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EDItORIaLE
Quanto interessa al Paese la riforma dell’Università?
di Lucio d’Alessandro
PROfEssIONI
Il ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo nella nuova realtà digitale
di Antonio Martusciello
I
Nessuno autorizza i giornalisti a ricamare sulla pelle dei lettori
di Andrea Melodia
stORIa,
CULtURa
E RICERCa
PICCOLa
aNtOLOGIa
tEsI DI LaUREa
Un anno di Ucsi: più presenza, più credibilità più forza di opinione
di Franco Maresca
Pio XII: il Papa della radio
di Francesca Di Ruzza
Consumer service e globalizzazione L’impatto sui brand
tra reti e social media
di Adele Savarese
Radiografia dell’unione Europea sul nostro sistema dei media
di Rosa Maria Serrao
Dicono di noi
di Stefania Di Mico
“La comunicazione politica ed il ruolo dei media nel Medio
Oriente: la questione irachena”
di Tommaso Ulivieri
La “Lettera 22” nelle sezioni di partito. La crisi e la scomparsa del
quotidiano di partito nell’Italia della prima Repubblica
di Teresa Sari
Pubblicità fra etica e mercato
di Giancarlo Zizola
DOCUMENtI
CONvEGNI
E NOtIzIE
LIBRI
-Il settimanale “Rheinischer Merkur” e la crisi della stampa cattolica
tedesca
- Il Centro di Documentazione Giornalistica crea un portale e nuovi
corsi di giornalismo e comunicazione
- La regolamentazione delle professioni come garanzia di qualità
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DESK cultura e ricerca della comunicazione
rivista trimestrale UnisOB e UCsI
anno XvII n. 4
direttori
Paolo scandaletti (responsabile)
Lucio d’alessandro
comitato scientifico
francesco M. De sanctis (Presidente), Giuseppe acocella
Giuliano adreani, Gianfranco Bettetini, Isabella Bossi fedrigotti
Gianluca Comin, Massimo Corsale, Piero Craveri, Lucio D’alessandro, Ornella
De sanctis, furio Garbagnati, Enzo Iacopino, andrea Melodia, Paolo Mieli,
Massimo Milone, Mario Morcellini, agata Piromallo Gambardella, Paolo
scandaletti, franco siddi
redazione
00186 Roma, via in Lucina 16/a
tel. 06 68802874
fax 06 45449621
Rosa Maria serrao [email protected]
[email protected] 06 68802874
Napoli: arturo Lando, franco Mennitto, andrea Pitasi
proprietà ed editore
UCsI www.ucsi.it
giunta esecutiva
andrea Melodia (presidente), Pino Nardi (vicepresidente)
franco Maresca (segretario), Mariella Cossu (tesoriera)
Maurizio Bassetti, sara Bessi, Guido Mocellin, Mario Repetto,
Gaeano Rizzo, francesco Occhetta s.i. (consulente ecclesiastico)
stampa
CsR -00158 Roma, via di Pietralata 157
iscrizione al ROC
n. 5421
arretrati
redazione DEsK:
[email protected]
finito di stampare: gennaio 2011
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QUANTO INTERESSA AL PAESE
LA RIFORMA DELL’UNIVERSITÀ?
LUCIO D’ALESSANDRO
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Lucio d’Alessandro, Preside
della Facoltà di Scienze della
Formazione, Università Suor
Orsola Benincasa di Napoli.
Dirige questa rivista insieme a
Paolo Scandaletti.
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l dibattito che ha accompagnato, spesso con toni concitati, l’accidentato iter della riforma dell’Università proposta dal ministro Gelmini è
stato segnato, come è noto, da numerose azioni di protesta e da manifestazioni di piazza alcune delle quali di notevole pericolosità per l’ordine
pubblico e anche per l’incolumità dei giovani protagonisti delle proteste. tuttavia, tale acceso dibattito non sembra aver prodotto grandi conseguenze sul testo della legge finalmente approvata nè maggiore consapevolezza nella classe politica sulle condizioni dell’università italiana. La
sensazione rimasta in chi scrive dall’ascolto delle molte voci che si sono
levate, è che la generalità dell’opinione pubblica, anche qualificata,
desse per scontato che qualsiasi manipolazione degli ordinamenti universitari ad opera del legislatore avrebbe turbato gli equilibri fisiologici
dell’università decretandone la fine, la morte. Non a caso, infatti, in
questi mesi si sono moltiplicati gli appelli a favore della sopravvivenza
dei morenti atenei (opera degli ottimisti) e, ancor più, i necrologi sulla
loro morte (opera dei pessimisti).
Il lettore vorrà perdonarmi il racconto, a questo proposito, di un piccolo aneddoto da me vissuto parecchi anni or sono nel luglio di un anno
che mi pare fosse il 1974. appena laureato, davo una mano al “mio
professore” e alla “sua cattedra” di filosofia del diritto nell’organizzazione degli esami della sessione estiva.
Gli “statini”, i grossi moduli per la verbalizzazione degli esami individuali, erano, per la seduta di luglio, parecchie centinaia ed io nello
stanzino del capo bidello della facoltà di Giurisprudenza (allora la
federico II e le Università in genere non sentivano ancora il bisogno di
darsi blasoni reali o addirittura imperiali) cercavo di dare ad essi una
sistemazione riunendoli in gruppi distinti in ordine alfabetico o per
matricola in modo da organizzare le lunghe giornate di esami che ci
attendevano. Il caldo intenso e il sole che entrava dalle alte finestre del
corridoio della facoltà su cui affacciava l’importante luogo di potere (lo
stanzino del capo bidello) da me provvisoriamente occupato, faceva
sudare sia me, sia il mio maestro, prof. antonio villani sia, infine, e
più copiosamente, il bidello dalla imponente corporatura che ci ospitava.
ad un tratto una folata di quel vento da cui avevamo sperato un po’ di
refrigerio, fece volare in un istante tutti gli statini che si sparsero disordinatamente per terra arrivando a far mulinello fin nel corridoio della
facoltà. fu giocoforza che non solo io e il mio professore, ma perfino il
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L’idea di Università è, da
sempre, un’idea profondamente legata al contesto storico e anche alle
concrete esigenze di una
società.
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bidello, finissimo tutti carponi per terra a cercare di raccogliere quelli
che erano, comunque, dei documenti ufficiali. Certo la scena, a ripensarci, era un po’ ridicola, ma in quel momento io, come giovane
responsabile della tenuta degli statini, me ne sentivo alquanto responsabile. Nessuno però mi rimproverò alcunché neppure il professore e l’anziano bidello costretto ad una fatica supplementare (con sudata annessa), non dovuta e, soprattutto, poco dignitosa. Evidentemente egli stava
meditando sull’accaduto tanto che qualche minuto dopo, allorché ebbe
ripreso la sua normale e più autorevole postura, confidò una sua considerazione di carattere generale e di respiro storico al professor villani,
filosofo della facoltà, nella forma della seguente domanda «Professò vi
ricordate quando c’era l’Università?». fece una pausa. Poi, calcando sul
verbo al passato, «quando c’era l’Università!». Il professore lo guardò in
silenzio, non so se condividendo.
Certo il pensiero per entrambi andava in quel momento ad un’università diversa, “presessantottina”, in cui il numero degli studenti era enormemente più basso mentre assai più alto era il prestigio dell’istituzione
e di chi ne faceva parte. L’ondata della contestazione si era abbattuta
con furia ben più devastatrice di una folata di vento su quel tipo di università che aveva pochissimi ed autorevolissimi professori ordinari che,
dall’alto delle loro cattedre, governavano non solo allievi e facoltà, ma
buona parte dei mondi professionali di riferimento (ospedali, case editrici, tribunali, ordini professionali).
Gli ordinamenti, più per sgonfiare le contestazioni che per aggiornare
l’Università, erano stati cambiati in più punti, soprattutto erano nati i
“piani di studio individuali degli studenti” che, a fronte della rigidità
delle liste di esami tradizionali del sistema precedente, consentivano a
ciascuno studente di scegliersi alcuni esami, spesso eliminando qualche
“bestia nera” e inserendo al suo posto alcuni esami facoltativi che allora
si chiamavano “complementari”. Di conseguenza, i professori titolari
delle “bestie nere” avevano (in qualche caso abbastanza poco onorevolmente) ridotto i programmi mentre, al contrario, il numero delle sedute di esami e degli studenti era aumentato a dismisura: era l’università
di massa di una società di massa. Era chiara e ben comprensibile, dunque, la nostalgia dell’anziano bidello che aveva svolto per decenni il suo
(mai secondario) ufficio in un’Università diversa sostanzialmente di
èlite, tanto diversa che quella degli anni ’70, in cui continuava a lavorare in attesa della pensione, non gli sembrava neppure più Università.
Un lungo aneddoto semplicemente per vivere con il lettore, in maniera
concreta, il concetto del tutto ovvio che l’idea di Università è, da sempre, un’idea profondamente legata al contesto storico e anche alle concrete esigenze di una società. La conseguenza è che, pur essendo l’Università un’istituzione più che millenaria, essa continua a svolgere un’importantissima funzione, peraltro ampiamente mutata nel tempo rispetto
alle modalità di espletamento, ma non esiste certo un assetto istituzionale
predefinito al punto che si possa dichiarare “viva” o “morta” l’Università
a seconda che il modello adottato dal nuovo legislatore corrisponda o
meno a quell’assetto. Del resto lo stesso modello humboldtiano adottato
dall’Università tedesca a partire da quella di Berlino nel 1809 – che
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sembra costituire ancora oggi il retropensiero ed il modello unico fortemente statalistico a cui dovrebbe uniformarsi l’Università in genere, italiano in particolare di chi critica la riforma Gelmini – fu il poderoso, ma
anche ben datato frutto di un dibattito teorico che aveva visto impegnati
maestri del pensiero filosofico quali fichte, schleiermacher, schelling,
oltre lo stesso Humboldt. Esso costituì il punto di approdo di un modello di società che aveva visto progressivamente svilupparsi, accanto ad una
borghesia degli studi (Bildungsburgertum) al servizio dello stato, un’ambiziosa borghesia economica (Wirtschaftsburgertum) al servizio della produzione industriale e del commercio. Entrambe queste “borghesie” vedevano in un’educazione (bildung) universitaria monopolizzata dallo stato, fortemente legata alla ricerca e sganciata da immediate finalità professionali,
un elemento certificativo dei saperi posseduti e, soprattutto, un “segno di
riconoscimento” quasi un nuovo blasone di legittimazione del proprio
ruolo dirigente.
Ora se è vero che certe funzioni assegnate allora all’Università (formazione dei quadri dirigenti, elaborazione di un pensiero critico relativamente
libero da condizionamenti, certificazione dei saperi) sono tuttora presenti
e sono forse ancora oggi il “sale” dell’Università, è anche vero che già un
secolo fa Max Weber giudicava “fittizia” l’istituzione universitaria tedesca
ormai superata dall’emergere della “questione sociale” e che, già nel 1910
(più di un secolo fa!), veniva fondata un’istituzione la Kaiser Wihelm –
Gesellschaft zur förderung der Wissenschaften -che, a fronte dell’enorme
sviluppo del modello universitario statunitense, era essenzialmente finanziata dai privati. Ormai più di un secolo fa l’Università rigidamente statale della Germania apriva a vele spiegate ai capitali privati per il finanziamento della ricerca!
In Italia la riforma dell’Università è tema che, a fronte di una evidente
inadeguatezza degli ordinamenti, domina la scena politica da almeno un
quindicennio. In questi anni molti errori sono stati commessi in quel
vero e proprio cantiere in perenne costruzione che è stata l’Università italiana: la moltiplicazione degli atenei sul territorio ha determinato una
sorta di “licealizzazione” dell’Università con la tendenza a mantenere la
formazione in ambito locale, peraltro in un’epoca di spinta globalizzazione; il passaggio dal sistema delle lauree quadriennali a quello del tre più
due con la conseguente introduzione dei crediti formativi universitari e la
riduzione dei programmi, ha creato notevole confusione nell’offerta formativa e un aumento dei costi complessivi senza aprire nuove possibilità
di occupazione per i triennalisti; il reclutamento del personale docente
mediante concorsi locali, attraverso un perverso intreccio con un malinteso concetto di autonomia degli atenei e con la famigerata indicazione
dei requisiti minimi nella sola docenza di ruolo, ha finito per gonfiare
artificiosamente gli organici, accentuando gli aspetti deteriori del mondo
accademico con una moltiplicazione delle cattedre non sempre dettata
dai soli criteri del merito scientifico e con l’ulteriore risultato di abbassare il livello qualitativo della ricerca e di accentuare il perverso fenomeno
della c.d. «fuga dei cervelli».
a ciò si aggiunga che il parallelo processo di istituzione dei centri di
eccellenza, più che un effettivo progresso nella ricerca avanzata, ha sem-
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In Italia la riforma
dell’Università è tema
che, a fronte di una
evidente inadeguatezza degli ordinamenti,
domina la scena politica da almeno un
quindicennio.
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La riforma Gelmini
dovrebbe chiudere questo periodo di riforme «a
metà» tentando di correggere almeno qualcuno
dei tanti errori commessi.
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brato segnare, soprattutto nel campo umanistico, un tardivo tentativo
di resistenza dell’èlites intellettuali piuttosto che un’apertura significativa all’innovazione e all’internazionalizzazione. Infine il susseguirsi di
leggi e di decreti di riforma, di semiriforme o riformine dell’università,
ha creato un vero e proprio “ingorgo” normativo ed una sorta di “stress
istituzionale” nei quali gli organismi universitari hanno ulteriormente
consumato le proprie energie.
La riforma Gelmini dovrebbe chiudere questo periodo di riforme «a
metà» tentando di correggere almeno qualcuno dei tanti errori commessi. Essa appare, infatti, nel complesso, come una razionalizzazione dell’esistente diretta a dare un equilibrio relativamente stabile all’Università di
questo inizio millennio.
voglio subito dire che nel quadro che ho sommariamente cercato di
delineare, quella della Gelmini è un onesto tentativo di alta manutenzione e, in questo senso, è nel complesso una buona legge. Certo si poteva
fare di più, ma la nuova riforma contiene elementi utili per far sì che
l’Università possa accompagnare il Paese verso un nuovo cammino di
sviluppo e cerca di adeguare il sistema universitario italiano alle esigenze di una società che è già cambiata e, ancora, sta rapidamente cambiando.
tra gli elementi positivi va innanzitutto segnalato il tentativo di ridurre
il numero degli atenei dando ad essi la possibilità di federarsi, di ridurre il numero delle facoltà potenziando il ruolo dei dipartimenti, di
separare nettamente i compiti più strettamente scientifici di organizzazione della comunità degli studiosi affidati al senato accademico, dagli
aspetti economico-gestionali rimessi, invece, al Consiglio d’amministrazione. anche la riduzione della durata della carica di Rettore ad un
solo mandato di sei anni costituisce un’innovazione positiva, anche perché nell’arco del suo mandato «breve» il Rettore diviene una figura
ancor più centrale nella vita e nell’organizzazione di ciascun ateneo.
Nel Consiglio d’amministrazione entrano obbligatoriamente due o tre
componenti – a seconda del numero complessivo dei consiglieri – esterni al mondo universitario provenienti da settori qualificati della società
e del mondo della cultura e della produzione. Pensare oggi ad un’Università completamente recinta da mura e chiusa sull’esterno sarebbe,
del resto, pura follia!
L’introduzione della figura del direttore generale, che diviene elemento
centrale e responsabile dell’economicità e dell’efficienza della gestione,
secondo le direttive del Consiglio d’amministrazione, appare anch’essa
un’innovazione significativa, soprattutto se riuscirà a farsi spazio all’interno delle complesse burocrazie amministrative degli atenei.
altro elemento significativo è il tentativo di introdurre forme di valutazione della didattica e della ricerca attraverso un ampliamento delle
funzioni dell’anvur, che avrà un ruolo importante nella distribuzione
dei finanziamenti pubblici e l’introduzione del Comitato nazionale dei
garanti per la ricerca, composto da sette studiosi italiani o stranieri
nominati dal Ministro in una lista composta da un minimo di dieci a
un massimo di quindici docenti selezionati tra studiosi di notorietà
internazionale. L’ampliamento dei compiti dell’anvur – che tuttavia
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non è ancora entrata in funzione – sembra avvicinare sempre di più le
caratteristiche di questa istituzione a quelle di una vera e propria autorità
di regolazione del mondo della formazione e della ricerca universitaria in
grado di incidere significativamente sulla distribuzione delle risorse.
Quanto al reclutamento del personale docente, la reintroduzione dell’abilitazione nazionale, con l’utilizzazione del metodo del sorteggio tra una
lista di professori ordinari particolarmente qualificati per la scelta dei
componenti della commissione nazionale e la presenza obbligatoria di un
professore di ruolo di uno dei Paesi dell’Ocse, avrebbe la funzione di
garantire in miglior misura la prevalenza dei criteri del merito scientifico
nella valutazione dei futuri docenti di prima e seconda fascia: è un’innovazione non piccola che in parte mortifica (ingiustamente?) l’accademia
italiana, visto che non vi è reciprocità da parte degli altri Paesi: aspettiamo di vedere come funzionerà! Il successivo passaggio della chiamata da
parte dei singoli atenei avviene attraverso un’ulteriore valutazione, sul
piano locale, del lavoro di selezione compiuto dalla commissione nazionale.
L’abolizione della figura dei ricercatori a tempo indeterminato e la definitiva scelta del legislatore a favore della figura dei ricercatori a tempo
determinato – peraltro già presente da qualche anno nell’ordinamento
universitario – costituisce un’innovazione volta a porre fine alle forme di
precariato di lunga durata che, nel sistema attuale, si trascinano all’interno delle carriere accademiche e che, il più delle volte, legano i ricercatori
alle esigenze di ricerca e ai carichi di insegnamento dei loro maestri piuttosto che all’effettiva pratica di ricerche innovative.
Il tempo determinato per i ricercatori, del resto, finisce per diventare una
scommessa anche per gli atenei che rischiano di investire risorse ‘a
vuoto’ per giovani destinati ad essere assorbiti da altri settori professionali. La selezione nell’individuazione dei ricercatori a tempo determinato
dovrebbe garantire l’ottimizzazione della scelta sia dal lato di coloro che
intendano intraprendere una vita di studio, sia da parte delle Università
‘costrette’ a investire sulle risorse migliori.
Per i ricercatori a tempo indeterminato si è scelto di evitare la strada dell’ope legis – che pure in passato era stata ampiamente utilizzata – per il
passaggio alla fascia docente e, nel contempo, di evitare anche il triste
destino del «binario morto» di un ruolo ad esaurimento, scegliendo la via
del reclutamento straordinario dei professori di seconda fascia che prevede la frequenza annuale «inderogabile» delle procedure per il conseguimento dell’abilitazione alla docenza.
Per i ricercatori che abbiano l’effettivo affidamento di un corso d’insegnamento la nuova legge prevede, inoltre, la possibilità di una retribuzione
aggiuntiva sulla base delle disponibilità di bilancio di ciascun ateneo.
La riforma Gelmini tende a superare il sistema attuale di verifica delle carriere che in verità non aveva funzionato poi così male.
La Gelmini, infatti, elimina lo straordinariato per la prima fascia e la conferma per la seconda fascia, slegando la progressione stipendiale dal merito dell’attività scientifica. La valutazione dell’attività didattica e scientifica viene invece rimessa esclusivamente ai singoli atenei attraverso la redazione da parte del docente di una relazione triennale elaborata secondo
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La selezione nell’individuazione dei ricercatori a tempo determinato dovrebbe
garantire l’ottimizzazione della scelta sia
dal lato di coloro che
intendano intraprendere una vita di studio, sia da parte delle
Università ‘costrette’ a
investire sulle risorse
migliori.
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È chiaro che nelle intenzioni del Governo il
merito dovrebbe costituire l’unico metro di valutazione dell’attività universitaria sia per i docenti che per gli studenti.
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le regole contenute in un apposito regolamento di ateneo redatto sulla
base di criteri fissati dall’anvur.
tale innovazione rischia, però, di aumentare l’autoreferenzialità degli
atenei dal momento che nel sistema attuale le carriere dei docenti
sono tra quelle maggiormente soggette a controlli. Il sistema della conferma e dello straordinariato costituisce, infatti, una seria forma di valutazione delle attività svolte dai docenti nei tre anni successivi all’ingresso in ruolo, attraverso il giudizio di una Commissione esterna composta da tre membri.
È chiaro che nelle intenzioni del Governo il merito dovrebbe costituire
l’unico metro di valutazione dell’attività universitaria sia per i docenti
che per gli studenti.
In questo senso la riforma cerca di introdurre forti dosi meritocrazia
creando un apposito fondo speciale alimentato anche da privati e da
enti e fondazioni «finalizzato a promuovere l’eccellenza e il merito fra
gli studenti», mediante l’introduzione di «prove nazionali standard».
I meccanismi di distribuzione del fondo ordinario di finanziamento
dell’Università passano sempre più attraverso il giudizio dell’anvur che,
tuttavia, ancora attende di divenire pienamente operativa. Gli scatti stipendiali dei docenti e dei ricercatori diventano definitivamente triennali e, in caso di valutazione negativa ai fini dello scatto stipendiale non si
può partecipare ai concorsi o ottenere cariche accademiche.
Nell’intenso dibattito che ha accompagnato la riforma e nelle dure proteste degli studenti e di parte del corpo docente e ricercatore sono
emerse diverse posizioni: quelle favorevoli, soprattutto da parte della
Crui, di Confindustria e degli editorialisti del «Corriere della sera» e de
«Il sole 24 Ore»; quelle favorevoli alla riforma, ma critiche verso un
modello di legge delega eccessivamente complesso che rischia di creare nuovi
‘lacci e lacciuoli’ con una miriade di decreti e regolamenti necessari
all’applicazione della nuova disciplina; quelle apertamente contrarie
della maggioranza degli studenti universitari e medi, dei ricercatori precari e di parte del corpo docente universitario, di parte del sindacato e
delle forze politiche di estrema sinistra.
Le proteste degli studenti, in parte comprensibili, come ha sicuramente
valutato anche il Presidente della Repubblica ricevendo una delegazione
di studenti e di precari, sono dovute, in primo luogo, ai tagli complessivi
che negli ultimi anni sono stati effettuati nel finanziamento pubblico
degli atenei e, in generale, nella ricerca. Non a caso gli studenti hanno
sempre sottolineato che si tratta di una riforma Gelmini-tremonti dettata
anche dalla necessità di riduzione della spesa pubblica piuttosto che dalla
necessità di un effettivo rilancio del settore della ricerca e della formazione che risulta ancor più indispensabile nei periodi di crisi economica per
incentivare l’innovazione e riattivare i canali della produzione e dello sviluppo. auguriamoci che, come il Ministro ha più volte affermato, i fondi
vengano trovati essendo noto che nè si fanno buone nozze coi “fichi secchi” nè si fanno riforme senza soldi.
Detto questo, però, c’è da dire che il mondo universitario aveva bisogno di una riforma di sistema, soprattutto perché gli interventi degli
ultimi vent’anni, come accennato sopra, sebbene ispirati da nobili prin-
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cipi e da sincere intenzioni di migliorare il sistema, non hanno ottenuto i
risultati sperati.
Il dibattito nel mondo accademico fu segnato sin dall’inizio degli anni
Novanta dal libro di Raffaele simone “L’Università dei tre tradimenti”,
che disegnava un quadro drammatico di un’Università che finiva per
essere funzionale soltanto a se stessa, senza realizzare alcuno dei compiti
che la società le aveva affidato.
È vero che, dopo “Mani pulite”, l’accademia ha effettivamente svolto una
funzione di supplenza del mondo politico, fornendo ministri, presidenti
del consiglio, semplici parlamentari e amministratori locali, ma è pur
vero che una vera riforma dell’Università, in effetti, non è mai stata al
centro dell’interesse della società italiana, come sarebbe stato necessario.
Il dibattito è stato dominato dalla retorica di “parentopoli” e della «casta
accademica», piuttosto che da una riflessione seria e approfondita. anche
per quanto riguarda la meritocrazia non bisogna dimenticare che l’Italia,
pur essendo sempre agli ultimi posti nelle classifiche internazionali sui
finanziamenti all’Università e alla ricerca, riesce a fornire laureati eccellenti come dimostra, per certi versi, anche il successo dei laureati italiani
all’estero che costituisce, se ci si riflette bene, l’unico aspetto, per così
dire, positivo della «fuga dei cervelli».
D’altra parte, se il modello di un’Università chiusa, elitaria, costruito sull’esempio ottocentesco humboldtiano, in cui l’accademia doveva servire
soltanto alla scienza e, al più, fornire le classi dirigenti che avrebbero
dovuto completare, dopo la laurea, la propria formazione pratica con l’esercizio delle professioni liberali o con l’ingresso nell’alta burocrazia statale o nell’organizzazione dell’impresa privata, appare ormai definitivamente superato, la riforma Gelmini non propone un modello effettivamente
innovativo nonostante le significative aperture al mondo dell’impresa e
della produzione e a quello delle professioni e della cultura esterna al
mondo accademico.
La possibilità di ricorrere per la docenza a qualificati professionisti già
dotati di un reddito autonomo, la possibilità di costituire società con
caratteristiche di spin off o di start up universitari appare un’apertura
significativa, ma ancora troppo timida rispetto all’innovazione tumultuosa di questi anni.
L’Università dovrebbe stare accanto ai giovani che intendano creare nuove
iniziative imprenditoriali, oltre che compiere, come pure si è iniziato a fare
in questi anni, un’accurata attività di orientamento al lavoro e di vero e
proprio job placement per seguire e coadiuvare l’effettivo ingresso dei laureati nel mondo del lavoro e della produzione.
a questo scopo sarebbe stato forse utile inserire i rappresentati più qualificati dell’impresa e della produzione, oltre che nei consigli d’amministrazione, anche – e soprattutto – all’interno di strutture nuove, ancora tutte
da costruire, che, alla fine del percorso della formazione universitaria,
provvedano nei modi più diversi e innovativi a inserire i laureati nelle
posizioni richieste da un mercato del lavoro sempre più flessibile e con esigenze che cambiano con una rapidità mai conosciuta prima.
Partendo dalla riforma Gelmini, per l’attuazione della quale occorrerà
probabilmente ancora molto tempo, occorrerebbe cominciare seriamente
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C’è da dire che il
mondo universitario
aveva bisogno di una
riforma di sistema,
soprattutto perché gli
interventi degli ultimi
vent’anni, sebbene
ispirati da nobili principi e da sincere
intenzioni di migliorare il sistema, non
hanno ottenuto i risultati sperati.
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Si tratta di capire quale
possa essere la funzione
dell’Università in una
società ben collocata
nello spazio e nel tempo
come quella italiana di
oggi di cui la Gelmini
vorrebbe disegnare il
modello universitario.
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ad attivare quel dialogo costruttivo che veda come protagoniste tutte le
componenti del mondo universitario e che sia effettivamente aperto al
contributo di tutte le voci interessate a costruire il futuro dei nostri giovani.
In conclusione, la riforma Gelmini parte dall’assunto scontato – ma
non banale – che l’Università sia sede della libera ricerca e della libera
formazione e come tale sia «luogo di approfondimento» e di «elaborazione critica delle conoscenze». sembra positivo il recupero, proprio nell’art. 1, di una programmazione concertata tra stato e Università rispetto a fini specifici dei singoli atenei, anche da conseguirsi con modalità
organizzativo/amministrative diverse da quelle previste dalla legge, attraverso lo strumento, da chi scrive più volte auspicato, dei «contratti di
programma» ai quali accederebbero quelle università che hanno conseguito la stabilità e la sostenibilità del bilancio.
si tratta, a quanto pare, di una riassunzione reciproca di responsabilità
tra stato e Università, garantendo a quelle tra queste che siano capaci di
esporre risultati positivi e proposte innovative, l’inserimento all’interno
di un tessuto, ma anche di un sostegno amministrativo ed economico
nazionale che, se correttamente ed effettivamente attuato, non può che
costituire un effettivo salto di qualità rispetto ad una situazione attuale
in cui le Università usufruivano di una sorta di autonomia senza confronto (ma anche senza risorse) che ha lasciato spesso spazio ad iniziative
autoreferenziali e di respiro esclusivamente localistico ispirate agli interessi (necessariamente di corta prospettiva) delle classi politiche locali. In
molti casi, d’altra parte, tale situazione si è spesso rivelata frustrante per
le iniziative di più lunga programmazione e di più vasto raggio d’azione.
se il sistema universitario nazionale è destinato a promuovere il progresso culturale, civile ed economico della Repubblica, la sorta di autoreferenziale deiezione – è il termine usato da Heidegger per indicare la vita
“gettata ed abbandonata all’esistenza banale ed inautentica– in cui le
Università (specie quelle situate in territori più deboli e con minori tradizioni accademiche) sono venute a trovarsi, è l’esatto contrario di quanto possa essere utile ad Università che siano effettivamente parte di un
“sistema”, il quale, in quanto tale, non può che avere momenti di coordinamento nazionali e di individuazione con il Governo ai suoi massimi
livelli, dei “focus” dinamici che tendano a dare propulsione e sempre
nuove finalità al sistema.
si tratta invece di capire quale possa essere la funzione dell’Università
in una società ben collocata nello spazio e nel tempo come quella italiana di oggi di cui la Gelmini vorrebbe disegnare il modello universitario.
È proprio su questo punto che il dibattito, spesso troppo attento a logiche di schieramento, è sembrato piuttosto povero.
Queste le parole, speriamo nelle cose.
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IL RUOLO DEL SERVIZIO PUBBLICO
RADIOTELEVISIVO NELLA NUOVA
REALTÀ DIGITALE
ANTONIO MARTUSCIELLO
a rivoluzione digitale sta
determinando radicali
trasformazioni
nel
mondo dei media, che
riguardano non solo specifici elementi (come i fattori della produzione) ma
l’intero sistema della comunicazione,
arrivando a coinvolgere le strategie, i
modelli di business e le modalità di circolazione e consumo dei contenuti.
La convergenza tecnologica ha prodotto il superamento del precedente assetto del sistema, strutturato in comparti
distinti e basato sulla corrispondenza
tra mezzi e contenuti veicolati, e lo ha
sostituito con ambienti digitali in
grado di accogliere qualunque tipo di
contenuto accessibile su una molteplicità di piattaforme.
In particolare, lo sviluppo delle tecnologie digitali e la loro applicazione l’applicazione al mondo dei media ha
generato due fenomeni di particolare
rilevanza: la disintermediazione e dematerializzazione dei contenuti.
Con il primo ci si riferisce alla possibilità, per il consumatore che si muove
in ambiente digitale, sia di fruire i contenuti senza l’intermediazione ‘istituzionale’ di altri soggetti (l’utente acqui-
L
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sisce ed elabora personalmente e direttamente le informazioni), sia di creare
e distribuire contenuti propri. sotto
questo aspetto vengono in rilievo fenomeni come i blog e i social network,
nuove pratiche di interazione sociale,
nonché il cosiddetto user generated content, contenuti creati direttamente
dagli utenti e condivisi con il pubblico
attraverso la piattaforma web.
Il secondo fenomeno attiene al fatto
che il contenuto nel mondo digitale è
svincolato dal supporto fisico e, in
conseguenza di ciò, è ormai privo di
costrizioni quali, ad esempio, il tempo
di distribuzione e la qualità o la quantità della riproduzione. In ambiente
digitale, dove il prodotto/contenuto è
semplicemente la rappresentazione di
una stringa numerica composta di 0 ed
1, la stessa distinzione tra documento
originale e copia di fatto scompare. Le
ricadute di tale fenomeno si avvertono
principalmente a livello economico in
quanto la dematerializzazione ha
amplificato, specie tra le giovani generazioni, il diffondersi di pratiche che
bypassano di fatto le tradizionali logiche di mercato. Basta pensare a tutta
una serie di usi sociali di Internet (il
11
Antonio
Martusciello, Commissario Autorità
per le Garanzie
nella
Comunicazione,
AGCOM
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cd. Web 2.0) come nei casi dei siti
Facebook o YouTube che si basano su
pratiche relative alla condivisione ed
allo scambio tra gli utenti di testi,
immagini e di altri contenuti (file sharing).
La spinta di tali fattori sta dunque producendo la ridefinizione dell’assetto
dei media nonché la radicale trasformazione delle modalità di fruizione
dei contenuti.
In ambiente analogico il contenuto è
sempre stato diffuso attraverso una
specifica rete trasmissiva ovvero attraverso uno specifico supporto.
In ambiente digitale, esso invece viaggia su differenti reti e la sua fruizione
non è più legata ad un contesto spaziotemporale definito ex ante in base alle
caratteristiche dell’offerta, ma viene
sempre più deciso ex post in base alle
specifiche esigenze della domanda. In
estrema sintesi, la rivoluzione digitale
ha avviato un processo di convergenza
tra i media il cui punto di arrivo può
essere individuato nel paradigma
“anywhere, anytime and on any device”.
In questo contesto, cambia radicalmente il ruolo dello stesso utente/consumatore, che nella nuova realtà diventa parte attiva della catena del valore.
Nel mondo dei contenuti tradizionali,
la catena del valore collocava il consumatore alla fine del processo. Nel
nuovo contesto digitale, il consumatore non è più un soggetto passivo della
catena, ma diviene un intrattenitore
attivo, un “prosumer”, ovvero un produttore-consumatore. Mentre nell’ambiente analogico l’attività di organizzazione di contenuti era un’attività tipicamente svolta dall’ editore, nel nuovo
contesto digitale il consumatore, componendo i contenuti secondo le pro-
12
prie esigenze o creandoli direttamente,
diventa egli stesso attore del processo
di erogazione del servizio. L’industria
dei media sta sempre di più passando
da una fase di orientamento al prodotto
ad una fase di orientamento al cliente.
2. se dunque, in linea generale, questi
sono i fattori di cambiamento che
stanno attraversando l’intero mondo
dei media, con specifico riferimento al
settore radiotelevisivo, l’innovazione
tecnologica e la rivoluzione digitale
hanno innescato processi di innovazione non meno penetranti ed incisivi.
La digitalizzazione delle reti ha prodotto un aumento notevole della
varietà e della disponibilità dei contenuti, sia dal lato dell’offerta (es. offerte multicanale, pay-tv, ) che dal lato
della domanda (possibilità di time shifting, personalizzazione del palinsesto).
Le possibilità di compressione del
segnale e la sua codifica numerica,
hanno infatti ridotto i problemi di
scarsità presenti nell’offerta audiovisiva analogica contribuendo alla moltiplicazione e alla differenziazione dei
prodotti, anche in chiave distributiva.
ad un’offerta generalista tipica del
broadcasting tradizionale, si stanno
affiancando nuove e più avanzate
modalità di consumo dei contenuti
(canali tematici, canali semigeneralisti), che contribuiscono a trasformare
la comunicazione audiovisiva da un’offerta generalista e lineare, in una non
lineare e personalizzata.
Nel vecchio mondo analogico, il palinsesto coincideva con l’organizzazione
di una sequenza di trasmissioni televisive proposte al medesimo orario, predisposta dal fornitore di contenuti per
un certo periodo (un giorno, una setti-
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mana, un mese) con lo scopo di fidelizzare il telespettatore.
Oggi, diversamente, le nuove e maggiori possibilità di distribuzione dei
contenuti audiovisivi hanno svincolato l’idea di televisione dal concetto di
canale e dalla temporalità rigida del
palinsesto. Nel nuovo ambiente digitale, al palinsesto generalista della
televisione tradizionale si va affiancando il palinsesto “personalizzato”,
organizzato e gestito direttamente
dagli utenti. In sintesi la moltiplicazione dei canali e l’offerta sempre più
ampia, diversificata e personalizzata,
stanno notevolmente accrescendo le
opportunità di accesso ai contenuti
audiovisivi da parte degli utenti, trasformando in questo modo la struttura complessiva del mercato e dell’offerta televisiva, che oggi è sempre più
multi-canale e multi-piattaforma.
a seguito della digitalizzazione, la televisione si è moltiplicata, uscendo in
alcuni casi dal televisore per collocarsi
su altri media. sotto questo profilo,
sul piano scientifico, sono state elaborate aggregazioni concettuali delle
piattaforme trasmissive, giungendo a
definire e distinguere tre nuove
macro-accezioni di televisione1:
la Sofa-Tv, che include tutte le
televisioni fruite tipicamente tramite lo schermo
televisivo tradizionale,
opportunamente dotato
di una “connessione”
digitale (tv satellitare,
digitale terrestre e televisione su protocollo internet);
la Desktop-Tv, che include
tutti i canali video fruibili tramite Web (e Internet
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più in generale), per
mezzo del computer;
la Hand-Tv, che include le
offerte tv e video disponibili sulle due piattaforme Mobile, quella basata
su reti Dvb-h e quella basata sulle Reti cellulari.
Con la nuova tv digitale si determinano, altresì, scomposizioni e aggregazioni di competenze e responsabilità.
se nel sistema analogico l’emittente
assolveva alla duplice funzione di editore e operatore di rete, cioè di colui
che componeva i palinsesti e li trasmetteva, l’evoluzione del servizio televisivo ha delineato un’architettura dell’offerta più complessa rispetto al passato.
L’altro importante fattore di cambiamento, infatti, prodotto dalla rivoluzione digitale sul mondo della televisione, è il superamento dell’integrazione verticale delle imprese televisive che
conduce ad una sempre più marcata
distinzione dei ruoli tra i vari componenti della catena del valore. Già nel
2001, sul piano normativo, con la delibera n.435 dell’agcom 2, si era separata la filiera della televisione digitale
terrestre in tre distinte figure: l’operatore di rete, il fornitore di servizi ed il
fornitore di contenuti. Oggi, accanto a
questi attori si affiancano e si sovrappongono nuovi player come, ad esempio, la figura dell’aggregatore, di contenuti o di canali, ovvero un soggetto
che aggrega i contenuti audiovisivi propri e/o di terzi, offrendoli direttamente, all’utente finale o, a livello wholesale ad altri fornitori.
In conclusione, nel contesto digitale,
l’industria televisiva ed in generale
13
Le Tv Digitali fra
crescita, sperimentazione e cambiamento, Osservatorio New tv,
scool of Management - Politecnico di Milano,
2008.
1
2
Delibera 435/01
/CONS del 14
novembre 2001,
recante Approvazione del regolamento relativo alla
radiodiffusione terrestre in tecnica
digitale, in Gazzetta Ufficiale
della Repubblica
italiana n. 284
del 06 dicembre
2001.
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quella dei contenuti, sta cambiando
radicalmente. L’attuale assetto del mercato si presenta in costante evoluzione,
e regista una crescente concorrenza sul
fronte della distribuzione. La competizione multi piattaforma rappresenta,
infatti, un’opportunità per gli operatori del settore per accrescere e diversificare i flussi di ricavi, per raggiungere
audience più vaste in differenti
momenti della giornata nonché per
ampliare la propria offerta al fine di
rendere più sostenibile il proprio
modello di business.
Comunicazione
della Commissione
relativa all’applicazione delle norme
sugli aiuti di Stato
al Servizio pubblico
radiotelevisivo
(2009/C
257/01), in Gazzette Ufficiale
dell’Unione
europea del 27
ottobre 2009.
3
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3. Naturalmente questo contesto di
forte cambiamento dello scenario
radiotelevisivo sta investendo anche il
servizio pubblico radiotelevisivo. si
rende pertanto necessaria una riflessione sull’azione e sull’evoluzione che
lo stesso deve avere nel nuovo ambiente digitale, al fine di continuare ad
assolvere il proprio mandato istituzinale. Non bisogna dimenticare infatti,
che il servizio pubblico radiotelevisivo,
anche secondo i più recenti indirizzi
comunitari espressi nella nuova raccomandazione sugli aiuti di stato3, pur
avendo un’evidente importanza economica non è paragonabile a un servizio
pubblico di un qualunque altro settore
economico. Non vi è, infatti, altro servizio che allo stesso tempo abbia accesso a una così ampia fascia della popolazione, fornisca tante informazioni e
contenuti e, in tal modo, raggiunga e
influenzi i singoli individui e l’opinione pubblica. In questo senso, per anni,
l’offerta generalista del servizio pubblico ha rappresentato lo strumento culturale d’elezione della società, in virtù
del potere unificante conferitole dall’essere veicolo di visioni del mondo
14
condivise dalla comunità del pubblico
nazionale. Con la tv la cultura di
massa è stata fattore di omogeneità tra
classi sociali e generazioni, assurgendo
a fattore di condivisione e di scambio
comunicativo. Oggi, invece, la moltiplicazione e la diversificazione degli
ambienti mediali sta favorendo, sempre di più, la perdita di rilevanza del
paradigma della cultura di massa mettendo in crisi lo stesso concetto di cultura.
In questo panorama di grandi mutamenti, pertanto, i valori del servizio
pubblico conservano la loro importanza: la RaI deve necessariamente mantenere ed accrescere il proprio ruolo di
garante del pluralismo informativo e
culturale. Pertanto le relative scelte
strategiche, su come affrontare la
nuova realtà digitale, non possono
essere dominate ed orientate esclusivamente da logiche di mercato.
ad esempio, è facile ipotizzare che la
presenza di un contesto competitivo
così variegato ed articolato farà sorgere
il problema di come costruire un’offerta di contenuti qualitativamente
significativa e di come finanziarla.
Infatti il processo di frammentazione
del pubblico, determinato dalla moltiplicazione dei canali, comporta fisiologicamente una diminuzione degli
ascolti e quindi della pubblicità come
fonte di finanziamento. Pertanto il
rischio concreto è che gli operatori
commerciali, in una pura logica di
mercato, forniscano i contenuti più
attrattivi in termini di qualità soltanto
attraverso offerte a pagamento, emarginando così una larga fetta della
popolazione che per ragioni legate a
fattori di reddito non potrà accedere
alla fruizione di degli stessi.
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In una logica di servizio pubblico
radiotelevisivo, invece, l’offerta non
deve essere condizionata dalla esclusiva rincorsa dell’audience e del profitto,
ma deve indirizzarsi a tutti i cittadini
in modo articolato e diversificato sia
nei contenuti sia nelle modalità di
distribuzione.
In questo senso un’indicazione forte e
precisa è stata data dall’autorità per le
Garanzie delle comunicazioni con l’emanazione delle linee-guida sul contenuto degli ulteriori obblighi del servizio pubblico radiotelevisivo4, sulla
base delle quali dovrà essere adottato
il nuovo contratto di servizio 20102012. In particolare, sul presupposto
che il nuovo contratto di servizio è
chiamato ad assolvere al compito di
traghettare il servizio pubblico generale radiotelevisivo dal sistema analogico
al sistema multicanale digitale, le linee
guida dell’autorità hanno fissato una
serie di obiettivi il cui raggiungimento appare strategico ai fini della gestione della fase di passaggio al digitale e
dell’adeguato posizionamento della
televisione di servizio pubblico nel rinnovato sistema mediale.
Nello specifico, sono stati individuati
nove compiti prioritari del servizio
pubblico:
fornire ai cittadini una programmazione equilibrata e di qualità;
Rappresentare l’Italia in tutte le
sue articolazioni territoriali, sociali e
culturali;
Promuovere l’educazione e l’attitudine mentale all’apprendimento e
alla valutazione;
stimolare l’interesse per la cultura e la creatività, anche valorizzando
il patrimonio artistico nazionale;
Garantire la fruizione gratuita
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dei contenuti di qualità;
Promuovere la conoscenza dell’Italia nel mondo e una non superficiale conoscenza del contesto internazionale in Italia;
Promuovere la diffusione dei
principi costituzionali e la consapevolezza dei diritti di cittadinanza e la
crescita del senso di appartenenza
dei cittadini italiani all’Unione europea;
Rispecchiare la diversità culturale e multietnica nell’ottica dell’integrazione e della coesione sociale;
Estendere al maggior numero di
cittadini i benefici delle nuove tecnologie, in un contesto innovativo e
concorrenziale
Particolare attenzione è stata posta in
merito a due obiettivi fondamentali: la
qualità della programmazione e l’innovazione tecnologica.
Con riferimento al primo è stato
imposto l’obiettivo di un innalzamento degli standard qualitativi delle trasmissioni della RaI chiedendole di
assicurare un’offerta complessiva gratuita che si rivolga alla società nel suo
insieme, in considerazione anche delle
differenze anagrafiche, culturali, sociali, regionali ed etniche della popolazione, e nel rispetto dei diritti della
dignità delle persone e dello spirito di
coesione sociale. a tal fine il servizio
pubblico dovrà:
assicurare un’offerta quotidiana articolata e diversificata per rete/canale, tale
da garantire opzioni di scelta delle
diverse trasmissioni finanziate dal
canone su ogni rete/canale in ogni
fascia oraria;
rafforzare il proprio marchio nel contesto nazionale attraverso una più evidente caratterizzazione qualitativa del-
15
Delibera n.614/
09/CONs del 12
novembre 2009,
recante Ap-provazione delle lineeguida sul contenuto
degli ulteriori obblighi del servizio pubblico generale radiotelevisivo ai sensi
dell’articolo 17,
comma 4, della
legge 3 maggio
2004, n. 112 e dell’articolo 45,
comma 4, del testo
unico della radiotelevisione, in Gazzetta Ufficiale
della Repubblica
italiana n. 276 del
26 novembre
2009.
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l’offerta di servizio pubblico.
L’appiattimento dei contenuti televisivi causato dalla rincorsa all’audience,
ha infatti portato negli anni alla perdita di alcuni generi tipici del servizio
pubblico radiotelevisivo e a un generale appiattimento delle trasmissioni.
Per invertire tale tendenza si è chiesto
alla concessionaria di favorire la trasmissione di programmi che per lo più
non rientrano nell’offerta delle emittenti commerciali, anche attraverso la
predisposizione di un piano strategico
per il recupero dei generi culturali di
“nicchia”, compresi il teatro, la musica sinfonica, la lirica, nonché di connotare i generi di più largo consumo,
quali fiction ed intrattenimento, con
caratteri di qualità, innovatività e originalità.
sempre in questa prospettiva, sul presupposto che la diffusione di un’analisi di qualità dei programmi, con finalità ben distinte dalla rilevazione degli
indici di ascolto, contribuisce a rendere più evidente la connotazione del
servizio pubblico radiotelevisivo e a far
sì che la relativa programmazione corrisponda sempre più alle attese degli
abbonati, è stato previsto che la RaI
deve necessariamente realizzare un
sistema di valutazione della qualità dell’offerta basato su una duplice attività
di monitoraggio (una relativa alla “corporate reputation” dell’azienda e una
relativa alla qualità dei singoli programmi). Il sistema di valutazione
dovrà essere sottoposto alla vigilanza di
un Comitato composto da esperti particolarmente qualificati nella materia,
scelti dall’autorità per le garanzie nelle
comunicazioni d’intesa con il Ministero e nominati dalla RaI, ed i risultati
delle rilevazioni periodiche dovranno
16
essere rese pubbliche dall’azienda nelle
forme stabilite dal contratto di servizio.
Infine, sotto il profilo dell’innovazione
tecnologica le linee guida dell’agcom
prevedono che il servizio pubblico ha
l’obbligo di farsi promotore dei benefici prodotti dalle tecnologie emergenti,
accelerando attraverso la comunicazione l’educazione informatica necessaria
per la loro fruizione. La RaI dovrà,
pertanto, in linea con le strategie già
adottate dalle migliori televisioni pubbliche europee, arricchire la propria
offerta anche attraverso la sperimentazione di nuovi formati (alta definizione, DvBt-2) nonché ampliare l’utilizzo di Internet, attraverso la realizzazione di un’apposita piattaforma dedicata
alla Web tv.
In conclusione, tenuto conto delle specificità che lo caratterizzano, è evidente che per il servizio pubblico l’approccio alla nuova realtà digitale deve essere diverso da quello proprio dell’emittenza privata commerciale. Ciò che è
importante, come sottolineato dall’agcom nelle sue linee guida, è che per la
RaI la nuova realtà del digitale deve
rappresentare, da subito, un’occasione
per rafforzare il proprio ruolo e la propria identità. Pertanto, per rispondere
positivamente alla domanda se sia
ancora necessario un servizio pubblico
radiotelevisivo e se questo debba essere
finanziato dallo stato, è necessario che
i processi di trasformazione siano
cavalcati con dinamismo nella prospettiva di realizzare un’offerta orientata al
servizio della collettività e del progresso civile.
Antonio Martusciello
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AI MARGINI DI UN FATTO DI CRONACA
NESSUNO AUTORIZZA I GIORNALISTI
A RICAMARE SULLA PELLE DEI LETTORI
ANDREA MELODIA
gni volta che l’Italia viene colpita da un fatto di cronaca a
tinte forti, che inevitabilmente appassiona l’opinione pubblica e occupa per settimane
le prime pagine dei giornali e le scalette
televisive, viene il momento di interrogarsi sul rispetto da parte dei giornalisti della
loro deontologia e della loro etica. anche
partendo da una visione nell’insieme
molto critica sulla qualità dei prodotti
giornalistici italiani, soprattutto quelli
televisivi, occorre partire dal presupposto
che l’informazione è una cosa troppo
importante per dare giudizi casuali e non
documentati sui singoli articoli o sulle
singole trasmissioni.
tuttavia alcune considerazioni generali
sono possibili e forse utili. anzitutto bisognerebbe re-imparare a raccontare la cronaca senza aggettivi. senza creare mostri.
Oggi i personaggi della cronaca vengono
trattati dai giornalisti come fossero personaggi di una fiction, e i loro sentimenti,
la loro immagine, a volte anche le loro
azioni vengono manipolati, più o meno
consapevolmente. Ma non è così, non
sono personaggi, sono persone vere, che
andrebbero rispettate e “amate”, non giustificate ma “capite” anche quando commettono colpe terribili. sembra che i giornalisti soffrano di complessi di inferiorità
nei confronti degli autori di fiction.
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E’ mai possibile che quello che fino a ieri
era il mostro di avetrana 24 ore dopo
diventi un poveraccio schiavo della
moglie e della famiglia? E’ evidente che
entrambe le figure sono state costruite
senza elementi probatori, forzando l’interpretazione di dubbi o di ipotesi che
sciaguratamente gli inquirenti si potrebbero essere lasciati sfuggire, o peggio ricamando sulle fantasie descrittive di altri
colleghi. Ma nessuno autorizza i giornalisti a inventare o a ricamare sulla pelle
degli altri. Questo mi pare peggio della
linea diretta con la madre della povera
sarah, della quale è stata accusata federica sciarelli in Chi l’ha visto?
Poi c’è il problema specifico della tv,
che più di ogni altro media è portata a
mescolare il linguaggio della cronaca e
quello della finzione. sappiamo che
soprattutto quando la televisione è in
diretta il suo racconto si confonde con la
realtà, si sovrappone ad essa e tende a
diventare esso stesso realtà.
Per questo la tv richiede un surplus di
responsabilità e di competenze.
Intendiamoci: è inevitabile che i giornalisti ricorrano al linguaggio della fiction nel
raccontare certe vicende. Ma c’è fiction e
fiction. C’è il romanzo popolare a tinte
forti nel quale si dà libero sfogo alla fantasia seguendo peraltro il facile percorso di
estremizzare sentimenti e comportamenti.
17
Andrea Melodia,
giornalista, Presidente nazionale
UCSI, docente di
Teoria e tecniche
del linguaggio
radiotelevisivo,
Università Lumsa,
Roma
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Quello che scarseggia è la
coscienza delle
intenzioni di ciò
che viene comunicato e dei pericoli per le persone singole e per
la società.
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Ma c’è anche il linguaggio più freddo e
razionale nel quale il racconto della drammaticità degli eventi e della tragicità dei
personaggi sono affidati al resoconto puntuale, percorso dalla pietà e dal rispetto.
Ci sono anche cause strutturali nelle situazioni di disagio. Per esempio, credo che
siano assolutamente eccessivi l’attenzione,
l’autonomia e il carico di responsabilità
che oggi si riversano sui conduttori televisivi. Loro sono i protagonisti, mettono la
loro faccia: è inevitabile che siano un po’
malati di divismo. Ma le responsabilità
sono invisibili dietro di loro. sono il direttore di rete o di testata e la loro linea gerarchica, non il conduttore, che devono
interrompere un programma quando è
ora di farlo. E naturalmente dovrebbero
essere i telegiornali a dare le notizie, non i
talk show; naturalmente a darle quando ci
sono, e non a ricamarci sopra a loro volta
quasi dei reality show di cui gli stessi giornalisti diventano protagonisti. E’ gravissimo che il servizio pubblico abbia lasciato
montare l’autonomia dei conduttori al di
fuori di qualsiasi controllo. vespa e santoro, solo per fare due nomi di diversa
appartenenza, tengono in scacco l’azienda
da troppo tempo. Hanno sostituito gli
opposti estremismi con gli opposti moralismi. E’ inaccettabile, come è inaccettabile che sia i telegiornali sia i talk show dedichino alla cronaca nera, al gossip e alle
mode più spazio che alle notizie vere.
E’ da notare anche che Chi l’ha visto, trasmissione che va in onda da ben 23
anni, si può considerare un esempio
ormai antico di quella tv verità dalla
quale discendono, nel bene e nel male, i
reality dei giorni nostri, di quella tv che
più che raccontare la realtà preferisce
confondersi con essa. anche con intenzioni lodevoli, ma ne abbiamo davvero
bisogno? C’è un modo per tornare indietro? francamente ne dubito, dunque
18
dobbiamo confrontarci con questo relativamente nuovo modo di essere della
tv e far maturare le pratiche del suo
controllo e della sua deontologia.
siamo dunque ancora di fronte a un
problema essenzialmente etico; tema
questo che costituisce il principale
impegno dell’UCsI.
Dunque l’infoetica, come ha ricordato
recentemente anche Benedetto XvI, o
forse più in generale la mediaetica perché
ormai l’informazione è troppo legata alle
altre forme e alle altre intenzioni comunicative perché la si possa disgiungere, resta
la strada maestra per fare un lavoro educativo che deve coinvolgere i giornalisti, i
comunicatori in genere e che ormai va
esteso a tutto il pubblico, inteso come
naturale recettore ma anche come produttore di contenuti, perché tutti siamo
destinati a diventare potenziali comunicatori attraverso le nuove tecnologie.
Dalla fine degli anni ’50 molte esperienze
hanno operato, poco ascoltate, sulla educazione ai media, insistendo sulla conoscenza dei linguaggi. Oggi mi pare che la
conoscenza dei linguaggi viaggi abbastanza autonomamente tra i giovani; quello
che scarseggia è la coscienza delle intenzioni di ciò che viene comunicato e dei
pericoli per le persone singole e per la
società. E di questo la scuola dovrebbe
occuparsi.
Non per fare del moralismo: credo davvero che oggi la qualità di una società sia
proporzionale alla qualità della informazione che circola in quella società e in
generale a quella dei media che quella
società produce. anche la politica è presa
in questo circuito perché oggi la politica si
nutre dei media.
In Italia non c’è una tradizione forte di
autonomia dei media dalla politica, ma
questa autonomia va costruita. se è vero
che media, politica e società sono stretta-
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mente connessi, credo che qualsiasi intervento per migliorarne la società e la politica non possa partire altro che dai media
e dalle persone che li fanno, oltre che
dalla scuola. Questo è il quadro ideale nel
quale si muove l’UCsI, che peraltro
dispone di strumenti molto limitati.
Ci battiamo per una professione consapevole, competente e responsabile che
sia in grado di contrastare un mondo
giornalistico autoreferenziale ed asservito ai poteri forti. Quando sentiamo definire i giornalisti sciacalli o avvoltoi, come
è avvenuto in questi giorni, sappiamo
che ci sono esagerazioni ma anche che
troppi giornalisti e troppi giornali non
hanno rispetto per il proprio mestiere.
Il Manifesto per un’etica dell’informazione già
pubblicato da Desk, che porta la firma di
adriano fabris, docente di Etica della
comunicazione e filosofia morale all’Università di Pisa, è diretto a tutti coloro che
appartengono al sistema dei media e che
sono collegati in qualunque forma ad una
attività di informazione (comunicatori,
pubblicitari, giornalisti, editori, manager
editoriali, mondo della politica e delle istituzioni). Ricordo che il Manifesto presuppone ed accetta i diversi codici di autoregolamentazione della professione, ma
punta ad offrire indicazioni ulteriori di
ordine etico. si parte dalla affermazione
che l’informazione non è spettacolo e si
continua dicendo che il giornalista deve
sempre essere in grado di giustificare i criteri delle sue scelte, senza trincerarsi per
farlo dietro alle proprie opinioni.
Bisogna anche aggiungere che il servizio
pubblico radiotelevisivo ha le responsabilità maggiori riguardo a questa problematica. Molti dati, cito l’ultima indagine
sui media che il Censis realizza con la
collaborazione dell’UCsI, dimostrano
chiaramente che la televisione resta al
centro di tutti i processi informativi e
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comunicativi e che il servizio pubblico, la
RaI, è chiamata a svolgere un ruolo di
guida, di riferimento qualitativo, di bussola in mezzo agli altri media. Per questo
i cittadini pagano il servizio pubblico, e
per questo dovrebbero continuare a
pagarlo; ma certo ottenendo fino in
fondo che questa missione venga svolta,
cosa sulla quale oggi è lecito dubitare.
tanto è vero che altri canali tendono
legittimamente a sostituirla: penso a
tv2000, la tv della chiesa italiana, e in
parte anche a canali come La7 o come il
tG di sky. Credo proprio che oggi occorra ripensare alla esigenza di servizio pubblico quasi prescindendo dalla RaI, in
un’ottica di sistema, tanto peggio per lei
se la RaI non riesce o non può liberarsi
dalla sua crisi. Dobbiamo conservare
qualche speranza che ci riesca alla fine.
Ricordiamo che anche in questa vicenda i
media cattolici hanno dato una buona
prova di sé. Dobbiamo allora chiederci
perché non riescano a dare una impronta
a tutto il sistema della comunicazione, a
segnarne e accompagnarne la crescita e il
miglioramento. Certo, in una società
secolarizzata questo è diventato difficile.
Per questo i cattolici, credo, non devono
accontentarsi dei “loro” media ma devono misurarsi, sia come lettori sia come
giornalisti e comunicatori, con i media
“secolarizzati”. Io ricordo quando in RaI
l’opinione dei cattolici aveva un peso.
Oggi credo che non ne abbia quasi più.
Quella del giornalista è una professione
che si trasforma enormemente. forse
anche da un punto di vista teorico è abbastanza sottovalutata la trasformazione che
avviene nel giornalismo quando è chiamato a operare in diretta, come avviene in
tv, nella radio, ma anche in internet e
nelle agenzie di stampa. La diretta comporta concorrenza spietata su chi arriva
primo e difficoltà oggettiva a controllare le
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Quando sentiamo definire i
giornalisti sciacalli o avvoltoi,
come è avvenuto
in questi giorni,
sappiamo che ci
sono esagerazioni ma anche che
troppi giornalisti
e troppi giornali
non hanno
rispetto per il
proprio mestiere.
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Non dobbiamo
strapparci le vesti
se su internet troviamo infinite
sciocchezze, perché è anche piena
di informazioni
professionali e corrette. Tutto sta nel
saper scegliere.
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fonti e a ragionare sugli effetti. Occorre
maturare pratiche e forse anche norme
cogenti su questo dilemma. C’è anche il
problema della formazione e del reclutamento. In Italia c’è un Ordine professionale che vigila su questi aspetti, che deve
intervenire in modo significativo sia sul
controllo dei percorsi formativi e di accesso alla professione (abbiamo ancora troppi giornalisti figli di giornalisti, casta autoreferenziale) sia intervenendo con sanzioni sul mancato rispetto delle norme deontologiche. Ci sono ancora troppi ostacoli
formali che rallentano gli interventi dell’Ordine, e la politica purtroppo non ha
favorito la discussione della legge di riforma pronta da tempo.
Però c’è anche la consapevolezza che la
libertà di comunicare è un diritto insopprimibile delle persone e non solo dei
giornalisti, e che internet dà praticamente a tutti la possibilità di comunicare socialmente. Non dobbiamo strapparci le vesti se su internet troviamo infinite sciocchezze, perché è anche piena di
informazioni professionali e corrette.
tutto sta nel saper scegliere.
Né d’altra parte possiamo dimenticare
le responsabilità dei lettori, degli spettatori, cioè di tutti. E’ un corto circuito
quello tra società, opinione pubblica,
politica e media. se la gente cerca
buona informazione la trova, se la cerca
cattiva trova anche quella. Ma non bisogna scoraggiarsi perché le trasformazioni, i miglioramenti richiedono tempo,
occorre vincere l’inerzia sociale. Bisogna
definire gli strumenti e gli obbiettivi per
contrastare l’inerzia e ottenere il miglioramento. attenzione ai media nella
scuola, formazione degli adulti in generale e formazione permanente dei professionisti della comunicazione sembrano le strade più praticabili. Certo più
facile che educare i politici! Ma bisogna
20
intervenire anche nella gestione dei
media, a cominciare dai grandi media,
quelli che fanno opinione, e da quelli
che essendo pagati con i soldi di tutti
devono avere l’obbligo di fare una
buona comunicazione.
Le attività associative sono importanti in
questa battaglia. vorrei citare oltre all’UCsI almeno l’aIaRt, ma mi rendo conto
che dovrei fare un lungo elenco tra quelle
iscritte al Copercom, il Coordinamento
delle associazioni per la comunicazione,
attivo nel mondo cattolico; e vorrei
aggiungere anche sigle non propriamente
interne al mondo cattolico come Libera
informazione… Nel mondo anglosassone,
dove nel complesso l’informazione è un
poco migliore che da noi, le associazioni
hanno un ruolo sociale molto rilevante e
vengono ascoltate anche dalla politica.
Partecipare a un programma associativo
spesso serve a non sentirsi soli nelle battaglie e anche a chiarirsi le idee.
Poi, naturalmente, i giornalisti devono
cercare di essere fonte primaria delle
informazioni, o almeno di confrontarle
tra più fonti e di non lasciarsi distruggere dall’ansia di arrivare per primi. Occorrono cultura personale, maturità, equilibrio, esperienza, dedizione, ansia di
verità… Purtroppo non basta essere
fermi nelle proprie convinzioni etiche,
bisogna che queste sopravvivano forti
nel confronto continuo con le opinioni
degli altri. altrimenti rischiamo di
comunicare solo per noi stessi, di chiuderci nella torre d’avorio dell’autoreferenzialità, che è nemica della carità. Perché credo, in ultima analisi, che comunicare debba essere un modo di esercitare la carità, quella carità che come dice
san Paolo nella lettera ai Corinzi, “si
compiace della verità”.
Andrea Melodia
n. 4/2010
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UN ANNO DI UCSI:
PIÙ PRESENZA, PIÙ CREDIBILITÀ,
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PIÙ FORZA DI OPINIONE
FRANCO MARESCA
l cinquantenario dell’Ucsi è coinciso, da parte dell’intera Unione,
con un rilancio dell’impegno nel
paese, con una crescita del consenso e con un maggiore peso di
credibilità e di opinione nel mondo
della comunicazione. Da testimoni
Digitali promosso dalla Cei al congresso mondiale della stampa cattolica in
vaticano organizzato dal Pontificio
Consiglio delle comunicazioni sociali,
dalle battaglie del sindacato e dell’ordine dei giornalisti sulla riforma dell’editoria, sulle intercettazioni, sulle agevolazioni postali, sul ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo, sulla lotta alla corruzione, l’Ucsi ha dato il suo deciso
contributo con interventi del presidente andrea Melodia, con comunicati del
consiglio nazionale e della giunta esecutiva che, come non mai, sono stati ripresi degli organi di informazione rafforzando una presenza significativa dell’Unione nel mondo della professione.
se per testimoni Digitali l’Ucsi ha sostenuto che “ci sono luci ed ombre nei
nuovi media con opportunità e rischi”
sulle intercettazioni (“libertà di informazione e credibilità dei media in pericolo”) il sito dell’Ucsi (www.ucsi.it) ha aderito alla giornata del silenzio indetta
dalla fnsi che, per la prima volta, veniva
allargato anche al Web.
Il “sollecito intervento per le tariffe
postali agevolate che penalizzano in gran
parte la piccola editoria” e’ stato chiesto
dal consiglio nazionale dell’Unione. Il
provvedimento, come è noto, è stato poi
approvato dal governo.
n. 4/2010
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anche sulla Rai è stata presa posizione sia
in occasione del congresso dell’Usigrai
(“unità del sindacato – ha affermato il
presidente dell’Unione – e rifiuto della
lottizzazione”) sia in un convegno realizzato con la rivista “La Civiltà Cattolica”
sul futuro del servizio pubblico televisivo
inteso come cartina di tornasole della
qualità democratica del paese (interventi
di Boffo, Iseppi e Melodia). Per un maggiore impegno contro le mafie e la corruzione, l’Ucsi ha aderito entrando anche
nel consiglio di amministrazione con il
presidente alla fondazione Libera Informazione di Don Ciotti.
Per quanto riguarda la riforma dell’Editoria e della Professione l’Ucsi è stata
ascoltata dalla commissione parlamentare della camera dei deputati. In quell’occasione è stato ribadito che l’Unione
intende favorire le normative che accompagnano in modo equilibrato e socialmente utile la diffusione dell’informazione professionalmente gestita e le imprese
editoriali che si impegnano nella qualità
del prodotto. Per tutto l’anno non sono
mancate le iniziative per il Manifesto per
un’etica dell’informazione (presentato in
occasione delle celebrazioni dei 50 anni
dell’Ucsi) che fa un richiamo ad una
etica della responsabilità che consente di
rendere più concreto e più facilmente
realizzabile ciò che è previsto dalla deontologia.
Nel campo dell’editoria l’Ucsi è anzitutto impegnata nella pubblicazione di
questa rivista trimestrale. Negli ultimi
mesi è stata anche intensificata una
campagna per la raccolta pubblicitaria
che è in un periodo di “stanca”. Per la
collana I Libri di Desk dopo “1973:
Napoli ai tempi del colera” è uscito il
volume terremoto e trent’anni di cricche”, un’inchiesta di Paolo Mieli con gli
allievi della scuola di Giornalismo dell’Università suor Orsola Benincasa. In
21
Franco Marecsa,
giornalista, Segretario nazionale
Ucsi
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coedizione con RaiEri è, invece, uscito
il libro di Emilio Rossi “E’ tutto per stasera. Quando la politica entra nei tg”
con la prefazione di Emmanuele Milano e la presentazione di andrea Melodia. E ancora “Yes, credibility. La precaria credibilità del sistema dei media”, a
cura di Paolo scandaletti e Michele
sorice. tutti i libri e la rivista si trovano
in libreria. Desk è anche inviata ai soci
dell’Unione e ad oltre duemila esperti
della comunicazione, università ed istituzioni.
sul piano dell’informazione da un anno
è attivo il nuovo sito dell’Ucsi che e’ uno
strumento di presenza e di riflessione
nelle sue tre sezioni: professione, istituzioni e formazione. sono presenti anche
le iniziative delle regioni, le attivita’ dell’Unione, i documenti. Il sito ha avuto
un crescendo continuo raggiungendo le
duecentomila pagine visionate, un segno
evidente dell’utilità del servizio che, in
tempo reale e quotidianamente, informa
i colleghi sull’intero mondo dell’informazione toccando Odg, fnsi, Unione
Europea, Parlamento, vaticano, Cei,
mass media cattolici e non, università,
organismi istituzionali italiani ed internazionali, agenzie di stampa, opinione di
giornalisti soprattutto negli editoriali
periodici.
Per quanto riguarda la formazione e’ stata
varata dal consiglio nazionale l’alta scuola di formazione che si terrà nel mese di
maggio 2011 a fiuggi. I destinatari della
scuola sono i quadri dell’unione, cioè i
consiglieri giovani dei direttivi regionali, i
soci e gli studenti dei master di giornalismo riconosciuti dall’Odg. Il programma
prevede, tra l’altro, la storia dell’Ucsi,
finalità, i messaggi dei congressi, il ruolo
della stampa italiana nella società civile e
nella chiesa. Il giornalismo europeo,
l’informazione religiosa in Italia, l’editoria stampata, televisiva, on line; i comunicatori pubblici e privati.
22
E’ partita, inoltre, la ricerca Ucsi-Cariplo
(che la finanzia) sul ruolo dei comunicatori, la loro credibilità e i meccanismi di
accesso alla professione. La ricerca, diretta da andrea Melodia e Paolo scandaletti, sarà pubblicata in un libro e presentata nel 2011 in un convegno a Milano. a
proposito di ricerca: anche per il 2011
sarà presentata, come di tradizione, la
nuova inchiesta Ucsi/Censis che riprende ad avere la collaborazione (con un piccolo finanziamento) dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti.
Per l’attività dell’Unione il 2010 e’ stato
caratterizzato dalla ricostituzione dell’Ucsi veneto ed Umbria, dalle assemblee dell’Ucsi sardegna, Lazio e Marche. Oltre ai tradizionali appuntamenti
in tutte le regioni per la festa di san
francesco di sales, patrono dell’Unione, si sono svolti complessivamente 37
convegni regionali sui temi della professione e della comunicazione in genere,
2 mostre, 3 premi letterari, quattro
sedute di giunta esecutiva, tre sedute
del consiglio nazionale che, in particolare, ha approvato la bozza del nuovo
statuto e regolamento (che non stravolge il passato, ma adegua il nuovo alle
finalità storiche) che sarà presentato per
l’approvazione definitiva al prossimo
Congresso.
Il consiglio ha anche rilanciato una
campagna soci per il 2011. Il consulente Ecclesiatico P. francesco Occhetta
s.j. (neo giornalista professionista), scrittore de “La Civiltà Cattolica”, sia sul
sito sia sulla News Letter (che viene
inviata ogni mese ad oltre 2500 utenti)
ha avviato le riflessioni sul giornalista
davanti alla propria coscienza. P.
Occhetta ha anche contattato i consulenti regionali con i quali terrà un
incontro collegiale in primavera.
Franco Maresca
n. 4/2010
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PIO XII IL PAPA DELLA RADIO
FRANCESCA DI RUZZA
uando Pio XII chiuse per
sempre gli occhi il 9 ottobre 1958, il mondo intero era assolutamente convinto di aver perso un
grande papa. Mezzo
milione di persone si addensò per le
vie nel momento in cui le sue spoglie
vennero traslate dalla residenza estiva
di Castel Gandolfo alla Basilica di san
Giovanni in Laterano, e da lì a san Pietro.
alcuni commentatori riferirono la loro
impressione di trovarsi ad un antico
trionfo o ai funerali di Giulio Cesare.
Nei giorni seguenti, mentre la salma
era esposta su un catafalco di legno
nero, nella Basilica di san Pietro, i
fedeli, sinceramente addolorati, rimanevano in fila per poter dare l’estremo
saluto ad un personaggio che i romani
onoravano come defensor civitatis e il
resto del mondo come “Papa della
pace” o Pastor angelicus.
solo alla morte di Giovanni Paolo II,
quasi mezzo secolo dopo, Roma avrebbe visto un corteo funebre altrettanto
imponente, ma nel frattempo le comunicazioni erano diventate molto più
facili.
Eugenio Pacelli venne eletto Papa, col
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n. 4/2010
nome di Pio XII, il 1 marzo 1939, a
seguito della morte di Pio XI, e visse in
uno dei momenti più difficili e drammatici degli ultimi duemila anni.
fin dall’inizio del suo Pontificato il
santo Padre decise di utilizzare i mezzi
di cui disponeva la comunicazione
sociale, prediligendo tra tutti la radio,
che proprio in quel periodo si era affermata come nuovo strumento tecnologico. In diciannove anni di Papato, Egli
trasmise duecento radiomessaggi in lingua latina, francese, italiana, spagnola,
inglese e tedesca e scrisse numerosissimi documenti tra Encicliche, Epistole,
Bolle e Brevi.
Ci troviamo, quindi, di fronte ad un
uomo che ha cercato, con cautela e
preoccupazione, di diffondere il più
possibile parole di speranza e di pace,
in un’epoca travagliata come quella del
secondo conflitto mondiale.
Papa Pacelli è stato il primo vicario di
Roma a capire l’importanza della
comunicazione e ad aprire al mondo le
porte della santa sede, in un’epoca in
cui i totalitarismi hanno limitato e
impedito la circolazione delle notizie e
del libero pensiero. Uno dei radiomessaggi più importanti fu quello rivolto ai
governanti e ai popoli nell’imminente
23
Francesca
Di Ruzza,
giornalista, CTV,
Centro Televisivo
Vaticano
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La scelta del
Pontefice di non
rilasciare delle
dichiarazioni
pubbliche esplicite fu dettata dalla
necessità di contenere il più possibile le rappresaglie dei nazisti
contro la cittadinanza cattolica
ed ebraica.
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pericolo della guerra, in questo Pio XII
disse: “Un’ora grave suona nuovamente per la grande famiglia umana (…)
Oggi che la tensione degli spiriti sembra giunta a tal segno da far giudicare
imminente lo scatenarsi del tremendo
turbine della guerra, rivolgiamo con
animo paterno un nuovo e più caldo
appello ai governanti e ai popoli; perché con la forza della ragione e non
con quella delle armi, intraprendano
tentativi pacifici. (…) Nulla è perduto
con la pace. tutto può esserlo con la
guerra.”
Non sempre, tuttavia, gli storici e l’opinione pubblica hanno considerato
questo pontefice in un’accezione positiva e solo grazie a Giovanni Paolo II,
che, nel 2003, ha consentito l’apertura
dell’archivio segreto del vaticano
riguardante la documentazione su Pio
XII, c’è stata una riabilitazione dell’operato e della figura di questo personaggio.
Negli anni ’50 e ‘60, infatti, alcuni
scrittori e sceneggiatori teatrali hanno
diffuso un identikit di questo papa
antisemita e nazifascista, creando così
delle tesi e dei pareri negativi che si
sono consolidati nei decenni successivi. L’accusa più grave che fu inflitta a
Papa Pacelli, fu quella di avere taciuto
sullo sterminio degli ebrei e di non
essersi adoperato abbastanza per evitare l’Olocausto di questo popolo.
In realtà, nel discorso radiofonico della
vigilia di Natale del 1942, Pio XII
invocò la pace e ricordò che migliaia di
persone, a causa della loro nazionalità
e stirpe, erano destinate a morire per
volontà del nemico. tra le parole più
significative pronunciate in questo
radiomessaggio dal santo Padre, egli
disse: “Il motto Misereor super turbam è
24
per noi una consegna sacra, inviolabile,
valida e impellente in tutti i tempi e in
tutte le situazioni umane, com’era la
divisa di Gesù; e la Chiesa rinnegherebbe se stessa, cessando di essere
madre, se si rendesse sorda al grido
angoscioso e filiale, che tutte le classi
dell’umanità fanno arrivare al suo orecchio. (…)
La Chiesa non può rinunciare a proclamare davanti ai suoi figli e davanti
all’universo intero le inconcusse fondamentali norme, preservandole da ogni
travolgimento, caligine, inquinamento,
falsa interpretazione ed errore; tanto
più che dalla loro osservanza dipende
la fermezza finale di qualsiasi ordine
nazionale e internazionale. (…) Ci sentiamo legati da immensa brama di portare sollievo e soccorso a tutti i popoli
in qualsiasi modo sia in Nostro potere.”
La scelta del Pontefice di non rilasciare
delle dichiarazioni pubbliche esplicite
fu dettata dalla necessità di contenere
il più possibile le rappresaglie dei nazisti contro la cittadinanza cattolica ed
ebraica, con la convinzione che, agendo in silenzio, sarebbe stato più facile
aiutarli.
Egli fece svolgere una preziosa opera di
carità a favore degli ebrei e venne ringraziato personalmente da alcuni
superstiti dei campi di concentramento, durante un’udienza speciale del
1945.
La sua azione non si concluse, tuttavia,
con la fine del conflitto, ma si intensificò ancora di più per poter ristabilire
gli equilibri in un Europa completamente cambiata.
Papa Pacelli si trovò di nuovo a dover
combattere contro un altro totalitarismo: il comunismo, che Egli stesso sco-
n. 4/2010
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municherà il 1 luglio 1949 e verso le
cui ideologie pronuncerà diversi discorsi. E in linea con questo modo di agire,
prenderà posizione anche riguardo alla
comunicazione e al risvolto positivo
che i mezzi tecnologici possono avere
sul mondo cattolico.
a tale proposito Pio XII scrisse, infatti,
l’Enciclica “Miranda prorsus”e istituì
la Pontificia Commissione per le
comunicazioni, affidando a tale Ufficio, il compito di studiare la relazione
tra mass media e sfera religiosa.
scrive nell’Enciclica, a proposito degli
obblighi dei radioascoltatori: “Il primo
dovere pertanto del radioascoltatore è
un'oculata scelta dei programmi. (...) Il
secondo dovere del radioascoltatore è
quello di far conoscere ai responsabili
dei programmi i suoi legittimi desideri
e le giuste obiezioni. Questo dovere
risulta chiaramente dalla natura stessa
della radio, che può facilmente creare
una relazione a senso unico, da chi
trasmette a chi ascolta.
Gli ascoltatori devono collaborare alla
formazione di un'illuminata opinione
pubblica che permetta di esprimere, nei
debiti modi, approvazioni, incoraggiamenti ed obiezioni, e di contribuire a
che la radio, conformemente alla sua
missione educativa, si metta "al servizio
della verità, della moralità, della giustizia, dell'amore".
Con la sua lungimiranza Papa Pacelli
aprì la strada ad una nuova fase della
Chiesa più moderna e più vicina ai
fedeli, offrendo l’input ai suoi successori per altre tappe fondamentali di
questa istituzione. alcune di queste
furono: il Concilio vaticano II aperto
da Giovanni XXIII e la caduta del
comunismo, resa possibile grazie alla
mediazione di Giovanni Paolo II.
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La figura di Pio XII troverà un giusto
riconoscimento per la propria grandezza, quando verrà proclamato santo e
sembra che ciò stia per concretizzarsi.
E’ infatti a buon punto il processo di
canonizzazione di questo Papa, voluto
da Paolo vI nel 1965 e auspicato da
Benedetto XvI oggi. L’odierno Pontefice ha decretato infatti, nel 2007, le
virtù eroiche di Eugenio Pacelli durante la seconda guerra mondiale e ha
detto di lui le seguenti parole: “Negli
ultimi decenni molto è stato scritto e
detto su Papa Pio XII che non corrisponde a verità (…). Quando ci si accosta senza pregiudizi ideologici alla nobile figura di questo Pontefice, oltre a
essere colpiti dal suo alto profilo
umano e spirituale, si rimane conquistati all’esemplarità della sua vita e
dalla straordinaria ricchezza del suo
insegnamento”.
La verità storica ha contribuito a fare
uscire dalle tenebre un personaggio
tanto discusso come Pio XII e ci auguriamo che questa prevalga sempre sui
pregiudizi che attanagliano spesso le
epoche storiche.
Francesca Di Ruzza
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Gli ascoltatori
devono collaborare alla formazione di un'illuminata opinione
pubblica che permetta di esprimere
e di contribuire a
che la radio, conformemente alla
sua missione
educativa, si
metta "al servizio
della verità, della
moralità, della
giustizia, dell'amore".
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C ONSUMER
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SERVICE E GLOBALIZZAZIONE
L’IMPATTO SUI BRAND
TRA RETI E SOCIAL MEDIA
ADELE SAVARESE
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Adele Savarese,
dottoressa
magistrale in
Scienze della
Comunicazione,
Università Suor
Orsola Benincasa
Napoli
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l termine globalizzazione è ormai entrato
con forza nelle agende mediatiche e nei
vocabolari del quotidiano. Il suo concetto
è invece divenuto un’idea chiave non solo
per le teorie e le pratiche di business, ma
anche nei dibattiti accademici. Prima di
affrontare il tema principale, e cioè le
influenze che la globalizzazione e la sua
logica reticolare hanno prodotto sui marchi globali e sulla loro gestione, è opportuno ricapitolare alcuni fondamenti basilari della globalization experience che ha
investito le aziende multinazionali ed il
loro posizionamento sul mercato.
Gli argomenti della globalizzazione
Il fenomeno della globalizzazione descrive
la diffusione e la connettività di produzione, comunicazione e tecnologia attraverso
il mondo, in maniera tale da coinvolgere
ed intrecciare tra loro le attività economiche e culturali delle società. tale coinvolgimento è cresciuto nel tempo, raggiungendo oggi una portata senza precedenti
grazie alla velocità delle comunicazioni e
degli scambi, la complessità e la dimensione dei network ed i volumi di commercio, interazione e rischio che rendono
la globalizzazione della postmodernità
una forza specifica e peculiare.
L’aumento delle interconnessioni economiche e culturali ha portato con sé alcuni
profondi cambiamenti politici: nazioni
più povere e “periferiche” sono divenute
ancora più dipendenti dalle attività delle
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economie “centrali”, come quella statunitense, dove tendono ad aggregarsi maggiormente capitali e competenze tecniche.
vi è stato anche uno shift quasi osmotico
di potere, dallo stato nazionale verso le
imprese multinazionali. L’età del mercato
postmoderno ha anche visto l’ascesa e la
globalizzazione del brand, dal momento
che le grandi imprese non solo operano in
diversi mercati esteri, ma hanno anche sviluppato e commercializzato prodotti identici da Pechino a Los angeles. Marchi
come Coca Cola, Nike, sony ed apple
sono divenuti parte del tessuto quotidiano di vita di molti consumatori. a tal
punto da rendere necessario, nel marketing, parlare di segmentazione intermercato: la possibilità per le imprese di creare
dei segmenti di consumatori con bisogni e
comportamenti d’acquisto affini seppur
residenti in paesi diversi. Grazie alle
nuove tecnologie di connessione e comunicazione (es. la tv satellitare, Internet e
le piattaforme social), gli operatori di
marketing possono definire e raggiungere
segmenti di consumatori con mentalità
analoghe a prescindere dal luogo di appartenenza e residenza.
La globalizzazione, dunque, riguarda la
diffusione di idee, pratiche e tecnologie;
ha potenti implicazioni economiche, politiche, culturali e sociali. Ma è qualcosa di
più della somma tra internazionalizzazione ed universalizzazione. Non si tratta
semplicemente di modernizzazione o
della cosiddetta occidentalizzazione, né
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della liberalizzazione dei mercati.
anthony Giddens (1990: 64) descrive la
globalizzazione come “l’intensificazione
delle relazioni sociali in tutto il mondo,
relazioni che collegano località distanti in
maniera tale che gli eventi locali siano forgiati da eventi che accadono a molti chilometri di distanza, e viceversa”. va da sé,
dunque, che la globalizzazione implica un
cambio di prospettiva nella nostra comprensione della geografia e nel nostro
modo di esperire ciò che è “locale”.
I temi ricorrenti, nella letteratura del fenomeno globalizzazione, riguardano la delocalizzazione e la sovraterritorialità; la
velocità e l’impatto dell’innovazione tecnologica e dei rischi che porta con sè; la
crescita delle aziende multinazionali; il
grado in cui la creazione di free markets
globali possa portare all’instabilità ed alla
suddivisione. In questa sede, interessa
approfondire ed esplorare il terzo punto
(crescita delle aziende multinazionali) e
ricondurre sotto di esso gli altri tre, per
studiarne le relazioni di causa ed effetto
sulle pratiche di branding, soprattutto in
termini di relazioni con il cliente, consumer service, sviluppo e sfruttamento dei
touchpoint comunicativi con il mercato.
Delocalizzazione e sovraterritorialità
Manuel Castells sostiene che nell’ultimo
ventennio del ventesimo secolo una
nuova economia è nata nel mondo, caratterizzata come un nuovo tipo di capitalismo basato su tre attributi fondamentali:
“produttività e competitività sono, ampiamente, una funzione della generazione di
conoscenza e dell’elaborazione di informazione; imprese e territori sono organizzati in network di produzione, di management e distribuzione; le attività economiche principali sono globali, hanno cioè
la capacità di lavorare come un’unità in
tempo reale, o ad un tempo stabilito, su
scala planetaria” (Castells 2001: 52). La
conseguenza principale è che quelle attività
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che prima richiedevano un’interazione visà-vis o localizzata oggi vengono condotte su
grandi distanze. Nasce così il significativo
fenomeno della delocalizzazione negli
scambi economici e sociali: le attività e le
relazioni sono state sradicate dalle loro
origini e culture locali (Gray 1999: 57),
per cui sempre più spesso le persone e i
consumatori si trovano ad interfacciarsi
con sistemi distanti per poter condurre la
propria vita. si pensi, banalmente, all’home banking, all’e-retailing ed all’e-commerce. acquistare un libro su amazon
significa far elaborare i propri dati da
computer e router distanti migliaia di chilometri, far processare il nostro ordine
d’acquisto da server presenti su altri continenti, innescare una catena logistica e
distributiva da un angolo remoto del pianeta. Gli spazi che i consumatori “abitano” quando effettuano acquisti o comunicano su internet danno vita ad un rinnovato senso di spazio e di comunità
d’appartanenza, evoluzioni difficilmente
prevedibili nella sociologia della gemeinschaft e della gesellschaft (tonnies 1963:
89).
Dunque, “attività strategicamente cruciali
e fattori economici sono collegati ad un
sistema globalizzato di input ed output”
(Castells 2001: 52). Ciò che succede nelle
dimensioni locali è sempre più spesso
influenzato dall’attività di persone e sistemi operanti in una dimensione geograficamente lontana. Persone e sistemi sono
sempre più interdipendenti, come ricorda
Mulgan: “il punto di partenza per comprendere il mondo di oggi non è il PIL di
una nazione o il suo potere militare
distruttivo, ma il fatto che tutto è molto
più collegato di prima. Il mondo può sembrare composto da individui separati e
sovrani, imprese, nazioni o città, la realtà
più profonda è fatta di connessioni multiple. (Mulgan 1998: 3). tale molteplicità
connettiva è evidentissima nelle imprese,
il cui successo si fonda oggi maggiormen-
27
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S T O R I A , C U L T U R A
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te nella capacità di reagire velocemente e
proattivamente al cambiamento, sia in termini produttivi che di mercato. È in questa capacità, oltre che nei vantaggi economici, che risiede la causa della delocalizzazione di moltri centri di consumer service, di
cui si tratterà più avanti.
duzione e per gli scambi. Piattaforme
come internet hanno poi reso possibile
accedere ad informazioni e risorse di tutto
il mondo, oltre a coordinare attività in
real-time.
La globalizzazione ed il decline nel potere dei governi nazionali.
Ulteriore conseguenza del processo di
delocalizazzione è il decline del potere dei
governi nazionali di influenzare ed orientare le proprie economie, specie in termini macroeconomici. Shift dell’attività economica in Giappone o negli stati Uniti
vengono avvertiti nei paesi di tutto il
mondo. L’internazionalizzazione dei mercati finanziari, della tecnologia, del comparto manifatturierio e terziario ha portato con sé un nuovo insieme di limitazioni sulla libertà d’azione degli stati
nazionali. Inoltre, l’affiorare di istituzioni
quali la Banca Mondiale, l’Unione Europea e la BCE comportano nuovi ed ulteriori vincoli ed imperativi. “Non è che i
governi non possano più gestire le proprie economie nazionali”, sostiene Colin
Leys (2001: 1) “ma per sopravvivere devono sempre più gestire la politica nazionale in maniera tale da adattarla alle pressioni di forze di mercato trans-nazionali”.
In altre parole, l’impatto della globalizzazione riguarda meno la modalità con cui
scelte specifiche di policy vengono prese e
più il forgiare ed il ri-forgiare le relazioni
sociali tra le nazioni.
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Innovazione tecnologica, rischio e globalizzazione
“È l’interazione tra innovazione tecnologica straordinaria e copertura globale che
dona ai cambiamenti di oggi una complessità particolare” (Huttons e Giddens
2001: vii). Gli sviluppi nelle scienze biologiche e nelle tecnologie digitali hanno
aperto nuove e vaste possibilità per la pro-
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La globalizzazione e l’economia della
conoscenza. Per le economie sviluppate,
la conoscenza è divenuta quasi interamente il fattore più importante per la
determinazione dello standard di vita –
più della terra, degli strumenti, del lavoro.
Le economie più avanzate tecnologicamente sono del tutto knowledge-based
(Banca Mondiale, 1998). Ciò significa che
gli economisti si sfidano nella ricerca di
qualcosa che vada oltre il lavoro ed il capitale come fattori centrali di produzione.
Paul Romer e diversi altri studiosi sostengono che sia appunto la tecnologia (e la
conoscenza su cui essa si basa) ad essere il
terzo fattore produttivo nelle economie
primarie (Romer, 1986; 1990). Emerge
così il concetto di capitalismo della conoscenza, “la spinta alla generazione di
nuove idee e la loro trasformazione in prodotti e servizi commerciali che i consumatori desiderano”, così pervasivo e potente
(Leadbeater 2000: 8). Inevitabilmente,
sorgono così gli interrogativi sulla generazione e sullo sfruttamento della conoscenza, che sembra distanziare ulteriormente un gap già presente tra nazioni ricche e nazioni povere. studiosi e commentatori come Charles Leadbeater propongono il bisogno di “innovare ed includere” per il riconoscimento che economie
della conoscenza di successo debbano
adottare un approccio democratico alla
diffusione della conoscenza: “Dobbiamo
far nascere una società aperta, inquisitiva,
sfidante ed ambiziosa” (Leadbeater 2000:
235, 237). tuttavia, vi sono diverse contro-argomentazioni in merito a tale ideale.
Negli anni recenti siamo stati testimoni
all’aumento dei tentativi delle grandi corporation di reclamare diritti di proprietà
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intellettuale sulle nuove scoperte, per
esempio nell’ambito della ricerca genetica, al fine di ricavare grandi profitti dal
licensing di questa conoscenza a terzi. Inoltre, non vi sono ancora stati risultati verificati sul fatto che le nazioni dedicate al
lifelong learning ed alla creazione di una
learning society avranno la meglio sulle altre
(Wolf 2002: 13-55).
La globalizzazione ed il rischio. autori
come Ulrich Beck (1992: 13) sostengono
che il guadagno di potere dal “progresso
tecno-economico” sia velocmente adombrato dalla produzione di rischi, in termini di danno potenziale derivante
appunto dai cambiamenti economici e
tecnologici. I pericoli collegati alla produzione industriale, per esempio, possono velocemente diffondersi oltre il contesto immediato della loro generazione.
In poche parole, anche i rischi si sono
globalizzati. Dunque, l’universalizzazione
del pericolo accompagna la produzione
industriale a prescindere dal luogo di
partenza: le catene alimentari collegano,
in pratica, tutti gli esseri umani, travalicando i confini geografici (Beck 1992:
39). Come infatti sostiene lo stesso Beck,
gli è un effetto boomerang in questo tipo
di globalizzazione: i rischi investono chi
vi lucra o vi produce a partire da essi.
L’assunto di base è semplice: tutto ciò
che minaccia la vita sulla terra minaccia
anche la proprietà e gli interessi commerciali di chi vive a partire dalla mercificazione della vita e dai suoi requisiti. In
questo modo, una genuina ed intensa
contraddizione emerge tra gli interessi di
profitto e di proprietà che fanno avanzare il processo di industrializzazione, che a
sua volta mettono in pericolo proprietà e
profitti (Beck 1992: 39). E qui si arriva
ad un paradosso centrale di quella che
Beck chiama “la società del rischio”. al
crescere della conoscenza, cresce anche il
rischio. Le relazioni sociali, le istituzioni
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e le dinamiche all’interno delle quali
viene prodotta conoscenza hanno accentuato i relativi rischi, globalizzandoli.
La globalizzazione e l’ascesa delle multinazionali e del branding
Un cruciale ed ulteriore aspetto della globalizzazione è la natura ed il potere delle
aziende multinazioni, che ad oggi rappresentano oltre il 33% dell’output mondiale e circa il 66% del commercio mondiale
(Gray 1999: 62). Quest’ultimo punto è
ben dimostrato dai produttori di automobili che tipicamente si approvvigionano di
componenti da fabbriche situate in diverse nazioni. tuttavia, i mercati internazionali sono ancora largamente confinati ai
loro territori domestici in termini di attività di business complessiva; restano ancora pesantemente “embedded” a livello
nazionale e continuano ad essere multinazionali piuttosto che transnazionali
(Hirst e thompson 1996: 98). Non indifferente, come si immagina, è il loro potere economico e culturale.
La globalizzazione e l’impatto delle multinazionali sulle comunità locali. In
primo luogo, le multinazionali desiderano stabilire o contrattare operazioni (produzione, servizi e/o vendita) in nazioni e
regioni dove la forza lavoro e le risorse
sono più economiche. se da un lato ciò
significa un flusso addizionale di ricchezza nei confronti delle comunità locali,
questa forma di globalizzazione porta
anche ad ineguaglianze sostanziali. Può
anche significare disoccupazione di larga
scala in quelle comunità dove le industrie
si trovavano in precedenza (si ricordi il
caso Omsa, da faenza in serbia: e due
brand georeferenziati come la fiat500 ed
il thè inglese twinings, entrambi da produrre in Polonia). Inoltre, i salari in questi
nuovi contesti produttivi possono essere
molto bassi, così come sono poveri i diritti e le condizioni dei lavoratori. Un’inda-
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gine del 2000 delle sEz – special economic
zones in Cina ha rilevato che i produttori
per conto di brand come Ralph Lauren,
adidas e Nike pagavano meno di 13 centesimi all’ora (rispetto alla media di 87
centesimi all’ora). Un lavoro simile frutta,
negli stati Uniti, almeno 10 UsD all’ora
(Klein 2001: 212).
In secondo luogo, le multinazioni cercano
mercati nuovi o sotto-sviluppati al fine di
aumentare le vendite, colmando bisogni
latenti di diversi target group; ad esempio,
com’è avvenuto per il mercato del tabacco
e dei prodotti per l’infanzia: “i piccoli consumatori sono valorizzati non solo per
l’influenza che possono avere sulla decisione di spesa degli adulti, ma anche per
il loro rinnovato potere d’acquisto
(Kenway e Bullen 2001: 90). Ciò può arrivare a concettualizzazioni estremi, come
quella secondo la quale “il potere ed il piacere giovanile è costruito attraverso ciò
che accade altrove – lontano dagli adulti e
dalle scuole e soprattutto grazie all’ausilio
delle merci” (Kenway e Bullen 2001: 187).
Non si tratta, tuttavia, di un fenomeno
nuovo, ma di qualcosa che già Erich
fromm commentava nei primi anni ’50.
È più che altro la significativa accelerazione ed intensificazione dovuta all’ascesa
del brand e l’attenzione maggiore verso la
costruzione della propria (giovane) identità intorno ai brand.
si è poi assistito all’erosione degli spazi
pubblici da parte delle attività corporate.
significative aree del loisir, ad esempio si
sono spostate da forme associative come i
club verso attività commerciali private.
Giroux (2000: 10) ne parla, sempre a proposito del target di giovani: “i giovani
sono sempre più esclusi dagli spazi pubblici al di fuori delle scuole, quelli che un
tempo offrivano l’oro l’opportunità di
passare del tempo in relativa sicurezza,
lavorare con i propri mentori e sviluppare
i propri talenti e senso del valore di sé.
Come il concetto stesso di cittadinanza, lo
spazio ricreativo è ora privatizzato e visto
come opportunità di commercializzazione
e di profitto. Le aree di gioco sono ora
offerte al più alto compratore”. Inoltre, le
aziende multinazionali possono avere una
significativa influenza sui processi di
policy formation in molti governi nazionali ed organismi trans-nazionali.
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R I C E R C A
Il branding e la globalizzazione. La crescita astronomica nella ricchezza e nell’influenza culturali dei gruppi multinazionali negli ultimi 15 anni può essere ricondotta ad una singola e semplice idea, sviluppata dai teorici del managementi a
metà anni ’80: che le imprese di successo
debbano produrre primariamente brand,
piuttosto che prodotti (Klein 2001: 3).
Come ha suggerito Naomi Klein, “I
costruttori di marche sono i nuovi produttori primari nell’economia della conoscenza. Le corporation non dovrebbero
impiegare le proprie risorse finite su stabilimenti che richiedono interventi fisici, su
macchine che si corroderanno o su lavoratori che invecchieranno. Invece, dovrebbero concentrarsi su quelle risorse virtuali che si utilizzano per costruire il proprio
brand”. Nike, Levi’s e Coca Cola investono enormi budget nella promozione e nel
sostenimento dei propri brand. La strategia fondamentale è tentare di stabilire
brand specifici come parti integranti del
modo in cui le persone si vedono o vorrebbero vedere sé stesse. Riprendendo il
versante del rischio e della sua globalizzazione, il focus sul brand piuttosto che
sulle qualità intrinseche del prodotto ha
un tallone d’achille. Il danno al brand
può fare sproporzionatamente male alle
vendite ed alla sua profittabilità. se un
brand diviene associato al fallimento o
alla negatività (si pensi alle “cadute di
stile” dei testimoniale, specie in ambito
sportivo), affronterà seri problemi su di
un marketplace divenuto globale.
La globalizzazione e le multinazionali. Il
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grado di controllo che le corporazioni
multinazionali hanno sulle dinamiche
centrali della globalizzazione è limitato.
Esse dimostrano la perdita di autorità e
l’erosione di valori comuni che affligge
praticamente tutte le istituzioni sociali
moderne e post-moderne. Emerge così il
bisogno della progettualità di enti quali il
WtO – World trade Organization, il
fMI – fondo Monetario Internazionale e
l’OCsE – Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo Economico. Parte dell’impeto della nascita di questi enti è derivato dal limitato successo delle strutture
aziendali e statali nel pianificare ed organizzare le economie. storicamente, i mercati liberi sono stati dipendenti dal potere
statale. Per funzionare a lungo termine, i
mercati hanno da sempre richiesto un
grado ragionevole di stabilità politica, un
framework legale solido ed una quantità
significativa di capitale sociale. Ed ecco
un altro paradosso centrale per i nostri
tempi: la globalizzazione economica non
rafforza l’attuale regime di laissez-faire globale. Lavora, piuttosto, per minarlo alle
fondamenta. Non vi è nulla nel mercato
globale odierno che lo protegga dagli sforzi sociali derivanti dallo sviluppo economico altamente diseguale. I repentini alti
e bassi delle industrie e della qualità di
vita, gli improvvisi shift di produzione e di
capitale, il caos della speculazione valutaria sono tutte condizioni che innescano
contro-movimenti politici che sfidano le
regole alla base del mercato libero globale
(Gray 1999: 7). Il capitalismo è essenzialmente ed eternamente cangiante; i mercati forti richiedono interventi statali e
trans-nazionali significativi e, per essere
sostenibili nel tempo, richiedono relazioni sociali stabili ed un ecosistema di fiducia, nondimeno nei confronti dei brand
(un ecosistema fortemente minato a causa
della crisi economica nata con i subprime
negli stati Uniti). tali mercati possono
essere organizzati ed inquadrati in manie-
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ra tale che diverse persone in società diverse ne possano beneficiare.
Brand globali, locali o glocali?
L’editorialista del New York times thomas L. friedman sostiene che la tecnologia dei computer abbia creato un mondo
in cui, ad un livello senza precedenti, gli
individui possono competere o collaborare globalmente. Connessi da un network
di fibra ottica, siamo tutti diventati vicini
d casa (farrar, straus e Giroux, 2005).
In questo cosiddetto “appiattimento” ed
orizzontalizzazione del mondo, friedman
descrive la penetrazione della cultura globale anche in luoghi lontanissimi sulla
terra. Ma mentre il pianeta continua a
restringersi, cosa avverrà alle culture individuali?
Molti osservatori notano che, ben lungi
dal creare omogeneità culturale, la globalizzazione porti ad una riemersione dell’interesse verso le tradizioni locali.
samuel P. Huntington, docente di Harvard, sostiene che la modernizzazione promuova fiducia nei confronti dell’ordine
sociale locale ed, al contempo, fede nelle
pratiche tradizionali (Huntington, 1997).
Non è difficile trovare esempi di rinnovato interesse nelle tradizioni locali in
società di transizione. La tailandia, un
paese un tempo culturalmente omogeneo, ha visto un crescente interesse dei
propri gruppi etnici locali nei confronti
della propria storia, della propria lingua,
letteratura e cultura. E questo fenomeno è
più diffuso di quanto si pensi; Marylin
Halter della Boston University guarda al
rinnovato interesse per l’etnicità negli
stati Uniti (Halter, 2000): nel tentativo di
recuperare valori tradizionali (ed anche di
sfuggire al consumerismo di massa), gli
americani hanno iniziato a consumare
grandi quantità di prodotti etnici, specie
nel settore food ed in quello discografico.
Halter suggerisce anche che questo ritorno alle radici etniche abbia un effetto cal-
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DESK
S T O R I A , C U L T U R A
E
mante sugli americani che si sentono
persi nella superficialità delle interazioni
quotidiane, specie quelle veicolate attraverso i social network. “Una volta che la
realtà della comunità immaginaria è
messa in dubbio, l’etnicità offre indicatori tangibili e potenti simboli di comunalità ascrittivi. L’esplorazione della cultura
etnica ed il desiderio di attaccarsi ad un’identità sempre più personale e personalizzata persiste come risposta alla frammentazione rapida ed ambigua del
mondo postmoderno”.
Il critico di public policymaking Jeremy
Rifkin vede questo rinnovato interesse
per le culture locali più come una reazione all’ordine politico globale che al postmodernismo. L’accademica olandese
Marieke de Mooij condivide il pensiero di
Rifkin, ma considera la localizzazione una
risposta fondamentale della natura
umana al cambiamento: “il comportamento umano è stabile; in poche parole,
le persone non amano il cambiamento e
la maggior parte dei comportamenti di
consumo è abituale. Ciò implica che le
persone ameranno provare cose nuove
per un po’ di tempo, ma in fin dei conti
vorranno più ciò a cui sono adusi ed abituati”. Non a caso, è con la globalizzazione che si ravviva l’interesse per i vecchi
brand e per l’espressione di valori antichi
ed ancestrali attraverso il consumo ed i
comportamenti ad esso connessi. Mark
Kennedy invece, del centro di consulenza
Landor associates, interpreta questo tipo
di interesse come un elemento complementare alla globalizzazione piuttosto che
un suo contraltare. “Lo vedo come un
effetto di bilanciamento della globalizzazione grazie a marchi locali”, ciò nonostante i negozi ed i brand in tutti gli aeroporti del mondo diventino sempre più gli
stessi.
In Cina, avviene per esempio che i brand
globali coesistano in equilibrio con quelli
locali. anche in un settore così specifico
come quello alimentare. Liane Yu, strategic director per l’agenzia di consulenza di
marca Cheskin, evidenzia che marchi
come McDonald’s sono enormemente
popolari nonostante la continua sfida dei
brand locali. “Yong He Da Wang, catena
di fast food cinese, unisce la pulizia e la
convenienza di McDonald’s con la cucina
cinese di tipo casereccio, come ravioli e
spachetti. Questa combinazione ha successo perché unisce il meglio dell’Occidente col meglio della cultura locale. La
scelta tra prodotti, brand ed esperienze
globali o locali è estremamente contingente all’identità ed alle intenzioni personali. Non credo che il trend sia verso il
locale versus il globale, ma che sia verso la
possibilità di avere più aspetti di entrambi
nelle scelte che i consumatori asiatici
fanno nel loro quotidiano”. La questione
centrale è, sempre nella parole di Yu,
“come le persone definiscono cosa rende
moderni e ciò non esclude il consumo né
dei brand locali né di quelli, ovviamente,
globali”. Un analogia per questo ragionamento la si intravede con la proliferazione
dei musei in tutto il mondo. I musei sono
per loro natura una celebrazione degli
eventi e delle tradizionali locali, di cui ne
rappresentano l’effervescenza culturale.
Ma l’idea stessa di “museo” è un artefatto
storico-culturale universale.
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R I C E R C A
Il consumer service nell’era della globalizzazione
I guru del digitale sono d’accordo nel sottolineare l’utilità dei social media come
strumenti per l’empowerment dei consumatori. È necessario oggi più di ieri
lamentarsi online del cattivo servizio ricevuto acquistando una data offerta di mercato, che le proprie affermazioni vengano
estrapolate per obbligare le aziende ad
una politica di onestà e trasparenza, che si
aiutino gli altri consumatori a compiere
decisioni migliori. tutto questo richiederà e porterà, grazie alla realtà del social
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sharing, significativi miglioramenti nell’ambito del consumer service.
strumenti di condivisione immediata e
diretta, come twitter, sono in realtà dei
sogni sull’onnipotenza dei consumatori;
sono, piuttosto la realtà da incubo che
rispecchia la rottura delle relazioni tra
consumatori e brand. Dover rispondere a
lamentale online è una tassa che le aziende pagano a causa della discrepanza cronica tra le aspettative del consumatore e le
performance effettiva dei brand. Una
risposta personalizzata può diminuire
solo momentaneamente questo gap.
fino ad oggi, le azioni e le attività consumer-oriented sono state o automatizzate (si
pensi ai menu di selezione telefonica con
IvR – interactive voice response), rese intenzionalmente difficili (siti web senza recapiti e contatti) o disponibili solo a pagamento (come i tipici servizi aggiuntivi
IKEa, es. il montaggio a domicilio, lontani dalla filosofia low cost).
Per il resto, la gran parte di ciò che ieri si
definiva consumer service è stato esternalizzato interamente, con l’esplosione dei call
center hub nel sud Est asiatico: Bangalore,
Manila, etc., aree geografiche privilegiate
grazie ad una perfetta sincronia inversa
con gli orari d’ufficio giornalieri e notturni degli stati Uniti. Per non parlare del
risparmio sulla forza lavoro, calcolato dal
50 al 75% in meno. scelte che si sono
riverberate, ovviamente in negativo, sulla
percezione del brand in generale, sulla
percezione della pronuncia e della lingua
degli operatori in particolare. Oppure col
diffondersi ovunque di faQ – frequently
asked questions online, perfette sostitute
per l’assistenza specifica e personalizzata
da parte dell’azienda.
I negozi hanno sempre meno forza di vendita impiegata ed inventari più snelli,
mentre lo staff di back-office nelle imprese di servizi sono costretti a lavorare di più
e con meno risorse (per non parlare della
minaccia continua dell’insicurezza del
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posto di lavoro), rendendo sempre meno
frequente l’offerta di esperienze – di
marca e di consumo - memorabili e piacevoli sul mercato. Gli ingredienti vengono
ridotti e sono acquistati più a buon mercato; le materie prime ed i semilavorati
sono rimpiazzati da alternative meno
costose. sembra quasi che ridurre i costi
sia uno dei canoni principali insiti nell’innovazione di mercato.
I consumatori hanno sempre voluto “di
più a meno”, ma dimenticandosi a volte
che questo va a discapito di un’esperienza
costantemente migliore. fino a ieri, non
vi era un modo per interloquire con le
aziende e far capire gli svantaggi del tradeoff tra low pricing e consumer service. se da
un lato la vita del consumatore diventa
più complicata e sovraffollata, la sua tolleranza per la complessità e la difficoltà
decresce. tutto è fonte di micro e macrodelusioni e la pressione costante sull’abbassamento della soglia che trasforma
un’inconvenienza in una lamentela formale non fa che intensificarsi.
Un aneddoto illustra la contraddizione
che caratterizzava molte azioni di consumer
service: un viaggiatore a bordo della compagnia aerea XY si lamentò con l’hostess
poiché la zuppa a bordo dell’aereo conteneva solo tre bocconi di carne. Come si
risponde ad una lamentela che ha origine
nell’aspra realtà delle cose?
Con l’affacciarsi del capitolo “social
media” nel fenomeno della globalizzazione, le aziende tornano a porsi le seguenti
domande: A che livello imposto e gestisco le
aspettative dei miei consumatori? Facciamo
promesse di marca, esplicite o implicite che
siano, che non possiamo soddisfare? (si pensi
alle pubblicità di alberghi che mostrano
spiagge vuote. O agli spot che cercano di
posizionare le polizze assicurative come
elementi di divertimento nella propria
vita). Facciamo promesse rilevanti o irrilevanti? Queste domande assumono ancora più
peso e significato, alla luce di un’inversio-
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ne di tendenza: dall’esternalizzazione del
customer service in paesi esteri all’internalizzazione del customer service attraverso social
media strategists assunti in house.
velocità con cui ne veniamo a conoscenza.
si tratta di una promessa enorme. significa che i consumatori ci chiederanno lumi
in merito alle decisioni che stanno per
compiere, ai prodotti che utilizzano e cercano il supporto che solo noi possiamo
dare. E su twitter, possiamo fare tutto
questo in maniera veloce e attraverso molteplici opinioni, così che i consumatori
possano decidere dopo aver valutato più
input. In questo modo, anche gli altri possono imparare qualcosa mentre seguono
lo svolgersi delle nostre conversazioni.
Quando iniziate, ricordatevi che il tono di
voce è importante: dev’essere, soprattutto,
autentico ed onesto. siate colloquiali.
siate voi stessi. Mostrate rispetto ed aspettative rispetto. L’obiettivo è aiutare. se
non conoscete la risposta ad un particolare quesito, dite al consumatore che vi
impregnerete a trovarla. trovatela e poi
informatelo”.
Gli assunti fondamentali per l’efficacia
nel consumer service di rete e globalizzato
tra il 2009 ed il 2010 sono cresciuti esponenzialmente il numero e la portata di
buone e cattive pratiche di consumer service
attraverso i social media. Ne esponiamo
quattro, probabilmente i più rilevanti
sullo scenario di mercato, per illustrare
altrettanti assunti e fattori critici di successo che potrebbero accomunare, in
maniera trasversale ai settori merceologici, un consumer service efficace. Non si tratta di casistiche concettualmente separate,
come si vedrà, dal momento che un
assunto modella e pervade anche gli altri.
1. Twelpforce – il mondo dei consumatori è una piattaforma globale e proattiva, aperta 24/7. Nella catena di elettronica al consumo statunitense, Best Buy, è
stata implementata una modalità di servizio al consumatore del tutto innovativa.
Gli impiegati della catena, presente in
tutto il paese, sono stati incoraggiati ad
aiutare volontariamente i consumatori
che postano le proprie domande di assistenza tecnica su twitter. Domande sui
negozi, sui prodotti, ma anche sull’informatica in generale. Il tutto, domande e
risposte, è aggregato all’interno del singolo account @twelpforce. Le implicazioni
sono evidenti: il consumer service non ha
orari, dev’essere veloce e diretto. E soprattutto non deve avere necessariamente procedure rigide che ingessino la reattività
aziendale o aumentino i costi.
Il funzionamento di quest’incontro informativo virtuale è infatti regolato da semplici linee guida aziendali diretta alla forza
di vendita: “La promessa che facciamo, a
partire da Luglio, è che voi saprete tutto
ciò che sappiamo anche noi ed alla stessa
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R I C E R C A
2. JetBlue - Il giusto tone of voice e la giusta proattività a favore della trasparenza.
Il focus sul tono di voce indirizzato ai
volontari twelpforce ci porta al secondo
assunto, legato però ad un evento specifico che ha messo in imbarazzo le politiche
di consumer service e social media per la
compagnia aerea americana JetBlue. Il 9
agosto 2010, durante l’atterraggio del volo
1052 da Pittsburgh a New York, vi è stato
un alterco tra un passeggero e steven slater, steward di bordo. Questo piccolo incidente ha guadagnato l’attenzione dei
media globali dal momento che slater,
alterato dal litigio, ha annunciato attraverso il sistema audio di bordo che il passeggero l’avevo insultato, che in 20 anni di
onorata carriera non era mai stato trattato così da un consumatore e che si dimetteva dal proprio incarico. Dopodichè, ha
azionato lo scivolo di emergenza e con
una confezione di lattine di birra in
mano, è uscito dall’aereo scivolando fino
a terra. Immediatamente, l’episodio è
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riverberato in tutte le pieghe della socialmediosfera, guadagnando l’ilarità e l’appoggio di migliaia di addetti al pubblico
che si immedesimavano in maniera vicariamente eroica in slater. Il comparto
delle PR e della comunicazione ha invece
aspettato al varco la reazione della compagnia. Che si è limitato a propalare un
memo interno dai seguenti contenuti: “se
la storia di Mr. slater è accurata, ed a prescindere da qualsiasi evento disdicevole
che abbia motivato il suo comportamento, nulla giustifica il suo comportamento.
Gli scivoli si armano molto velocemente,
con abbastanza forza da uccidere un essere umano se colpito. È un insulto a tutti i
professionisti dell’aviazione vedere che
questo particolare elemento della storia
sia trattato senza tutta la serietà che merita. JetBlue punirà sempre le persone che
fanno del male fisico o minacciano di fare
del male fisico ad un cliente o ad un altro
membro dell’equipaggio. Punto”. ferme
restando le giustissime considerazioni
sulla pericolosità (potenziale, per fortuna)
della vicenda, JetBlue è stata criticata per
non aver adottato un tone of voice sì autorevole e formale, ma più consono alla percezione della vicenda da parte di un pubblico mondiale. In questo modo, molti
fan e consumatori della compagnia aerea
hanno visto dilatarsi la discrasia tra identità ed immagine del brand. La sfida per il
marketing creativo di oggi non è quindi
quella di trovare nuovi modi per distrarre,
divertire o coinvolgere i consumatori; è
quella di far non solo comprendere la
realtà, ma di insegnar loro ad amarla. trasparenza sì, ma rispecchiata con uno stile
ed un tono appropriato e specifico in base
al caso. Come la strategia di marketing
annuale ci riesca è compito delle aziende
e dei suoi brand manager, i quali devono
fare i conti con un’audience mondiale
pronta a crocifiggere o ad incoronare in
diretta ed in mondovisione i brand. Un
esempio delle pratiche di smascheramen-
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to della realtà di un brand e dell’offerta di
mercato che rappresenta è, per restare
sempre nell’ambito del turismo, il portale
Oyster.com: è dedito a confrontare le foto
di hotel e location nei depliant con le foto
scattate da veri turisti.
3. Nestlè UK e Kit Kat – Dotarsi di regole condivise a livello corporate e staff.
Gli attivisti di Greenpeace hanno recentemente messo sotto torchio i vertici Nestlè
a causa della presenza, tra gli ingredienti
del Kit Kat, dell’olio di palma. Un prodotto più economico delle sue alternative
e più o meno direttamente correlato al
disboscamento globale. Greenpeace ha
dunque approntato un video, divenuto
virale in pochi giorni, dove tra le tradizionali barrette di una confezione Kit Kat
compariva il dito di un orango, animale il
cui abitato è messo in difficoltà appunto
dal disboscamento. Immediata e reticolare è stata la reazione di protesta dei consumatori in tutto il mondo. Nestlè quindi
ha timidamente annunciato che avrebbe
utilizzato dell’olio di palma sostenibile,
ma Greenpeace ha lanciato una controffensiva, chiedendo ai suoi sostenitori di
protestare contro Nestlè, condividendo i
video online e modificando la propria
immagine del profilo di facebook con
l’immagine “Nestlè Killer”. E così tantissimi sostenitori di Greenpeace hanno
modificato la propria immagine del profilo, invaso la pagina fan di Nestle su facebook, innescando un meccanismo che ha
portato a tutta una serie di commenti
negativi e mal gestiti da parte del social
media specialist per Nestlè UK, Paul Griffin. Quest’ultimo ha infatti reagito imponendo la propria “legge aziendale” sulla
pagina (con tanto di insulti, censure e la
minaccia di ricorrere a leggi sulla proprietà intellettuale), gestendo in modo
assolutamente inappropriato lo stato di
crisi. Questo tipo di strategia comunicativa (che potremmo definire punto-massa,
35
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S T O R I A , C U L T U R A
E
o broadcasting) può andare bene su piattaforme corporate (blog o forum aziendali), ma su facebook deve prevalere un
approccio strategico di tipo narrowcasting,
di dialogo, punto-punto.
Oggi nella comunicazione strategica
d’impresa più si cerca di nascondere qualcosa, più ci sarà qualcuno che invece la
rimarcherà, facendo in modo che se ne
continui a parlare. Questo perché è divenuto sempre più facile, per gli attivisti,
coinvolgere un numero di sostenitori su
scala mondiale che è inimmaginabile per
(quasi) la maggior parte dei brand. Gli
attivisti possono contare su milioni di
sostenitori, con i quali attivare un meccanismo virale di condivisione dei contenuti sui social Network (Youtube, twitter e facebook).
La soluzione, evidenziata dal caso Nestlè
Kit Kat, è quella di progettare e condividere delle regole di gestione dello spazio
sociale e conversazionale con i propri
consumatori sul web. Regole che, dal
punto di vista interno, possono servire da
guida invisibile che orienti le prassi
comunicative delle risorse umane. Da
questo punto di vista, the Coca Cola
Company si è posa in maniera proattiva
sviluppando 5 linee guida sul tema social
media e gestione delle reti sociali e globali dei consumatori: l’aderenza al Codice
Etico aziendale, la piena responsabilità
per le proprie azioni intraprese online, la
ricerca di elogi e lamentele (potenziali
fonti di intuizione sul comportamento di
consumo), la capacità di delegare ai referenti appropriati contenuti negativi o
potenzialmente lesivi dell’azienda.
sulle tematiche di rilevante interesse strategico. Come ad esempio la brand identity ed i suoi elementi, quali logo e visual.
GaP, il gigante statunitense che opera
nella distribuzione al dettaglio di abbigliamento, ha affidato ad un’agenzia pubblicitaria il rifacimento del proprio logo, per
riflettere i cambiamenti di vision e di strategia imprenditoriale. Il logo definitivo,
una volta diffuso su internet, ha scatenato
reazioni furiose ed unanimi dai consumatori che lo hanno rifiutato per le sue scarse qualità estetiche.
Di conseguenza, immediatamente diversi grafici ed artisti freelance, appassionati dei prodotti GaP ed in cerca di visibilità, hanno pubblicato online le loro proposte grafiche per il nuovo logo, incredibilmente più valide del logo prodotto e
proposto da una società professionale.
sono questi gli anni del crowdsourcing, in
cui cioè le imprese intravedono i benefici del co-creare del valore di mercato
insieme a dei consumatori spontaneamente proattivi e creativi.
Il termine proviene dalla fusione dei termini inglesi che rappresentano la folla
(crowd) e l’attività di esternalizzazione
(outsourcing) ed indica appunto il coinvolgimento dei consumatori da parte dell’impresa nella risoluzione di problemi
aziendali (la progettazione di un packaging, di un logo, di una campagna), in
cambio di un beneficio tangibile o intangibile. Nell’era dell’intelligenza collettiva,
dello user generated content e del dialogo, le imprese hanno a disposizione un
serbatoio ideativo ed informativo a basso
costo e ad alta accessibilità: la mente dei
consumatori.
4. Il nuovo logo GAP – Ascoltare la voce
dei consumatori e fidarsi di essa.
Uno dei mantra del marketing è “Il cliente è sempre nel giusto”. Bisognerebbe
aggiungere “se è il cliente giusto”, soprattutto se dimostra di avere voglia di interloquire spontaneamente con l’azienda
DESK
36
R I C E R C A
Adele Savarese
n. 4/2010
S T O R I A , C U L T U R A
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R I C E R C A
'
RADIOGRAFIA DELL UNIONE EUROPEA
SUL NOSTRO SISTEMA DEI MEDIA
ROSA MARIA SERRAO
MediaDem - Un progetto di ricerca promosso dall’ Unione Europea – Quattordici
paesi sotto esame fino al 2013 quando la
ricerca si concluderà con la formulazione di
indicazioni concrete di policy per gli attori
pubblici e privati interessati nella regolazione dei media e l’identificazione dei sistemi
per la promozione di media liberi e indipendenti
A
pprofondire i fattori che
possono promuovere o, al
contrario, ostacolare lo
sviluppo delle politiche a
sostegno di libertà ed
indipendenza dei media è l’ obbiettivo
di MediaDem, un progetto di ricerca
promosso dall’Unione Europea e relativo a 14 paesi europei. Grecia, Italia e
spagna (che rappresentano il modello
polarizzato-pluralista); Belgio, Danimarca
e finlandia (modello nordeuropeo-corporativistico), Gran Bretagna (modello nordatlantico-liberale). Oltre ad alcune nazioni dell’Europa centro-orientale, Bulgaria, Estonia, Romania e slovacchia, e a
due paesi-candidati Croazia e turchia.
Il progetto (Revisione delle politiche europee sui media: Valutare e rivendicare libertà
n. 4/2010
ed indipendenza dei media nelle democrazie
contemporanee, questo il titolo completo)
si propone di analizzare il processo di
definizione delle politiche sui media
alla luce del loro contesto socio-politico, economico e culturale, e di esaminare le opportunità e le sfide poste dai
nuovi mezzi di comunicazione alla
libertà e all’indipendenza dei media.
saranno inoltre analizzate forme di controllo esterne sulla configurazione delle
politiche nazionali sui media derivanti
dall’UE e dal Consiglio d’Europa.
La ricerca è stata avviata nell’aprile scorso e terminerà nel marzo 2013, ma è
stato già pubblicato un primo Rapporto , con le analisi generali degli scenari
nei vari paesi (Belgio, Bulgaria, Croazia,
Danimarca, Estonia, finlandia, Germania, Grecia, Italia, Romania, slovacchia, spagna, turchia, UK, EU/CoE).
Il rapporto completo, in lingua inglese,
è disponibile sul sito http://www.
mediadem.eliamep.gr
ad esso seguiranno le altre fasi: analisi
della configurazione delle politiche sui
media nei rispettivi paesi, verificando se
effettivamente facilitano la creazione di
un ambiente favorevole per la libertà e
l’indipendenza dei media; analisi com-
37
Rosa Maria
Serrao, giornalista,
Presidente Arga
Lazio
(Associazione Giornalisti Ambientali),
Consigliere e membro di giunta Associazione Stampa
Romana.
DESK
1
Il Registro degli
Operatori di
Comunicazione
(ROC) è stato
introdotto dall’articolo 1 della
legge 249/1997
(che ha sostituito
il precedente
Registro degli Editori). si tratta di
un obbligo per
qualsiasi servizio
di comunicazione e/o fornitore
di contenuti a
registrarsi presso
il ROC, al fine
di distribuire i
propri contenuti
e/o servizi nelle
reti di comunicazione italiane.
aGCOM, “Rapporto annuale
2010”, disponibili
su: http://www.
agcom.it/Default.
aspx?message=vie
wrelazioneannuale&idRelazione=19.
2
3 aCGM, Indagine conoscitiva
riguardante il Settore dell’editoria Quotidiana, Periodica e
multimediale
[Studio sui quotidiani, periodici e
multimediali]
(2006), disponibile all’indirizzo:
www.agcm.it.
DESK
S T O R I A , C U L T U R A
E
parativa dei vari modelli; formulazione
di indicazioni concrete di policy per gli
attori pubblici e privati interessati nella
regolazione dei media, l’Unione Europea e il Consiglio d’Europa, e identificazione delle migliori prassi per la promozione di libertà ed indipendenza dei
media.
Il progetto è coordinato da Evangelia
Psychogiopoulou, della Hellenic Foundation for European and Foreign Policy
(ELIaMEP) e curato da un responsabile per ogni paese (per l’ Italia è fabrizio
Cafaggi, dell’ Istituto Universitario
Europeo di firenze).
L’ analisi relativa al nostro paese, realizzata da federica Casarosa (che ha curato anche il capitolo finale, The case of the
European Union and the Council of Europe), ricercatrice al Centro di studi avanzati dell’istituto Jean Monnet di firenze, ripercorre le varie fasi dell’ evoluzione del sistema dei media in Italia, con
particolare attenzione agli aspetti legislativi, e indica in conclusione i principali problemi che ci troviamo di fronte.
In particolare la ricercatrice individua
quattro diverse problematiche:
- Il ruolo dello stato, passato da una
posizione di editore e distributore di
contenuti informativi a soggetto di
regolazione e monitoraggio dell’applicazione delle norme in un settore in cui i
protagonisti privati sono la grande maggioranza.
- La crescente importanza dell’authority delle comunicazioni in termini di
funzioni regolatorie, per fare in modo
che sia sempre più imparziale per la sua
distanza dai partiti politici
- Le difficoltà nella introduzione di una
effettiva legislazione antitrust che possa
limitare le tendenze alla concentrazione
e, nello stesso tempo, regolare il flusso
di risorse finanziarie fra i diversi media.
- Infine il ruolo dell’ azienda di servizio
pubblico nel nuovo contesto, che non
assicura più la salvaguardia del pluralismo interno dell’informazione – un
ruolo che non può essere imposto direttamente agli attori privati – ma è più
una garanzia di accesso dei cittadini alle
nuove tecnologie della comunicazione,
nel tentativo di evitare il pericolo del
sorgere di nuove forme di marginalizzazione sociale.
38
R I C E R C A
La situazione in Italia
Il settore della stampa rappresenta in
Italia uno tra i business più importanti.
Il numero totale degli editori presenti
nel registro nazionale per i fornitori di
comunicazione1 è di 848, tra i quali
sono presenti gli editori della stampa
elettronica (6,3%), gli editori della carta
stampata (53,9%) e le case editrici che
utilizzano entrambi i medium (39,8%)2.
La registrazione, però, pur essendo
obbligatoria, non implica necessariamente che tutti gli iscritti siano attivi
sul mercato.
Il numero stimato di quotidiani in Italia è di 200, numero che comprende
anche la free press. In percentuale è un
numero relativamente alto, ma dipende
da due fattori importanti come l’area
geografica di distribuzione (tiratura
nazionale o locale) e i contenuti specifici (economia, sport, politica)3.
I dati più recenti riflettono una situazione generale negativa che si riflette
soprattutto sulla diminuzione delle
entrate nel settore dell’editoria: un 14%
in meno rispetto al 2008 e quasi il 20%
in meno rispetto al 2006. L’unico caso
in cui il trend nell’ultimo anno sembra
n. 4/2010
S T O R I A , C U L T U R A
in contro tendenza è la stampa elettronica, anche se la sua importanza in termini di valore è ancora limitata (vedi
tabella 1).
Il calo delle vendite non ha riguardato
solo la stampa tradizionale, ma anche la
free press, che - a differenza delle speranze che aveva acceso al suo esordio ha mostrato il calo maggiore (-23,7%),
con una concomitante riduzione della
raccolta pubblicitaria di quasi 1/5
rispetto all’anno precedente. L’accesso
alla versione elettronica dei giornali
mostra invece dei dati in crescita, passando dal 3,4 milioni nel 2008 a 3,8 del
2009.4
vale la pena notare che nel settore della
stampa la maggior parte dei giornali
sono controllati da un trust finanziario
di pochi gruppi che ne detengono la
proprietà: RCS Mediagroup, Gruppo Editoriale L’Espresso, Gruppo Mondadori,
Gruppo Caltagirone e IlSole24. I primi tre
tra questi gruppi comprendono quasi il
60% di tutto il distretto della stampa.5
Dalla fine della seconda guerra mon-
n. 4/2010
E
R I C E R C A
diale, il governo italiano ha sovvenzionato la stampa di settore con il contributo diretto e indiretto alla sua attività.
La giustificazione si è sempre trovata
nella necessità di eliminare ogni ostacolo economico al pluralismo dell’informazione, salvaguardando l’esistenza e lo
sviluppo delle imprese editoriali più
piccole e le iniziative culturali degne di
nota. La recente normativa, tuttavia,
ha pesantemente rivisto i criteri per
accedere al contributo indiretto prevedendolo solo per specifiche imprese
editoriali (le cooperative) e per i giornali di partito. 6
a causa della stratificazione di regolamentazioni diverse in materia di sovvenzioni ai media, l’attuale quadro giuridico è in esame al fine di fornire una
ristrutturazione che potrebbe raggiungere un più elevato livello di efficacia,
alla luce dell’obiettivo generale di promuovere il cosiddetto “pluralismo esterno”. 7
tornando alla crisi del settore bisogna
mettere bene in evidenza che la distri-
39
aGCOM,
“Relazione
annuale 2010”, p.
102 e aGCOM,
“Relazione
annuale 2009”,
disponibile all’indirizzo:
http://www.agco
m.it/Default.aspx
?message=viewrelazioneannuale&i
dRelazione=17.
4
aGCOM,
“Relazione
annuale 2010”, p.
94.
5
6
vedi Caretti,
Diritto dell’Informazione e della
Comunicazione,
pag 76.
Per la definizione di pluralismo
esterno, si veda
Corte Costituzionale, sentenza n.
474/1984.
7
DESK
aGCOM, “Relazione annuale
2010”, p. 92.
8
9
R. Bertero, il
quotidiano on-line
in Italia: stato dell’arte e possibili sviluppi (2009),
disponibile all’indirizzo:
http://www.lsdi.i
t/wpcontent/Lsditesi_roberta_bertero.pdf.
10
vedere il Testo
Unico dei Servizi
Audiovisivi media e
radiofonici
(tUsMaR),
decreto legislativo
177/2005, con le
recenti modifiche
introdotte dal
d.l. 44/2010 che
ha attuato la direttiva sMa in Italia.
11
Lo spostamento
complessivo verso
la televisione digitale è prevista per
il 2012, e attualmente sembra
che, dopo una
sperimentazione
di lungo periodo,
il processo sarà
completato in
tempo.
Ognuno di questi Gruppi ha
una diversa strategia aziendale che
si basa sul canone
annuo per la
RaI, sui servizi a
pagamento per
sky Italia e sugli
investimenti pubblicitari per RtI Mediaset. Cfr.
aGCOM, “Relazione annuale
2010”, p. 76 e
segg.
12
DESK
S T O R I A , C U L T U R A
E
buzione online di contenuti stampati è
in netta ascesa.8 tuttavia, sia lo stile che
il formato non sono ancora soddisfacenti, perchè molto più concentrati sui
testi che sulla multimedialità. 9
La sfida per gli editori consiste nel trovare il modo per far pagare i contenuti
on line senza perdere i lettori, individuando forme di prodotto su misura,
come ad esempio quelli disponibili
nella comunicazione mobile, che sono
ritenuti una delle possibili soluzioni.
Il settore televisivo ha registrato un
incremento dei ricavi complessivi
dell’1,7%. L’andamento decrescente
che ha colpito i ricavi pubblicitari è
chiaro, anche se è ancora la più importante fonte di finanziamento per il settore televisivo. Un ruolo maggiore si è
avuto grazie alla componente pay-tv,
che comprende un terzo dei ricavi complessivi (vedi tabella 2).
L’Italia, come gli altri paesi dell’UE, ha
un sistema di trasmissione misto che
prevede un unico gestore di servizio
pubblico, la RaI, e una serie di emittenti private nate negli anni ‘70. tra
queste ultime, certamente la realtà più
importante è rappresentata dal gruppo
RtI-Mediaset, la cui forza economica è
diventata talmente ampia che nell’attuale situazione di trasmissione analogica si può parlare di duopolio televisivo.
Certamente la legittimità è messa in
dubbio dalla proprietà del gruppo
Mediaset-RtI che contemporaneamente rappresenta il governo italiano. Questa anomalia cambia la percezione del
sistema dei media. Complessivamente,
i tre concorrenti (tenendo conto anche
di sky-tv) includono più del 90% del
mercato televisivo.12
La televisione
Il settore televisivo sta attraversando
una trasformazione dovuta, in parte,
alla recente riforma legislativa10 e, in
parte, al passaggio in corso dalla televisione analogica a quella digitale.11
a differenza di altre sezioni editoriali, la
televisione ha resistito di più agli effetti
della crisi economica, come dimostrano
i ricavi pubblicitari e l’aumento dei servizi pay-per-view. sebbene quella analogica sia ancora il principale operatore
sul mercato, la crescente importanza
delle trasmissioni via satellite e i crescenti servizi a pagamento implicano
che la posizione attuale risulti ancora in
progress.
40
R I C E R C A
n. 4/2010
S T O R I A , C U L T U R A
La RaI ha tre canali analogici, tredici
canali digitali, sette canali satellitari e
tre canali radio. Il servizio di radiodiffusione è assegnato alla RaI per mezzo
di un contratto nazionale, rinnovabile,
della durata di tre anni tra l’azienda e il
Dipartimento per le Comunicazioni,
secondo le linee guida adottate dal
Dipartimento e dall’autorità per le
garanzie nella comunicazione.13
Per quanto riguarda la forma giuridica,
la RaI è una società di capitali,14 la cui
governance è stata riformata dal D. Lgs
177/2005, il Testo unico dei servizi di
media audiovisivi e radiofonici, che ha tentato di superare le forti connessioni tra
il consiglio di amministrazione e i partiti politici.15 Il consiglio di amministrazione della RaI è ora eletto dall’assemblea
degli azionisti, dando il rappresentante
del governo (il Ministero dell’Economia
e delle finanze) la possibilità di presentare una serie di candidati proporzionale al numero di azioni. Inoltre, per
migliorare l’indipendenza e l’autonomia
degli amministratori, il loro mandato
dura ormai solo tre anni con la possibilità di un solo rinnovo. Le difficoltà
incontrate nelle ultime elezioni, tuttavia, hanno mostrato quanto sarà difficile da dissipare completamente il dominio dei principali partiti politici sul
governo della RaI.
Il passaggio alla televisione digitale è un
processo continuo che ha come obiettivo il trasferimento totale al digitale dell’intero territorio nazionale entro il
2012. al momento sono disponibili 40
canali nazionali gratuiti, che trasmettono in digitale, e oltre 30 a pagamento.
Il legislatore ha voluto approvare questa
nuova tecnica di trasmissione al fine di
migliorare il livello di pluralismo nel
n. 4/2010
E
R I C E R C A
settore, superando gli ostacoli dovuti
alla scarsità delle frequenze analogiche.16 tuttavia, questa interpretazione
ottimistica non è stata condivisa dalla
Corte Costituzionale, che ha recepito
il miglioramento del pluralismo solo
come “evento incerto”, che richiede
invece una serie di interventi specifici
di monitoraggio da parte dello stato.17
La Radio
anche per la radio predomina la
distinzione tra servizio pubblico, rappresentato dai canali RaI, e le reti private, con le radio individuali o parti di
gruppi editoriali. L’accesso al mercato
dei concorrenti disponibile su dispositivi diversi (personal computer e telefoni cellulari) impone una ridefinizione
delle strategie.18
I grandi gruppi editoriali, infatti,
hanno aumentato lo sviluppo dell’attività multimediale come sinergica e
complementare alla radio tradizionale.
In particolare, web streaming e podcasting sembrano essere le principali soluzioni per attrarre ascoltatori online.
Inoltre, i servizi di telefonia mobile
stanno cambiando e ampliando le loro
offerte in termini di contenuto ma
anche fornendo servizi interattivi agli
utenti finali, basati sulla convergenza
dei mezzi di diffusione di Internet, che
hanno raggiunto quasi la metà della
popolazione italiana. 19
Un recente studio sulla popolazione
nazionale ha dimostrato che una sempre
maggiore percentuale di persone usa
Internet, e non solo passivamente (per la
ricerca di informazioni in materia di
istruzione, acquisto di beni, ecc), anche
per partecipare al cosiddetto Web 2.0.
La maggior parte degli utenti hanno
41
vedi sotto il par.
3.1.
14
vedi articolo 49
del tUsMaR.
15
Il sistema precedente ha raggiunto la cosiddetta
“lottizzazione” dei
tre canali di trasmissione: alla
coalizione di
governo RaI 1, ai
partiti di destra
RaI 2, e ai partiti
di sinistra RaI 3.
Confrontare su
questo punto, P.
Mancini, Elogio
della lottizzazione La via italiana al
pluralismo (2009).
13
16
La legge che ha
aperto le porte
alla sperimentazione di trasmissioni
digitali risale al
2001, la Legge
66/2001. Cfr. a.
D’arma, “Politiche in materia di
televisione digitale
in Italia
1996-2006”, In
M. ardizzoni e C.
ferrari (eds.), "al
di là del monopolio. I media italiani contemporanei
e la globalizzazione".
Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 446/2002.
17
18
aGCOM,
“Relazione annuale 2009”, p. 83.
Istat, Indagine
sulle famiglie
Aspetti della vita
quotidiana, (2009),
disponibile su:
http://www.istat.i
t/dati/catalogo/20090312_00.
19
DESK
20
Ibid.
Molte agenzie
alla loro nascita
erano legate a specifici orientamenti politici, l’asca
alla Democrazia
Cristiana, Italia ai
socialdemocratici.
tuttavia, hanno
cercato di conformarsi ad una
visione pluralistica dell’informazione. Cfr. s. Lepri,
“storia delle
agenzie di Informazione, in v.
Roidi (a cura di),
studiare da Giornalista. Il sistema
dell’Informazione
vol. 1 (2003) 172.
21
22
Cfr. a. Meucci,
“agenzie di stampa e Quotidiani –
Una Notizia dall’ansa ai “giornali”, Università di
siena, Dipartimento di scienze
storiche, Giuridiche, Politiche e
sociali, WP n. 42,
2001.
23
Il ruolo dell’ODG è anche
stato messo in
discussione di
fronte alla Corte
costituzionale, che
non lo definisce
come un’istituzione che limita la
libertà di stampa
perché regola solo
il modo in cui
l’attività professionale deve essere
effettuata, non
impone alcun
limite alla libertà
di espressione di
coloro che non
vogliono diventare giornalisti.
vedere sentenza
della Corte Costituzionale, n. 11/
1968.
DESK
S T O R I A , C U L T U R A
E
ancora un basso livello di coinvolgimento, come leggere i blog e partecipare a
chat, newsgroup, e forum di discussione
online, ma l’interesse per i contenuti
generati sta cominciando a decollare
anche in Italia (vedi tabella 3).20
possibile considerare l’agenzia di stampa come una fonte di informazione per
gli operatori dei media, ma piuttosto
una concorrente degli altri operatori
dell’informazione.22
Le agenzie di stampa
La più antica agenzia di stampa, l’Ansa,
è una società cooperativa composta solo
da editori di giornali. Molte altre sono
invece di proprietà privata, quali Italia,
Adnkronos, Asca, Il Sole 24 ore Radiocor.21
Provvedono non solo alla copertura di
notizie nazionali, ma anche di notizie
dall’estero, in alcuni casi con appositi
corrispondenti presso gli uffici all’estero
(ad esempio l’ansa), o attraverso collegamenti con le agenzie di stampa estere.
Le agenzie di stampa in Italia hanno
migliorato il loro ruolo e la loro importanza nel momento in cui hanno iniziato a fornire direttamente, senza intermediazione degli utenti principali (tv,
radio, giornali), servizi on-line e notizie
video brevi disponibili sul sito web, sul
televideo e sui cellulari tramite il servizio sMs. In questo senso, non è più
42
R I C E R C A
I giornalisti
La professione di giornalista in Italia è
disciplinata dalla legge 69/1963 che
definisce l’attività giornalistica come
un’attività professionale intellettuale,
regolata dal diritto del lavoro, e impone
l’obbligo di iscriversi all’Ordine dei
Giornalisti, ODG (che cura la tenuta
dell’albo dei giornalisti) a qualsiasi persona che si impegna in tale attività.
L’ODG distingue due tipi di giornalisti:
professionisti (che lavorano in maniera
continuata ed esclusiva come giornalisti) epubblicisti, spesso freelance. La
prima categoria è appena inferiore ai 28
mila soci, mentre la seconda ha oltre
64mila iscritti. E’ necessario un periodo
di praticantato di almeno diciotto mesi
(o la frequenza di un master o una
scuola approvata dall’ODG) prima di
accedere all’esame di stato. La legge
prevede l’autoregolamentazione della
n. 4/2010
S T O R I A , C U L T U R A
categoria dei giornalisti che possono
eleggere i propri rappresentanti in organi di governance interna ed eventualmente imporre sanzioni dove c’è il mancato rispetto delle regole.23
Internet
In questi ultimi dieci anni i consumi di
tutti i tipi di media sono aumentati, in
percentuali diverse (dal 2% della tv al
26,9% di Internet), raggiungendo la percentuale maggiore della popolazione
totale (quasi il 100% nel caso di diffusione tv, ma solo il 50% nella diffusione di Internet).24 secondo la relazione
della Commissione europea,25 l’Italia ha
un livello di alfabetizzazione mediatica
leggermente inferiore alla media.
Gli attori nella regolazione dei media
Il governo italiano ha riacquistato il suo
ruolo primario nella politica dei media
con la legge 112/2004. L’organo più
importante in questo settore è divenuto
il Ministero dello sviluppo Economico
che ha ereditato i poteri del precedente
Ministero delle Comunicazioni26. In
particolare, il Dipartimento per le
Comunicazioni ha il compito di vigilare
sul rispetto degli obblighi relativi alla
concessione di autorizzazioni e /o licenze alla trasmissione digitale. Inoltre è un
punto di riferimento privilegiato per i
rappresentanti dell’industria della
comunicazione, nella redazione ed
approvazione di numerosi codici di condotta, come la tutela dei minori e i
metodi specifici delle vendite (acquisti a
domicilio IE). 27
L’Authority per le comunicazioni
L’autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, l’aGCOM è un organo indi-
n. 4/2010
E
R I C E R C A
pendente, istituito dalla legge
249/1997, e di garanzia: la legge istitutiva affida all’autorità il duplice compito di assicurare la corretta competizione
degli operatori sul mercato e di tutelare
i consumi di libertà fondamentali dei
cittadini. 28
L’autorità ha avviato le sue attività operative nel luglio del 1998, assorbendo
anche le funzioni dell’ex autorità Editoria e stampa.29 tra le sue prime attività il piano delle frequenze televisive
nazionali. 30
Le funzioni attuali si concentrano sul
monitoraggio del passaggio alla trasmissione digitale, all’applicazione delle
leggi antitrust per il settore delle telecomunicazioni,31 il monitoraggio dei servizi di radiodiffusione in termini di
qualità e rispetto delle norme in materia di pubblicità, la politica e la tutela
dei minori. 32
Le sanzioni applicate dall’aGCOM
sono proporzionali alla gravità della violazione, e vanno dalle sanzioni amministrative di carattere pecuniario alle più
severe sanzioni quali il ritiro della licenza per un massimo di dieci giorni. 33
La struttura interna è costituita dal Presidente, la Commissione per le infrastrutture e le reti, la Commissione per i
servizi e i prodotti e il Consiglio. Ci
sono otto Commissari: quattro eletti
dal senato e quattro dalla Camera dei
Deputati. Il presidente della autorità
per le comunicazioni è nominato dal
Presidente della Repubblica Italiana su
proposta del Capo del Governo e del
Ministro delle telecomunicazioni. tuttavia l’indipendenza di tale organismo
non è garantito da queste regole, tanto
che il sistema di voto per la selezione
dei membri diventa quasi un duplicato
43
Cfr. CensisUcsi, I media tra
Crisi e metamorfosi
Ottavo Rapporto
sulla Comunicazione (2009),
disponibile all’indirizzo:
http://www.gover
no.it/GovernoInforma/Dossier/rapporto_ce
nsis _2009/sintesiOttavoComu.p
df.
24
25
Commissione
europea, Direzione generale
società dell’informazione e Media
Studio sui criteri di
valutazione per l’educazione ai
media, disponibile
all’indirizzo:
http://ec.europa.eu/avpolicy/m
edia_literacy/doc
s/studies/eavi_st
udy_assess_crit_
media_lit_levels_
euro
pe_finrep.pdf.
Con la legge
85/2008 sono
stati unificati il
Ministero delle
Comunicazioni e
il Ministero per il
Commercio Estero dando vita al
Ministero dello
sviluppo Economico, con la creazione al suo interno di uno specifico Dipartimento
per le Comunicazioni.
26
27
tuttavia, parte
della dottrina
sostiene questo
fatto come potenzialmente deleterio per il ruolo e
le funzioni dell’autorità per le
garanzie nelle
comunicazioni,
DESK
che ha un mandato analogo relativo al monitoraggio del rispetto
dei principi generali. f. Bruno e
G. Nava, Il nuovo
sistema di telecomunicazione - Radio e
radiodiffusione, le
comunicazioni elettroniche, editoria
(2006), a p. 138.
Questo organismo è stato in
parte creato per
rispettare il diritto comunitario,
la direttiva
90/387/CE, e in
parte creato in
risposta a una
crisi politica nel
1990, che ha portato alla richiesta
di un ruolo più
forte per la regolamentazione
delle autorità
indipendenti .
Cfr. G. Mazzoleni
e G. vigevani,
“Italia”, p. 884.
28
Creata dalla
Legge 416/1981.
29
si noti che, in
Da un lato, la
frammentazione
del settore della
radiodiffusione è
stato un lascito
della liberalizzazione del 1976,
che ha portato ad
aprire le porte a
un gran numero
di operatori di
piccole e medie
dimensioni, e,
dall’altro, il piano
nazionale delle
frequenze è stata
una necessità
urgente in quanto l’Italia non ha
mai sviluppato le
trasmissioni via
cavo e via satellite
parallelamente
30
DESK
S T O R I A , C U L T U R A
E
delle coalizioni politiche esistenti in
Parlamento. Questo è uno degli esempi
in cui la resistenza ad eliminare lo stretto collegamento tra i rami legislativo ed
esecutivo e l’autorità di vigilanza è più
che evidente. E’ importante ricordare
che il ruolo crescente dell’autorità relativamente al settore della stampa è stato
fatto a spese della Presidenza del Consiglio il cui ruolo era stato definito dalla
legge 400/1988, che ha creato il Dipartimento per l’informazione e l’editoria,
ancora oggi responsabile delle decisioni
in merito alle sovvenzioni richieste dalle
industrie editoriali.
compromette le funzioni di controllo
assegnatole. ancora una volta è percepibile che, nonostante gli sforzi per neutralizzare il controllo politico sui media,
trasferendo le funzioni di monitoraggio
e di esecuzione a organismi indipendenti, il sistema normativo è talmente
confuso e complicato da svuotarne
completamente il significato.
Commissione di vigilanza Rai
all’interno del settore della radiodiffusione, un altro importante tassello è
rappresentato dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la
vigilanza dei servizi radiotelevisivi. La
Commissione è stata creata con la legge
103/1975 per definire e monitorare il
rispetto di principi quali il pluralismo,
la correttezza, la completezza e l’imparzialità dell’informazione, ma si concentra solo sul servizio pubblico, la RaI.
Non fornisce una definizione molto
dettagliata degli obiettivi da raggiungere
annualmente dalla RaI, in maniera da
non limitare la libertà di espressione e
di stampa, e al tempo stesso per rafforzare la concorrenza con le emittenti private. Gli interventi sono stati molto
pochi e solo in casi eccezionali: il suo
ruolo è sempre stato limitato dalla sua
stessa natura politica. Ha anche voce in
capitolo per la lista di candidati al consiglio di amministrazione della RaI. 34
La circostanza che la composizione
della Commissione di vigilanza replica
l’attuale maggioranza parlamentare
44
R I C E R C A
La Federazione Nazionale della Stampa
fondata nel 1908, con il concorso di
alcune associazioni regionali di giornalisti, allo scopo di rendere indipendente la categoria dal potere politico ed economico, la fnsi fu ricostituita nel luglio
1943, subito dopo la caduta del fascismo per ripristinare la libertà e l'autonomia negata in quel periodo. al centro della sua azione pone proprio la
difesa della libertà di stampa, la pluralità degli organi di informazione, la
tutela dei diritti e degli interessi morali
e materiali della categoria.
Oggi l'organizzazione include venti associazioni e sindacati regionali, tre associazioni di giornalisti italiani all'estero
(in francia, Germania e Inghilterra) ed
è il sindacato unitario dei giornalisti italiani nel quale si riconoscono e si confrontano le diverse visioni culturali e
politiche.
Il Consiglio Nazionale degli utenti
al fine di incoraggiare un collegamento
più stretto tra l’autorità e la società civile, la legge 249/1997 prevede anche un
Consiglio Nazionale degli Utenti, che è
stato recentemente trasformato in Consiglio Nazionale dei Consumatori e
degli Utenti. 35
In Particolare, può formulare pareri e
proposte all’autorità, al Parlamento, al
n. 4/2010
S T O R I A , C U L T U R A
governo e agli altri organi pubblici o privati. E’ composto da esperti nominati
dalle associazioni dei consumatori. a
parte questo organismo, la partecipazione della società civile alla politica dei
media è molto limitata, almeno in
ambito istituzionale. tuttavia, le reazioni dell’opinione pubblica alla proposta
di legge sulle intercettazioni e la pubblicazione dei dati relativi ad indagini in
corso sono state tutt’altro che limitate.
Il progetto di proposta è stato ritenuto
eccessivamente riduttivo della libertà di
stampa, e di conseguenza del livello adeguato di informazione dei cittadini. 36
Questo ha innescato un ampio dibattito nella società, amplificato soprattutto
dai social media e da internet. La crescente opposizione sociale ha avuto l’effetto di spostare i tempi per l’approvazione della legge, e alla fine l’introduzione di modifiche nei suoi contenuti.
In ogni caso, però, le sanzioni risultano
particolarmente rilevanti. 37
Il quadro normativo dei media
Il quadro normativo italiano riguardante il settore dell’editoria si è sviluppato
in tre fasi principali. Nella prima, risalente al periodo tra le due guerre mondiali, lo stato non era solo il regolatore
dei media, ma comincia anche ad essere coinvolto nell’organizzazione del settore radiotelevisivo che rientra nella
categoria di pubblico servizio. Il risultato finale è l’affermazione del monopolio statale sulle trasmissioni e la creazione dello stretto legame tra politica e
informazione esistente ancora oggi.
La seconda fase nell’evoluzione della
regolamentazione dei media è coincisa
con le profonde modifiche costituzionali che si completarono dopo il rico-
n. 4/2010
E
R I C E R C A
noscimento dei nuovi principi e diritti
nel rapporto tra stato e cittadini. Il
periodo di tempo di questa fase risale al
1960 e al 1970, quando il modello di
monopolio pubblico va scemando e il
trend di concentrazione che caratterizza
la stampa porta alla stesura di un quadro normativo più corrispondente alla
realtà. Il dibattito in quel periodo si
concentra principalmente sull’impatto
sociale dei media e la loro capacità di
influenzare la formazione politica e culturale dei cittadini. Il punto di riferimento principale è senza dubbio il principio della libertà di espressione, letto
alla luce del pluralismo delle fonti
d’informazione, che avrebbe dovuto
anche tener conto delle limitazioni tecniche applicabili ai mezzi di comunicazione specifici. al legislatore viene chiesto di bilanciare il ruolo monopolistico
dello stato nel settore dei media con la
necessità, inevitabile, di media liberi e
indipendenti. I successivi interventi
possono essere letti come un insieme di
correzioni e modifiche del vigente quadro, concentrandosi su tre assi portanti:
l’equilibrio tra il ruolo del Parlamento e
l’esecutivo nella regolazione del sistema
dei media, e in particolare i loro rispettivi ruoli per quanto riguarda il servizio
pubblico; la definizione di un rapporto
più stretto tra le reti dei media e delle
comunità locali; l’introduzione di
nuove forme di partecipazione dei gruppi sociali nella gestione e nell’uso dei
media, per esempio attraverso la creazione di nuovi organismi consultivi e la
definizione di un diritto di accesso per
specifici gruppi sociali.
Negli ultimi tre decenni abbiamo assistito all’emanazione della legislazione di
“terza generazione”.38 Il contesto sociale
45
alla trasmissione
analogica.
31
In collaborazione con l’autorità
Garante della
concorrenza e del
Mercato,
l’aGCM. Cfr. G.
Montella, “La
Collaborazione
dell’autorità per
le Garanzie nelle
Comunicazioni
all’attuazione
della disciplina
comunitaria, in
M. Manetti (ed.),
Europa e Informazione (2004)
189.
32
In collaborazione con il la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e
la vigilanza dei
servizi radiotelevisivi.
Cfr. aGCOM,
“posizione dominante: le sanzioni
per la RaI, RtI e
Publitalia 80
(2005), disponibili su: http://
www2.agcom.it/p
rovv/d_226_03_
CONs.htm.
33
34
L’elenco dei
candidati viene
approvato dal
Ministero dell’Economia e presentato ai membri dell’assemblea
societaria RaI.
vedi articolo 49
del tUsMaR.
Cfr. articolo
136 del decreto
legislativo
206/2005.
35
36
si potranno
pubblicare almeno "per riassunto"
gli atti di un processo non più
DESK
segreti. Divieto,
invece, per i testi
delle intercettazioni.
Chi pubblicherà un brogliaccio, a prescindere
da cosa contenga,
sarà punito con
un mese di carcere e la multa fino
a 10mila euro.
Gli editori
rischieranno fino
a 450mila euro.
Carcere fino a tre
anni per chi pubblica intercettazioni destinate a
essere distrutte.
Oltre all'indagine
penale, si potrà
incorrere nella
sospensione cautelare fino a tre
mesi. se si tratta
di impiegati dello
stato si tratterà di
una sospensione
dal servizio, se si
tratta di giornalisti la sospensione
sarà dalla professione.
37
38
Caretti, Diritto
dell’informazione
e della
comunicazione,
p. 186.Stefania Di
Mico, Ufficio
Relazioni Esterne
Johnson&Johnson
DESK
S T O R I A , C U L T U R A
E
è cambiato e il regolamento ha dovuto
affrontare nuovi sfide: l’accelerazione
dell’innovazione tecnologica per la scarsità di risorse in reti di radiodiffusione,
la crescente pressione dei settori
imprenditoriali e pubblicitari per una
liberalizzazione e privatizzazione della
radiodiffusione, la necessità di abbracciare i media come un complesso convergente che non è più compartimentato in diversi settori di mercato. L’apertura del mercato delle trasmissioni televisive anche a privati è stato il primo
passo in questo nuovo quadro, tuttavia
il legislatore non ha fornito regole precise che stabiliscano l’accesso e le attività di questi operatori sul mercato.
sono stati fatti tentativi per correggere
abusi di mercato, l’introduzione dei
massimali per i ricavi pubblicitari, in
modo da monitorare i meccanismi di
finanziamento e le normative anti-trust,
al fine di verificare il livello di concentrazione nel settore.
Le criticità principali di cui risente l’attuale quadro normativo sono, innanzitutto, il ruolo dello stato, che si è trasformato dalla posizione di liberatore
dell’attività informativa, ad un soggetto
che regola e controlla l’applicazione del
principi comuni in un settore in cui gli
attori privati ora sono la maggioranza.
In secondo luogo, la crescente importanza dell’autorità di comunicazione
indipendente in termini di funzioni di
regolamentazione, ma con una indipendenza non ancora raggiunta completamente.
In terzo luogo, le difficoltà di introduzione di efficaci norme anti-trust che
possano limitare il trend di concentrazione e, allo stesso tempo, regolare il
flusso di risorse finanziarie tra i diversi
media. Infine, il ruolo del servizio pubblico nel nuovo contesto, che non rappresenta più un pilastro per la salvaguardia del pluralismo dell’informazione ma una garanzia di accesso alle
nuove tecnologie di comunicazione, nel
tentativo di evitare il rischio di introdurre nuove forme di emarginazione
sociale.
L’analisi presentata nei paragrafi precedenti mostra con sufficiente chiarezza
che il sistema dei media italiani è ancora in un periodo di transizione. E’
necessario andare nella direzione di
regole certe, attraverso interventi legislativi efficaci, la ricerca di nuovi equilibri nell’assegnazione delle frequenze, la
previsione di contributi all’editoria
riservati alle reali rappresentanze pluralistiche e non ai partitini che mandano
al macero le copie stampate coi soldi
dello stato, un Ordine dei giornalisti
riformato, agile e incisivo nelle sue sanzioni, una categoria di professionisti
dell’informazione preparata, aggiornata
alle nuove multimedialità, duttile al
nuovo mercato ma anche tutelata da un
contratto con gli editori in linea con
l’Europa, il riordino di organismi istituzionali di controllo staccati dal potere
politico, un servizio pubblico che assolva realmente alle sue funzioni, un’informazione corretta che serva il Paese per
una sempre migliore crescita democratica.
46
R I C E R C A
Rosa Maria Serrao
n. 4/2010
P I C C O L A
A N T O L O G I A
DICONO DI NOI
STEFANIA DI MICO
“
vengo in pace», così Philipp
schindler, vice presidente di
Google, responsabile per l'Europa centro-settentrionale si presenta al World Editors forum
di amburgo. Una battuta che strappa
l'applauso di una platea non certo
amica, quella dei rappresentanti (giornalisti e manager) della grande stampa
internazionale, riuniti per una settimana di incontri e conferenze sul futuro
dell'informazione nell'era di internet.
Un futuro in cui il web, e il suo "grande fratello" Google, giocano un ruolo
di non poco conto. Le controversie tra
il colosso dei motori di ricerca e i grandi giornali internazionali non sono
certo una novità. Mentre il primo continua a macinare utili nonostante la
crisi, gli altri faticano a trovare un
modello di business che consenta di
compensare il declino delle vendite in
edicola. E questo perché Google domina il mercato dell'advertising su internet, spesso (è il caso di Google News)
sfruttando contenuti giornalistici prodotti dai giornali tradizionali.
[...] L'opinione di Erik Willberg è che «i
giornali di carta lentamente spariranno,
soppiantati dalle edizioni elettroniche».
[...] Chi invece non è convinto che questo processo avverrà in maniera così
n. 4/2010
radicale è Giovanni Di Lorenzo. Origini
italiane ma tedesco al 100%, dal 2004 è
direttore del Die zeit, caso più unico che
raro di di settimanale che invece di perdere continua ad aumentare le copie
vendute in edicole. «Non ho idea di
quello che sarà il futuro del nostro settore - risponde a chi gli chiede consigli - ma
sono sicuro che quello che farà la differenza sarà sempre e comunque la qualità. Certo ci sarà un consolidamento dei
grandi giornali in tutto il mondo ma la
carta rimarrà ancora a lungo e credo che
solo noi giornalisti potremmo contribuire a mantenerla in vita, producendo contenuti originali e costruendoci giorno
per giorno la nostra autorevolezza».
Andrea Franceschi
Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2010
Stefania Di Mico,
Ufficio Relazioni
Esterne
Johnson&Johnson
U
n'edicola digitale per salvare la stampa scritta: è
l'idea di otto testate francesi, decise a
lanciare una propria piattaforma per
contrastare lo strapotere di apple e
Google sul mondo dell'informazione
online. sono cinque quotidiani (Les
Echos, L'Equipe, Le figaro, Libération, Le Parisien) e tre settimanali (Le
Nouvel Observateur, Le Point, L'Express), i più conosciuti, ma forse anche
quelli che soffrono di più la crisi della
47
DESK
P I C C O L A
A N T O L O G I A
stampa. [...] L'obiettivo del nuovo ePress Premium è quello di ridare alla
stampa il controllo dei propri contenuti e della loro diffusione, di smarcarsi da apple (che preleva il 30% sul
fatturato delle applicazioni) e da Google (che assorbe quasi tutto il mercato
pubblicitario approfittando dei contenuti giornalistici). La piattaforma, operativa forse dalla primavera, dovrebbe
centralizzare l'offerta delle singole
testate, consentire l'acquisto di un solo
esemplare o di semplici articoli attraverso un sistema di micropagamento,
la sottoscrizione di abbonamenti.
[...]"Per noi è una questione di sopravvivenza", dice frédéric filloux, amministratore delegato del consorzio. La
stampa transalpina è infatti molto
malata, soprattutto quella cosidetta
nazionale, cioè parigina : le vendite
sono ridotte all'osso, la pubblicità scarseggia, le riduzioni dei costi impoveriscono sempre di più l'offerta, quindi la
diffusione. [...]Resta da vedere se gli
internauti saranno disposti a pagare.
Le alternative gratuite restano infatti
numerose e non si limitano alla free
press: i siti di radio e tv, per esempio,
sono di ottima qualità. L'edicola digitale, insomma, è una scommessa che si
giocherà soprattutto sui contenuti.
Giampiero Martinotti
La Repubblica, 06 dicembre 2010
Equando arthur sulzberger,
ra il febbraio del 2007
DESK
erede dalla famiglia che controlla il
New York times, stupiva il mondo dei
media annunciando che, nel giro di cinque anni, il prestigioso quotidiano della
"grande mela" sarebbe forse uscito solo
nella sua edizione online. sono passati
appena tre anni, ma sembra un secolo
48
fa. almeno a sentire le parole che il
ceo Janet Robinson ha pronunciato
nel suo intervento al World Editors
forum di amburgo, gli stati generali
della stampa internazionale, dove il
premio Nobel Gunther Grass ha
spiegato perché non leggeremo i suoi
libri su iPad. “Continueremo a stampare su carta ancora per molti anni a
venire - ha detto - perché crediamo
che nella carta ci siano ancora grandissime potenzialità”
Andrea Franceschi
Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2010
N
onostante la capacità
di rimbalzare di link in
link, fino a raggiungere un pubblico
potenziale di tutto rispetto, Human
Highway ritiene il fenomeno blog
d'informazione maturo al punto
tale da prospettare uno scenario
volto al consolidamento e alla convergenza con il mondo dell'informazione tradizionale.
a differenza della prima era dei blog,
oggi l'uso da parte dei giornalisti di
grandi testate, all'interno dei siti dei
giornali online o in maniera indipendente, è diffuso al punto tale da
attrarre gran parte del traffico dell'attenzione: cinque dei dieci blog più
citati (Gad Lerner, Piovono Rane di
alessandro Gilioli, voglioscendere
di Peter Gomez e Marco travaglio,
IlPost di Luca sofri, Luca De Biase)
rientrano in questa categoria.
[...] In un momento in cui la stampa
cartacea subisce una emorragia di
copie e di lettori, bilanciata almeno
in parte dalla crescita di visitatori
sui siti di informazione online, i
navigatori che leggono abitualmente blog dimostrano di avere abitudi-
n. 4/2010
P I C C O L A
ni di lettura frammentate. Il 2,6% di
chi naviga e legge blog dichiara di non
visitare siti d'informazione online e
soltanto il 2,7% legge quotidiani cartacei, dimostrando un attaccamento
forte ai blog stessi.
Luca
Conti, Nòva
Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2010
ENewsCorp lavora in gran
’ dall’inizio del 2010 che
segreto sul progetto del quotidiano per
l’iPad e sembra che Rupert, a dispetto
dei suoi 79 anni, sia attivamente impegnato nel progetto che segna una importante conversione nella sua filosofia editoriale. Murdoch, infatti, che é di origini australiane, aveva sempre creduto e
investito nei giornali di carta. Ma due
anni fa, convintosi della progressiva erosione dei margini di guadagno, ha avviato una crociata contro Google, accusando la società di Brin e Page di favorire il
furto delle notizie dagli altri giornali. Poi
si é ribellato alla tendenza a offrire gratis
le informazioni sui siti dei quotidiani,
come fa ancora il suo concorrente
numero uno, il New York times, e ha
insistito perché ci fossero abbonamenti
paganti per accedere alle notizie digitali
di quasi tutte le testate della NewsCorp,
a cominciare dal times.
E nel boom dell’iPad di steve Jobs, che
da aprile ad oggi é stato comprato da 7,5
milioni di utenti, Murdoch ha intravisto
un prodotto quasi miracoloso in grado di
cambiare il mondo dell’informazione.
[...] Pur lamentandosi per la concorrenza
di molte app dell’iPad, Murdoch non ha
perso tempo: the Daily sarà lanciato nel
periodo natalizio soprattutto per l’iPad,
anche se potrà essere letto su prodotti
simili, come il Galaxy della samsung o il
Playbook della Research in motion, la
n. 4/2010
A N T O L O G I A
società del Blackberry. [...] Di sicuro the
Daily farà campagne di opinione e offrirà
le notizie in modo diverso dalle altre
testate. saranno più brevi, più agili, più
interattive, solo di carattere nazionale e
con “elementi di humor”. Insomma,
più mirate a un pubblico giovanile: che
poi é quello che ha tradito i quotidiani
di carta e che il progetto della NewsCorp vuole recuperare.
Arturo Zampaglione
La Repubblica - Affari&Finanza,
22 novembre 2010
stidiano)
i chiama the Daily (il quoe si scaricherà
come un’applicazione pagando 99 centesimi per l’abbonamento settimanale
attraverso il negozio online di apple,
l’app store, su cui i fan di Jobs sono già
abituati a pagare per videogiochi, canzoni, libri e altri contenuti.
[...] “Non bisogna mai sottovalutare
l’impatto di Murdoch che può spendere molti soldi nelle iniziative in cui
crede - ha detto al Corriere Economia
sree sreenivasan, docente alla scuola
di giornalismo della Columbia University, specializzato in nuove tecnologie . E’ stato intelligente da parte sua essere il primo a fare un quotidiano solo
per l’iPad, gli darà un vantaggio competitivo. E la notizia che sta assumendo 100 giornalisti, soprattutto giovani
attorno ai 20 anni, é molto positiva
per la nostra professione. Qui alla
Columbia stiamo preparando un
corso per formare queste nuove generazioni, con competenze anche d’ingegneria e scienza dei computer.”
Maria Teresa Cometto
Corriere Economia, 29 novembre
2010
49
DESK
LT E SI I
DB I
LR A U I R E A
“La comunicazione politica ed il ruolo dei media nel Medio Oriente:
la questione irachena”
di Tommaso Ulivieri
Università La Sapienza Roma, Facoltà di Scienze Politiche
Relatore: Prof.ssa Arianna Montanari
Ltenuti di interesse pubblico politico prodotti dal sistema politico stesso, dal
a comunicazione politica è definita come “lo scambio ed il confronto dei con-
1 G. Mazzoleni
“La comunicazione
politica”, 2004.
2 Il panarabismo
affonda le sue
radici nel Corano, il libro sacro
dell’Islam. Qui
viene spesso
espresso il concetto di umma, vale a
dire “comunità” o
“fratellanza” islamica. La umma è
una sorta di
comunità globale
che riunisce tutti i
musulmani al di
là di qualunque
tipo di distinzione.
3 I finanziatori
delle tre emittenti
sono tutti legati
DESK
sistema dei mass-media e dal cittadino non solo nella sua veste di elettore1”. Negli
ultimi anni il ruolo dei media ha assunto una rilevanza sempre maggiore, prima
attraverso la stampa e la televisione e poi grazie alla diffusione di Internet.
Consapevole delle distanze, non solo geografiche, dei paesi mediorientali rispetto al mondo occidentale, ho scelto di analizzare la nascita e l’evoluzione dei sistemi mediatici arabi con l’obiettivo di coglierne differenze, particolarità e possibili
sviluppi futuri. al fine di evitare un’eccessiva astrattezza, la questione irachena
potrà essere considerata esemplificativa di come la comunicazione politica in
Medio Oriente abbia continuato ad avere estreme difficoltà di sviluppo e soprattutto di coinvolgimento dell’ultimo anello della relazione: il cittadino/elettore.
L’analisi retrospettiva che ho svolto in questa tesi parte da una disamina del complesso mediatico mediorientale della seconda metà del XX secolo.
al termine del secondo conflitto mondiale il primo stato che ha tentato di svILUPPaRE una propria struttura mediatica indipendente è stato l’Egitto. spinto
dalla guida carismatica di Gamāl ‘abd al-Nāser, lo stato egiziano ha intrapreso la
via del “panarabismo”2, prima politico e poi mediatico. a differenza del tentativo politico, che fallisce con lo scioglimento della RaU, in ambito mediatico l’Egitto riesce ad affermarsi come unica voce del mondo arabo. Questa situazione
resta invariata fino al 1979, anno della firma degli accordi di Camp David, che
costringono lo stato egiziano in una sorta di isolazionismo forzato nei confronti
degli altri paesi arabi. Da un tale mutamento di equilibri emerge un altro paese
che tenterà di sostituire l’Egitto: l’arabia saudita. Rifacendosi ai format di successo egiziani, il regno saudita, che fino a quel momento non aveva investito nel
tentativo di costruire un sistema mediatico sviluppato, aiutato dai finanziamenti
statunitensi, diventa il leader indiscusso dell’industria audiovisiva regionale.
Questa è la situazione presente al momento dello scoppio della prima Guerra del
Golfo, considerato un primo spartiacque nello sviluppo mediatico mediorientale. La guerra porta con sé una fondamentale novità: la televisione satellitare. I
paesi arabi vengono invasi dalle immagini del conflitto trasmesse dall’emittente
americana CNN, dando così il via a una prima rivoluzione mediatica. a svolgere
il ruolo di protagonista è ancora l’arabia saudita che da un lato vieta la trasmissione della rete americana, ma dall’altro decide di “attaccare” il mercato della tv
satellitare. In tre anni nascono tre emittenti, ad apparente finanziamento priva-
50
n. 4/2010
LT E SI I
DB I
LR A U I R E A
to3: MBC, aRt e Orbit. Gli esperimenti sauditi non riescono ad ottenere i risultati auspicati, in particolare nel settore dell’informazione, dove persiste un vuoto
patologico tipico dei media mediorientali.
Dalle “ceneri” dei fallimentari tentativi sauditi, nel 1996 nasce al-Jazeera, una
rete televisiva finanziata dall’emiro del Qatar al-thani che darà il via a una nuova
rivoluzione mediatica araba. figlia della volontà di stravolgere gli schemi mediatici mediorientali in vigore fino a quel momento, al-Jazeera riesce in meno di
dieci anni a diventare uno dei colossi mediatici più importanti al mondo. Il motivo di tale successo risiede nella capacità della rete di Doha di creare un mix equilibrato tra i modelli mediatici occidentali e le necessità d’informazione del
mondo arabo. seguendo alla lettera lo slogan “l’opinione e l’opinione contraria”
e grazie alla risonanza mediatica di eventi come l’attacco alle twin towers e la
guerra in afhganistan, l’emittente di Doha ottiene in poco tempo un riconoscimento globale diventando la nuova voce del mondo arabo.
La rivoluzione di al-Jazeera mostra i primi risultati nel corso della guerra in Iraq
scoppiata nel 2003. volendo confrontare, dal punto di vista mediatico, il nuovo
conflitto che ha colpito lo stato iracheno con la prima guerra del golfo lo scenario è mutato profondamente. sulla scia di al-Jazeera sono nate nuove emittenti
private, mentre le vecchie reti governative si sono totalmente rinnovate tentando
di emulare le scelte compiute dalla rete di Doha. Così per la prima volta i cittadini arabi hanno avuto la possibilità di ascoltare gli avvenimenti bellici narrati
non più da un’unica voce straniera, bensì da diverse voci arabe.
se un discorso di questo tipo può essere fatto per l’evoluzione televisiva, lo stesso non vale per lo sviluppo di Internet. L’euforia che ha accompagnato la nascita del World Wide Web in Occidente deve essere ridimensionata nel caso del
Medio Oriente. La maggioranza degli stati arabi non possiede ancora infrastrutture necessarie per realizzare quella diffusione capillare già avvenuta in Occidente. Consapevoli del rischi che la rete può rappresentare per la libera circolazione
di informazioni, i governi arabi hanno adottato una forte politica di controllo di
Internet che ne ha limitato la diffusione.
Nello scenario mediorientale l’Iraq, a causa dei conflitti in cui è stato coinvolto
negli ultimi anni, ha rappresentato un possibile punto di contatto tra il mondo
occidentale e il Medio Oriente. Dalla caduta del regime di saddam e dal tentativo di ricostruzione dello stato iracheno poteva nascere un nuovo soggetto politico, diverso e, per certi versi, innovatore.
La ricerca, costituita da un’analisi politico-mediatica dello stato iracheno fino
alle ultime elezioni politiche, testimonia, però, che allo stato attuale l’Iraq è ancora vittima di un diffuso conflitto interno. La divisione settaria investe ogni ambito della vita politica e sociale del paese, compreso l’ambito mediatico-comunicativo.
Emerge, quindi, come non sia ancora possibile definire i futuri sviluppi del paese
dal punto di vista politico e, di conseguenza, dal punto di vista mediatico.
Lontano dal voler essere la soluzione finale dell’instabilità irachena, lo sviluppo
di un sistema mediatico a se stante potrebbe, però, permettere un passo in avan-
n. 4/2010
51
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LT E SI I
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LR A U I R E A
La “lettera 22”nelle sezioni di partito. La crisi e la scomparsa del quotidiano di partito nell’Italia della prima Repubblica
di Teresa Sari
Università LUISS Guido Carli Roma, Facoltà di Scienze Politiche
Relatori: Prof. Paolo Mancini, Prof. Paolo Scandaletti
Il’attesa leggendo il Corriere della sera oppure sfogliando il quotidiano del protalia, prima Repubblica. In fila alle poste, l’uomo della strada può ingannare
DESK
prio partito: in edicola, ogni giorno, accanto ai quotidiani indipendenti, trova
l’avanti! del Psi, l’Unità del Pci, Il Popolo della Dc. E poi ancora La voce repubblicana del Pri, Umanità del Psdi, Il secolo d’Italia del Msi. Italia, seconda
Repubblica: il comune cittadino in fila alle poste non porta sottobraccio un giornale organo di un partito. Nelle edicole non lo trova più. Che fine hanno fatto
i quotidiani di partito?
L’indagine condensata in La <lettera 22> nelle sezioni di partito si è posta come
obiettivo proprio quello di risolvere questo giallo politico ed editoriale, ovvero di
individuare le cause che hanno portato alla crisi e alla scomparsa delle testate
politiche nell’Italia della seconda Repubblica. E, in effetti, una risposta sembra
l’abbiamo trovata: i quotidiani di partito muoiono di morte naturale, all’alba
della seconda esperienza repubblicana, per via della scomparsa dei partiti di
massa della prima Repubblica di cui erano estensione – un organo, appunto. Ma
chiariamo bene.
Il sistema dei media di un paese, le sue caratteristiche e la sua struttura, dipendono dalla morfologia del suo sistema politico – lo insegnano Hallin e Mancini,
Blumer e Gurevitch e seymour-Ure. I giornali di partito riempiono le edicole
della prima Repubblica perché quest’ultima costruisce il suo assetto politico-istituzionale intorno a grandi partiti di integrazione di massa, che hanno una linea
politica e un’ideologia da diffondere e, soprattutto, risorse umane e materiali da
destinare all’attività editoriale. E quando le ideologie finiscono, le società cambiano e, con l’avvento della seconda Repubblica, il partito di massa non è più l’abito adatto per fare politica, i giornali di partito vanno in crisi, e muoiono. Del
resto, i quotidiani organo di partito sono solo uno dei tanti modi di fare politica nell’era del partito di massa. La loro linfa vitale proviene dai finanziamenti dei
partiti, prima, e dello stato, poi. E se si scorrono le cifre e le percentuali contenute nei bilanci relativi agli anni 1982-2000, $emerge come sia proprio il progressivo assottigliamento dei ricavi extra-editoriali e dei sovvenzionamenti dello
stato, negli anni Novanta, a determinare il crack definitivo delle testate politiche.
In fondo, in quegli anni, il partito di massa non è più il motore immobile del
sistema politico. I giornali di partito non avevano più ragione di esistere – è opinione di Caldarola e Padellaro, Macaluso e Nerino Rossi, sangiorgi e Garofano,
direttori di fogli politici diversi in epoche diverse. E, in effetti, a cosa serve un
quotidiano di partito se i partiti non esistono più?
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Pubblicità, fra etica e mercato
di Giancarlo Zizola
Università di Padova, Teorie e metodologie dell’e learning e della media
education
Relatore: prof. Giancarlo Zizola
Lriale in teorie e metodologie dell’e learning e della media education nell’U-
a ricerca svolta da Laura Policastro per la laurea nel corso di laurea magiste-
niversità di Padova si segnala anzitutto per l’ampio rinvio della struttura argomentativa, forte di puntuali basi dottrinarie, alla situazione reale della società. La
socializzazione diffusa dei media è divenuta così estesa e capillare – nota l’autrice - da indurre fattori di modificazione antropologica nella sfera anche privata dei
soggetti oltre a determinare significativi cambi di paradigma nelle collettività
umane: si può dire che i nuclei familiari vivano avvolti dalla capsula mediatica
globale ed è visibile quanto il dibattito politico sia ormai quasi requisito dagli
spazi spettacolari e piuttosto irrazionali dei talk show. Di fatto, i media hanno
guadagnato la precedenza sulle tradizionali agenzie educative quali la famiglia, la
scuola e le Chiese.
In secondo luogo, notiamo la cura posta dall’autrice nell’analizzare lo scenario
fluido delle società ad alta intensità tecnologica nel settore delle comunicazioni
globali considerandolo per ciò che è: un mondo tumultuoso,complesso e ambiguo. Da un lato s’impone un modello di comunicazione meramente funzionale,
tendenzialmente emancipato da vincoli regolamentari, dall’altro si fa largo un
modello normativo,radicato nella costellazione dei fini etici e pubblici propri dei
media. a questo primo livello si sovrappone la tensione tra un principio di realtà,
disegnato dalla ricerca della verità dei fatti come fattore costitutivo dei media, e
una sempre più grave spinta alla sostituzione del tessuto fattuale e storico-critico
della realtà con una realtà virtuale, riprodotta il più delle volte secondo codici
ideologici e interessi dominanti di mercato.
Un ruolo decisivo in questa operazione di alienazione della società post- industriale è svolto dall’impianto mediatico degli stereotipi. si tratta di una forma
semplificata di rappresentazione mentale della realtà la quale, mediante categorie predefinite, assume connotazioni di certezza indiscutibile e comunemente
accettata, a prescindere dalla sua dimostrazione sperimentale e dalla verifica
razionale.
Questo assetto stereotipato del reale è particolarmente richiamato in servizio
nella comunicazione commerciale e pubblicitaria, uno dei motori dell’economia,
oggetto specifico di questa analisi. Come forma tipica del mercato, la pubblicità
ne rivela l’essenza, la radicalizza e la spettacolarizza. Ha bisogno di un pubblico
la cui soglia critica sia manipolabile dalle simulazioni organizzate del consumo,
inclusa la creazione di bisogni non necessari finché lo divengano realmente nel
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processo del condizionamento mediatico.
“La pubblicità – osserva opportunamente l’autrice – non rispecchia semplicemente gli atteggiamenti e i valori della cultura circostante ma, come gli strumenti di comunicazione sociale in generale, funge da specchio e contribuisce a
modellare la realtà presentandone, a volte, un’immagine distorta. I pubblicitari
selezionano i valori e gli atteggiamenti che vanno promossi e incoraggiati, promuovendone alcuni ed ignorandone altri. tale selettività evidenzia che la pubblicità non sempre riflette la cultura circostante”.
La ricerca riconosce che la pubblicità, grazie all’impatto sui media, potrebbe esercitare un’influenza educativa sulle società ispirandola ad azioni edificanti e a una
migliore osservanza dei valori fondamentali della convivenza civile. Ma non tace
alcuni effetti negativi, tra i quali cita la creazione di bisogni fittizi, lo sfruttamento a scopo di lucro di richiami erotico sessuali, il ricorso alle tecniche dell’inconscio che, una volta universalizzate, portano pregiudizio alla libertà degli acquirenti, la fabbrica del consumismo e,nel caso della pubblicità politica, il far leva
sulle emozioni, sui bassi istinti della gente, sull’individualismo, sul pregiudizio
razziale ed etnico, piuttosto che su un forte senso di giustizia e del bene comune.
In questo senso l’autrice avanza l’ipotesi di un possibile intralcio del sistema pubblicitario al sistema democratico e di suoi fattori corruttivi sul sistema culturale
di una società nella quale deve essere riconoscibile che esistono beni per loro
natura non scambiabili.
“La pubblicità contribuisce in modo rilevante a omologare i comportamenti
sociali quasi mai per il meglio” sottolinea Policastro. “In passato è stata sottovalutata questa influenza sulla quale occorre porre la massima attenzione”. La diagnosi si fa severa quando affronta la questione dell’emarginazione dei bisogni
educativi e sociali di certe categorie di pubblico che non sono considerati dai
modelli demografici dei target che i pubblicitari vogliono raggiungere.
Ma integrando la denuncia con l’analisi, la ricerca entra nel terreno forse più
interessante quando mostra la pertinenza delle trasformazioni del sistema produttivo, determinate dalla nuova centralità del fattore della conoscenza e dei beni
immateriali, con la presa in carico del sistema etico dei valori anche nella comunicazione pubblicitaria. ”La comunicazione ha la funzione di costruire la personalità di una marca e di metterne in evidenza le differenze e le particolarità, non
di crearle ingannevolmente. I caratteri e le valenze con cui è comunicato un prodotto, bene o servizio, sono le componenti chiave della sua identità. I prodotti
rivestono un significato sociale poiché comunicano i valori delle persone che li
utilizzano”.
La valutazione degli stati d’animo dei consumatori si installa per questo tra i fattori decisionali del sistema produttivo e non a caso l’ “Indice di sviluppo umano”
è stato convocato dall’ONU a integrare i meri indici materiali del Pil sullo sfondo di processi di de-monetizzazione e di risocializzazione di pezzi di economia,
sotto l’impulso dell’economia “dell’immateriale” e del successo del web.
E’ dunque in uno scenario mosso da forti correnti di mutamento culturale attive nell’economia mondiale (e forse anche influenzate dalla durezza della crisi
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mondiale) che la ricerca ricolloca la funzione della comunicazione pubblicitaria,
ne coglie le nuove potenzialità culturali senza minimizzarne le distorsioni.
fondamentale è il capitolo 3. Qui la ricerca contestualizza la questione dell’etica
della pubblicità nella cornice storica della evoluzione della legislazione , prendendo in considerazione sia il quadro internazionale ed europeo sia quello italiano, dagli inizi della prima rivoluzione industriale ai nostri giorni. vengono
individuate con meticolosa attenzione le differenti fattispecie considerate dal
sistema giuridico, dalla pubblicità ingannevole e configurante concorrenza sleale
a quella non trasparente e non riconoscibile, dai messaggi pubblicitari nocivi alla
salute a quelli insidiosi per i minori fino alla forma sofisticata della “pubblicità
comparativa”. E per ognuna di queste fattispecie l’autrice apporta una casistica
ben documentata, riportando le valutazioni emanate dalle authority.
Degna di apprezzamento sembra l’attenzione della ricerca – che vi dedica l’intero capitolo 4 - ai più recenti sviluppi del linguaggio pubblicitario, ben oltre la tradizionale tecnica della”persuasione occulta”, sui terreni raffinati della ricerca
semiotica, che si addentra nella ricerca delle strutture testuali: Per cui il discorso
pubblicitario non è più tanto una forma retorica di persuasione del consumatore a comprare determinati prodotti, quanto una procedura di valorizzazione dei
prodotti ed una costruzione dell’immagine di marca che li sostiene. Non sono
più unicamente ragioni di calcolo economico che vengono mobilitate per sollecitare il consumatore, quanto un vincolo identitario.
si fa in modo che “il prodotto merce non sia considerato dal consumatore per
le sue caratteristiche fisiche,ma in base ai valori immateriali che egli vi iscrive.
allo stesso modo l’identità del consumatore si determina,volta per volta,sulla
base dei valori presenti negli oggetti e quindi delle valorizzazioni in cui esso si
trova narrativamente coinvolto. Prodotto e consumatore si costituiscono nella
loro relazione reciproca, proposta dal racconto pubblicitario in modo ogni volta
diverso, sulla base delle congiunture economiche del mercato e dei desideri circolanti negli immaginari sociali del momento. L’universo pubblicitario si rivela,in tal modo, come una grande macchina che riprende dall’immaginario collettivo situazioni, desideri e bisogni già esistenti e li trasforma in storie di soggetti che cercano di autorealizzarsi andando alla ricerca di quegli oggetti che,soli,
possono rassicurare la loro identità”.
Il riferimento narrativo alle passioni e il ruolo delle emozioni nelle scelte di consumo cambiano le strategie comunicative delle imprese: il potenziale cliente è
anzitutto una persona che desidera e poi agisce acquistando l’oggetto che vuole.
Questa innovazione determina il fatto che la dimensione emotiva e sensoriale
“sia oggi uno degli aspetti dominanti della comunicazione di marca”.
avvalendosi di acquisizioni dalle teorie di Greimas, Landowski, Roland
Barthes,Umberto Eco e Gianfranco Marrone, l’autrice è in grado di analizzare le
strategie innovative pubblicitarie di grandi marche come adidas, Benetton con le
campagne “sociali” di Oliviero toscani sull’aids, la mafia, il razzismo,la pena di
morte, la guerra e l’immigrazione, la telecom con lo spot sul Mahatma Gandhi
e la pubblicità della Lancòme per il profumo “Miracle 8”, tutta costruita in chia-
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ve di lettura passionale. si tratta di altrettanti ateliers in cui la pubblicità si indirizza esplicitamente al sistema simbolico dei destinatari per modificarne, sollecitarne o utilizzarne il comportamento e il pensiero, in modo così incisivo da
distinguersi una volta per tutte dalla massa dei messaggi che ingorgano il mercato. Questi sviluppi sono indicati dall’autrice come segnali di un possibile connubio tra semiotica,etica e mercato.
tuttavia ciò che la ricerca narra sui rischi di reintegrazione del corpo femminile
in nuovi sistemi di sfruttamento, specialmente quello consumistico, sembra
segnalare il molto cammino che resta da fare per recuperare nello scenario pubblicitario il valore simbolico della figura femminile o almeno il rispetto della sua
dignità di genere, offuscata da usi esibizionistici e ornamentali,quando non esplicitamente pornografici. Qui l’autrice deve prendere atto di una autentica “caduta del simbolico”, che lascia l’oggetto “senza veli,senza enigma, senza mistero,
senza il valore della metafora” e trascina con sé effetti devastanti. I dati citati indicano apici virulenti della pubblicità violenta e sessista, un allontanamento della
donna reale dall’ideale di donna veicolato dagli spot (si citano i casi estremi dell’uso della figura efebica della donna nella pubblicità ingannevole dell’acqua Rocchetta, in violazione del Codice di autodisciplina Pubblicitaria, e della pubblicità di pannelli fotovoltaici allestiti a Milazzo con lo slogan “Montami a costo zero”
completato dall’immagine di una donna nuda sui tetti della città).
E le derive dello stereotipo di genere in televisione sono troppo abbondanti per
non indurre l’autrice ad appellarsi preoccupata a un soprassalto di responsabilità educativa e culturale nel ceto dirigente di questo Paese, affinché non ne
aggravi il ritardo nel processo di emancipazione culturale. Infatti le modalità preCOMESIPRONUNCIA.IT
sai pronunciare correttamente i nomi delle star hollywoodiane Elijah Wood, Keira
Knightley, o tom Cruise? E quello del politico francese Olivier Besancenot o della tedesca
angela Merkel? Per non parlare di musica: prova a dire scissor sisters o anastacia?
Comesipronuncia.it mette ordine nella grande confusione fonetica che regna in Italia.
Gente comune e professionisti della comunicazione si affidano all’intuito o alle reminiscenze scolastiche per citare nomi e termini stranieri che infarciscono quotidianamente
l’attualità.
Risultato? Queste pronunce, anche se sbagliate, diventano "ufficiali" perché convalidate
da radio e televisione. Con un click puoi ascoltare la corretta articolazione dei suoni e verificare lo spelling esatto dei nomi comuni e propri messi a disposizione degli utenti.
si sopravvive anche con un financial times mal pronunciato o un frankfurter allgemeine zeitung scritto approssimativamente, ma se ci vuole così poco per evitare una figuraccia, perché non approfittarne?
avremmo potuto registrare direttamente i nostri esperti madrelingua per ottenere pronunce perfette, ineccepibili. Ma siamo italiani e, per produrre suoni che tutti noi possiamo ripetere senza esitazione, né imbarazzo, abbiamo fatto incidere i vari fonemi a voci
nostrane, che garantiscono la fedele riproduzione italiana delle parole straniere. se il
servizio non vi soddisfa, la vostra conoscenza delle lingue straniere è talmente buona che
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Il settimanale “Rheinischer Merkur” e la crisi della stampa cattolica
tedesca
E
’ stata qualificata come “una sconfitta per la stampa cattolica”: così l’autorevole mensile tedesco Herder Korrespondenz ha definito, nel suo ultimo numero di novembre, la prossima ricollocazione (a partire da dicembre) del settimanale Rheinischer Merkur. La gloriosa testata da sessantaquattro anni (fu fondata
nel 1946) dava voce al composito mondo cristiano in Germania, specialmente
perché “incartava” il supplemento Christ und Welt, espressione degli evangelici
tedeschi di ogni confessione. Rheinischer Merkur non morirà definitivamente,
perché si trasferisce, a sua volta, come supplemento del settimanale di amburgo Die Zeit, che è fra le pubblicazioni culturali e di costume più importanti
della Repubblica federale: in una sorta di ecumenismo dell’informazione, a
somiglianza del precedente fra Rheinischer Merkur e Christ und Welt.
In uno degli ultimi editoriali, intitolato “Congedo e inizio”, il direttore, Michael
Ruitz, non ha potuto nascondere il disagio per la nuova soluzione (documentato
dai messaggi di rincrescimento di molti lettori del settimanale), che limita l’indipendenza della pubblicazione, anche se l’apertura “liberale” di Die Zeit resta
come garanzia di autonomia di giudizio.
L’episodio va inquadrato fra le difficoltà che coinvolgono l’insieme della stampa
cattolica tedesca, in particolare per quanto riguarda i settimanali diocesani, in
caduta libera di lettori. Così è stato documentato in una recente inchiesta dal trimestrale di studio sull’informazione Communicatio Socialis (lo pubblica l’editrice
Gruenewald di Magonza), dal titolo “Ultima chance per la stampa diocesana”,
Dall’indagine risulta lo stato di crisi della metà dei ventiquattro settimanali; di
essi, soltanto tre hanno una diffusione che raggiunge il 5 per cento dei cattolici,
mentre dodici sono sotto il 3 per cento. Di alcuni di loro è prevista la chiusura a
breve termine. (Angelo Paoluzi)
Il Centro di Documentazione Giornalistica crea un portale
e nuovi corsi di giornalismo e comunicazione
P
er gli appassionati ai temi dell’informazione e alla scrittura è nato il Centrostudi Giornalismo e Comunicazione, www.giornalismoecomunicazione.it,
una scuola e un portale che promuovono e coordinano attività di formazione e
di ricerca nel campo del giornalismo e della comunicazione.
L’iniziativa è a cura del Centro di Documentazione Giornalistica, società presente da oltre 40 anni sul mercato nel settore della comunicazione, editore dell’agenda del Giornalista, partner della federazione Nazionale della stampa Italiana e dell’Ordine dei Giornalisti per il quale realizza i volumi e la piattaforma
di e-learning per la preparazione all’esame da giornalista professionista.
“L’input è arrivato dalla volontà di offrire nuove opportunità di formazione e di
crescita consapevole – ha dichiarato il direttore del Centro di Documentazione
Giornalistica, Marcella Cardini – per i tanti giovani che si avvicinano al mondo
della comunicazione, che hanno la passione per la scrittura o per il giornalismo”.
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LN O IT I ZB I E ,R D O
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Il Centrostudi è stato inaugurato con due corsi base di giornalismo a distanza,
di cui uno gratuito, rivolti a tutti coloro che intendono muovere i primi passi
nel mondo dei media e che hanno la passione per la scrittura.
La regolamentazione delle professioni come garanzia di qualità
Ubisogno di far sentire la loro voce attraverso il COLaP”, (il Coordinamenn numero sempre maggiore di associazioni professionali nutrono oggi il
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to delle libere associazioni professionali), ha affermato Giuseppe Lupoi, presidente dell’organizzazione, all’apertura dell’incontro COMPEtEtE.RE, che si è
svolto il 22 ottobre scorso a villa Miani a Roma. Ed è proprio con questo
intento che l’evento ha cercato di raggiungere due obiettivi fondamentali: il
primo, far conoscere ai cittadini e alle istituzioni, l’importanza, nel tessuto
sociale ed economico del paese, di coloro che aderiscono a questa realtà; il
secondo, far capire quanto i cambiamenti del sistema finanziario abbiano bisogno di un organismo associativo delle professioni, alternativo e integrativo a
quello degli ordini, che da soli non possono più garantire agli iscritti la competitività richiesta oggi dal mercato europeo e mondiale. La giornata degli stati
generali del CODaP è stata articolata in due sessioni: la prima dedicata al “Cittadino garantito”, durante la quale i rappresentanti politici si sono confrontati
con le forze sindacali, le associazioni dei consumatori e i professionisti stessi; e
la seconda focalizzata sullo “show room delle professioni”, nella quale sono
state presentate alcune nuove categorie di esperti. Da questi incontri è emerso
che l’economia post-industriale, che vige attualmente, ha creato un nuovo tipo
di forza- lavoro, che si è specializzata in una determinata competenza e che questa, ha moltiplicato nel proprio settore le sue conoscenze, tanto da creare delle
richieste, da parte delle imprese e dei consumatori, tali, da far cambiare le strategie del mercato stesso. Questa situazione a fatto sì che, per essere il più concorrenziali possibili, sia diventato necessario costituire una nuova classe dirigente, composta da giovani professionisti, che abbiano una formazione idonea alle
aspettative di un’economia libera e competitiva, e la cui bravura possa essere
verificata e attestata periodicamente dalle associazioni di appartenenza. Questo
nuovo quadro più dinamico ha, tuttavia, penalizzato gli ordini professionali
rendendoli superati e obsoleti, poiché dopo l’esame di stato e l’iscrizione all’albo nessuno verifica più le competenze dei professionisti stessi. Il 4 ottobre 2010
il COLaP ha ottenuto il primo riconoscimento ufficiale delle associazioni, con
la firma, da parte del Ministro di giustizia alfano, di concerto con il ministro
delle Politiche comunitarie, del primo decreto di annotazione delle associazioni
previsto dall’art.26. Questo atto consentirà a traduttori, interpreti, grafologi e
amministratori di condominio, di essere rappresentati a livello nazionale e renderà l’Italia più competitiva con gli altri paesi europei. Purtroppo non tutti i
professionisti sembrano pronti ad accettare questa nuova realtà e lo dimostra la
reazione dell’ordine degli psicologi, che hanno annunciato il ricorso al tar contro i grafologi, perché temono che le consulenze di quest’ultimi possano danneggiarli professionalmente. auspichiamo che l’atteggiamento dei professionisti
cambi e porti ad uno spirito più coeso ed unitario, che agisca nell’interesse di
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LIBRI
RECENSIONI
Lucio d’Alessandro
Il medico
dei vicoli
sperling &
Kupfer,
183 pag
17,90 €
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Gdente di medicina aspirano ciascuno al capolavoro della loro vita: Caccese
uido Caccese luminare cardiochirurgo e Walter Episcopio mediocre stu-
vuole imporre a Episcopio di sposare la figlia stella, brutta e insulsa, con l’arma
del ricatto; Episcopio, disfarsi di stella alle soglie del matrimonio dopo essersene approfittato per ottenere la laurea in medicina. Ma l’ordine fatale dell’universo ha disegni imperscrutabili e il capolavoro di Caccese si compirà sortendo
effetti inaspettati mentre quello di Episcopio fallirà in partenza. Chi nutre certezze fondate sull’esercizio di un potere fittizio o su comportamenti turpi e
disgustosi è destinato a soccombere e solo le illusioni semplici trovano soddisfazione nel romanzo d’esordio di Lucio d’alessandro, sociologo, preside di
facoltà e raffinato autore di novelle e racconti.
all’indomani della seconda guerra mondiale i nobili ideali di rinascita o la
necessità di un’analisi interiore dopo un ventennio di totalitarismo culminato
nella tragedia finale non sfiorano lo scorcio di mondo raccontato ne Il medico
dei vicoli. In una narrazione che si snoda con un movimento a rebours, la prima
parte è datata 1949 ma inizia nei primi anni Quaranta; la seconda indietreggia
dal 1994 come una sorta di viaggio nella memoria compiuto da Walter Episcopio, i personaggi come le loro azioni sono vigliacchi, meschini, cattivi, immersi
in un mondo che non conosce bellezza. E loro stessi ne sono privati nei propri
gesti, nelle proprie aspirazioni, nelle proprie fattezze.
Il versetto evangelico Beati pauperes spiritus, quoniam ipsorum est regnum coelorum,
che in epigrafe introduce la seconda parte, preannuncia tuttavia un miracolo, la
conversione del protagonista: «in alcuni la verità è una componente del carattere, una grazia, sembra che vi siano predestinati. altri tendono a essa perché ne
sentono il bisogno, e a un certo punto la raggiungono, fosse pure come risultato tardivo dei loro sforzi. In Walter era frutto di un accidente, di una frattura
interiore sopraggiunta in un dato momento della sua vita; ci era inciampato in
modo irreparabile da giovane, proprio quando tutto lo preparava a un destino
scialbo, a una vita di piaceri opachi».
a compiere questo unico capolavoro concorre stella Caccese la negletta figlia
dell’ipocrita cattedratico, al fianco della quale Walter scopre la sublime superio-
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rità dello spirito e della pietà, i morbidi piaceri di un amore esclusivo, la gioia
di farsi umile servitore di una città infernale a cui fanno da sottofondo le parole della cabaletta verdiana Di quella pira l’orrendo foco.
Il medico dei vicoli tra suspence e colpi di scena scorre lieve come un sorriso dolce
e amaro e ci consegna una consapevole immagine critica di cinquant’anni di
storia di Napoli: dal colera al terremoto, dalla criminalità organizzata alle pericolose azioni dei giustizieri del popolo; una realtà destinata a riproporsi finché
i rintocchi sempre uguali di una pendola cadenzeranno, come quelli nella sala
da pranzo di casa Oblònskij, le nostre vite. (Silvia Zoppi Garampi)
Enrico Pedemonte Morte e
resurrezione dei
giornali 240
pag. 14,60 €
ed. Garzanti
testimonianze
n. 471-472 160
pag. 15,00 €
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U
n panorama ampio di proposte per questo fine anno, una dozzina di volumi
accumulati sul tavolo e meritevoli almeno di una lettura veloce da parte di
chi si occupa di informazione e di comunicazione.
Il libro-inchiesta di Enrico Pedemonte nasce da una lunga duplice esperienza di
qualificato lavoro in Italia e negli stati Uniti, da una lettura molto pragmatica
della crisi, rapportando i valori pubblici che danno significato al sistema dei
media al degrado di quello italiano, con il riporto illuminante delle esperienze
positive realizzate altrove.
fa parte di questo credo l’informazione libera e di qualità, che aggrega la comunità e tiene nel mirino i suoi poteri. stimolando l’opinione pubblica a diventare
competente e attiva, ingrediente indispensabile della democrazia compiuta. Perciò il sistema italiano dei media va “riprogettato”. anche su questo fronte è emergenza per l’Italia, degradata da freedome House tra i paesi parzialmente liberi.
Ma andando dentro la crisi dei giornali, l’a. giustifica il ridimensionamento
delle attività dispendiose, come i corrispondenti dall’estero e il giornalismo investigativo. Racconta l’esperienza americana di Pro Pubblica, sostenuta da una fondazione non profit: come abbia costruito un gruppo formato da inviati giovani
ed altri di gran nome che con le loro inchieste hanno meritato nell’aprile del
2010 il premio Pulitzer.
Così mette in rilievo lo straordinario emergere del soggetto pubblico-cittadini
attivi. Cambia il rapporto delle persone con le notizie: si pagheranno quelle online di qualità, soprattutto i più giovani le prendono da molteplici fonti e partecipano alla scelta e alla confezione del notiziario. Cittadini informati dunque,
ingrediente indispensabile ai giornali e alla democrazia. Perciò diventa più importante l’Huffington Post del New York Time.
L’ultimo numero di Testimonianze, la rivista fiorentina fondata da Ernesto Balducci, dedica cento pagine all’interrogativo “Verso un mondo senza giornali?”. severino saccardi e Davide De Grazia danno spazio ad una pluralità di voci di giornalisti, esperti ed altri diversamente competenti sulla crisi del giornalismo tradizionale interagente con la multimedialità. La qualità è alta, come la passione civile che le muove; e risponde a Pedemonte quando giustamente lamenta come il
tema del suo libro non appartenga al discorso pubblico italiano. Peccato che lui
si basi, tra gli italiani, solo sulle voci del gruppo Espresso-Repubblica.
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Mauro Forno
A duello con la
politica La
stampa parlamentare in Italia 170 pag.
18,00 € ed.
Rubbettino
Ricognizioni storiche sulla stampa parlamentare in Italia non ce n’erano. Nata
nella sala stampa di palazzo Carignano a torino, con i primi giornalisti accreditati che, dalla tribuna, lanciavano “battute al vetriolo che disorientavano l’oratore e confondevano lo stenografo”. L’associazione, sorta soltanto nel 1918 e oggi
guidata da Pierluca terzulli e Claudio sardo, ha affidato a Mauro forno, ricercatore torinese, l’incarico di ripercorrerne l’esperienza. Così è uscito il primo
volume, che va dal 1848 al ’93, a porre rimedio egregiamente alla carenza.
L’a. mette bene in rilievo due criticità assai significative. La prima riguarda i giornalisti parlamentari, che talora presentano “i mali cronici della nostra professione…le forme di sudditanza, di compromesso, di autocensura dovute alla vicinanza anche fisica con il potere politico”. Poi come già nei primi quattro decenni
seguiti all’unificazione, i governi liberali della Destra come della sinistra utilizzarono sistemi più che arbitrari (sovvenzioni agli amici e fondi neri, censure e
sequestri, controllo politico e di polizia) per addomesticare le testate.
Coi governi Crispi, ad esempio, l’agenzia stefani ebbe agevolazioni e abbonamenti per tutti gli uffici governativi, impegnandosi a non diffondere notizie “lesive degli interessi” nazionali e subendo l’assenso del governo per nominare il
direttore ed i corrispondenti dall’estero. (Mentre a Londra il Times rifiutava gli
abbonamenti statali per tenersi libero di criticare il governo). Così Giolitti e Mussolini, nel controllare l’opinione pubblica, non fecero che replicare ed estremizzare prassi consolidate. Ecco una conferma storica del peccato originale dell’editoria giornalistica italiana: l’intesa col potere, per “gestire” le notizie e guidare le
opinioni, combinando i rispettivi non sempre confessabili interessi.
Mascia Ferri
La voce muta
analisi dell’opinione sociale
nel dopoguerra
164 pag. 11,00
€ ed ECIG
Giorgio Zanchini Il giornalismo culturale
126 pag. 10,00
€ ed. Carocci
Mascia ferri, da studiosa accreditata dell’opinione pubblica qual è, ci offre un
saggio illuminante ed amaro proprio sull’assenza dall’Italia di questo “soggetto
politico delle democrazie moderne”, qui presente invece il pubblico come “spettatore di massa”. allora, cosa fare dell’opinione pubblica, si chiede l’a. Per intanto “in Italia è stata data voce a un’opinione costruita secondo le logiche partitiche”, cioè la si è sostanzialmente adoperata. Con un impianto storico-sociale,
ferri analizza le opinioni degli italiani sui temi chiave presenti dal ’46 al’58. Poi
critica gli stereotipi del cittadino indifferente alla politica e delle donne conservatrici, che hanno tolto dignità a persone “la cui opinione è rimasta senza storia”.
Il giornalismo culturale non è soltanto quello che scrive di fatti culturali e di
libri. “La cultura , dice Giorgio zanchini conduttore di Radio anch’io, “sta nel
modo di impaginare il giornale, nel taglio dei pezzi…nel modo in cui sono pensati i palinsesti, e in particolare nella forma e nei contenuti delle fiction, dei talk
show, dei contenitori pomeridiani, dei reality”.
Così definito, l’a. ne segue le origini nel 1901 e le innovazioni in Italia dal neonato Giorno a Paolo Mieli direttore; confronta modelli e differenze col panorama
internazionale. E conclude segnalando significativamente i limiti endogeni alla
professione, quando questa considera colleghi di serie b quelli che si occupano
di confezionare la “terza pagina”.
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Stefano Lorenzetto Cuor di
veneto anatomia di un
popolo che fu
nazione 304
pag. 19,00 €
ed. Marsilio
La rassegna dei libri che raccolgono articoli s’apre con quelli di uno che confessa nella prima pagina: “l’unico hobby che coltivo è questo, il lavoro”. Così stefano Lorenzetto, veronese, rappresenta al meglio il popolo veneto che è uscito
dalla depressione presente ancora nel censimento 1970 ed oggi è la regione più
ricca, appunto per la laboriosità: qui trovano “il senso stesso del vivere” e s’innamorano del lavoro trovandovi “la dignità”. Ma alla tenacia s’accompagna spesso
qualche arroganza ed invidia malcelata.
venticinque interviste apparse su intere pagine de il Giornale, del quale l’a. è editorialista, intrise di gran mestiere e sottile intrigante ironia. Ritratti penetranti e
rispettosi, dai quali escono persone vere, fatti e scelte di valore, radicamenti nella
propria storia (prima la serenissima repubblica durata undici secoli, oggi il veneto rifondato sul lavoro non sugli schei ) che esprimono consapevolezze ed orgoglio. anche se qualche leghista altisonante va fuori misura. Brava gente, ottimista, che non demorde, la cui ricchezza è venuta dai sacrifici, che ospita bene tantissimi stranieri e offre servizi all’africa.
Oriana Fallaci
Intervista con il
mito 594 pag.
21,00 € ed.
Marsilio
Qui abbiamo l’Oriana fallaci degli esordi, quando firma (1954) i primi servizi
per l’Europeo. Cronista curiosa del mondo e degli uomini, brillante e tosta nell’affrontare e raccontare il cinema di Hollywood; la franca valeri che la riceve a
letto, come “lo facevano Luigi XIv e la marchesa di Rambouillet”. Poi l’incontro con Pier Paolo Pasolini a New York e il ricordo di Ingrid Bergman, che per
prima accettò l’uso del registratore per l’intervista.
Indro Montanelli XX Battaglione eritreo
246 pag. 19,50
€ ed. Rizzoli
Il romanzo d’esordio di Indro Montanelli, scritto nel 1936 è riproposto ora con
l’aggiunta delle lettere che inviò dall’africa ai propri genitori. aveva ventisette
anni, era partito volontario per “trovarvi una coscienza di uomo”, scriveva decine di articoli per sei riviste culturali. Era andato laggiù per ragioni ”letterarie”,
far il pieno di sensazioni persone fatti idee da raccontare nei libri. Questo primo
viene inviato a spizzichi e bocconi al padre a firenze: il quale li aveva sottoposti
al giudizio di Massimo Bontempelli, che li aveva fatti pubblicare da Panorama.
Ugo Ojetti gli dedicò un elzeviro sul Corriere, apprezzandone il taglio antiretorico nuovo per quei tempi in Italia. Così ha cominciato Indro, anche con un pizzico di grande fortuna.
Sergio Romano Le altre
facce della storia
340 pag. 20,00
€ ed. Rizzoli
trovandosi spesso a dover tracciare brevi profili di personaggi in discussione sulla
pagina delle lettere del Corriere, sergio Romano ne ha raccolti qui un centinaio.
Una galleria di gente che, seppure in ruoli e modi diversi, ha pur dato una mano
al farsi concreto della storia. Romano è sempre lui: freddino e preciso, autorevolmente chiaro.
Giovanni Minoli
La storia sono loro
540 pag. 22,00€
ed. Rizzoli
trent’anni di storia italiana attraverso le interviste rilasciate dai maggiori protagonisti a Giovanni Minoli per il suo rotocalco televisivo settimanale Mixer, su Rai
2. Nata dalle riflessioni di Minoli, aldo Bruno, Giorgio Montefoschi e sergio
spina, col sondaggista Mario abis, a partire dal 1979 la trasmissione ha segnato
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per diciotto anni una delle pagine innovative della nostra tv munita di telecomando. Il modello del “faccia a faccia” ha cambiato il linguaggio del piccolo
schermo. Incalzante, coi tempi strettissimi.
Maria Luisa
Busi Brutte
notizie Come
l’Italia vera è
scomparsa
dalla tv 270
pag. 18,00 €
ed. Rizzoli
Mauro De Vincentis
Comunicare l’emergenza, crisis
management: la
gestione delle notizie che non si vorrebbe mai dare,
Centro diDocumentazione
Giornalistica,159 pag.
16,00 €
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Le brutte notizie di Maria Luisa Busi sono di due generi. Le prime, quelle che il
tG1 non dà più, perché disturbano i manovratori. Il primo telegiornale italiano,
costruito da tanta gente che la pensava in maniera diversa e che ha raccontato il
nostro Paese, tutta l’Italia del bene e del male, ora viene fatto in un modo che gli
fa perdere ascolti e credibilità. E la Busi, volto fra i suoi più noti, che “non ci sta”
al degrado, se ne va. altri dissidenti vengono emarginati. Ecco le altre brutte notizie, per loro e per il giornalismo in Italia.
(Paolo Scandaletti)
Bdissesti ambientali: sono questi i mali che colpiscono la società odierna. In che
lack-out, tsunami, terremoti, alluvioni, cibi transgenici, azioni terroristiche,
modo allora affrontare questi disastri, senza creare allarmismi tra le persone e
senza che la collettività perda fiducia nelle istituzioni?
sono queste le tematiche proposte ed esaminate da Mauro De vincentis, nel
nuovo libro “Comunicare l’emergenza, crisis management: la gestione delle notizie che non si vorrebbe mai dare”.
L’autore, esperto di informazione e comunicazione,spiega, attraverso alcuni fatti di
cronaca accaduti in Italia e nel resto del mondo, come il criterio in cui gli eventi
vengono divulgati sia fondamentale per preparare i cittadini a ricevere informazioni di uno stato di crisi.
Diffondere notizie riguardanti situazioni d’emergenza, non significa infatti creare
stati di ansia e preoccupazione nella popolazione, ma indica rendere partecipi i lettori e i telespettatori, restituendo loro la sicurezza che tutto tornerà alla normalità.
Per raggiungere questo obiettivo, i giornalisti devono seguire delle regole tecniche,
che cambiano a secondo dei mezzi divulgativi utilizzati; e devono possedere una
sensibilità che faccia loro capire ciò che è opportuno dire e ciò che non lo è.
Capita spesso, soprattutto in questi ultimi anni, che in situazioni di pericolo gli
organi di informazione diffondano troppe notizie e che la presenza invadente dei
mass media possa far distogliere le persone da una corretta interpretazione degli
avvenimenti stessi.
Lo scrittore Mauro De vincentis, affianca poi all’analisi della comunicazione di
eventi straordinari, alcuni esempi di studi di carattere antropologico e sociologico,
che hanno rivelato l’esistenza di una interconnessione tra le reazioni alle catastrofi e l’ambiente culturale e politico nelle quali queste si sono verificate; mostrando
come le istituzioni contribuiscano a costruire la percezione del rischio, del pericolo e del senso di colpa di un gruppo sociale.
La lettura di questo libro risulta senz’altro utile sia agli addetti ai lavori che all’uomo comune, perché tutti dobbiamo sapere affrontare le emergenze in maniera
corretta. (FdR)
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Autorità per le
Garanzie nelle
Comunicazioni, Le garanzie
nel sistema locale
delle comunicazioni: funzioni
delegate ai
Co.Re.Com,
Liguori Editore, 122 pag.,
s.i.p.
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Èzato dall’autorità per le garanzie nelle comunicazioni sul tema “Le garanzie
appena stato pubblicato il volume contenente gli atti del convegno organiz-
nel sistema locale delle comunicazioni: funzioni delegate ai Corecom”.
a seguito della sottoscrizione dell’accordo quadro tra l’agcom, la Conferenza
delle Regioni e delle Province autonome e la Conferenza dei Presidenti delle
assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome, l’autority delle
comunicazioni ha delegato ai Co.Re.Com. nuovi compiti tra cui il monitoraggio
del sistema radiotelevisivo locale, la tenuta del registro degli operatori della
comunicazione a livello regionale e la definizione delle controversie tra operatori di telecomunicazione e utenti.
“attraverso la rete di solidarietà istituzionale si è dato vita ad un interscambio
positivo di opinioni e di esperienze - sottolinea Maria Pia Caruso (dirigente
dell’Ufficio di Gabinetto agcom) nell’introduzione - e si sono costruite le migliori condizioni per il funzionamento e l’organizzazione dei Comitati contribuendo
a renderli protagonisti di una nuova fase di crescita e di assunzione di responsabilità, in qualità di garanti e mediatori tra le Istituzioni regionali e gli operatori
di settore”.
tra i contenuti di autorevoli esperti della comunicazione quello illuminante di
Paolo Mancini, dell’Università di Perugia, che individua quattro aree principali
di vigilanza e controllo: la pubblicità, il suo controllo, quello delle sponsorizzazioni e delle televendite; gli obblighi di programmazione, che cosa le emittenti locali trasmettono in relazione agli obblighi che l’autorità e le norme pongono all’emittenza; la tutela dei minori, la più importante tra le aree ma anche la più visibile; il pluralismo politico sociale. Mancini individua poi delle aree aggiuntive, importanti ma non determinanti, come la vigilanza sul diritto di rettifica e sulla
pubblicazione dei sondaggi. Ma il punto saliente del suo intervento si snoda
intorno alla proposta di arrivare all’adozione di criteri condivisi di vigilanza tra i
diversi Co.Re.Com.
Il volume ha il pregio di approfondire gli scenari prospettati dalle nuove funzioni delegate e definire un piano di formazione specificamente rivolto ai Corecom,
individuando modalità operative e fornendo un aggiornamento nelle evoluzioni
giuridiche, economiche e tecnologiche del settore delle comunicazioni. tutto per
un servizio migliore ai cittadini utenti. (Rosa Maria Serrao)
Libri ricevuti
Howard Mittelmark / sandra Newman Come non scrivere un romanzo Una
guida per evitare i 200 errori più comuni 224 pag. 18,60 euro ed. Corbaccio
alberto Monticone e Paolo scandaletti (a cura di) Sui campi di battaglia per
conoscere la storia 214 pag. 14,80 euro ed. Gaspari
Emanuela Prinzivalli e Manlio simonetti (a cura di) Seguendo Gesù testi cristiani delle origini 640 pag. s.i.p. ed. fondazione L. valla e a. Mondadori
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