Scheda da Film discussi insieme 2006

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Scheda da Film discussi insieme 2006
Clean
regia: Olivier Assayas (Francia 2004);
sceneggiatura: O. Assayas, Malachy Martin, Sarah Perry;
fotografia: Eric Gautier;
montaggio: Luc Barnier;
musica: brani vari;
scenografia: William Fleming, François-Renaud Labarthe;
costumi: Anaïs Romand;
interpreti: Maggie Cheung (Emily Wang), Nick Nolte (Albrecht
Hauser), Béatrice Dalle (Elena), Jeanne Balibar (Irene),
Don McKellar (Vernon);
produzione: Rectangle Prod, Haystack Prod., Rhombus Media,
Arte France Cinéma;
distribuzione: Ist. Luce;
durata: 1h 50’
OLIVIER ASSAYAS
Parigi - 25 gennaio 1955
1986 Il disordine
1989 Il bambino d’inverno
1991 Contro il destino
1993 Une nouvelle vie
1994 L’eau froide
1996 Irma Vep
1998 Fin août, début septembre
2000 Les destinées sentimentales
2002 Demonlover
2004 Clean
LA STORIA
Travolto dall’alcool e dalla droga, Lee Hauser, autore rock,
arriva ad Hamilton, Canada, per chiedere aiuto ad un agente suo amico. Lee, da tempo in preda ad una crisi profonda
di cui è il primo a rendersi conto, ha ormai compiuto quarantadue anni e sa di non poter pretendere l’interessamento
di una casa di produzione più importante. Ma Emily Wang,
la donna che gli è vicino da cinque anni, non è d’accordo.
Nel loro ambiente lei ha la fama di essere totalmente dipendente dalla droga e responsabile anche dello stato in cui si
trova Lee, eppure pensa di riuscire a farlo reagire. Una sera,
dopo l’ennesima lite, e dopo essersi procurata dell’eroina, lei
lascia Lee e si allontana da sola in macchina verso la periferia
per bucarsi. La mattina dopo al ritorno trova davanti all’albergo la polizia che la ferma e le dice che il marito è
morto per overdose. Alle prime domande ammette allora di
essere tossicodipendente, ma nega la responsabilità dell’acquisto dell’eroina. Verrà condannata a sei mesi di carcere.
Scontata la pena e intrapresa la terapia con il metadone
cerca i suoceri, che abitano a Vancouver e a cui ha da sempre affidato il figlio Jay, un bambino. Albrecht Hauser la
raggiunge in una caffetteria e la mette al corrente di tutte le
incombenze di cui ha dovuto farsi carico con la morte di
Lee. Le parla delle sue ancora inedite incisioni, della vendita
della casa acquistata a Londra indispensabile per ripagare i
debiti acquisiti dal figlio, dei pochi soldi rimasti e girati a
lei, e soprattutto della decisione presa dal tribunale circa
l’affidamento del bambino. A crescerlo finche sarà necessaCLEAN
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rio, dovranno essere loro, i nonni. Emily accetta: sa di non
poter chiedere niente nella situazione in cui si trova. Non si
aspetta però che Albrecht Hauser le chieda anche di rinunciare per qualche anno a vedere suo figlio. Da lui si sente
dire: “Per noi è stato difficile spiegargli la morte di suo
padre. È un bambino molto equilibrato, ma sensibile. Io e
Rosemary abbiamo fatto di tutto per dargli stabilità, senso
di appartenenza e non vogliamo vederlo soffrire ancora.
Legalmente hai il diritto di vederlo, ma credo dovresti dargli
ancora un po’ di tempo”. E poi: “Ci terremo in contatto”.
Emily parte per Parigi, dove aveva vissuto prima di incontrare Lee e dove aveva lavorato come conduttrice di un’emittente tv per giovanissimi, con la speranza di ritrovare quelli
che lei ritiene gli amici disposti a darle una mano. Ma il suo
scopo è soprattutto incontrare Tricky, una star nel mondo
del rock, che aveva manifestato interesse ai dischi di Lee, e
che avrebbe potuto intervenire presso suo suocero e aiutarla
a rivedere il bambino. Il no che riceve è pesante e anche il
posto di cameriera in un ristorante cinese le viene presto
tolto, per via dell’uso che si ritiene faccia ancora di troppe
pastiglie. Accetta invece il lavoro di commessa ai magazzini
Printemps. L’impiego le serve per poter scrivere al padre di
Lee e ottenere di vedere Jay. L’opportunità di poterlo incontrare gliela offre Albrecht con una telefonata da Londra,
dove si trova con Rosemary che ha bisogno di un ricovero in
ospedale e di cure speciali. Rosemary è durissima nei confronti della nuora, la ritiene tra l’altro responsabile della
morte del figlio. E il bambino quando il nonno gli parla di
un viaggio a Parigi e di un week end da trascorrere con la
madre si ribella. “Ha ucciso mio padre. È morto per colpa
della droga che gli aveva dato lei. Io non le voglio bene e lei
non vuole bene a me”. Quella prima ribellione Albrecht
prova a non forzarla. Chiede a Emily di saper aspettare
ancora un po’. E davanti a suo figlio che più tardi, da soli
allo zoo, le ripete quello che ha saputo dalla nonna: “Tu hai
ucciso mio padre. Gli hai dato la droga che lo ha ucciso”.
Emily, con molta calma, gli risponde: “non ho ucciso tuo
padre: la comprai io la droga quella notte... Ne presi un po’
io e ne prese un po’ lui. Poteva succedere che Lee perdesse
me... C’è gente che usa la droga perché soffre. Per tuo padre
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era così e anche per me. Devi essere molto fiero di lui”. E
poi: “Io ho smesso per causa tua. Perché altrimenti non ti
avrei più rivisto”. La pace è fatta. Adesso Jay è tranquillo e a
casa con lei, nella stanza che le ha messo a disposizione
un’amica, il bambino le chiede di seguirla a San Francisco,
dove è stata invitata per incidere un suo disco. La tentazione
di dirgli di sì è forte, ma la parola data ad Albrecht, a cui ha
promesso di riconsegnare il bambino a fine week end, e la
stima che il suocero ha riposto in lei, la fanno desistere. A
San Francisco è sola, ma sa di poter essere da suo figlio
quando vorrà.
LA CRITICA
Ci sono strade che portano a un’auto davanti a un lago, le
ciminiere di un sobborgo canadese in lontananza, lo scatto
del laccio emostatico e una siringa che cade sui tappetini. Ci
sono vicoli di Parigi dietro i locali dove si fa musica. Ponti
d’oro di San Francisco, che conducono a un sogno da
costruire e, per un intreccio di volontà e destino, all’abbraccio di un figlio dimenticato. Emily Wang - alias Maggie
Cheung premiata per questo ruolo come miglior attrice lo
scorso anno al Festival di Cannes - è la protagonista di
Clean di Olivier Assayas, nelle sale italiane a partire dal
prossimo 6 maggio.
Clean significa «pulito»: come spiega il regista, «è il termine
più giusto per chi riesce ad uscire dalla schiavitù della
dipendenza». Emily ci prova, e ci riesce. Dopo la morte per
overdose del compagno, musicista rock fuori dai giri “che
contano” e dopo aver scontato sei mesi di prigione, per possesso di stupefacenti, riscopre l’esistenza di un figlio, Jay (il
piccolo James Dennis), affidato alle cure dei genitori paterni, Albrecht e Rosemary (Nick Nolte e Martha Henry). Ma
i nonni la pregano di rimanere ancora lontana dal bambino,
traumatizzato dalla morte violenta del padre. Così Emily
torna in Francia, dove viveva, prima di iniziare una vita in
giro per il mondo alla ricerca del successo. Ritrova le amiche
di un tempo, non più disposte ad aiutarla. Lavora come
cameriera in un ristorante cinese, sogna ancora di diventare
una cantante, ma non riesce a staccarsi dalla droga. Fino a
che è il pensiero del piccolo Jay a farle scattare qualcosa dentro. E decide di cambiare vita, di essere migliore. Per un
figlio che non conosce, che è all’inizio solo un’idea. Ma che
la spinge, spiega Assayas «a non fuggire più, a rimettere
assieme i pezzi della sua identità frammentata». Tante le
chiavi di lettura, per una storia che nasce attorno alla personalità dell’attrice Maggie Cheung, appassionata di musica,
apprezzata in film come Hero o In the mood for love
Il regista, ex redattore dei Cahiers du cinema, ha voluto nel
film anche musicisti “veri”, del calibro di Tricky, Mazzy
Starr e i canadesi Metric, a interpretare loro stessi e a regalare lunghe scene in cui il rock graffiante fa da corollario alla
colonna sonora di Brian Eno.
Tante letture, che si ricompongono in una storia dal ritmo
frammentato e giocata sui contrasti, anche visuali. Una
vicenda immersa in un contesto tormentato, che parla delle
difficoltà dell’amore: quelle incontrate dal piccolo Jay diffidente verso Emily, forse perché - come spiega nonno Albrecht - «i bambini capiscono tutto, ci leggono nei pensieri». Ma parla anche della pienezza dell’amore: di una donna
che si riscopre madre, di due coniugi anziani, che assieme
fronteggiano le difficoltà della vecchiaia, di un nonno,
l’intenso Nick Nolte, che accoglie e perdona. E dell’amore
per se stessi, che non è egoismo ma consapevolezza di poter
vivere come persone “pulite” e di poter cambiare, se «ce n’è
bisogno». Perché, conclude Assayas, «tutto può iniziare
ancora».
(ELENA NIEDDU, L’Avvenire, 7 aprile 2005).
Sullo schermo dall’inizio alla fine, disperata, febbrile, vulnerabile, fortissima. Migliore attrice all’ultimo Festival di
Cannes, Maggie Cheung è l’anima, il corpo, la mente di
«Clean», il film di Olivier Assayas (il 6 maggio sugli schermi italiani) in cui interpreta Emily, ex-drogata alle prese
con un difficile cammino di rinascita. Solo se riuscirà a
liberarsi dallo spettro della tossicodipendenza, solo se riuscirà a tornare, come si dice in gergo, «pulita» («clean», in
inglese), Emily potrà ricominciare. Cioè riavere suo figlio,
affidato ai genitori del compagno morto per overdose (il
padre è Nick Nolte, la madre Martha Henry), e cantare, la
sua vecchia passione. «La droga - osserva il regista - chiude
le persone dentro una specie di bolla, separa da se stessi e
dagli altri, prolunga innaturalmente la giovinezza, esonera
dal porsi le normali domande della maturità. Non m’interessa formulare giudizi morali, ma, nel momento in cui si
smette di usare stupefacenti, ci si ritrova davanti agli interrogativi da cui si era fuggiti. E a quel punto bisogna capire
qual è la propria posizione nei confronti di se stessi e del
mondo». Nell’ultima sequenza del film la protagonista è in
sala d’incisione, con le cuffie in testa, davanti a un microfono. Forse è l’inizio di una nuova vita, o forse solo il primo
passo, ancora incerto, verso un futuro diverso: «Volevo raccontare il personaggio - dice Assayas - fino al punto in cui
qualcosa, nella sua vita, può davvero ricominciare. Emily è
riuscita a ricostruire la propria personalità, non sappiamo se
ce la farà oppure no, ma almeno adesso ha davanti un percorso da compiere». La storia di «Clean» è stata scritta dal
regista su misura per Maggie Cheung e lei stessa ha avuto
parte attiva nella lavorazione: «È stata una collaboratrice
importante, oltre che una protagonista insostituibile, è
entrata intimamente a far parte del processo creativo del
film e ne è stata felice perchè questo è il modo di lavorare
che più le appartiene». Superstar del cinema asiatico, vincitrice di premi e riconoscimenti in tutti i festival e le rassegne dell’est, impegnata nelle riprese di un film dopo l’altro,
Maggie Cheung è diva dai mille volti, da tredici anni sulla
scena, con 73 film all’attivo. Sempre credibile, sempre affascinante. Sia quando ancheggia sinuosa, icona dell’amore
impossibile, nel film culto di Wong Kar Wai «In the mood
for love», sia quando, nelle vesti di Neve Volante, duella
magicamente in «Hero» di Zhang Yimou. Già nel 1996,
quando l’aveva diretta in «Irma Vep», il regista Assayas, che
è stato a lungo suo compagno, ne aveva intuito il magnetisno irresistibile, la capacità di riempire la scena con uno
sguardo: «Nel fascino di Maggie c’è un mistero speciale,
qualcosa che ha a che vedere con la sua doppia cultura, con
il fatto che è nata a Hong Kong ma è cresciuta a Londra e
quindi è un po’ cinese e un po’ inglese. La sua è un’identità
cosmopolita, e lo è sempre di più, ora che viaggia di contiCLEAN
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nuo da una parte all’altra del globo». Secondo Assayas il
ruolo di Emily rappresenta per l’attrice l’occasione di un
atteso riscatto, il modo per svelarsi davvero, al di là delle
rappresentazioni un po’ ieratiche in cui l’hanno spesso
imprigionata i maestri cinesi: «Nel personaggio di “In the
mood for love” non c’è niente di veramente suo, per lei
quello è stato un lavoro noiosissimo, era costretta a recitare
senza sapere nulla della storia, senza conoscere la psicologia
dei protagonisti, un po’ come se fosse una semplice modella
da fotografare. Ha scoperto di cosa parlava il film solo
dopo la prima proiezione, e questo è stato molto frustrante». In «Clean», finalmente, Maggie Cheung è una ragazza
del mondo, non più costretta nello stereotipo orientale:
«Finora in Occidente le avevano sempre proposto personaggi molto cinesi e questo a lei suonava strano, perchè,
non avendo vissuto in una vera famiglia cinese, non si è
mai sentita completamente parte di quella cultura». E poi
ha potuto finalmente cantare: «Le è sempre piaciuto, ma è
troppo timida per accettare di esibirsi su un palcoscenico.
(FULVIA CAPRARA, La Stampa, 5 aprile 2005).
L’esilio, lo sradicamento, l’incapacità di appartenere davvero a un luogo, a una famiglia, a una comunità. È forse la
condizione contemporanea per eccellenza, ed è anche il
soggetto profondo del sommesso, struggente Clean di
Olivier Assayas. Un mélo notturno, malinconico, urbano,
in cui i protagonisti cercano se stessi attraverso la musica,
anzi cercano disperatamente la “loro” musica, orizzonte e
misura di ogni identità. Si comincia con una morte si finisce con una rinascita. A morire, di eroina, è un cantante
rock di sicuro talento ma di relativo successo che ha ormai
passato la quarantina. Mentre a rinascere, dopo sei mesi di
prigione e una lunga serie di prove, sarà sua moglie Emily.
Una anglo-cinese un po’ sbandata, ex-presentatrice di programmi rock, che una volta vedova deve ripartire da zero
(una misuratissima Maggie Cheung, che con questo ruolo
vinse la palma come miglior attrice l’anno scorso a Cannes). Gli amici del giro infatti pensano che il marito sia
morto per colpa sua, e non concedendole la minima attenuante le voltano le spalle. Il figlio piccolo viene affidato
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definitivamente ai suoceri (Nick Nolte e Martha Henry).
Così Emily lascia le ciminiere del Canada, torna a vivere a
Parigi, accetta lavoretti qualsiasi per tirare avanti. E intanto cerca di disintossicarsi, anche perché finché non sarà
“clean”, pulita, non ha il diritto di rivedere suo figlio.
Raccontata e riordinata così può sembrare una storia edificante, ma Assayas scopre le carte poco alla volta, con abilità
consumata; sa far “respirare” i suoi personaggi dando a
ognuno il ritmo e lo sguardo che gli si addice; non si concentra sulla sola Emily, ma le crea intorno tutto un mondo
fatto di vecchie conoscenze (Béatrice Dalle rocker pura e
dura, Jeanne Balibar televisiva di successo) e di nuovi sentimenti (la ragazza, sua vecchia fan, che di colpo mette Emily
di fronte alla sua passata immagine di personaggio tv,
un’immagine che Emily non ricordava nemmeno di avere).
Disegnando parallelamente la magnifica figura chiave del
suocero Nick Nolte, nonno (e a suo tempo padre) goffo ma
affettuoso, debole ma capace di ascolto. Intimidito dal nipotino come lo fu dal figlio, «perché i bambini capiscono
tutto, ti leggono nel pensiero, ti giudicano in un lampo».
Una figura fragile e insieme decisiva se toccherà proprio a
lui dare fiducia a Emily («Credo nel perdono: la gente cambia, se ne ha bisogno») finendo per riavvicinarla al bambino.
Finalmente una speranza per il bastonatissimo padre,
insomma. E tanto peggio per chi accuserà il dolente Clean
di facile ottimismo. Più irritante del “politicamente corretto” c’è solo la dittatura della disperazione a tutti i costi.
Dietro il rock e la droga, Assayas racconta l’elaborazione di
un lutto. E bisogna essere davvero senza cuore per pensare
che il lutto non debba avere mai fine.
(FABIO FERZETTI, Il Messaggero, 27 maggio 2005).
I COMMENTI DEL PUBBLICO
OTTIMO
Sima Terzi - Mi è sembrata molto efficace la rappresentazione dello squallore, del buio progressivo con sempre minori
speranze di recuperare la normalità, in cui è coinvolta la
protagonista. Commovente la sua lotta, malgrado tutto, pur
con le ricadute, per cercare un lavoro, per risalire la china, e
quindi per realizzare la speranza di vedersi affidato il bambino che sente sempre più ragione di vita. Altrettanto commovente la passeggiata, col piccolo, al giardino zoologico e il
suo discolparsi di fronte a lui. Proprio il realismo della narrazione e la bravura dell’attrice evitano, a mio parere, dei
toni melo, e rendono credibile l’accenno a un finale positivo: una certa fiducia accordatale dal suocero e una probabile
affermazione in campo musicale.
BUONO
Michele Zaurino - Clean significa “pulito” e in parallelo con
la vita della protagonista Emily, anche l’impianto del film
progressivamente si ripulisce fino a diventare più lineare e
concentrato sui sentimenti e il recupero dei rapporti affettivi
devastati dalle vite spericolate dei musicisti. L’inizio è volutamente confuso, lisergico, scandito dal ritmo martellante del
rock anni Ottanta (punk, new-wave). Gli scenari, dalla gelida skyline post-industiale di Hamilton ai fumosi locali notturni di Londra e Parigi, sono desolati e desolanti. Con la
morte per overdose di Lee, compagno di Emily e rocker in
irrimediabile declino, lo straniamento che pervade il film è
sottolineato dalle atmosfere spaziali della ambient-music di
Brian Eno. Dopo essere stata sull’orlo dell’abisso la rincorsa
di Emily alla vita riprende. La presenza del suocero (un eccezionale Nick Nolte), tra impercettibili ma sostanziali sfumature di dolorosa comprensione e saggezza, permette il riavvicinamento con il figlio da anni affidato alle cure dei nonni.
In un film in cui la musica non è solo colonna sonora ma
parte integrante della narrazione, la semplice ballata finale
cantata da Emily è il segno evidente della ritrovata pace e
serenità. L’estremizzazione delle situazioni nel mondo delle
rockstar può creare nello spettatore un senso di estraneità alla
vicenda che rende problematico il coinvolgimento emotivo.
Marcello Napolitano - Pur trattando materie molto emozionali (droga e morte, carcere e maternità negata, malattia e
vecchiaia) è un film che non mi ha particolarmente emozionato, che non ha provocato in me un moto di simpatia: ho
seguito la vicenda con interesse, cercando di districarmi tra
luoghi e persone, cercando di capire le ragioni di storie che
iniziano con una promessa di intenso coinvolgimento e poi
terminano in qualche binario morto (tipici esempi: la storia
dell’ex-amante-donna della protagonista e della sua nuova
amante; oppure il personaggio buttafuori-uomo di fiducia
di Twinking-scassinatore di porte che conduce al ritrovamento del secondo morto di droga). Forse queste promesse
non mantenute fino in fondo, i personaggi non spiegati,
forse il montaggio nervoso e mosso, rendono il film poco
emozionale ma piuttosto apprezzabile sul piano tecnico e
intellettuale. Ben girato, ben recitato (ma merita il premio
per la migliore attrice?), ben ambientato, il film è interessante anche perché mostra che il cinema francese non è solo il
melo tipo “Ricamatrici”. Un punto particolarmente negativo è la voce doppiata del bambino: ancora una volta si rimpiange di non vedere i film in originale.
Caterina Parmigiani - Pur essendo evidente che il regista
ha costruito il film per valorizzare le doti interpretative di
Maggie Cheung - che tuttavia la sceneggiatura in parte svilisce -, è la figura di A. Hauser la più significativa. Questo
suocero intelligente e sensibile, interpretato da Nick Nolte,
mosso sia dall’affetto per il nipotino sia da un disincantato
senso della realtà, non solo perdona la nuora eroinomane
ma anche le dà fiducia e la incoraggia a progettare il futuro.
È un comportamento che ci fa capire che tra le leggi della
psicologia e i principi del Vangelo corre una sorprendente
analogia.
Rosa Luigia Malaspina - Una vita difficile, bruciata, che la
forza dell’amore per il figlio riscatta. Film nervoso, che trasmette la sofferenza dei protagonisti, con un’interpretazione
eccezionale sia di Maggie Cheung che di Nick Nolte.
Alessandra Casnaghi - Due dimensioni parallele (ma complementari) si delineano in questa pellicola di Assayas: un
mondo “normale” dal quale Lee proviene e da cui si allontaCLEAN
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na, e un mondo “alternativo”, quello della musica underground, dove Lee cerca se stesso, senza riuscirci. Emily, la
sua compagna, sembra invece uscita dal nulla: il suo passato
è un’incognita. Il suo tentativo di mantenersi entro binari di
“normalità” occupa buona parte della pellicola e la conclusione, piena di speranza, consola e intenerisce. Il brano
musicale, cantato da Emily sul finire, racchiude, nel testo, la
speranza di una vera rinascita. Ho avuto la sensazione di
assistere a un film serio, che parte dal basso per raggiungere
aspetti alti della vita, dignità impreviste, proponimenti
nobili e realizzazione di progetti audaci ma legittimi.
Miranda Manfredi - Rabbia, disperazione, amore, si assommano nella bravissima protagonista di un film dall’argomento scontato. La droga compensa l’inadeguatezza
di questi giovani ad affrontare il difficile mondo dello
spettacolo. La rabbiosa musica rock si trasforma alla fine
in una dolcissima canzone che suggella il riscatto di Emily.
La sceneggiatura accompagna il difficile cammino della
ragazza in un itinerario convulso tra Londra, Parigi e alla
fine San Francisco nella sua migliore prospettiva spaziale
quasi per significare il respiro “clean” riconquistato. Il grigiore della metropoli viene introdotto, all’inizio, da un
panorama di un mondo inquinato da un’industrializzazione senza regole che viene accompagnato dalla musica
assordante del rock, espressione del disagio giovanile. Il
recupero dei valori più profondi della vita viene sviluppato
attraverso vicissitudini un po’ melodrammatiche ma sostenute da un’ottima recitazione.
Lucia Bodio Scalfi - Un buon film, che non indugia in teorici o moralistici discorsi sulla droga, sul perdersi delle persone totalmente dipendenti dagli stupefacenti, ma che ci
presenta esseri umani alla deriva che sanno però - di fronte
alla tragedia - reagire e cercare di risalire la china per i valori
più alti a cui non vogliono rinunciare. E in nome degli stessi
valori - amore, famiglia, amicizia - alcuni personaggi sanno
offrire solidarietà, aiuto, protezione ed affetto a chi ne ha
bisogno. In questo senso bella la figura del nonno, che sa
amare il figlio nonostante tutto, che sa voler bene al nipote
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ed alla madre di lui e riesce a ricostruire una famiglia ed un
circolo di affetti sulle ceneri della morte, della droga, del
dolore e della malattia. Mi viene da paragonare questo film
a “La samaritana”. Lì il titolo si rifà al Vangelo, nel film
spesso sono citate parole delle sacre scritture e personaggi
“evangelici”. Le parole sono orientate verso quel mondo, ma
i personaggi e le loro azioni vanno in tutt’altra direzione:
perdita del senso della propria vita, vendetta, disperazione,
omicidio. In “Clean” invece sono le azioni dei personaggi
principali ad essere orientate verso il perdono, l’amore, la
forza di continuare a vivere nonostante tutto.
DISCRETO
Piergiovanna Bruni - Ancora il vecchio argomento sulla
droga e il rock. Ancora nulla di incisivo sul come discernere
la musica rock dalla droga; ancora debolezza e distruttività e
una vita che destabilizza i figli nati da queste unioni fra tossicomani. E ancora un precario futuro in cui forse la maternità vince sull’autodistruzione. Ma non convince l’amore di
questa ragazza per il suo bambino. Restano in noi solo le
espressioni intense sul bel viso orientale della protagonista e
quelle colme di dolore del bravissimo Nick Nolte. Il titolo è
solo un’esortazione!
Ugo Pedaci - Tutto sommato si tratta di un film banale,
scontato e privo di fantasia. Non riesce a raccontare con
convinzione né il mondo dei drogati né quello della musica
rock. Il racconto si muove continuamente tra Londra, Stati
Uniti, Parigi, Canada e ritorno quasi a imitazione di certi
film “on the road”. Grazie soltanto per averci risparmiato le
relative vedute turistiche. Si salva la recitazione dell’ottimo
Nick Nolte e di una Maggie Cheung che piace per il suo
volto espressivo. Niente di più.
Emanuela Dini - Un film a doppia velocità. Intensa e drammatica la prima parte, affrettata e ambivalente la seconda,
con una troppo repentina “redenzione” della mamma e,
soprattutto una assolutamente improponibile accettazione
della figura materna da parte del bambino. I bambini sono
molto più lucidi, feroci, onesti e con un alto senso di giustizia degli adulti e davvero non regge la ricostruzione del piccolo che vuole accompagnare la mamma. Memorabile e
splendida l’interpretazione di Nick Nolte. Riuscito a metà.
per meritare l’affidamento del suo bambino, quindi c’è una
brusca svolta e si plana in una fiaba natalizia. Deludente,
soprattutto, per la figura del bambino, prima improbabile e
saccente giudice della madre, poi subito felice di seguirla.
Ovunque manca spessore nei percorsi evolutivi. L’unica
figura apprezzabile, anche come recitazione, è il suocero, il
bravo Nick Nolte.
MEDIOCRE
Vittoriangela Bisogni - Mi è sembrato un inconsistente polpettone: la prima parte è un faticoso e aspro accavallarsi dei
fatti di droga, con musiche rock e immagini agitate da una
macchina da presa ipercinetica; poi la mamma si fa “clean”
Vittorio Zecca - Se è un film sulla redenzione manca il
pathos. Se è un film d’ambiente manca la profondità. Non
c’è emozione né messaggio e alla fine tutto è piatto e noioso
nonostante le buone prove dei protagonisti. Deludente per
quello che poteva dire e non dice la colonna sonora.
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