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Corina Bomann
Un’estate magica
Traduzione di
Sara Congregati
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Titolo originale:
Ein zauberhafter Sommer
Copyright © by Ullstein Buchverlage GmbH, Berlin.
Published in 2015 by Marion von Schröder Verlag.
www.giunti.it
© 2016 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: giugno 2016
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Prologo
Appoggiata al tronco di un albero sul ciglio della strada, La­
rissa guardava impaziente in lontananza. A quell’ora ormai
erano in pochi a spingersi fuori città; la maggior parte degli
abitanti di Meißen preferiva trascorrere la serata a casa, ma­
gari sorseggiando una birra fresca in giardino o sul balcone.
Persino da lontano avrebbe subito riconosciuto la persona
che stava aspettando.
Si era appuntata i capelli, e ora sentiva una leggera brez­
za accarezzarle la nuca. Tutt’intorno i grilli cantavano e, di
tanto in tanto, si udiva il fischio di un merlo. Larissa amava
questo posto ai margini del centro abitato. Una vecchia pietra
miliare, non visibile a prima vista, coperta dalle sterpaglie
e dagli alberi divelti dal terreno, indicava la distanza di 30
chilometri, ma nel frattempo la città si era ampliata.
Era qui che lei e Max spesso si davano appuntamento. Lui
le ripeteva di continuo che i loro incontri erano una pietra
miliare nella sua vita, e quel luogo dunque era perfetto. Di
pietre, lui che era architetto se ne intendeva. Poteva parlare
a giornate intere di edifici e delle differenze fra le tante va­
rietà di materiali. Qualcun altro, probabilmente, lo avrebbe
trovato pedante, noioso, ma Larissa no, lei ne era affascinata
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e lo ascoltava con grande piacere e interesse. Al momento
era molto impegnato in un importante progetto di ristrut­
turazione; per questo i loro incontri negli ultimi tempi si
erano un po’ diradati, ma ognuno di questi veniva vissuto
con maggiore intensità e coinvolgimento, perché nessuno
dei due sapeva quando si sarebbero rivisti.
Era stata una giornata di caldo afoso, e probabilmente
non sarebbe raffrescato nemmeno durante la notte. Saranno
contenti i contadini, pensò Larissa, ascoltando il rombo della
trebbiatrice nei campi lì intorno, e sognando di vivere anche
lei in campagna, un domani, lontano dal caos della città. Max
sarebbe stato d’accordo? Per uno come lui, sempre in viaggio
per lavoro, un’isola felice in mezzo alla quiete della natura
non doveva essere poi un’idea così malvagia…
Ma erano solo pensieri su cui indugiava per ingannare
l’attesa: solo sogni a occhi aperti.
Si trovava lì già da mezz’ora e Max non si era ancora fatto
vivo. A dire il vero non era da lui. Arrivava sempre puntuale
agli appuntamenti, talvolta persino in anticipo, e allora le
rimproverava divertito il ritardo cronico tipico delle donne
che non sanno mai cosa mettersi, anche se sapeva benissi­
mo che Larissa arrivava lì uscendo dal lavoro, dove spesso la
trattenevano ben oltre l’orario.
Oggi, stranamente, era arrivata prima lei. Il capo l’aveva
fatta uscire presto e tutto era filato liscio. L’ appuntamento di
quella sera sarebbe stato la degna conclusione della giornata.
Eppure Max si faceva desiderare.
Forse avrà fatto tardi al lavoro, cercava di tranquillizzar­
si Larissa. Ma cominciava a sentire i crampi allo stomaco,
preoccupata che gli fosse successo qualcosa.
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Max aveva la pessima abitudine di andare troppo forte in
moto. Un bel numero di multe per eccesso di velocità non
gli erano bastate. Solo quando la portava con sé guidava con
più prudenza. «Mi sa che d’ora in avanti dovrò sempre ve­
nire con te, se non voglio che ti capiti un incidente» aveva
commentato una volta in tono scherzoso. Lui ci aveva riso
su e l’aveva baciata.
Quel ricordo la fece sorridere, ma poi l’inquietudine tornò
a sopraffarla. Per l’agitazione cominciò a lisciarsi il vestito di
lino rosa sgualcito.
Max diceva che le stava bene, e per questo lo aveva indos­
sato quel giorno, non certo perché fosse l’abbigliamento più
adatto per andarsene in giro in moto.
Ma che importava, Larissa voleva essere bella per lui.
Dette un altro sguardo all’orologio, sempre più nervosa.
Max avrebbe dovuto essere lì già da un pezzo, ormai. Perché
non arrivava? Allungò il collo nell’illusione di vedere più lon­
tano, e si prese un bello spavento quando, improvvisamente,
un uccello spiccò il volo da dietro un cespuglio.
Col cuore in gola, si girò di scatto sentendo un altro ru­
more. Vide una nuvola di polvere e pensò sollevata: Eccolo,
finalmente!
Ma quando il rumore fu più vicino si rese conto che non
si trattava di una moto, ma di un’auto. Sconsolata, stava per
distogliere lo sguardo quando improvvisamente l’automobile
rallentò, fino a fermarsi. Lì per lì non riconobbe né l’auto né
chi era al volante.
Indietreggiò, sentendosi a disagio. Forse era solo un caso
che la macchina si fosse fermata lì. Magari chi guidava aveva
un appuntamento con qualcuno proprio in quel luogo. O
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forse, vedendola sola sul ciglio della strada, si era fermato a
chiederle se avesse bisogno di un passaggio.
Larissa fece un respiro profondo, cercando di rilassarsi.
Se non c’era Max in quell’auto, cosa avrebbe fatto lei se quel
tizio l’avesse importunata o aggredita? La tensione cresceva
a dismisura.
Spento il motore, l’uomo al volante scese. Aveva i capelli
biondi, gli occhi chiari e le lentiggini sul naso. La guardò un
istante, poi la salutò chiedendole come si chiamasse.
Larissa non aveva alcuna intenzione di intrattenersi con
uno sconosciuto e, invece di rispondere, continuò a guardarlo
con aria diffidente.
«Sono un collega di Max» si presentò l’estraneo. «Mi ha
detto che dovevate incontrarvi qui.» All’improvviso l’uomo
si incupì e si appoggiò alla macchina, come se d’un tratto non
riuscisse più a reggersi in piedi. «Sono venuto a prenderla io
per non farla attendere invano.»
«Invano?» gli fece eco lei mentre quella parola inquietante
continuava a ronzarle in testa.
«Mi dispiace» replicò lui sinceramente afflitto.
Larissa scosse la testa. «Perché, scusi?» domandò. «Non
mi ha mai dato buca! Né ha mai mandato un suo collega…»
Un brivido di terrore le corse su per la schiena. Solo due
motivi potevano giustificare l’assenza di Max: o aveva deciso
di lasciarla o gli era capitato qualcosa.
L’ uomo guardava a terra imbarazzato, poi le porse una
foto che aveva appena tirato fuori dalla tasca. Era spiegazza­
ta, ma si riconosceva chiaramente Larissa. Lei neanche più
ricordava quando l’aveva regalata a Max.
«Max… non può venire. Max…» gli tremava la voce.
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Cercò lo sguardo di Larissa, come nel disperato tentativo
di capire quanto dolore fosse in grado di sopportare. Poi le
spiegò perché Max non si era presentato all’appuntamento
quel giorno. Un attimo dopo, tutte le speranze e i sogni di
Larissa erano andati in fumo per sempre.
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Larissa aprì gli occhi.
Nel bagliore delle prime luci dell’alba intravide il display
della sveglia sul comodino. Erano le 5:35. Un po’ presto per
alzarsi. D’inverno amava prendersela comoda, indugiando
qualche momento in più sotto le coperte, mentre d’estate non
esitava a balzare giù dal letto.
Indossò la vestaglia e andò in cucina.
L’edificio in cui abitava era una vecchia casa padronale che
aveva fatto ristrutturare insieme al fienile adiacente, l’antica
stalla ora in disuso. La proprietà era circondata da un recinto
di legno che, quando Larissa si era trasferita lì, era di colore
chiaro, ma che col passare degli anni si era scurito per le
intemperie, fino ad assumere una tonalità ramata.
Dalle finestre del soggiorno si vedeva la casa dei vicini
dall’altro lato della strada. A quell’ora del mattino tutto an­
cora taceva; i proprietari, una coppia di anziani, non si alza­
vano quasi mai prima delle otto e, di solito, per prima cosa
facevano uscire il loro bassotto che iniziava ad abbaiare e
non la finiva più.
A Larissa non piaceva quel cagnolino, sia perché distur­
bava la quiete pubblica, sia perché aveva la pessima abitu­
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dine di mordere i passanti ai polpacci. In ogni caso, il suo
rapporto con quei vecchietti non andava oltre qualche frase
di circostanza.
Abitava lì da dodici anni ormai, ed era considerata un’ani­
ma solitaria. Nonostante avesse fatto conoscenza un po’ con
tutti, di vere e proprie amicizie non ne erano nate. La cosa
però non la turbava più di tanto: aveva ben altro di cui oc­
cuparsi.
Le finestre sul retro della casa davano su un ampio giar­
dino lussureggiante di vegetazione e aiuole fiorite, ricoperte
a quell’ora da un leggero strato di rugiada. C’erano anche un
ciliegio, un melo e un pero. Larissa aveva cambiato tutto non
appena si era trasferita, e dove un tempo c’era un orto aveva
piantato una gran varietà di fiori. Da poco era comparso
anche un dondolo, acquistato al mercatino dell’antiquariato
e da lei stessa ridipinto e rimesso a nuovo.
Era qui che Larissa amava rifugiarsi a leggere e a riflettere,
raggiunta ogni tanto da qualche gatto del vicinato.
Dalle finestre dello studio si godeva di una bella vista sui
castagni imponenti, che all’alba proiettavano le loro lunghe
ombre sulla fattoria. Era il suo panorama preferito. Di lì,
d’estate come d’inverno, la sua fantasia spiccava il volo. Sui
rami cullati dalla brezza mattutina e incorniciati dalle folte
chiome, una miriade di uccellini cantava. E anche quando
d’autunno il fogliame si tingeva e i rami diventavano spogli,
quegli alberi mantenevano intatto il loro fascino, tanto che
Larissa restava a fissarli a lungo. Purtroppo, da lì non si ve­
deva il lago: occorreva oltrepassare la collinetta su cui aveva
allestito il recinto degli animali, al confine con i campi gestiti
dalla cooperativa agricola. A stento si intravedevano i lavori
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di aratura e mietitura, tanto era fitta la macchia alle spalle
della fattoria.
Larissa si trattenne qualche istante alla finestra, poi si
voltò.
Come ogni mattina guardò compiaciuta le scarpe da don­
na che teneva esposte in vetrina. Bianche come la neve, niente
di eccezionale in realtà, a parte il tacco elegante, ma Laris­
sa era riuscita a trasformarle nell’opera d’arte che si poteva
ammirare dietro al vetro. I papaveri rossi finemente dipinti
davano quel tocco di originalità che mancava per renderle
davvero uniche.
Gli ospiti e i committenti di Larissa ne rimanevano esta­
siati, ma nessuno di loro poteva lontanamente intuire quale
storia nascondessero. Fosse stato per lei, nessuno l’avrebbe
mai scoperta. La custodiva gelosamente in un angolo recon­
dito del suo cuore, dove lei soltanto aveva accesso. E, per sua
volontà, erano sempre più rari i momenti in cui tornava a
riflettere sul passato.
Assorta nei suoi pensieri, Larissa sfiorò la vetrina. Dodi­
ci anni non erano bastati a farle dimenticare quei tre anni
felici, prima della disgrazia. Sarebbe mai riuscita a lasciarsi
alle spalle quella storia? Ma non era il momento, adesso, di
abbandonarsi ai ricordi, e con fare risoluto uscì dallo studio.
Qualche minuto dopo Larissa era seduta al tavolo di cuci­
na davanti a una tazza di caffè fumante e a dei waffel caldi.
Fresca e profumata, l’aria del mattino entrava dalla finestra
aperta. In lontananza sentì arrivare la bicicletta del postino.
Larissa soffiò sulla tazza e bevve un sorso. L’ aspettava una
giornata come tutte le altre. Be’, non proprio come tutte le
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altre, perché oggi una giovane donna le avrebbe portato a
dipingere le sue scarpe da sposa. Non succedeva di frequente,
non più di dieci volte l’anno, e d’estate piuttosto che d’inver­
no. Nonostante si avvicinasse il periodo della raccolta delle
more, aveva accettato l’incarico. Dipingere le scarpe di una
futura sposa era di buon auspicio per la coppia e, per farlo,
Larissa trovava sempre il tempo.
Dalle mail che Anne Heinrich, la sua cliente, le aveva scrit­
to, Larissa sapeva già che aveva ventiquattro anni, che aveva
conosciuto il fidanzato su uno yacht nel Sud della Francia
e che le piaceva il colore blu. Quindi ci voleva un soggetto
di mare. Ma avendo dipinto soggetti del genere in più di
un’occasione, le risultava ormai difficile proporre qualcosa di
nuovo e originale. Parlando però con la donna e conoscendo
meglio i suoi gusti, probabilmente avrebbe trovato un’ulte­
riore fonte d’ispirazione.
Nel frattempo, bevuto l’ultimo sorso di caffè, il postino
era già davanti alla casa. Quando Larissa gli andò incontro,
stava scendendo dalla bicicletta.
«Buongiorno, signora Liebermann, sempre mattiniera,
lei!» la salutò allegramente, porgendole la posta.
«Buongiorno signor Karstens! Siamo in estate: perché
sprecare una bella mattinata di sole rimanendo a letto fino
a mezzogiorno?»
«Come se lei, d’inverno, se ne rimanesse sotto le coperte
fino a tardi!»
«Mi conosce bene, lo so!» replicò Larissa, augurandogli
poi una buona giornata.
Dopo aver ricambiato l’augurio, l’uomo risalì in bicicletta
e riprese il suo giro.
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Di solito, Larissa, dopo aver preso la posta, rientrava su­
bito in casa, ma oggi si era trattenuta a guardarlo andare via.
La colse una nostalgia che pensava non avrebbe più provato,
ormai. Sarebbe bello avere di nuovo un uomo accanto, si disse;
ma il postino, per quanto attraente, era fin troppo giovane
per lei.
Ma ora era tempo di mettersi al lavoro: c’erano da innaf­
fiare le piante del giardino e accudire gli animali nel recinto.
Pochi si avventuravano sul sentiero che portava al recinto;
fare quel tragitto per Larissa era un’occasione per meditare
in solitudine.
L’ erba bagnata di rugiada le solleticava le caviglie, il vento
le accarezzava le spalle e alle orecchie le giungeva il cinguettio
degli uccellini.
Arrivò in cima alla collina, chiamata Monte delle volpi
perché, un tempo, le volpi erano solite costruire lì le loro tane.
La recinzione di legno e filo spinato che Larissa aveva
predisposto, con l’aiuto di alcuni uomini del villaggio, deli­
mitava uno spazio in cui aveva accolto due cavalli, un asino,
tre capre, quattro pecore e un cane da guardia.
Arrivata al cancello, le corse incontro il grosso cane dal
pelo chiaro a chiazze rosse e marroni, con il muso simile a
quello di un Collie.
«Ehi, Rufus, come va?» disse, richiudendosi il cancello
alle spalle. Il cane abbaiò dimenando la folta coda, e Larissa,
accarezzandogli la testa, gli diede un biscotto. Poi fece un
fischio.
I cavalli si mossero per andarle incontro, a rilento. Timi­
do, l’asino restò impalato nel suo angolino, le capre invece
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continuarono a brucare l’erba senza neppure degnarla di uno
sguardo. Solo le pecore si precipitarono verso di lei.
In realtà Larissa non aveva mai avuto intenzione di accu­
dire degli animali; il campo di more e le scarpe che dipingeva
la impegnavano già a tempo pieno. Un giorno, però, aveva
trovato l’asino abbandonato; le capre, poi, erano sbucate dal
nulla sulla sua proprietà, mentre un vecchio contadino che si
era trasferito in città dai suoi figli le aveva lasciato le pecore. I
due cavalli, ormai attempati, li aveva salvati dal macello dopo
la morte del loro padrone.
Più di tutto l’aveva commossa l’incontro con il cane. Du­
rante una gita in bici lo aveva trovato legato a un palo di
recinzione, denutrito e terrorizzato. Non sapeva dire cosa
l’avesse sconvolta di più, che qualcuno lo avesse ridotto così
o che nessuno prima di lei si fosse fermato a raccoglierlo per
portarlo a casa.
Per diverso tempo Rufus – questo il nome sul collare – se
l’era vista davvero brutta. Ma alla fine ce l’aveva fatta e si era
rivelato un ottimo cane da guardia.
Larissa andò nella stalla dove teneva il foraggio. Prese
dell’avena e del grano dai barili e li versò in un secchio. Si
procurò il mangime per cani, riempì una dopo l’altra le man­
giatoie e le ciotole, poi fece avvicinare l’asino e le capre.
Mentre gli animali mangiavano, Larissa si voltò verso il
lago che luccicava per il riflesso del sole.
Non lontano dalle sue rive, alcune case erano sovrastate
da alberi imponenti. Davanti a una di queste, il cui frontone
blu faceva capolino tra le chiome, c’era un grosso furgone
per traslochi. Il padrone di casa aveva forse cambiato l’arre­
damento? Oppure era in procinto di traslocare?
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Larissa osservò il furgone per un po’, ma era troppo lon­
tana per riuscire a distinguere qualcosa.
Forse dovrei passare di lì facendo finta di niente, pensò,
mentre tornava alla stalla a chiudere la porta col catenaccio.
Chissà, magari è gente carina: potrebbero essere clienti interessati alle more o alle scarpe da sposa che dipingo.
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Quando il bus si avvicinò, Wiebke tirò su la borsa da viaggio,
e non appena la portiera si aprì con un leggero cigolìo, salì a
bordo ripensando all’estate precedente e alle vacanze passate
in Inghilterra.
Stavolta aveva scelto una meta più vicina: era diretta in
campagna dalla zia per lasciarsi alle spalle un periodo buio
e prendere le distanze dalla vita frenetica di Berlino.
La sua migliore amica, Edita, era appena partita per
Maiorca insieme alla sua ultima conquista, e lei doveva de­
cidere se rimanere sola in città o andarsene in cerca di un
posto tranquillo in cui poter riflettere sugli avvenimenti degli
ultimi mesi e, soprattutto, sul suo futuro.
A casa dei suoi sapeva che non avrebbe trovato la quiete
di cui aveva bisogno, per cui aveva deciso di andare a trovare
la zia che abitava in aperta campagna nel cuore del Meclem­
burgo. Lì si augurava di risanare vecchie ferite e ricaricarsi
per affrontare le decisioni difficili che prima o poi avrebbe
dovuto prendere.
Guardandosi nello specchietto retrovisore dell’autista,
notò che aveva i capelli in disordine e le occhiaie profonde.
Improvvisamente si sentì molto più vecchia dei suoi ventitré
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anni. Ma anche senza quella levataccia e lo stress di dover
cambiare tre mezzi prima di raggiungere il villaggio della
zia, come avrebbe dovuto sentirsi dopo un esame importante
andato male e dopo aver mollato il ragazzo? Provò di nuovo
quel fastidioso senso di impotenza che, oltre ad amareggiarla,
la poneva ogni volta davanti alle stesse domande. C’erano
stati dei segnali che avrebbe dovuto in qualche modo rico­
noscere? E, pur accorgendosene in tempo, avrebbe potuto o
voluto invertire la rotta prima che fosse troppo tardi? Iniziava
a dubitarne.
Un uomo si sedette accanto a lei e, appena addormentato,
iniziò a russare forte. Allora Wiebke mise da parte interroga­
tivi e rimpianti e, indossate le cuffie, si rifugiò nella musica
assordante del suo lettore mp3. Quando riaprì gli occhi, l’uo­
mo non c’era più. Con la musica a tutto volume non l’aveva
sentito scendere.
Si tolse le cuffie e guardò dal finestrino. Erano in aperta
campagna e il sole si rifletteva nelle acque limpide di un lago
su cui si affacciava un campeggio. Lei non era tipo da dormire
in tenda; preferiva di gran lunga la fattoria della zia.
Ma la zia come avrebbe preso la sua improvvisata?
Da quando si era trasferita, non si erano più viste. Larissa
era la sorella di sua madre, ma non le assomigliava affatto.
Mentre Josephine era quella con la testa sulle spalle, che si
era sposata presto, Larissa era lo spirito libero, un grande
mistero per tutti.
Nessuno aveva più notizie di lei; in famiglia sapevano sol­
tanto che dodici anni prima aveva acquistato una fattoria e ci
si era trasferita. Tutti tacevano sul motivo di una scelta tanto
improvvisa e apparentemente azzardata, persino sua madre
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non ne faceva mai parola. A dire il vero Josephine non par­
lava quasi mai della sorella, e solo una volta aveva accennato
vagamente a un uomo che doveva esser stato la causa della
sua fuga in campagna.
Il bus si fermò, Wiebke interruppe i pensieri sul misterio­
so passato della zia. Dalla scritta sbiadita “Strehlin” sul car­
tello della fermata, Wiebke si rese conto di essere finalmente
giunta a destinazione.
Quando il bus ripartì, lasciandosi dietro un nuvolone di
polvere, Wiebke chiuse gli occhi concentrandosi sui rumori
del posto. Più il bus si allontanava, più si facevano distinti il
frinire dei grilli, il rumore di trattori nei campi e il cinguettio
degli uccelli.
Fece un passo indietro urtando inaspettatamente qualcosa
di duro.
Spaventata, cacciò un urlo che fu seguito da una doccia
fredda sulle scarpe da ginnastica. Non aveva sentito arrivare
alle sue spalle un ragazzo che trasportava dei grossi secchi
d’acqua su una carriola.
«Maledizione, stai attenta!» sbottò lui, scrollandosi l’acqua
di dosso.
«Scusa, non volevo!» balbettò Wiebke vedendolo acci­
gliato.
Era un bel ragazzo, davvero notevole. Aveva i capelli bion­
di in disordine perché stava lavorando, e non volutamen­
te spettinati come li portavano in città i ragazzi alla moda.
Aveva gli occhi azzurro cielo; peccato che in quel momento
fossero accecati dalla rabbia.
«Io…» aggiunse lei, timidamente, per poi bloccarsi di
fronte al suo sguardo glaciale. Spazientito, il ragazzo afferrò
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di nuovo i manici della carriola per farle capire che doveva
fargli spazio. Inalberato com’era, meglio lasciarlo passare.
«Turisti» borbottò, sprezzante, mentre le sfilava davanti
proseguendo per la sua strada.
Wiebke lo seguì con lo sguardo. Aveva le guance in fiam­
me: quel ragazzo era davvero molto attraente.
Quando si rese conto di aver abbassato le difese, scosse la
testa ricordandosi del proposito di non farsi più coinvolgere
sentimentalmente, almeno per un bel po’. Non aveva bisogno
di altri guai.
Dopo aver percorso qualche centinaio di metri lungo un
sentiero, le si aprì alla vista il campo di more. Da lì mancava
ancora qualche chilometro alla fattoria di Larissa, dall’altra
parte del villaggio, ma con quel sole che picchiava così forte
si vide costretta a fare una pausa.
Era la prima volta che vedeva quel campo di persona; fi­
nora l’aveva visto solo in foto.
Forse dovrei ritirarmi anch’io in campagna, lontano dalla
vita frenetica e stressante della città, pensò. Ma trovarsi lì per
il momento era più che sufficiente.
Proseguì dunque a passo spedito e, superato un incrocio e
percorso ancora un tratto della via principale, imboccò final­
mente il viale dei Castagni in fondo al quale abitava Larissa.
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La giovane donna all’ingresso del giardino sembrava non de­
cidersi a entrare. Indossava un vestito beige a roselline rosse
e portava i capelli biondi raccolti in una treccia sotto l’ampio
cappello di paglia. Aveva in mano una scatola, probabilmente
le sue scarpe da sposa.
Larissa si soffermò qualche istante a osservarla dalla fine­
stra in cucina, mentre finiva di asciugarsi le mani.
Di ritorno alla fattoria aveva deciso di preparare una tor­
ta per il nuovo inquilino della casa accanto al recinto degli
animali. Un regalo di benvenuto era un buon modo per farsi
conoscere senza risultare invadenti. Era così che si accoglie­
vano i nuovi vicini, portando loro del vino, dei fiori, o magari
una torta fatta in casa.
Ma adesso era arrivata la sua cliente. Larissa mise l’impa­
sto a riposare in frigorifero e andò subito ad aprire.
«Buongiorno, è la signorina Heinrich?» le domandò La­
rissa sulla porta.
La giovane annuì.
Larissa le porse la mano sorridendo. «Venga, entri pure.»
«Complimenti per la casa, è davvero molto bella» disse la
signorina Heinrich dopo essersi guardata intorno affascinata.
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«Anch’io e il mio fidanzato stiamo pensando di trasferirci in
campagna. È così tranquillo qui.»
«Oh, la tranquillità non manca, questo è certo. Però tenga
presente che l’autobus passa di qui ogni tre, quattr’ore, e la
città più vicina è a una trentina di chilometri.»
«E questo le crea problemi?»
Larissa scosse la testa. «No, era esattamente quel che cer­
cavo. Non faccio vita mondana, io.»
«Vive di sola arte, non è così?» La giovane donna sorrise
e si tolse il cappello. «Ah, mi chiami pure Anne.»
«D’accordo, Anne. E lei mi chiami Larissa.»
Larissa accompagnò la sua cliente nello studio. Chiunque
entrasse in quella stanza non poteva fare a meno di notarle.
«Oh, che splendore!» esclamò Anne, estasiata, vedendo le
scarpe in vetrina. «Sono le sue?»
«Sì» rispose Larissa sforzandosi di sorridere. «Sono le
mie.»
«Semplicemente stupende! Le ha dipinte prima o dopo il
matrimonio?»
Nel volantino pubblicitario si specificava che la coppia
poteva farsi dipingere le scarpe prima o dopo le nozze, tut­
tavia quella domanda così improvvisa la turbò non poco.
Tutti ammiravano quelle scarpe e, prima o poi, finivano per
chiedere il significato di quelle decorazioni. Nessuno finora
le aveva fatto una domanda così diretta e delicata al tempo
stesso.
«Queste scarpe… be’ io… io non sono sposata» disse alla
fine Larissa tutto d’un fiato. «Sono giusto un modello, un
saggio delle mie capacità» si affrettò a spiegare quando colse,
imbarazzata, lo sguardo compassionevole della sposa. «Ma­
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gari un giorno… chissà… dipingerò anche le mie scarpe da
sposa. Oppure me le farò dipingere da qualcun altro.»
«Perché, forse c’è qualcun altro che fa questo lavoro?»
«Che io sappia, c’è una signora in Olanda» rispose Larissa.
«In effetti è un’arte poco conosciuta.»
Aggirato con sollievo l’argomento del suo matrimonio
mai celebrato, Larissa invitò Anne Heinrich ad accomodarsi
sul divano a fiori sotto la finestra. Era l’angolo della conver­
sazione, il luogo in cui cercava di approfondire la conoscenza
delle sue clienti, cogliendone sentimenti, gusti, desideri.
«Posso offrirle del tè o del caffè? Ho anche dei waffel fre­
schi.»
«Allora non posso rifiutare.»
Larissa sparì in cucina tornando poco dopo con un vas­
soio dall’aspetto molto invitante. Servì la cliente e poi si se­
dette di fronte a lei.
«Ecco le mie scarpe.» Anne le porse la scatola che aveva
in mano. La stampa dorata sul cartone bianco lucido parlava
da sola: dovevano essere calzature molto costose. «Me le ha
regalate il mio Martin» disse, accarezzando assorta il coper­
chio della scatola. Sembrava riluttante ad aprirla, come se
avesse delle remore ad affidarle quelle scarpe tanto preziose.
Ma Larissa non voleva dare giudizi affrettati. Forse era
solo prudente: scarpe griffate come quelle dovevano esser
trattate con i guanti di velluto. Peccato, però, che una vol­
ta indossate avrebbero inevitabilmente perso quell’aura di
perfezione.
«Posso vederle?» chiese Larissa preoccupata. Le scarpe di
quello stilista non erano facili da dipingere – a dire il vero, era
un vero e proprio sacrilegio metterci le mani! Ma il cliente
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andava accontentato, e Anne Heinrich era disposta a pagare
una bella cifra per vedere realizzato il suo sogno.
Larissa aprì la scatola con un certo timore reverenzia­
le. Avvolte in carta velina color porpora, c’erano un paio di
décolleté con un tacco elegante, né troppo alto né troppo
basso. Erano una vera e propria opera d’arte, e ogni donna,
futura sposa o meno, avrebbe sognato di calzarle. Quando
Larissa le prese in mano, il disagio che aveva provato al solo
vedere la scatola non diminuì affatto. Un errore e avrebbe
perso centinaia di euro. Finora non le era mai successo, ma
non aveva neanche mai lavorato su scarpe così sofisticate.
«Sono meravigliose, non trova?»
«Sì. Non ci sarebbe neanche bisogno di dipingerle.»
Anne Heinrich la guardò sorpresa. «Non crede… cioè,
non vuole…»
«Oh, nient’affatto, non si preoccupi, lo farò senz’altro, se è
quello che desidera. Tuttavia vorrei che ne fosse sicura, anzi,
più che sicura.»
«Lo sono, mi creda!» Anne la guardava fissa. Per la prima
volta da quando avevano iniziato a conversare, Larissa rav­
visò una forte determinazione nella sua cliente.
Perfetto, pensò, riponendo con attenzione le scarpe nella
scatola.
«Mi racconti qualcosa di lei, Anne» disse, prendendo carta
e penna che teneva sempre a portata di mano.
In quelle situazioni, spesso le accadeva di pensare che
avrebbe potuto fare la psicologa. Molti clienti, in effetti,
parlando di sé e delle scarpe che volevano far dipingere, si
aprivano completamente. Riemergevano così vecchie ferite
mai sanate, oppure si intravedevano le prime incomprensioni
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matrimoniali. Larissa ascoltava attentamente e, all’occorren­
za, interveniva con una parola di conforto o con un consi­
glio. Talvolta, nel motivo che dipingeva si poteva cogliere un
messaggio ben augurante.
«Ho ventiquattro anni, proprio l’età giusta per sposarsi»
esordì Anne, ma non risultò convincente. Sposarsi perché
si è raggiunta l’età giusta non è molto saggio. Per fortuna
aveva anche un’altra motivazione. «E Martin è la mia anima
gemella.»
«Vi siete conosciuti nel Sud della Francia?»
«Sì, ero laggiù come ragazza alla pari quando lui è arrivato
con la famiglia per passare le vacanze.»
A Larissa apparve un’immagine. Uno yacht bianco e cam­
pi profumati di lavanda. Tutti e due motivi bellissimi: la la­
vanda per la scarpa sinistra, simbolo femminile, la barca e i
gabbiani per la destra, quello maschile.
«Com’è stato il vostro primo incontro? Lo ricorda?»
«Sì, certo. Martin ebbe una reazione allergica alla lavanda,
stava malissimo. Io mi trovavo per caso nei paraggi e avevo
con me delle pillole contro il raffreddore da fieno. Ha fun­
zionato, ci siamo messi a parlare e tutti e due abbiamo capito,
dal primo momento, di essere fatti l’uno per l’altra.»
«Allora non sarebbe sicuramente una buona idea dipinge­
re della lavanda sulle scarpe» osservò ironica Larissa, pronta
a rinunciare all’ispirazione del momento. «Non vorrei che
all’altare il suo fidanzato iniziasse a starnutire.»
Anne scoppiò a ridere. «Non si preoccupi, al mio Mar­
tin piace la lavanda. Semplicemente è allergico al polline
o alla lavanda essiccata… e comunque direi che l’idea può
andare.»
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«Ne è proprio sicura?»
«Sicurissima.» Anne fece un respiro profondo. «E magari
anche delle rose. La casa di mia madre è interamente circon­
data da rose. È lì che, per la prima volta… sì, insomma, ha
capito cosa intendo.»
A quel punto le guance di Anne si infiammarono.
«Sì, ho capito» la tranquillizzò Larissa sorridendo. «Mi
racconti magari qualcos’altro di sé. Oltre alla lavanda e le
rose. Qualcosa che potrebbe servirmi come fonte d’ispira­
zione… hobby, i suoi cibi preferiti… cose simili.»
«Vediamo: da dove potrei cominciare?» si chiese la ragaz­
za con le guance ancora arrossate.
«Da dove preferisce» la incoraggiò Larissa, pronta a scri­
vere. «Non occorre che mi racconti cose troppo personali;
vorrei che mi parlasse di qualcosa che vi contraddistingue co­
me coppia, così da potermi fare un’idea di voi due insieme.»
Anne rifletté per qualche istante, forse pentendosi di es­
sere venuta lì da sola, poi però iniziò a raccontare e Larissa
cominciò a prendere nota.
Mezz’ora dopo, Larissa aveva messo nero su bianco tutto ciò
che le serviva riguardo ad Anne Heinrich e il suo fidanzato.
Sapeva qual era il colore preferito, il piatto preferito, come
amavano vestirsi, la musica che ascoltavano e la serie televi­
siva che seguivano insieme.
«Bene, allora mi metto all’opera. Avrà le sue scarpe nel
giro di sei settimane, in tempo per poterle provare un po’
prima del matrimonio.»
Quando Anne Heinrich se ne fu andata, Larissa si sentì un
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po’ smarrita. Le capitava ogni volta: sottoponeva i suoi clienti
a così tante domande che alla fine aveva la sensazione di
essere diventata loro amica. Ovviamente non andava così:
finora, nessuna delle sue clienti si era mai rifatta viva con lei
dopo aver ripreso le scarpe e saldato il conto.
Eppure, Larissa in quel momento aveva l’impressione che
da casa sua fosse appena uscita una cara amica.
Per non abbandonarsi a quello strano senso di improv­
visa solitudine, accese la radio in cucina. Sulle note di una
musica jazz in sottofondo, sparecchiò la tavola e mise i piatti
in lavastoviglie.
Incrociando la finestra con lo sguardo, vide una sagoma
all’ingresso del giardino. In un primo momento pensò che
la signorina Heinrich avesse dimenticato qualcosa. Quindi
vide che quella persona portava i jeans e aveva in spalla una
borsa da viaggio; e poi aveva una certa somiglianza con sua
sorella Josephine.
«Oh Signore» mormorò Larissa e immediatamente uscì.
Wiebke – Larissa era sicura che si trattasse di sua nipote –
era ancora ferma davanti al cancelletto del giardino, incerta,
come la cliente prima di lei, se entrare o meno.
«Wiebke?» gridò Larissa. «Sei tu, vero?»
La ragazza accennò un sorriso. Era rimasta spiazzata nel
rivedere sua zia dopo tanto tempo. Dall’ultimo incontro non
era cambiata quasi per niente. Sua madre Josephine dopo
la gravidanza era ingrassata, Larissa invece, a parte qualche
capello bianco che spiccava sulla lunga treccia rossa, dimo­
strava non più di trent’anni. Tutte e due le sorelle, però, ave­
vano lo stesso naso aquilino e la bocca carnosa. Larissa aveva
preso dal padre gli occhi verdi, mentre Josephine aveva gli
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stessi occhi marroni della madre. Inoltre, Larissa era un po’
più alta di sua madre e di lei stessa.
«Sì, sono io» rispose la ragazza imbarazzata. «Io… sono
venuta a trovarti.»
«A trovare me?» Larissa aggrottò la fronte. «Ti manda
Josephine?»
«No, io… io volevo semplicemente allontanarmi un po’
da casa. Posso fermarmi da te qualche giorno?»
Larissa indugiò. Quand’era stata l’ultima volta che aveva
sentito la figlia di Josephine? Sembrava passata un’eternità.
All’epoca Wiebke portava ancora le trecce e l’apparecchio ai
denti. Era l’anno in cui Larissa aveva comprato la fattoria e
aveva deciso di ritirarsi in campagna.
Nel frattempo Wiebke era diventata tale e quale a Josephi­
ne, a parte la magrezza, che aveva preso dal padre.
Al di là delle incomprensioni con la sorella, poteva forse
rifiutare a sua nipote un tetto per la notte? Con tutto quello
spazio, per giunta? In fin dei conti non era con lei che aveva
litigato.
«Certo, vieni dentro» disse, aprendole il cancello del giar­
dino.
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