Intervento dell`Avv. Giovanni Cipollone Consigliere decano del

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Intervento dell`Avv. Giovanni Cipollone Consigliere decano del
Intervento dell’Avv. Giovanni Cipollone
Consigliere decano del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma
in occasione della consegna della medaglia d’oro per i cinquanta anni di professione
(Roma, 17 dicembre 2011)
E’ questo un momento solenne, di grande gioia, ma anche di profonda tristezza.
Si guarda indietro ma non si osa guardare avanti, se non con molta circospezione.
Il palazzo di giustizia di Piazza Cavour per me ha un grande significato, come per un
sacerdote ha grande valore la sua chiesa.
Nei maestosi ambienti che incutevano ad ogni giovane praticante procuratore? Tanto timore
e religioso rispetto, ho percorso i miei primi passi della professione.
Ricordo il mio primo processo.
Infatti, come potrei dimenticare lo stato d’animo e l’inquietitudine dei momenti che
precedettero la mia prima arringa?
Essa ebbe, però, luogo negli angusti e bui locali della pretura di Via del Governo Vecchio.
Pensate siamo ai primi degli anni ’60.
Il mio cliente era un povero diavolo che viveva in una baracca, all’inizio della Via Appia,
imputato del reato di sottrazione di compendio pignorato. Aveva ceduto per poche lire e per
sfamarsi, un vecchio mobile tarlato, sottoposto a pignoramento.
Fu il primo contatto con un’amara realtà che, però, a me, dischiuse nuovi orizzonti.
Capii allora, immedesimandomi nella altrui sofferenza, quanto socialmente importante possa
essere la professione forense e quanto possa contribuire a far volare in alto la nostra anima.
E poi, mi vedo, ancora alle prime armi, negli stretti vicoli intorno alla Via del Governo
Vecchio, ancor prima che la Pretura venisse trasferita nella nuova sede di Via Giulia (…nuova si fa
per dire…)
Allora, in attesa che venisse celebrato il processo, cui eravamo interessati, noi giovani
procuratori legali avevamo l’abitudine di aggirarci tra i negozietti di antiquariato che allora
esistevano negli stretti vicoli della vecchia Roma, alla ricerca di qualche mobiletto che non costasse
troppo, per arredare il nostro modesto studiolo.
Alcuni di noi avevano posto sotto il portone una targa dorata spropositatamente grande per
pubblicizzare le proprie capacità professionali.
Devo, però, precisare che avevamo conservato il buonumore e ancora nei nostri rapporti
quotidiani imperava lo spirito goliardico, viva eredità dei recenti studi universitari.
E’ significativo un episodio che voglio raccontarvi.
Un giorno si presentò al mio studio un signore di mezza età. Ovviamente lo feci sedere
davanti alla mia scrivania e, alla mia consueta domanda circa le ragioni della sua visita, incominciò
a guardarsi intorno sospettoso e guardingo.
Poi, con voce flebile, rivolgendosi verso di me, esclamò “Avvocato, per favore, parli
sottovoce, poiché c’è mia moglie che riesce a captare le onde che fluttuano nell’aria e, in tal modo,
riesce a prevenire ogni nostra mossa!”.
Dopo qualche momento di esitazione, gli sussurrai anch’io, sottovoce: “ma scusi, lei non ha
bisogno di un avvocato qualsiasi, bensì di un avvocato radiotelegrafista!”.
E lui di rimando: “ma lei ne conosce qualcuno?”.
Ed io: “ma certo l’Avvocato Francesco Patanè” e gli scrissi subitaneamente l’indirizzo su un
foglietto.
Lo accompagnai alla porta e il signore, ossequioso e soddisfatto, se ne andò.
Non posso riferirvi, per decenza, gli improperi che una mezz’oretta dopo Franco Patanè mi
rivolse per telefono!
Al caro, indimenticabile Amico Franco Patanè che ci ha lasciato quasi due anni fa, rivolgo
ora, con grande rimpianto, il mio pensiero più affettuoso.
Ma vi è un altro episodio di diversa natura e valenza che affiora alla mente nei colloqui con
me stesso.
Fui nominato da un detenuto il quale, per una grave infermità, era stato portato d’urgenza
dal carcere di Regina Coeli all’Ospedale San Camillo.
Era coinvolto in una complessa vicenda di cambiali ed assegni con firme false e per truffa.
Era un uomo angosciato, senza affetti.
Da anni aveva lasciato la Sicilia, sua terra natìa, dove vivevano alcuni suoi lontani parenti.
La sua unica compagna era la solitudine. Non aveva mai avuto a che fare con la Giustizia.
Infatti era incensurato.
Andavo spesso a trovarlo in ospedale, anche per consolarlo. Sì, perché, spesso, è anche
questo il compito che svolge l’avvocato.
Ogni volta mi raccontava la sua amara vicenda, giurando e rigiurando di essere innocente.
Mi diceva: “veda, Avvocato, la mia disperazione è centuplicata dallo stato in cui mi trovo.
Mi sento prigioniero. Sulla soglia della mia stanza sosta sempre giorno e notte un poliziotto. La
gente passa davanti alla porta, dà una sbirciata e se ne va, additandomi come se fossi un essere
mostruoso. La prego, mi aiuti a farmi riacquistare la mia dignità e la mia libertà”.
Quasi ogni giorno mi recavo dal Giudice Istruttore Pasquale La Cava al quale erano state
affidate le indagini.
Ricordo con precisione la sua stanza posta al piano terra, quasi alla metà del lungo corridoio
sull’angolo di Via Ulpiano.
Il Giudice, molto umano e comprensivo, il quale ha poi raggiunto le alte vette della
Magistratura, divenendo Presidente di una Sezione Penale della Corte di Cassazione, mi diceva di
avere un po’ di pazienza, di tranquillizzare il cliente e che, appena fosse stato espletato
l’accertamento grafico, avrebbe preso una decisione in merito alla misura detentiva in corso.
Fu così che una mattina, passando dal suo ufficio, mi disse che era stato depositato tale atto
che escludeva la responsabilità del mio cliente. Egli non era l’autore della falsità delle firme e che,
quindi, sarebbe stata subito revocata la misura detentiva.
Lasciai velocemente il Palazzo di Giustizia, per dare la bella notizia al cliente.
Ricordo che raggiunsi Largo Argentina (allora non avevo ancora acquistato a rate la mia
prima macchina, una Fiat 500) e, quindi, presi il tram che, attraverso Viale Trastevere, porta al San
Camillo.
Ivi giunto, nei pressi della stanza dove egli era ricoverato fui sorpreso nel constatare che non
era presente il solito poliziotto, posto di guardia davanti alla sua stanza.
Entrai e un’infermiera mi disse che il paziente era spirato da pochi minuti.
Fu un momento di grande delusione. Capii allora quanto importante fosse stato l’anelito di
libertà in quell’uomo e quanto fossero vere le parole di un grande maestro, il Carnelutti per il quale
“l’infelicità dell’uomo è quello di essere finito e di avere bisogno dell’infinito!”.
Ho anche compreso quale valore sia da attribuire al senso dell’onore e alla dignità, virtù che
albergano nel profondo della natura di ogni Uomo.
Posso dire, dopo la lunga carriera forense, di avere avuto l’onore e il privilegio di conoscere
di persona magistrati e avvocati di altissimo livello e di grande prestigio.
Voglio ricordare, in particolare, tre altissimi Magistrati.
Il Presidente Giuseppe Guido Lo Schiavo, Uomo tra i più arguti e versatili che abbia mai
conosciuto. Era apprezzato scrittore. Aveva grandi interessi culturali e scientifici.
Nella sua casa in Prati, ospitava una vedova nera, un peloso e simpatico insetto che,
amorevolmente, custodiva in una tana di lusso. Mostrandomela, scherzosamente mi disse: “la
femmina è sempre più grande del maschio e ricordati che costituisce un pericolo mortale per
l’uomo!”.
Poi vi è il Presidente Antonio Brancaccio, uomo schivo e di grande spessore intellettuale. E’
stato anche Ministro dell’Interno nel Governo Dini. Era un grande giurista, vero pilastro delle
Sezioni Unite della Suprema Corte. Ci ha lasciato nel 1995.
Altra figura di grande rilievo era il Presidente Salvatore Giallombardo, che univa alla
profonda conoscenza del Diritto, ineguagliabili doti di umanità.
E’ lui, come è avvenuto per un mio cliente, ad avere preteso, prima di prendere una
decisione sulla concessione della libertà provvisoria, che il detenuto venisse portato dal carcere di
Regina Coeli al cospetto del Tribunale, al fine di sentirlo personalmente e valutarne la personalità.
E poi ci sono i grandi Avvocati che parimenti ho avuto il privilegio di conoscere e
frequentare.
Desidero ricordarne tre.
Il primo, Francesco Carnelutti, grande Maestro, scomparso nel 1965. Egli costituisce un
esempio, forse unico, per gli approfondimenti in più campi della scienza giuridica.
Come avvocato per la profondità del pensiero, incantava l’uditorio.
Una volta affermò: “se ritorno con il pensiero al tempo degli studi nell’università, dovrei
dire che il mio sogno era quello di diventare professore; se, invece, osservo la mia vita non dal
punto di partenza ma dal punto di arrivo, mi accorgo che l’avvocatura, più che la cattedra, era la
mia vocazione”.
E poi Alfredo De Marsico. Lo rivedo sul treno, in un vagone di terza classe, scartabellare gli
atti di un processo, avendo come destinazione la Corte di Assise di una lontana città del Sud. Lì un
imputato detenuto aveva chiesto il suo aiuto.
Dopo una vittoria forense, faticosamente conquistata, gli bastava un sorriso, un gesto di
gratitudine per gratificarlo come onorario.
Come poter dimenticare poi l’estrosità dell’immaginifico Bruno Cassinelli, con i suoi
impetuosi e appassionati interventi?
Vi dirò un segreto: molti di noi hanno l’abitudine, al fine di ricordare gli argomenti da
trattare durante l’arringa, di scrivere su alcuni fogli la cosiddetta ‘scaletta’ con le parole chiave per
ricordare gli argomenti.
Bruno Cassinelli usava la ‘scaletta circolare’. Infatti gli argomenti erano trascritti su foglio
formando una spirale e nello svolgerli il cerchio si restringeva sempre più per arrivare alla fine.
Il finale della sua arringa era sempre travolgente e incisivo.
Ora, ai giovani colleghi che mostrano segni di timore e demoralizzazione, a causa delle
difficoltà che incontrano in questo confuso periodo storico, voglio ricordare che tra le doti
dell’Avvocato, le principali sono lo spirito di sacrificio e la perseveranza.
A chi dubita sulle effettive funzioni della nostra nobile professione, a chi ritiene di poter
assimilare la professione forense a quella imprenditoriale, rispondiamo con vigore che gli avvocati
non sono dei mercanti, con e senza scrupoli.
Gli avvocati non sono adusi a calcolare i saldi per le loro prestazioni professionali. Non è nel
loro abito mentale la finalità del conseguimento del profitto.
Non bisogna dimenticare che le funzioni dell’avvocato sono di grande rilievo sociale, a
tutela dei diritti del cittadino, nel rispetto delle regole di giustizia.
Molti sono tra noi i disinteressati seguaci del Maestro De Marsico.
Ai nostri giovani colleghi vorrei, inoltre, dare un consiglio.
Mi sono reso conto, presenziando alle udienze penali, che nel corso della causa, alcuni di
essi, durante la escussione dei testimoni, si attardano nel formulare domande, che spesso si rivelano
controproducenti.
Ricordo loro il detto di Cicerone: “stai attento alle domande che fai, per le risposte che
potrai avere”.
Che dirvi nel ringraziarvi e congedarmi da voi.
Forse posso recitare una mia vecchia poesia dal titolo ‘Il tempo dell’addio’. Eccola qui:
Grida festose di bimbi
inseguono la mia esistenza.
Il sole è tramontato
tra bagliori accecanti.
Trilli d’uccelli solitari
annunziano la notte.
Nel cielo spunta una stella
sarà forse l’ultima stella.
Giovanni Cipollone