che
costituivano violazione delle norme deontologiche era evidente che lo stesso
art. 38 assegnava al C.N.F. il potere-dovere di identificare le regole, la cui violazione importava appunto la conseguenza della sanzione (in tal senso si vedano le argomentazioni più diffuse nel nostro testo, Corso di ordinamento forense
e deontologia, 2008, 8a ed., 261).
Di qui l’affermazione, già nella legislazione passata, che la potestà regolamentare era insita nella stessa legge, con il conseguente riconoscimento della
giuridicità delle norme deontologiche e l’affermazione della necessità della codificazione, per le tante ragioni prospettate.
Ora è intervenuta la nuova legge professionale che ha pianificato (per cosı̀
dire) tutto il sistema deontologico e ha cercato di ricostituirlo su base normativa, attribuendo specificatamente al Consiglio nazionale forense la potestà di
emanare e aggiornare periodicamente le norme deontologiche (art. 35.1, lett.
d), addirittura prevedendone la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (come
avviene per i notai), secondo le disposizioni stabilite con decreto del Ministro
della Giustizia (art. 3.4).
Si è finito quindi per dare una indicazione di massima, con la elencazione dei
doveri e il richiamo ai principi etici, alle norme di rilevanza disciplinare e alla tipizzazione (cosı̀ l’art. 3), creando peraltro (nuovi) problemi di adattamento.
Infatti, ad esempio, perché nel codice deontologico devono essere contenute e distinte ‘‘le norme che rispondono alla tutela di un interesse pubblico’’ da
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‘‘quelle che hanno rilevanza disciplinare’’? Perché le norme devono essere tipizzate ‘‘per quanto possibile’’? Perché deve intervenire il Ministro della giustizia per ‘‘rendere accessibili’’ a chiunque le disposizioni? Perché parificare formalmente ‘‘legge’’ e ‘‘deontologia’’ (artt. 51.1 e 53.1)? Perché distinguere ‘‘i
principi etici’’ dalle ‘‘regole deontologiche’’ (art. 41.1)? Perché inserire nella legge tante ipotesi di ‘‘illecito disciplinare’’? Perché disciplinare per legge la pubblicità?
Insomma intenti lodevoli ma eccesso di definizioni e di formalizzazione (come è sostanzialmente per tutta la legge), che inducono comunque in questo
momento a superare ogni rilievo critico per privilegiare la conoscenza delle
nuove disposizioni.
28. Le disposizioni specifiche
È dunque prescritto che l’avvocato debba uniformarsi ai principi contenuti
nel codice deontologico (art. 3.3), che sarà emanato entro un anno.
Quanto ai contenuti, in sintesi (art. 3), il codice deontologico stabilisce le
norme di comportamento che l’avvocato è tenuto a osservare in via generale e,
specificatamente, nei suoi rapporti con il cliente, con la controparte, con altri
avvocati e con altri professionisti. Si precisa anche che il codice deontologico
‘‘espressamente individua fra le norme in esso contenute quelle che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare’’, e tali norme ‘‘per quanto possibile, devono essere caratterizzate dall’osservanza del principio della tipizzazione della condotta e devono contenere
l’espressa indicazione della sanzione applicabile’’ (art. 3.3).
In termini più specifici, la legge richiama per l’esercizio della professione forense i principi di ‘‘indipendenza, lealta`, probita`, dignita`, decoro, diligenza e
competenza, tenendo conto del rilievo sociale della difesa e rispettando i principi
della corretta e leale concorrenza’’ (art. 3.2).
Non resta che attendere quindi la nuova codificazione, che tra l’altro dovrà
confrontarsi con l’idea (certamente importante, ma difficile da concretizzare)
che ogni previsione di condotta debba ‘‘contenere l’espressa indicazione della
sanzione applicabile’’ (secondo il principio nulla poena sine lege). È un tentativo
già realizzato (si veda il nostro Il Codice deontologico forense, Milano, 2006, 3a
ed., pag. IX, con l’indicazione delle sanzioni per ogni articolo), che tuttavia ha
rivelato la difficoltà di graduare ogni specifico comportamento, venendo in rilevo una pluralità di ipotesi (secondo le stesse previsioni dell’art. 2, comma 2,
dell’attuale cod. deontologico). È auspicabile che le difficoltà vengano superate
con tutta la precisione necessaria.
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29. In particolare, gli illeciti disciplinare disposti per legge
La legge dispone anche espressamente che la violazione di alcuni obblighi
costituisce illecito disciplinare, in relazione alla associazione tra avvocati (art.
4.4., 4.5, 4.6), al segreto professionale (art. 6.1, 6.2), al domicilio (art. 7.1,
7.3, 7.6), alla pubblicità (art. 10), alla assicurazione obbligatoria (art. 12.4) e
all’esame (art. 46.9, 46.10).
È evidente che ciascuna di queste prescrizioni dovrà essere presa in considerazione nel codice deontologico che sarà emanato, con tutte le necessarie armonizzazioni.
In particolare:
a) l’associazione tra avvocati. Prescrive l’art. 4.6 che la violazione degli obblighi indicati al punto 4.4 e 4.5 ‘‘costituisce illecito disciplinare’’ . Le norme menzionate richiamano l’avvocato all’obbligo di essere associato a una sola associazione e prescrivono che le associazioni multidisciplinari tra professionisti possano indicare l’esercizio dell’attività forense solo se tra gli associati vi sia un avvocato (laddove peraltro l’illecito disciplinare, ove manchi un avvocato, verrebbe a essere riferibile solo... agli altri professionisti);
b) il segreto professionale. La legge professionale impone specificatamente all’avvocato (art. 6.1) ‘‘la rigorosa osservanza del segreto’’ e ‘‘il massimo riserbo sui
fatti e sulle circostanze apprese nell’attivita`’’ (giudiziale e stragiudiziale). Ciò vale
anche nei confronti di tutti i collaboratori e dipendenti, nonché nei confronti
dei praticanti che svolgano il tirocinio presso lo stesso avvocato (art. 6.2). La
norma precisa poi che l’avvocato e i suoi collaboratori ‘‘non possono essere obbligati a deporre su cio` di cui siano venuti a conoscenza’’ (art. 6.3) e che la violazione di tali obblighi ‘‘costituisce illecito disciplinare’’ (art. 6.4). Insomma una
serie di prescrizioni (a parte la distinzione tra ‘‘segreto’’ e ‘‘riserbo’’), in parte ripetitive delle norme di legge esistenti, che necessariamente dovranno essere
contemperate con i comportamenti già tipizzati nelle attuali disposizioni del
codice deontologico;
c) il domicilio. Prescrive l’art. 7.6 che la violazione degli obblighi di cui ai
punti 1 e 3 ‘‘costituisce illecito disciplinare’’. Le disposizioni impongono all’avvocato di iscriversi nell’albo del circondario ove è il domicilio professionale
(che coincide con il luogo in cui è svolta la professione in modo prevalente), e
devono essere indicati i rapporti di parentela con i magistrati. Ogni variazione
deve essere comunicata al Consiglio dell’ordine (art. 7.1). Analoga comunicazione deve essere fatta quando l’avvocato pone un ufficio al di fuori del circondario del tribunale ove ha il domicilio (art. 7.3);
d) la pubblicita`. La legge consente pienamente all’avvocato ‘‘la pubblicita` in44
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formativa sulla propria attivita` professionale, sull’organizzazione e struttura dello
studio e sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifici e professionali posseduti’’
(art. 10.1), e dispone (art. 10.2) che la pubblicità e tutte le informazioni possono essere ‘‘diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, e debbono essere trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere comparative con altri
professionisti, equivoche, ingannevoli, denigratorie o suggestive’’; in ogni caso le informazioni offerte devono fare riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale (art. 10.3). L’inosservanza di tali regole ‘‘costituisce illecito disciplinare’’ (art. 10.4). Sono dunque superate tutte le minuziose elencazioni contenute nell’art. 17 e 17bis dell’attuale codice deontologico, dovendosi limitare la
regola all’idea semplificata - come abbiamo sempre sostenuto - che l’informazione deve rispettare la dignità e il decoro, e non deve assumere i connotati
della pubblicità ingannevole, elogiativa, comparativa, denigratoria o suggestiva;
e) l’assicurazione obbligatoria. L’art. 12 impone agli avvocati l’obbligo di stipulare un’assicurazione sulla responsabilità civile e per la copertura degli infortuni derivanti a sé e ai propri collaboratori; degli estremi delle polizze assicurative deve essere data comunicazione al Consiglio dell’ordine. La mancata osservanza di queste disposizioni ‘‘costituisce illecito disciplinare’’;
f) l’esame di abilitazione. Per la regolarità dell’esame di stato, che pure dovrà
essere disciplinato con regolamento, è previsto (art. 46.9) che i candidati non
possano portare con sé testi o scritti, pena l’esclusione immediata dall’esame.
Inoltre non possono essere utilizzati testi relativi al tema proposto fatti pervenire ‘‘in qualsiasi modo, a uno o più candidati, prima o durante la prova di esame’’. Per tali fatti i candidati sono deferiti al Consiglio distrettuale di disciplina
(art. 46.10).
30. Legge e deontologia
La creazione di nuove ipotesi di illecito disciplinare ad opera del legislatore è
molto frequente in questi ultimi tempi, e già lo abbiamo segnalato in un altro
scritto (Il codice deontologico: quindici anni tra etica e responsabilita`, in Prev. forense, 2012, 154 e 160).
È un bene o un male?
Anzitutto direi che è un male la posizione rovesciata, quando cioè sono le regole deontologiche a richiamare le norme di legge, come è ad esempio nell’art.
45 dell’attuale codice deontologico, che rimanda all’art. 1261 c.c. e all’art.
2233 c.c. (due rinvii in uno stesso articolo)! Non vi è infatti ragione nel nostro
sistema deontologico di richiamare espressamente le norme di legge.
Per quanto riguarda invece l’invasione di campo del legislatore, contrariamen45
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te alle opinioni evidenziate da altri, non riesco a esprimere una contrarietà,
perché da un lato le iniziative del legislatore stimolano la codificazione deontologica ad aggiornarsi, e d’altro lato lo stesso sistema si arricchisce con l’introduzione di nuove regole, senza che ciò debba porre problemi sul metodo di
produzione delle fonti e sulla loro efficacia. L’iniziativa legislativa, infatti, finisce per rafforzare il ruolo dell’Ordine, a cui spetta pur sempre la competenza e
l’autonomia per valutare e sanzionare le condotte qualificate come disciplinarmente rilevanti, e conferma indirettamente la giuridicità delle norme. Senza
contare poi che l’accertamento delle violazioni cosı̀ determinate consente di
dare maggiore certezza anche in ordine alle conseguenze che possono derivare
sul tema della responsabilità civile.
Non resta dunque che attendere la nuova codificazione, nella quale ovviamente entreranno non solo gli illeciti disciplinari enunciati ma anche le regole
che necessariamente dovranno essere aggiornate. Penso, ad esempio, alla pubblicità o alle vicende del patto di quota lite, vietato e poi permesso, e ancora
vietato!
Insomma, è questa la vitalità anche delle regole deontologiche.
VIII. - IL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE
31. La terzietà del giudice e la giurisdizione del C.N.F
Abbiamo detto della necessità di una riforma per assicurare la terzieta` del
giudice.
Un ulteriore problema si è posto, per il giudizio disciplinare di secondo grado (rectius, per la seconda fase giurisdizionale). Si è sempre sottolineata infatti
l’importanza della funzione giurisdizionale del Consiglio nazionale forense e si
è espresso il timore che una modifica nella sua composizione, o l’attribuzione
di funzioni diverse, potesse comunque determinare la perdita della giurisdizionalita`.
Il primo problema (la terzietà del giudice amministrativo di primo grado) e
il secondo problema (il mantenimento della funzione giurisdizionale) sono stati risolti in questa nuova legge professionale, con la creazione del Consiglio distrettuale di disciplina e con la riaffermazione dei poteri del Consiglio nazionale
forense.
A parte dunque la difficoltà formale di avere una disciplina unitaria, nella
concorrenza con le norme previgenti (ma è prevista la predisposizione di un
Testo Unico, art. 64 l.p.f.), e a parte ancora la critica per la mancanza dei re46
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golamenti attuativi, e salvo infine possibili eccezioni di incostituzionalità, non
resta che attendere la futura regolamentazione per delineare con più precisione
ed esattezza il procedimento disciplinare.
32. Il procedimento disciplinare
La nuova legge ha dunque istituito e regolamentato il Consiglio distrettuale
di disciplina (C.d.d.) e ha dettato le nuove disposizioni in materia di procedimento disciplinare (art. 50).
In sintesi il nuovo procedimento si articola in tre fasi:
– una fase preliminare (la notizia dell’illecito e l’istruttoria pre-procedimentale),
– la formulazione del capo di incolpazione e la citazione a giudizio,
– il dibattimento e la decisione.
La fase preliminare comprende la notizia dell’illecito e una istruttoria preprocedimentale, e inizia con la presentazione di un esposto-denuncia, o con la
acquisizione in qualsiasi modo di una notizia relativa a un illecito disciplinare.
Il Consiglio dell’ordine ne dà comunicazione all’iscritto invitandolo a presentare le sue deduzioni entro venti giorni e quindi trasmette gli atti al Consiglio
distrettuale di disciplina (art 50.3).
Ricevuti gli atti, il presidente del C.d.d. iscrive il procedimento (la notizia
degli atti ricevuti e il nome dell’iscritto a cui gli stessi si riferiscono) in un registro riservato (art. 58.1), salvo che l’esposto sia manifestamente infondato e
quindi il presidente ne richieda l’archiviazione.
Iscritto l’incolpato nel registro, il presidente del C.d.d. designa la commissione e nomina il consigliere istruttore che è il responsabile del procedimento, il
quale procede all’istruttoria comunicando all’incolpato l’avvio di tale fase e invitando lo stesso a fornire osservazioni scritte entro trenta giorni.
Il consigliere istruttore (che deve essere iscritto a un ordine circondariale diverso da quello dell’avvocato contro cui si procede) provvede a ogni accertamento istruttorio nel termine di sei mesi dalla iscrizione della notizia dell’illecito disciplinare (art. 58.2).
Conclusa questa fase istruttoria pre-procedimentale, il consigliere istruttore
propone al C.d.d. la richiesta motivata di archiviazione o di approvazione del
capo di incolpazione.
Il C.d.d. delibera senza la presenza del consigliere istruttore (art. 58.3).
L’eventuale deliberazione di archiviazione è comunicata all’iscritto, al Consiglio dell’ordine e al soggetto dal quale è pervenuta la notizia dell’illecito (art.
58.4).
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Dopo avere minuziosamente indicato i vari passaggi nella fase preliminare e
pre-procedimentale (lasciando il dubbio se la posizione di incolpato nasca con
l’inserimento del nominativo nel registro riservato ovvero solo dopo la formulazione del capo di incolpazione: si veda infatti l’art. 58.2 che già riporta la
qualifica di incolpato), la legge professionale fissa soltanto i princı`pi fondamentali del procedimento (art. 59), lasciando evidentemente al regolamento ogni
più analitica determinazione. Fino alla data della entrata in vigore del regolamento si applicano le disposizioni esistenti.
In sintesi, dunque, la legge prevede che sia approvato il capo di incolpazione
e ne sia data comunicazione all’incolpato e al pubblico ministero.
La formulazione del capo di incolpazione, con la relativa comunicazione, è
il momento più importante poiché essa rappresenta sostanzialmente l’apertura
del procedimento disciplinare.
Seguono poi il dibattimento e la decisione.
Per quanto non specificatamente previsto, si applicano le norme del codice
di procedura penale, se compatibili (art. 59.1, lett. n).
Dalla data dell’avvenuta notifica della decisione alle parti interessate decorre
il termine per l’impugnativa al Consiglio nazionale forense.
Il procedimento di secondo grado si svolge secondo la regolamentazione precedente, salvo il fatto che deve essere costituita una apposita sezione disciplinare del Consiglio nazionale forense.
33. Le sanzioni
La decisione può concludersi (art. 52):
– con il proscioglimento, con la formula ‘‘non esservi luogo a provvedimento disciplinare’’;
– con il richiamo verbale, non avente carattere di sanzione disciplinare, nel
caso di infrazioni lievi e scusabili;
– con l’irrogazione di una sanzione (avvertimento, censura, sospensione dall’esercizio della professione da due mesi a cinque anni, radiazione).
In pratica, le sanzioni sono tutte quelle già esistenti in passato, ma la sanzione della cancellazione disciplinare è stata eliminata e la sospensione è stata prevista per un più lungo termine (cinque anni invece che uno).
È sempre possibile applicare la sospensione cautelare, che peraltro non può
avere durata superiore a un anno.
Remo Danovi
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