Il dibattito sul riconoscimento del diritto di voto agli stranieri residenti

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Il dibattito sul riconoscimento del diritto di voto agli stranieri residenti
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Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti - N.00 del 02.07.2010
Il dibattito sul riconoscimento del diritto di voto agli stranieri residenti
Davide Sardo
Dottore in Giurisprudenza
1. Premessa. 2. La condizione giuridica dello straniero e i diritti politici: l’ammissibilità
dell’estensione dell’elettorato ai non-cittadini da parte del legislatore ordinario. 3. Le
iniziative promosse in sede parlamentare. 4. Le iniziative promosse dalle Regioni e
dagli Enti locali e la controversa determinazione di un criterio di riparto delle
competenze. 5. Considerazioni conclusive.
1. Premessa.
Il tema dell’estensione della titolarità dei diritti politici oltre l’ambito soggettivo
dei cittadini non è, di per sé, nuovo. Basti pensare, solo per fare alcuni esempi, che in
Irlanda gli stranieri residenti possono votare alle elezioni comunali fin dal 1963, e in
Svezia dal 1975, che i cittadini delle ex colonie inglesi e portoghesi residenti nella ex
madre patria possono votare anche per l’elezione delle assemblee rappresentative
nazionali rispettivamente dal 1946 e dal 1971, o che persino in Belgio, il Paese più lento
a modificare la sua Costituzione per estendere l’elettorato ai cittadini comunitari, le
prime proposte di estensione del suffragio risalgono al 1971. Tuttavia, la questione del
riconoscimento del diritto di voto agli stranieri residenti, per come si pone nel dibattito
attuale, si mostra strettamente connessa alle dinamiche che, a partire dagli anni Ottanta,
hanno investito in primo luogo le società occidentali, e che sono generalmente indicate
con il termine globalizzazione.
L’internazionalizzazione delle dinamiche della produzione, l’accresciuta
interdipendenza tra i sistemi economici dei diversi Paesi, e l’accresciuta mobilità degli
individui su scala planetaria, hanno prodotto, soprattutto nei Paesi della Vecchia
Europa, significativi mutamenti demografici, con l’ingresso stabile di un considerevole
numero di non-cittadini entro i confini nazionali. Il tessuto sociale si è, così, arricchito
di uno strato significativo di popolazione stabilmente inserita nel processo di
produzione della ricchezza, ma tendenzialmente esclusa dai processi decisionali relativi,
in primo luogo, alle scelte in tema di redistribuzione del reddito.
La rigidità del tradizionale nesso tra identità, cittadinanza ed esercizio dei diritti
politici ha contribuito, quindi, a creare un cortocircuito nel sistema della rappresentanza
democratica, già di per sé sottoposto ad un notevole stress nell’ambito di “una crisi
oramai di lungo periodo dei grandi sistemi di regolazione sociale […] che si riverbera
anche sui meccanismi della rappresentanza” (Bascherini). L’identificazione del corpo
elettorale come “qualificazione giuridica del popolo”, ovvero dell’insieme degli
individui uniti da un vincolo nazionale identitario e da quello della cittadinanza, non
poneva problemi finché non era numericamente e socialmente rilevante quella parte
della popolazione, cioè dell’insieme di individui che fanno parte in un determinato
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momento di un ordinamento giuridico territoriale, che nel popolo non era inclusa. La
stabilizzazione della presenza sul territorio e della partecipazione ai processi produttivi
di un numero significativo di non-cittadini, legati alla collettività nazionale da vincoli
non occasionali, ha messo in crisi da un lato il concetto stesso di vincolo nazionale
identitario, dall’altro la rigida separazione tra popolo e popolazione (Caravita di
Toritto). L’ingresso stabile tra la popolazione attiva di una categoria di individui
numericamente e socialmente significativa, che viene lasciata ai margini dei processi
politici di composizione dei conflitti sociali, comporta, perciò, una sfasatura tra società
civile e circuito politico-decisionale, e cioè una sovra-rappresentazione degli
appartenenti al popolo, nella sua nozione tradizionale, e ad una contestuale sottorappresentazione degli individui forzatamente costretti in quella categoria della
popolazione che, intesa anch’essa nella sua accezione restrittiva, decisamente mal si
presta a comprenderli.
Gli esiti di questa sotto-rappresentazione sono sottoposti da oltre un ventennio
ad un dibattito critico che coinvolge non solo (e, per la verità, non tanto) i diretti
interessati, quanto quella parte della società civile e della politica che riconosce il
rischio che deriva dal lasciare le istanze di una parte ormai così significativa della
popolazione al di fuori del circuito di legittimazione-inclusione costituito dai diritti
sociali e politici, e mira alla riconduzione nelle dinamiche democratiche dei conflitti
sociali latenti intorno alla linea di frattura cittadini per nascita-stranieri. Sembra che
torni a manifestarsi quella dialettica tra inclusi ed esclusi che, in forme sempre inedite,
interseca problematicamente la storia del costituzionalismo moderno, e periodicamente
costringe le società occidentali a ripensare la forma e i confini del principio
democratico. Certo, le moderne democrazie pluraliste sembrano avere degli strumenti
più efficaci rispetto a quelli tradizionali dello Stato liberale ottocentesco per rispondere
a questa domanda di inclusione, a patto che non prevalgano tendenze regressive, o
pericolose velleità come quella di ricompattare una società segnata da una miriade di
linee di frattura enfatizzando un nuovo fronte sul quale schierarsi a protezione di
privilegi messi in discussione dall’offensiva di un nemico. Tra questi strumenti c’è
senza dubbio il potenziale inclusivo dei diritti sociali e il valore dei diritti politici come
“pietre angolari” dell’ordinamento democratico (secondo la formula utilizzata dalla
Corte Costituzionale italiana nella sent. 19/1962), “fattori costitutivi di un processo
politico ispirato ai principi della democrazia liberale” (Ridola), e c’è anche una
ricostruzione dei diritti della persona che difficilmente è compatibile con la riduzione
dei diritti politici a mere funzioni conferite al corpo elettorale, in quanto organo dello
Stato.
Si tratta di un dibattito che ha investito profondamente anche la dottrina
giuridica, chiamata a rivedere alcuni schemi tradizionali e ad indagare gli spazi concreti
di azione che nei vari sistemi giuridici restano aperti proprio al fine di una
riconsiderazione dei confini della comunità politica.
È bene precisare fin da subito che l’inclusione nel circuito democraticopartecipativo delle categorie sociali che ne sono oggi lasciate ai margini, è stata
perseguita seguendo essenzialmente due strade: la semplificazione degli strumenti di
acquisto della cittadinanza e l’estensione dei diritti politici agli stranieri residenti.
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Queste due strade non sono, tra loro, necessariamente alternative, in quanto suscettibili
potenzialmente di costruire congiuntamente una graduazione tra diversi livelli di
partecipazione alla vita della comunità, e di adattarsi in maniera più flessibile ad una
realtà mobile e frastagliata. Questa breve trattazione sarà dedicata unicamente
all’estensione dei diritti politici ai non-cittadini.
I risultati conseguiti lungo questo percorso, sia dalla scienza giuridica, sia al
livello del diritto positivo, sono certamente significativi, ma ancora parziali. In primo
luogo, il concetto di cittadinanza è stato progressivamente svincolato dal rigido
ancoraggio ad una nozione etnica di identità, ed è stata sostanzialmente abbandonata la
pretesa di un rapporto biunivoco tra lo status di cittadino e i diritti ad esso collegati. In
secondo luogo, si è avuto modo di assistere ad un’estensione dei diritti politici in ambito
comunitario, sia con il riconoscimento del diritto di voto nelle elezioni locali ai cittadini
comunitari stranieri residenti in uno Stato membro, sia con la pur timida evoluzione, in
diversi Paesi europei, della legislazione in tema di acquisto della cittadinanza e di
estensione agli stranieri anche extra-comunitari del diritto di voto nelle elezioni locali.
In Italia, il dibattito è aperto da oltre un decennio, ma sul piano del diritto positivo non
ha, finora, prodotto altro che una serie di tentativi falliti, sia al livello legislativo
nazionale, sia al livello delle autonomie locali.
Nelle pagine seguenti ripercorreremo, in primo luogo, il dibattito circa
l’inquadramento costituzionale dell’estensione dei diritti politici dello straniero. In
seguito, ci occuperemo delle iniziative legislative che nell’ultimo quindicennio sono
state dedicate alla questione, e delle iniziative in ambito locale che hanno cercato di
offrire una risposta in assenza di un intervento legislativo.
2. La condizione giuridica dello straniero e i diritti politici: l’ammissibilità
dell’estensione dell’elettorato ai non-cittadini da parte del legislatore ordinario.
La questione dell’estensione dei diritti politici, e in particolare dell’elettorato
attivo, a soggetti privi della cittadinanza italiana, si presenta, innanzitutto, connessa con
la tematica della titolarità dei diritti fondamentali in capo allo straniero.
Preliminarmente occorre osservare come la ricostruzione, a partire dal testo
costituzionale, di una nozione unitaria di straniero, alla quale sia riferibile un complesso
sufficientemente determinato di diritti e doveri, risulti particolarmente difficoltosa
(Grosso, Nascimbene). La nozione di straniero sembra ricostruibile piuttosto sotto il
profilo negativo della non-cittadinanza, e finisce per racchiudere, in realtà, figure
soggettive e differenziate, alle quali sono riferibili diversi livelli di protezione dei diritti,
ma accomunate, appunto dall’assenza del requisito della cittadinanza. Soprattutto, però,
è difficile stabilire univocamente il contenuto proprio della nozione di cittadinanza, ed
in particolare ricostruire con precisione quali siano i diritti che sono riconosciuti in
relazione a tale status, e quali siano, invece, se ve ne sono, i diritti attribuiti
indistintamente ad ogni individuo. Questione alla quale è strettamente collegata quella
dei vincoli che incontrerebbe l’attività del legislatore riguardo all’estensione agli
stranieri di quei diritti che la Costituzione riconosce soltanto ai cittadini.
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Sono due, essenzialmente, le vie che sono state seguite per tentare di offrire una
risposta sistematica e coerente al quesito. Da un lato, c’è chi ha ritenuto (Pace) che il
fatto che la prima parte della Costituzione sia dedicata ai “diritti e doveri dei cittadini”
comporti la non riferibilità di tali norme agli stranieri, il cui status giuridico sarebbe
interamente rimesso al legislatore (nei limiti del rispetto delle norme e dei trattati
internazionali) sulla base del disposto del secondo comma dell’articolo 10. Seguendo
questa impostazione, il non-cittadino si troverebbe in una posizione di totale soggezione
nei confronti del legislatore, non potendo invocare nei suoi confronti norme di rango
costituzionale a protezione di propri diritti (a parte i limiti contenuti nell’articolo 10),
ma, d’altra parte, il legislatore stesso sarebbe libero di giungere fino ad equiparare, in
qualsiasi ambito, la condizione giuridica dello straniero a quella del cittadino. Da un
altro lato, la gran parte della dottrina ritiene che non tutti i diritti riconosciuti dalla prima
parte della Costituzione siano necessariamente riservati ai soli cittadini. La questione
diventa, però, quella di stabilire un criterio per individuare quali siano quei diritti che
spetterebbero anche agli stranieri. In proposito, vi è chi ritiene che sia il dato testuale del
riferimento espresso al “cittadino” contenuto nelle singole norme ad essere decisivo per
risolvere la questione dell’estensione soggettiva del diritto (Barbera, Barile, D’Orazio),
e chi fonda la distinzione su elementi di tipo sostanziale, e quindi sulla natura della
posizione giuridica tutelata (Mortati, Martines). Il vantaggio di questa seconda
impostazione è certamente la maggiore duttilità, che consentirebbe all’interprete di
evitare alcune conclusioni per certi versi paradossali cui porterebbe una valutazione
limitata al dato formale, lo svantaggio è che non viene fornito “un criterio univoco per
selezionare quali situazioni, tra quelle riconosciute al cittadino, debbano, ovvero
possano, ovvero non possano essere estese ai non-cittadini” (Grosso).
Un criterio univoco manca, soprattutto, per individuare i limiti che sarebbero
imposti al legislatore che volesse estendere ai non-cittadini quei diritti che la
Costituzione garantisce ai soli cittadini, tra i quali sono pressoché unanimemente inclusi
i diritti politici. Infatti, la dottrina che non ritiene decisiva l’intitolazione della prima
parte della Costituzione riguardo all’attribuzione dei diritti in essa contenuti, oltre alla
difficoltà sopra accennata di riempire concretamente il catalogo dei diritti che sarebbero
riferibili anche ai non-cittadini, incontra anche quella di definire la posizione dello
straniero rispetto a quelli che dal testo costituzionale non gli sarebbero riconosciuti. Si
giunge, così, semplificando rispetto ad ulteriori possibili graduazioni, a una tripartizione
tra diritti che sono attribuiti al non-cittadino, diritti che possono essere estesi dal
legislatore al non-cittadino, e diritti che non possono essere estesi dal legislatore al noncittadino. E quindi, come si accennava, ad un aumento delle difficoltà e delle divergenze
nel ricondurre ciascun diritto ad una delle tre categorie.
La stessa giurisprudenza costituzionale non sembra in grado di offrire un aiuto
decisivo, ai fini di questa operazione, anche se i principi contenuti in alcune sentenze
forniscono importanti criteri di orientamento nella definizione di una soluzione
complessiva alla questione. Se, quindi, da un lato, “il caso in cui la Corte riconosca a
chiare lettere che un certo diritto fondamentale spetta anche agli stranieri è piuttosto
raro”, d’altra parte “il solo dato certo […] è che il giudice costituzionale ritiene
irrilevante il dato testuale” (Luciani). Sembra, quindi, che la Corte non accolga né
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l’interpretazione secondo la quale i diritti contenuti nella prima parte della Costituzione
siano da attribuire solo ai cittadini, né quella secondo cui il dato letterale del riferimento
al cittadino in ciascuna norma costituzionale sarebbe decisivo per escludere lo straniero
dalla titolarità del diritto con essa riconosciuto. Il ragionamento della Corte, in una
giurisprudenza inaugurata alla fine degli anni ’60 e sostanzialmente mai smentita, si
fonda sull’applicabilità degli articoli 2 e 3 della Costituzione indipendentemente dal
requisito della cittadinanza. Afferma la Corte, infatti, nella sentenza n. 120 del 1967,
che “l’art. 2 […] riconosce a tutti, cittadini e stranieri, i diritti in violabili dell’uomo”, e
che, “se è vero che l’art. 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini, è anche certo che il
principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando si tratti di rispettare quei
diritti fondamentali”. Non tutti i diritti riconosciuti dalla Costituzione sono, tuttavia, da
ritenere indistintamente attribuiti a cittadini e stranieri: i diritti inviolabili della persona
ai quali si riferisce la sentenza 120 del 1967 costituiscono, infatti, secondo la Corte
(sent. 104/1969), “un minus rispetto ai diritti di libertà riconosciuti al cittadino”. Ciò
non esclude, tuttavia, neppure che il legislatore possa operare delle distinzioni tra
cittadino e straniero anche per ciò che riguarda l’esercizio di diritti che sono da ritenere
“inviolabili”: infatti, “la riconosciuta uguaglianza di situazioni soggettive nel campo
della titolarità di diritti di libertà non esclude affatto che, nelle situazioni concrete, non
possano presentarsi, fra soggetti uguali, differenze di fatto che il legislatore può
apprezzare e regolare nella sua discrezionalità, la quale non trova altro limite se non la
razionalità del suo apprezzamento”, in particolare in considerazione della “basilare
differenza esistente tra il cittadino e lo straniero, consistente nella circostanze che
mentre il primo ha con lo Stato un rapporto di solito originario e comunque permanente,
il secondo ne ha uno acquisito e generalmente temporaneo” (sent. 104/1969).
Anche alla luce dei principi enucleati dalla giurisprudenza costituzionale, resta
difficile stabilire univocamente quali siano i limiti che il legislatore incontra nello
stabilire la disciplina relativa all’esercizio, da parte di un non-cittadino, di un
determinato diritto costituzionale. Se, da un lato, permangono delle difficoltà nel
definire concretamente i confini della nozione di “diritto inviolabile”, da un altro lato la
dottrina non è concorde circa l’estensione della discrezionalità del legislatore
nell’intervenire sui diritti che sono al di fuori di tale nozione. Ad esempio, secondo
l’opinione di Enrico Grosso, “nei confronti dei non-cittadini, o di alcune categorie di
essi, sarà eventualmente possibile (se ammessa dalle norme e dai trattati internazionali)
una ragionevole differenziazione, ma non potrà in alcun caso essere dedotto un
implicito divieto costituzionale”, mentre non mancano autori che ritengono che
l’estensione agli stranieri di taluni diritti sia da considerarsi costituzionalmente
illegittima.
In questo senso non vi è categoria più discussa di quella dei diritti politici e di
partecipazione, e in particolare del diritto all’elettorato attivo e passivo, al quale, per
brevità, limiteremo l’analisi. Passando in rassegna le opinioni dei diversi autori in
proposito, l’intero ventaglio delle opzioni possibili sembra coperto: da chi ritiene che
tali diritti non siano estendibili agli stranieri neppure con una legge di revisione
costituzionale (Mortati, Biscaretti di Ruffìa, Mazziotti di Celso), a chi ritiene
ammissibile una lettura delle norme costituzionali vigenti tale da permettere di
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riconoscerli fin da ora in capo agli stranieri, rendendosi necessaria soltanto una legge di
attuazione (Piraino, Algostino). Ad essere prevalenti, tuttavia, sono le tesi intermedie,
ed il dibattito si svolge oggi essenzialmente tra i sostenitori della necessità di una
riforma degli articoli 48 e 51 della Costituzione al fine di un’estensione agli stranieri del
diritto all’elettorato attivo e passivo, e chi ritiene che sia sufficiente l’intervento del
legislatore ordinario.
I sostenitori della tesi “restrittiva” (Esposito, D’Orazio, Lanchester), fanno
notare che nulla, nel testo della Costituzione, lascia ritenere che la garanzia del diritto di
voto sia estesa oltre l’ambito dei titolari della cittadinanza, né l’Italia è, a tutt’oggi,
vincolata ad alcuna norma internazionale consuetudinaria o pattizia che le imponga
l’estensione di tale garanzia. Soprattutto, però, al riferimento ai cittadini nelle norme
relative ai diritti politici, è attribuito “un significato positivo oltre che negativo”: tali
norme, insomma, “non solo attribuiscono positivamente tali diritti ai cittadini, ma anche
escludono che le leggi ordinarie possano attribuirle agli stranieri” (Esposito). Ciò in
quanto “è lo stesso principio democratico ad esigere che la legittimazione dei pubblici
poteri all’interno di una determinata comunità politica sia attuata tramite libere scelte di
chi vi appartiene” (Giupponi); e l’esclusione del non-cittadino da tali scelte non è altro
che “un limite connaturale e consustanziale della condizione giuridica dello straniero”
(D’Orazio).
I sostenitori dell’opposta tesi “permissiva” (Grosso, Luciani), si soffermano
sull’assenza, nel testo costituzionale, di un divieto di estensione del diritto di voto agli
stranieri. La stessa sentenza n. 11 del 1968, con la quale la Corte Costituzionale ha
precisato che i diritti garantiti dalla Costituzione anche agli stranieri sono “tutti quei
fondamentali diritti democratici che non sono strettamente inerenti allo status civitatis”
(si veda, in proposito, anche la sentenza n. 87/1975), contiene certamente il principio
per cui il legislatore ordinario non può negare ai cittadini la titolarità del diritto di voto o
negarne loro l’esercizio, a differenza di quanto gli è consentito fare nei confronti dei
non-cittadini, ma non contiene alcuna preclusione riguardo un intervento legislativo che
riconosca tale diritto anche agli stranieri. Insomma, per utilizzare le parole di Massimo
Luciani, condivise ormai da larga parte della dottrina, l’“esclusione degli stranieri dal
godimento di tutti quei diritti che sono intimamente connessi allo status activae civitatis,
[…] si riferisce […] solo al godimento dei diritti politici come diritti fondamentali
(inviolabili). Nulla esclude, invece, che quei diritti possano essere goduti (ma appunto
in quanto diritti «legislativi» o tutt’al più «costituzionali», non mai anche
«fondamentali») se il legislatore decide di ampliare l’ambito della tutela”.
La tesi “restrittiva”, insomma, difficilmente può essere fondata su un elemento
formale che sembra, anzi, “permissivo”, e si scopre basata essenzialmente sulla
considerazione di carattere sostanziale del “limite connaturale” che osta alla
concessione del diritto di voto a chi non è legato alla comunità statale dal vincolo della
cittadinanza. Anche tale considerazione, tuttavia, si presta ad essere criticata. In primo
luogo, è il caso di ricordare che “nella statualistica liberale sarà la teoria dei diritti
pubblici soggettivi a legittimare le limitazioni della comunità politica a partire da una
lettura della partecipazione in termini di funzione più che di diritto dell’individuo”,
mentre “il passaggio prodottosi nel corso del XX secolo ad ordinamenti democratico-
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pluralistici ha restituito vigore alla lettura democratica della partecipazione come diritto
del singolo” (Bascherini). Il mutamento della posizione non solo dell’individuo, ma
della stessa società civile nei confronti del potere statuale con il passaggio alle
costituzioni del pluralismo, ha condotto cioè alla valorizzazione dell’elemento
dell’autodeterminazione personale nell’esercizio dei diritti politici, a sfavore di una
visione che li limitava al “diritto ad una pubblica funzione” (Bascherini), ed ha condotto
alla valorizzazione delle “libertà democratiche pubbliche” come “espressioni
irrinunciabili della dignità dell’uomo” (Häberle). In secondo luogo, non sembra che
l’esclusione dei non cittadini dalla titolarità del diritto di voto possa essere fondata su
una presunta corrispondenza biunivoca tra titolarità dello status di cittadino e
riconoscimento dei diritti che ne formano il contenuto. Se, infatti, il requisito della
cittadinanza è in grado, da solo di assicurare ad un individuo la titolarità giuridica di
determinati diritti, ciò non significa più, ormai, che tali diritti non possano sussistere
anche in capo a non-cittadini, ai quali possono essere riconosciute “diverse dimensioni
della cittadinanza, a seconda dei diritti di volta in volta esercitati” (Grosso), e del tipo di
relazione che si stabilisce tra il soggetto e la comunità a cui appartiene (Caravita di
Toritto), in un processo di “disaggregazione della cittadinanza” (Benhabib). Il nesso
identità-cittadinanza-partecipazione, così, sembra non essere più sufficiente, da solo, a
fondare l’esclusione necessaria dei non-cittadini dalla titolarità dei diritti politici.
L’identità, che fa da collante alle situazioni soggettive comprese nello status di
cittadino, perde il suo connotato etnico e originario, il suo carattere di appartenenza
necessaria ad una collettività, e diventa un carattere acquisibile e modificabile, la cifra
di una scelta personale di appartenenza ad una comunità. Contestualmente, ai fini del
riconoscimento dei diritti politici, che al cittadino sono attribuiti per nascita, acquisisce
rilevanza una nozione di collettività politica fondata sulla partecipazione alla vita della
comunità, e il dato della residenza si presenta di per sé come idoneo a legittimare
quantomeno una partecipazione politica “graduata” rispetto all’anzianità della presenza
sul territorio. Uno spiraglio in questo senso sembra aprirsi anche nella giurisprudenza
costituzionale: nella sentenza n. 172/1999, infatti, la Corte Costituzionale ha
riconosciuto l’esistenza di una “comunità di diritti e di doveri, più ampia e comprensiva
di quella fondata sul criterio della cittadinanza in senso stretto”, la quale “accoglie tutti
coloro che, quasi come in una seconda cittadinanza, ricevono diritti e restituiscono
doveri, secondo quanto risulta dall’art. 2 della Costituzione”.
3. Le iniziative promosse in sede parlamentare.
La questione dell’idoneità dell’intervento del legislatore ordinario al fine di
estendere il diritto di voto agli stranieri si intreccia con le sorti dei tentativi che sono
stati esperiti, nell’ultimo quindicennio, per costruire percorsi di inclusione degli
stranieri attraverso il riconoscimento dei diritti di partecipazione alla vita politica.
Significativa è la vicenda della prima concreta e coerente proposta avanzata in
questo senso, contenuta nel disegno di legge governativo (AC 3240) destinato a
diventare la legge 40 del 1998 (la cosiddetta legge Turco-Napolitano). L’articolo 38 del
ddl governativo disponeva, infatti, che “allo straniero titolare della carta di soggiorno,
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per il quale ricorrono i requisiti e le condizioni stabiliti dalla legge per il cittadino, è
riconosciuto l’elettorato attivo e passivo nel comune di residenza secondo quanto
stabilito […] per i cittadini europei”. Tale disposizione 38 fu, però, stralciata prima che
la legge giungesse all’approvazione, in quanto il governo preferì inserire la previsione
dell’estensione allo straniero del diritto di voto nelle elezioni locali in un apposito
disegno di legge costituzionale (AC 4167), che tuttavia non fu neppure discusso in
commissione. Lo stralcio dell’articolo 38 del ddl governativo ha, tuttavia, lasciato una
traccia nel testo definitivo della legge 40 del 1998, la quale all’articolo 7 comma 4
lettera d prevedeva che lo straniero titolare di carta di soggiorno può “partecipare alla
vita locale, esercitando l’elettorato quando previsto dall’ordinamento e in armonia con
le previsioni del capitolo C della Convenzione per la partecipazione degli stranieri alla
vita pubblica a livello locale, fatta a Strasburgo il 5 febbraio 1992”, disposizione
trasfusa senza modifiche nell’articolo 9 comma 4 lettera d del d.lgs. n. 286 del 1998
(“testo unico delle norme concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme
concernenti la condizione dello straniero”). A tale norma, tuttora in vigore, non è stata
tuttavia riconosciuta una portata precettiva tale da garantire una copertura a tutte le
iniziative che, negli anni successivi (lo vedremo nel proseguimento del lavoro), regioni
ed enti locali hanno intrapreso per supplire all’inerzia del legislatore riguardo agli
strumenti di partecipazione degli stranieri.
Dopo la legge “Turco-Napolitano” e il testo unico sull’immigrazione, infatti, la
quasi totalità delle misure in materia di immigrazione che sono riuscite a completare
l’iter parlamentare ed a giungere alla definitiva approvazione sono consistite in
interventi concepiti in una logica essenzialmente emergenziale, volti a tentare di
sfavorire il fenomeno dell’immigrazione piuttosto che a tentare di comprenderlo entro le
dinamiche di una moderna democrazia pluralista. Il dibattito circa il conferimento del
diritto di voto agli immigrati è continuato, come, parallelamente, quello sulla revisione
delle modalità di acquisto della cittadinanza, ma senza mai avvicinarsi concretamente ad
una svolta decisiva. In due momenti, negli ultimi dieci anni, questo dibattito è riuscito,
quantomeno, ad emergere: quando, nell’ottobre del 2003, è stato depositato il ddl
costituzionale Anedda (AC 4397), e quando, nel luglio del 2007, è stato depositato il ddl
Amato-Ferrero (AC 2976). Nel primo caso, si trattava della proposta, proveniente da
una parte della stessa maggioranza di centro-destra, di aggiungere, dopo l’articolo 48
della Costituzione, un articolo 48 bis in base al quale gli stranieri non comunitari in
possesso di determinati requisiti, tra cui il soggiorno stabile e regolare in Italia da
almeno sei anni, un reddito sufficiente per il sostentamento proprio e dei familiari,
l’assenza di carichi penali e l’impegno “a rispettare i principi fondamentali della
Costituzione italiana”, sarebbero stati equiparati ai cittadini comunitari per ciò che
riguarda l’elettorato attivo e passivo nelle elezioni amministrative. La proposta, in
realtà, fece più scalpore a causa della storia politica dei proponenti (in particolare fu
Gianfranco Fini a rivendicare sui giornali la paternità dell’iniziativa), che per l’effettiva
rilevanza del suo contenuto. Da un lato, infatti, si trattava di una disposizione nella
quale non mancavano numerosi profili problematici, a cominciare dalla previsione di un
requisito reddituale, fino all’anomalia dell’impegno a rispettare i principi della
Costituzione, passando per le condizioni esageratamente restrittive relative ai carichi
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penali. Da un altro lato, si trattava di un’iniziativa lanciata da Fini senza di fatto
consultare non solo i suoi alleati di Governo (in una fase di difficili rapporti con la Lega
Nord), ma neppure il suo partito, e che quindi era destinata ad avere vita breve, ciò che
effettivamente si è verificato. Vita breve ebbe anche il disegno di legge presentato nel
2007 dai ministri Amato e Ferrero, che, nel conferire al Governo un’ampia delega per la
riforma del testo unico sull’immigrazione, conteneva, tra i principi e i criteri direttivi,
quello di “prevedere, previa ratifica del capitolo C della Convenzione sulla
partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, fatta a Strasburgo il 5
febbraio 1992, l’elettorato attivo e passivo per le elezioni amministrative a favore degli
stranieri titolari del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo
secondo le modalità di esercizio e le condizioni previste per i cittadini dell’Unione
europea”. Si trattava di una scelta normativa certamente improntata ad una maggiore
apertura rispetto a quella proposta quattro anni prima da Fini, considerato che il capitolo
C della Convenzione di Strasburgo non prevede condizioni ulteriori rispetto a quella
dell’anzianità del soggiorno ai fini dell’estensione dell’elettorato. Dopo poco più di un
mese e mezzo di discussione in commissione, tuttavia, anche questo tentativo fece
naufragio.
È opportuno ricordare, brevemente, che un’iniziativa legislativa in materia di
esercizio del diritto di voto è andata, in realtà, a buon fine. Si tratta della legge
costituzionale n. 1 del 2000 (completata dalla successiva l. cost. 1/2001 e dalla l.
459/2001), che istituisce un’apposita circoscrizione elettorale al fine di permettere,
senza particolari riserve o limitazioni, l’esercizio del diritto di voto da parte dei cittadini
italiani residenti all’estero. Tale disciplina, combinata con quella relativa all’acquisto e
alla perdita della cittadinanza, si muove in senso diametralmente opposto a quello della
riduzione della sfasatura tra corpo elettorale e insieme dei partecipanti alla vita della
comunità politica. Viene valorizzata, infatti, ai fini dell’esercizio del diritto di voto,
l’appartenenza iure sanguinis, anche quando si tratti di soggetti esterni alla comunità ed
“esentati dall’adempimento dei doveri di solidarietà politica, […] riducendo così la
cittadinanza a requisito formale per l’esercizio del diritto in questione e allentando ogni
legame sostanziale tra partecipazione politica e condivisione concreta delle vicende e
degli interessi comuni” (Bascherini).
Da diversi anni, ormai, il dibattito relativo all’estensione, da parte del legislatore,
del diritto di voto agli stranieri, sembra essersi alquanto affievolito. Nella legislatura
attualmente in corso, tuttavia, sono stati presentati già nove disegni di legge in materia
(AS 81; AS 259; AC 848; AC 1343; AC 1635; AC 2249; AC 2840; AS 1868; AS
1871). Ad uno sguardo complessivo, sono proposte molto simili tra loro, orientate
essenzialmente a costruire un quadro nazionale nel quale sia possibile un
riconoscimento del diritto di voto in ambito locale agli stranieri residenti da almeno 5
anni, in alcuni casi con la contestuale ratifica della Convenzione di Strasburgo del 1992.
Si tratta, però, unicamente di iniziative di parlamentari dell’opposizione,
nessuno dei quali è stato ancora discusso neppure in commissione, e l’ultima iniziativa
risale ad ormai otto mesi fa. Sembra, d’altronde, che una parte cospicua dell’attuale
maggioranza sia oggi piuttosto reticente all’idea di un’estensione dell’elettorato agli
stranieri, mentre l’opposizione sembra orientata ad impegnare le proprie energie nella
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Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti - N.00 del 02.07.2010
ricerca di una convergenza con una parte dello schieramento di centro-destra su una
riforma delle modalità di acquisto della cittadinanza.
La questione della ratifica del capitolo C della Convenzione sulla partecipazione
degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, firmata a Strasburgo il 5 febbraio 1992,
è, come si è potuto vedere, un motivo ricorrente nelle iniziative promosse nell’ultimo
quindicennio al fine del riconoscimento, almeno a livello locate, del diritto di voto agli
stranieri. La Convenzione in questione è un Trattato, adottato in seno al Consiglio
d’Europa, tramite il quale gli Stati firmatari si obbligano a garantire agli stranieri
residenti una serie di diritti relativi, appunto, alla partecipazione politica a livello locale.
In particolare, la prima parte del Trattato è divisa in tre capitoli, il primo dedicato alle
libertà di espressione, di riunione e di associazione, il secondo agli organi consultivi
volti a rappresentare gli stranieri a livello locale, il terzo, infine, al diritto di voto alle
elezioni locali. Il Trattato non si è rivelato, finora, uno strumento efficace per quanto
riguarda il riconoscimento del diritto di voto agli stranieri residenti, in quanto è stato
firmato solo da 13 Stati, e ratificato soltanto da 8 di essi, la maggior parte dei quali (tra
cui l’Italia) si sono avvalsi della clausola che permetteva loro di non applicare le
disposizioni, appunto, del capitolo C della prima parte. Alcun vincolo per il legislatore
italiano può essere ricercato, dunque, in materia di estensione dell’elettorato attivo e
passivo nelle elezioni amministrative, nella Convenzione di Strasburgo del 1992. Né
tale vincolo sembra discendere da altre fonti di diritto internazionale pattizio: gli accordi
internazionali, e in particolare le convenzioni in materia di diritti umani, si mantengono
ancora molto riservate per quanto concerne l’esercizio dei diritti politici in mancanza
del requisito della cittadinanza.
Un discorso a parte merita il diritto comunitario: se da una parte, infatti,
l’Unione Europea è riuscita a dotarsi di una propria nozione di cittadinanza, che
comprende tra l’altro il diritto di voto in ambito locale per gli stranieri comunitari
residenti in uno Stato membro, d’altra parte sembra cristallizzarsi, almeno in questa
materia, la distinzione tra spazio comunitario e resto del mondo, fatta eccezione soltanto
per qualche isolata iniziativa proveniente dal Parlamento (si vedano, a riguardo, le
risoluzioni 0292/03 e 0028/04).
4. Le iniziative promosse dalle Regioni e dagli Enti locali e la controversa
determinazione di un criterio di riparto delle competenze.
L’inerzia del legislatore statale ha finito per scaricare la questione
dell’esclusione di una fetta di popolazione dai meccanismi di rappresentanza sulle
amministrazioni locali, che per prime si sono trovate a fronteggiare le difficoltà che
derivano da tale anomalia nel funzionamento del principio democratico. Più vicini alla
gestione delle dinamiche concrete del territorio, progressivamente responsabilizzati
dalle riforme dell’ultimo decennio, che hanno (seppure con qualche contraddizione)
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Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti - N.00 del 02.07.2010
incrementato le loro competenze e i loro poteri, Regioni ed Enti locali hanno offerto,
nell’ultimo quindicennio, soluzioni differenziate al problema. Ciò ha comportato, tra
l’altro, il sorgere di nuovi interrogativi in dottrina, e in particolare l’emergere di una
dialettica legge nazionale/legge regionale accanto a quella legge costituzionale/legge
ordinaria per quanto riguarda l’attribuzione dell’elettorato ai non-cittadini.
Tra le innovazioni prodotte in ambito locale è bene ricordare, innanzitutto,
l’istituzione di organismi consultivi sulle tematiche riguardanti l’immigrazione e
l’integrazione degli stranieri residenti, sebbene si tratti di iniziative che non comportano
l’estensione del diritto di voto. In tale categoria rientrano diversi strumenti messi a
punto da Regioni, Province, Comuni e Circoscrizioni per costruire uno spazio politico
nel quale gettare le basi di un dialogo tra le istituzioni e i residenti privi della
cittadinanza. Tali strumenti possono essere, innanzitutto, divisi in due categorie: quelli
privi di carattere elettivo, e quelli eletti sulla base di consultazioni che coinvolgono la
popolazione immigrata. È il caso di precisare, tuttavia, che in entrambi i casi si tratta di
organismi che traggono la loro legittimazione dalla determinazione
dell’amministrazione locale di avvalersi, con funzioni consultive, di tale strumento, e
non dal riconoscimento di una qualche forma di sovranità alla comunità immigrata.
Certo, non va neppure sottovalutata la differenza tra la nomina tramite le
associazioni operanti nel settore dei componenti di tali organi consultivi, e la scelta di
permettere agli stranieri residenti di scegliere i propri rappresentanti mediante un
procedimento elettorale. Mentre le Consulte prive del carattere elettivo sono presenti già
fin dagli anni ’80, ed oggi sono talmente diffuse da poter quasi essere considerate uno
strumento ordinario di amministrazione, a livello locale, regionale e nazionale, il primo
organismo di rappresentanza di tipo elettivo è stato il Consigliere aggiunto di Nonantola
(MO), nel 1994. Negli anni successivi, numerosi Comuni (tra i primi ComuniCapoluogo Torino, Forlì, Ancona, Padova, Lecce, e, dal 2004, anche Roma), e persino
Province (Rimini nel 2002) hanno seguito l’esempio di Nonantola, prevedendo Consulte
elettive o Consiglieri aggiunti (senza diritto di voto) nei Consigli Comunali o
Provinciali. Tali organismi sono titolari soltanto delle funzioni consultive che vengono
loro conferite dai Consigli Comunali e Provinciali, e sono completamente privi di
qualsiasi strumento di indirizzo politico. Questa è, probabilmente, una delle ragioni
della limitata riuscita dell’esperimento delle Consulte, che, da un lato, non è riuscito a
stimolare una significativa partecipazione alle consultazioni, e dall’altro, ha riservato
alla comunità degli stranieri residenti uno spazio politico molto limitato.
Le Consulte e i Consiglieri aggiunti, insomma, seppure possono essere
considerati come degli strumenti di governo non privi di una qualche utilità, non
possono costituire una soluzione duratura alla questione di fondo della non coincidenza
tra elettorato e popolazione attiva e stabilmente residente. Negli ultimi anni, quindi, di
fronte alle rilevate difficoltà del legislatore statale, Regioni ed Enti locali si sono,
quindi, mosse direttamente nel senso dell’estensione del suffragio agli stranieri
residenti.
A livello regionale, i tentativi di maggiore interesse sono quelli contenuti nella
legge n. 5 del 24 marzo 2004 della Regione Emilia-Romagna, e negli Statuti regionali
sempre dell’Emilia-Romagna e della Toscana (approvati, rispettivamente, il 19 luglio e
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Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti - N.00 del 02.07.2010
il 14 settembre 2004). Poco incisiva appare, in effetti, la disposizione contenuta nel
primo comma dell’articolo 8 della legge 5/2004, la quale si limita a prevedere che “la
Regione, per promuovere una effettiva partecipazione ed il protagonismo dei cittadini
stranieri immigrati nella definizione delle politiche pubbliche, favorisce la realizzazione
di percorsi a livello locale, con particolare attenzione all’equilibrio di genere ed alle aree
di provenienza e con particolare riferimento a forme di presenza nei Consigli degli Enti
locali, di rappresentanti di immigrati e, ove consentito, all'estensione del diritto di voto
degli immigrati”. Più significative, sono le disposizioni inserite negli Statuti regionali:
l’articolo 3 comma 6 di quello toscano stabilisce, infatti, che “la Regione promuove, nel
rispetto dei principi costituzionali, l’estensione del diritto di voto agli immigrati”;
l’articolo 2 comma 1 lettera f di quello dell’Emilia-Romagna inserisce, tra gli obiettivi
cui la Regione ispira la propria azione, “il godimento dei diritti sociali degli immigrati,
degli stranieri profughi, rifugiati ed apolidi, assicurando, nell’ambito delle facoltà che le
sono costituzionalmente riconosciute, il diritto di voto degli immigrati residenti”.
Le disposizioni relative all’estensione del diritto di voto agli immigrati contenute
negli Statuti di Toscana ed Emilia-Romagna sono state oggetto di due giudizi di
legittimità costituzionale proposti in via principale dal Governo, e resi, rispettivamente,
con le sentenze 372 e 379 del 2004. Le osservazioni del Governo si fondavano,
essenzialmente (e non senza contraddizioni), sulla presunta violazione, nell’estensione
dell’elettorato, di uno spazio riservato al legislatore dagli articoli 48 comma 1 e 117
comma 2 lettera f della Costituzione. La Corte Costituzionale ha scelto una via piuttosto
discutibile per non dare ai quesiti una soluzione chiara e definitiva: le censure
governative sono state, infatti, rigettate, ma senza riconoscere la legittimità
dell’intervento della legge regionale in materia, bensì affermando che alle “enunciazioni
in esame, anche se materialmente inserite in un atto-fonte, non può essere riconosciuta
alcuna efficacia giuridica […]. Esse esplicano una funzione, per così dire, di natura
culturale o anche politica, ma certo non normativa” (sentt. 372 e 379/2004). Oltre a non
sciogliere del tutto i nodi fondamentali relativi al rapporto tra le fonti statali e quelle
regionali nell’attribuzione del diritto di voto in ambito regionale e locale (sebbene
qualche implicita indicazione possa, forse, essere rintracciata), le sentenze in questione
propongono, insomma, una lettura delle norme statutarie fondata su una cesura tra
cultura e diritto che sembra assai criticabile, e che “svaluta la radice socio-culturale dei
processi di creazione del diritto a favore di un formalismo che rischia di inaridire
importanti percorsi di sviluppo della cultura costituzionale” (Bascherini).
Ben più incisive sono state le iniziative condotte, nello stesso periodo, da alcune
amministrazioni comunali, che hanno provato ad attribuire, tramite l’approvazione di
apposite delibere consiliari o tramite la modifica dello Statuto, il diritto di voto agli
stranieri residenti nelle elezioni comunali e/o circoscrizionali, e/o nei referendum
consultivi e abrogativi. In questo senso si mossero concretamente i Comuni di Cesena,
Ragusa, Forlì e Genova, ma anche Brescia e Venezia, e, successivamente, Ancona,
Torino, Firenze, solo per menzionarne alcuni: si trattava di tentativi piuttosto variegati,
non tutti destinati a giungere a compimento, e contenenti previsioni differenziate quanto
ai requisiti necessari per accedere all’elettorato. Già nel gennaio del 2004, tuttavia, il
Ministero dell’Interno tentò di frenare sul nascere i primi movimenti in questo senso,
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Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti - N.00 del 02.07.2010
diramando una circolare (22-1-2004 n. 4) nella quale, piuttosto sbrigativamente,
sosteneva che le norme del TUEL relative alle competenze in materia di legislazione
elettorale, anche con riguardo alle circoscrizioni, non potevano essere interpretate nel
senso di permettere alle amministrazioni comunali un’estensione dell’elettorato ai noncittadini. L’emanazione della circolare non ha, però, comportato la definitiva rinuncia,
da parte dei Comuni, ai tentativi di intervenire in materia elettorale, ma anzi ha
innescato un contenzioso tra il Governo e le amministrazioni locali, che ha coinvolto a
più riprese il Consiglio di Stato.
Esemplari divennero i casi di Genova e Forlì, che diedero luogo, nello spazio di
un anno, a tre contraddittorie pronunce del supremo giudice amministrativo. Sollecitato
dalla Regione Emilia-Romagna all’emanazione di un parere circa l’ammissibilità
all’elettorato attivo e passivo, nelle elezioni circoscrizionali, degli stranieri residenti,
con particolare riguardo alle previsioni contenute nello Statuto comunale di Forlì, la
Sezione Seconda del Consiglio di Stato, con il parere 8007/04 del 28 luglio 2004, ha
ritenuto che “l’attribuzione agli stranieri residenti del diritto di elettorato attivo e
passivo ai fini della costituzione dei consigli circoscrizionali […] sia de plano
consentita dalle disposizioni di legge ordinaria […], e non trovi ostacolo insormontabile
nelle norme e nei principi di valore costituzionale che disciplinano la materia”. Rileva,
infatti, il Consiglio di Stato, che “il termine popolazione” utilizzato dal legislatore
nell’articolo 17 del d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267 (TUEL) “implica chiaramente, nella
sua onnicomprensività, che di essa fanno parte tutti i residenti, cittadini e non, ivi
compresi cioè gli stranieri che, per ragioni di lavoro, vivono stabilmente nel territorio
comunale”. Il giorno successivo a tale pronuncia, il Consiglio comunale di Genova ha
adottato una revisione del proprio Statuto volta ad estendere l’elettorato attivo e passivo
nelle elezioni comunali e circoscrizionali agli stranieri extra-comunitari regolarmente
residenti. Il Governo ha, così, richiesto al Consiglio di Stato un parere circa la
possibilità di procedere ad annullamento della delibera ex articolo 138 TUEL. La
Sezione Prima del Consiglio di Stato, con il parere 9771/04 del 16 marzo 2005, esclude
che l’amministrazione comunale sia competente con riguardo alla determinazione dei
soggetti titolari del diritto all’elettorato attivo e passivo, sia relativamente alle elezioni
comunali, sia (ribaltando il sopra menzionato parere del luglio precedente)
relativamente alle elezioni circoscrizionali. Ritenendo applicabile l’articolo 138 TUEL,
autorizza, così, il Governo, a provvedere all’annullamento straordinario della
disposizione statutaria. Il Consiglio di Stato ritiene, infatti, che l’articolo 117 comma 2
lettera p della Costituzione fondi una competenza esclusiva del legislatore statale con
riguardo all’estensione dell’elettorato, mentre ritiene (ad avviso della dottrina pressoché
unanime, incorrendo in una vistosa contraddizione) che il disposto dell’articolo 17
TULPS “demanda alla potestà statutaria e regolamentare del Comune la definizione
delle forme del procedimento elettorale, alle quali non è riconducibile il riconoscimento
del diritto di elettorato, che non attiene a profili formali del procedimento, bensì al
contenuto sostanziale della capacità giuridica degli stranieri”. Sollecitato ancora una
volta dal Governo, in questo caso riguardo l’ammissibilità di un provvedimento di
annullamento straordinario ex articolo 138 TULPS di quelle stesse disposizioni dello
Statuto comunale di Forlì che erano già state oggetto del parere 8007/04, il Consiglio di
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Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti - N.00 del 02.07.2010
Stato (stavolta l’Adunanza delle Sezioni Prima e Seconda) ha confermato, con il parere
11074/04 del 6-13 luglio 2005, l’impostazione contenuta nel parere del marzo
precedente: secondo i giudici di Palazzo Spada, quindi, l’articolo 17 TUEL assegna alla
competenza comunale la disciplina delle forme di espressione del diritto di voto,
restando di competenza statale la determinazione dei soggetti titolari del diritto. Tale
orientamento non sarà più smentito: il governo procederà, nei mesi successivi,
all’annullamento straordinario di numerose altre disposizioni statutarie comunali e
provinciali relative all’estensione dell’elettorato agli stranieri extra-comunitari
regolarmente residenti, e lo stesso Consiglio di Stato, interpellato in materia,
confermerà essenzialmente le argomentazioni contenute nei pareri 9771 e 11074/04 (tra
le ultime pronunce, si vedano i pareri: Sez. I n. 1796/08; Sez. I n. 1797/08; Sez. I n.
3714/08).
5. Considerazioni conclusive.
A partire dall’ingarbugliata disciplina legislativa, e da una giurisprudenza non
priva di contraddizioni, si può tuttavia trarre qualche elemento per tentare una generica
sistematizzazione della questione del riparto delle competenze in materia elettorale.
Sembra, infatti, difficilmente contestabile l’affermazione dei giudici di Palazzo Spada
secondo cui è al legislatore statale che appartiene la competenza in merito all’estensione
soggettiva del diritto all’elettorato attivo e passivo, non solo con riguardo alle elezioni
politiche ed europee, ma anche con riguardo alle elezioni amministrative. È
significativo, in questo senso, rilevare, innanzitutto, come il Consiglio di Stato, nel
parere 9771/04, affermi esplicitamente (e condivisibilmente) che “l’articolo 48 e
l’articolo 51 della Costituzione offrono ai cittadini la garanzia costituzionale del diritto
di elettorato attivo e passivo, ma […] non precludono al legislatore ordinario di
estendere gli stessi diritti, in tal caso privi di copertura costituzionale, a soggetti privi
della cittadinanza italiana”, accogliendo la tesi secondo cui il riconoscimento
dell’elettorato ai non-cittadini sarebbe possibile anche senza un’apposita revisione
costituzionale. La stessa argomentazione della Corte Costituzionale, nelle sentenze 372
e 379 del 2004 sembra compatibile con tali affermazioni.
La competenza statale in materia, tuttavia, non può essere fondata sulle
disposizioni di cui all’articolo 117 comma 2 lettere f e p della Costituzione, proprio in
quanto si tratta, in quei casi, di competenze relative non all’estensione soggettiva della
titolarità del diritto di voto, bensì alla concreta espressione di tale diritto. Sarebbe
difficile spiegare, altrimenti, perché l’articolo 122 non attribuisca identico potere al
legislatore regionale. Tale competenza statale può, invece, essere implicitamente
dedotta dal tenore stesso degli articoli 48 e 51, o fondata sugli articoli 10 comma 2 e
117 comma 2 lettera a.
Sembra, invece, a chi scrive, che sia stato, forse, troppo frettolosamente
dimenticato l’articolo 9 comma 4 lettera d del d.lgs. 286/1998, che potrebbe essere
interpretato come un’espressa determinazione del legislatore nazionale rispetto
all’estensione dell’elettorato agli stranieri titolari di carta di soggiorno, anche se, a
norma dell’articolo 117 comma 2 lettera p della Costituzione, spetterebbe sempre al
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Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti - N.00 del 02.07.2010
legislatore statale stabilire le forme della loro partecipazione al voto, non potendosi
invocare in questo senso l’articolo 6 del d.lgs. 267/200. Per ciò che riguarda, invece,
l’articolo 8 del d.lgs. 267/2000, esso sembra fondare una vasta competenza degli Enti
locali relativamente alla disciplina di un eterogeneo insieme di forme di partecipazione
alla vita politica della comunità, dal diritto di petizione alla previsione di referendum
consultivi, che gli Statuti comunali e provinciali sembrerebbero legittimati ad estendere
anche ai non-cittadini. In tale insieme di strumenti di partecipazione, tuttavia, non
sembra sia possibile comprendere l’esercizio del diritto di voto.
Un discorso diverso sembra, però, ammissibile con riguardo alle elezioni
circoscrizionali, riguardo alle quali l’argomentazione fornita dal Consiglio di Stato nel
parere 8007/04 sembra maggiormente convincente rispetto a quelle contenute nei pareri
successivi. Le circoscrizioni, infatti, sono riconosciute come “organi ai quali il più volte
ricordato articolo 17 del TUEL attribuisce compiti esclusivamente partecipativi e
consultivi, oltre alla gestione dei servizi di base […], con esclusione quindi di qualsiasi
funzione politica e di governo, ovvero di funzioni che implichino scelte di fondo sulla
valutazione comparazione degli interessi delle varie componenti della collettività di
quartiere o di frazione che nella circoscrizione si identifica”. Si tratterebbe, quindi, di
organi relativamente alla cui composizione il legislatore sarebbe libero di attribuire la
più ampia competenza alle amministrazioni comunali, compresa la possibilità di
prevedere la partecipazione ad essi degli stranieri residenti, senza che ciò sia in
contrasto con gli articoli 48, 51 e 117 comma 2 lettera p della Costituzione.
Spetta, dunque, al legislatore nazionale, la responsabilità di un’iniziativa
coerente e concreta per porre un rimedio alla progressiva divaricazione tra titolari dei
diritti politici e partecipanti alla vita della comunità. La rigidità e l’esclusività del nesso
stabilito tra identità originaria, cittadinanza e diritti politici hanno finito per ridurre
l’operatività del principio democratico entro confini, per certi versi, paradossali. Non
solo, infatti, il diritto di voto non viene riconosciuto sulla base di quello “svolgimento
della personalità” che costituisce uno dei presupposti fondanti dei diritti fondamentali
nelle Costituzioni pluraliste moderne (riconosciuto nella Costituzione italiana agli
articoli 2 e 3), né sulla base della partecipazione tramite il lavoro al progresso della
comunità (riconosciuto all’articolo 1), ma persino si giunge ad intaccare il ben più
antico principio no taxation without representation, spezzando la corrispondenza tra i
doveri di solidarietà sociale e la partecipazione alle decisioni collettive. L’elevazione
della cittadinanza a presupposto necessario, a postulato della partecipazione, sembra
fondarsi su ragioni politiche più che logiche, e, in questo senso, non può che essere una
scelta politica a rinnovare i presupposti del funzionamento del principio democratico.
Riferimenti bibliografici:
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costituzionale e prospettive europee, Napoli, Jovene, 2007.
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italiana, in Rivista critica del Diritto privato, 1992, p. 203 ss.
B. Caravita di Toritto, I diritti politici dei “non cittadini”. Ripensare la
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Italiana Costituzionalisti, “Lo statuto costituzionale del non cittadino”, Cagliari, 16
ottobre 2009, disponibile su www.associazionedeicostituzionalisti.it.
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immigrati, 2006, disponibile su www.federalismi.it.
T. Giupponi, Stranieri extracomunitari e diritti politici. Problemi costituzionali
dell’estensione del diritto di voto in ambito locale, Relazione al Convegno
“Cittadini di oggi e di domani. Le sfide dell’immigrazione per il territorio”,
Alessandria, 18 novembre 2006, disponibile su www.forumcostituzionale.it.
Caritas Italiana (a cura di), Immigrati e partecipazione. Dalle consulte e dai
consiglieri aggiunti al diritto di voto, Roma, Idos, 2005.