Rifugiati. Fare e disfare il ruolo di vittima.
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Rifugiati. Fare e disfare il ruolo di vittima.
Rifugiati. Fare e disfare il ruolo di vittima. di Ivan Mei Introduzione...…………………………………………………………………………... 2 1. Il diritto di asilo dal pensiero di stato alle microfisiche del potere ………………….. 4 2. Gestione bio-politica dei rifugiati e strategie di (r)esistenza………..………….……...8 3. Memoria, soggettività, violenza ...………………………………………………….. 15 Riferimenti bibliografici……………………………………………………………….. 25 1 Introduzione Le pagine seguenti possono essere considerate delle note a margine di un lavoro che mi porta da tre anni a lavorare in stretto contatto con richiedenti asilo e rifugiati, costruendo delle relazioni interpersonali che si sviluppano spesso aldilà del classico e stereotipato rapporto utente-operatore. Da diversi anni infatti, all’interno delle associazioni Medici contro la tortura e Laboratorio 53, si è dato avvio ad un laboratorio sperimentale di socializzazione pensato per richiedenti asilo e rifugiati ed in particolare per coloro che hanno subito violenze e torture. Difficile etichettare questa forma laboratoriale: quando, messi alle strette, ci viene richiesto esso assume le forme di “gruppo di auto-mutuo-aiuto”, “gruppo di accoglienza”, “gruppo di socio-terapia”, “laboratorio di narrazione ed espressione”, ma nessuna di queste definizioni si adatta alle dinamiche che un gruppo di rifugiati mette in atto nel momento in cui si crea un ambiente ed uno spazio di condivisione, reciproca conoscenza e confronto. Proverò allora ad illustrarlo nelle sue linee essenziali nello svolgimento di questo breve testo. Le persone che incontriamo tutti i giorni nel nostro lavoro sono esiliate, costrette a lasciare il loro paese, i loro affetti, la loro vita e a dover affrontare uno sradicamento né voluto, né spesso elaborato in un nuovo percorso di vita. Ma se numerose sono le difficoltà che un richiedente asilo incontra nel corso del suo percorso migratorio forzato, dal senso di sradicamento ai vissuti di lutto, dal cambiamento culturale alla precarietà abitativa e lavorativa, certo gli stereotipi, i pregiudizi e le discriminazioni di cui è sovente oggetto nella società di arrivo giocano un ruolo non di poco conto nella costruzione della sua sofferenza. Ecco allora che i sentimenti di nostalgia, come invita a riflettere Roberto Beneduce, non sono soltanto un melanconico abbandono a un tempo passato ma costituiscono soprattutto un’ostinata forma di resistenza al contesto ambientale avverso e sfavorevole del tempo presente sordo alla singolarità di ogni individuo, perennemente annegata in categorie etniche stereotipate. L’appello alla memoria funziona come una risposta ad un deficit di identità, una modalità critica di relazione con il contesto presente. Nella nostra esperienza abbiamo potuto constatare come la dimensione di “gruppo”, piuttosto che quella strettamente individualizzante delle nostre psicologie o della maggior parte dei dispositivi terapeutici, possa costituire un luogo aperto ai cambiamenti, elastico rispetto alle situazioni e alle sempre nuove persone dove sviluppare un clima in cui la soggettività di ciascuno incontri l’intersoggettività del gruppo, dove cioè il condividere il tempo e le esperienze permetta di trasformare la situazione drammatica che l’individuo sta vivendo attraverso una riappropriazione di sé e una messa in gioco collettiva. La dimensione di gruppo permette inoltre di superare una rigida dicotomia di subalternità tra operatori e utenti, di costituire nuove collettività determinate da linguaggi comuni che si vanno di volta in volta a costruire, da uno spazio il più possibile dilatato – da quello dell’associazione ai luoghi di vita dei richiedenti asilo (i centri di accoglienza, per fare un esempio) fino a quello della città – e da un tempo che possa essere sia limitato che allargato da un senso di socializzazione interno al gruppo all’intero contesto sociale. 2 Le seguenti riflessioni nascono quindi da questo lavoro costante di presa in carico e cura di richiedenti asilo e rifugiati e in particolare, per quel che mi riguarda, di un lavoro di ricucitura del proprio passato professionale e lavorativo all’interno del nuovo contesto sociale in cui ci si è costretti a vivere. Ribaltando la classica “osservazione partecipante” di stampo malinowskiano potremmo perciò dire che le tesi qui riportate nascono piuttosto da una “partecipazione osservante”, ovvero da riflessioni scaturite all’interno di un lavoro sociale a stretto contatto con le soggettività in oggetto. Insomma, è bene tenere a mente che sono un attore delle scene che, a titolo secondario, tento di analizzare. La complessità delle condizioni di vita e delle esperienze dei richiedenti asilo nella nostra società, e in particolare in quella romana dove svolgiamo le nostre attività di associazione, richiede necessariamente una modalità di intervento e di aiuto che vada oltre, o meglio, contamini il supporto sanitario e psicologico di impianto biomedico. Necessità che si è imposta proprio a partire dai rischi che la relazione di aiuto con richiedenti asilo corre nell’oscillare tra la medicalizzazione – che nasconde nuove relazioni di potere e nuove condizioni di violenza attraverso quella che Roberto Beneduce non ha esitato a definire una “politica del trauma” (Beneduce 2003) – e l’assistenzialismo – che inchioda la persona in un circolo vizioso di vittimizzazione, subordinazione, paternalismo e passività. Proverò attraverso questa prospettiva a mostrare le tattiche e le strategie che i richiedenti asilo e rifugiati mettono in atto per resistere alle schiacciante categoria di “vittima”, per esistere aldilà e nonostante essa, torcendola a proprio vantaggio laddove si possa, al fine di costruirsi un ambito di soggettività - per quanto limitato dalla funzione esclusiva del nostro modello attuale di cittadinanza - dove poter ricominciare a pensare un progetto di vita, una nuova esistenza sociale inevitabilmente ri-negoziata all’interna di un prisma di identità che si muovono in territori spesso incerti ma sicuramente nuovi. Una frase di Michel de Certeau, scritta in “L’invenzione del quotidiano” risuona particolarmente carica di significato, quando ci ricorda che “mille modi di fare o disfare il gioco dell’altro, ovvero lo spazio istituito da altri, caratterizzano l’attività, sottile, tenace, resistente, di gruppi che, non avendo un luogo proprio, devono districarsi in una rete di forze e di rappresentazioni prestabilite”. (De Certeau, 2005 pag. 49) I richiedenti asilo e rifugiati che conosco fanno e disfanno continuamente questo gioco dell’altro, ovvero il ruolo prestabilito di “vittima” che dovrebbero impersonare per aderire al sistema politico, economico e socio-sanitario occidentale nel suo complesso che proprio sulle “vittime” produce il suo business e la sua ideologia. Questo vuol dire riconoscere a loro non una passività, ma al contrario una agency, una notevole capacità di sapersi muovere tra categorie preconfezionate, forzandole nella forma e nei contenuti per riaffermare la propria individualità e l’accesso ai diritti sociali e di cittadinanza, capacità che De Certeau riusciva in modo straordinario a intravedere nelle pieghe del quotidiano, delle relazioni di forza, delle pratiche discorsive dominanti. Il nostro laboratorio è un piccolo tentativo di rispondere, con una micropratica di resistenza, ai bisogni e alle difficoltà che i richiedenti asilo trovano nel vivere in un paese straniero, estraneo e spesso non scelto, rinforzando questo fare e disfare. Questo non vuol dire ignorare o sminuire le richieste di aiuto propriamente medico-cliniche, ma piuttosto focalizzare l’attenzione sulla totalità dei bisogni di chi arriva a chiedere protezione nel nostro paese sforzandosi sempre di considerare i problemi che deve affrontare – passati e presenti – come risultati di vicende storiche complesse e violente, mai generalizzabili. Lavorare con e per persone che hanno subito violenze vuol dire innanzitutto strapparle dalla categoria di “vittime”, metterle in grado di ricucire il tessuto sociale che gli è stato sofferentemente strappato, pensando a delle strategie che non medicalizzino semplicemente i bisogni, ma che provino a rispondere ad essi in un senso pienamente sociale riabilitando le persone in quanto soggetti e mettendo in moto una pratica di cittadinanza. 3 N.B: tutte le traduzioni dei testi non tradotti in lingua italiana sono state curate da me; per la versione originale ho rimandato alle note finali. 1. Il diritto d’asilo dal pensiero di stato alle microfisiche di potere Abidjan, Addis Abeba, Asmara, Lomè, Conakry, Porto Novo, Ghazni, ecc... sono solo alcuni dei nomi - spesso per noi sconosciuti o offuscati da un alone di esotismo tutto occidentale - che le persone che incontriamo si portano con sé. Insieme ai nomi ci sono i loro ricordi, i loro discorsi, le loro speranze bruscamente interrotti. Sono nomi che disegnano continuamente nuove geopolitiche e nuove frontiere, riattivano spesso vecchie o nuovissime violenze in una costellazione che oggi si usa definire “post-coloniale”, non tanto per definirle storicamente quanto per indicarne l’essenza di dominio a cui rimandano. Ma ci sono anche altri spazi, questa volta a noi più familiari, che disegnano nuove frontiere in cui la propria esistenza diventa un fatto di carne e di politica 1(Merleau Ponty, 1999): Ceuta, Melilla, Lampedusa, Sangatte, Venezia, Fiumicino. Sono “campi di forza” (Sciurba 2009) dove i migranti, con i loro corpi e la loro stessa presenza, forzano i tracciati che le politiche migratorie europee segnano per loro, costringendoli a percorsi sempre più tortuosi e pericolosi. Spazi, si badi bene, e non luoghi. Se infatti i luoghi abitano la vita vissuta, tramano i rapporti, costruiscono relazioni in connessione ad un tempo soggettivo e ad una possibilità di incontro con l’altro, gli spazi sono invece misura, confine, tempo cronometrato, uniformità e quantità. Per questo, come spiegato da Monica Serrano, nella nostra attività abbiamo deciso di lavorare in un luogo e non in uno spazio, o meglio cerchiamo di trasformare gli spazi della quotidianità in luoghi dove ricucire nuove relazioni sociali, presupposto essenziale per potersi prendere cura di chi ha conosciuto nella propria vita la ferocia dell’essere umano e la violenza antropogena. Molto spesso le persone che incontriamo sono state torturate, violentate e rese nude vite (Agamben 1995) da azioni “disumane e degradanti”, come recitano le convenzioni internazionali. L’esperienza clinica e l’analisi dei bisogni sociali in tanti anni di lavoro ci ha permesso di essere un osservatorio privilegiato per comprendere gli effetti propriamente bio-politici di tali pratiche. Politiche in quanto strettamente connesse con la violenza e bio perché capaci di produrre l’incorporazione della violenza stessa nei corpi dei migranti. Ma la distinzione tra “migranti economici” e “rifugiati”, così come ormai il diritto internazionale e tanta sociologia ci hanno insegnato, è sempre più difficile da condividere, in un contesto di globalizzazione e di violenze strutturali2 (Appadurai, 2001; Farmer in Quaranta 2006 e AAVV 2006). Il diritto di asilo, e perciò l’esistenza di “rifugiati” così come previsti dalla Convenzione di Ginevra, ha però costretto fin da subito a mettere in discussione, a riconsiderare da cima a fondo i rapporti tra cittadinanza, territorio, popolazione e Stato così come sono stati oggetto di pratiche discorsive e di politiche in Europa. Wallerstein, Balibar, Anderson, Arendt, Appadurai – per citare alcuni nomi - hanno studiato i modi in cui l’attuale sistema globale post-nazionale si configura come una topografia egemonica: tutti loro “hanno in un modo o in un altro suggerito che il moderno esige uno studio, non solo come sistema politico narrativamente compreso, ma come un 4 potente regime di ordine e di conoscenza che è allo stesso tempo politico-economico, storico, culturale, estetico e cosmologico” (Malkki, 1995 p. 12)3 Questi e molti altri studiosi hanno analizzato perciò la figura del “rifugiato” proprio all’interno della relazione tra cittadinanza e nazione, o meglio, della gerarchia cittadino-nazione-stato; la condizione di rifugiato emerge in queste ricerche come socialmente opposta a quella del cittadino “integrato”. I rifugiati sfidano la sovranità dello Stato e l’ordine globale delle nazioni, per questo un modo interessante e fruttuoso di esaminare la categoria di “nazione” è stato quello di indagarla dal punto di vista di chi la disfà o la sovverte: i rifugiati rappresentano precisamente questo tipo di sovversione, essi sono contemporaneamente il frutto dell’ordine categoriale nazionale (Malkii, 1995) e il suo prodotto di scarto. Le vite dei rifugiati rappresentano inoltre in modo eclatante quella “funzione-specchio” che Abdelmalek Sayad leggeva in ogni migrazione: l’occasione privilegiata che essa costituisce per rendere palese ciò che è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di “innocenza” o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire (ecco l’effetto specchio) ciò che abitualmente è nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò votato a rimanere nell’ombra, allo stato di segreto o non pensato sociale. (Sayad ,1996 p 10) Le loro vite rappresenterebbero una ferita aperta per i confini nazionali e nello stesso tempo una minaccia per la sicurezza glocale. I rifugiati però - e ce ne portano testimonianza coloro che frequentano le nostre associazioni - rifiutano di incasellare le loro storie in una sola identità, che sia essa costituita da una nazione o da una unica traiettoria storica. Essi costringono il pensiero antropologico a rivedere i vecchi concetti di nazionalità e di Stato e le interconnessioni tra la memoria storica e la coscienza nazionale, oltre alle relazioni tra storia, violenza e cultura La migrazione, e ancor di più quella forzata perché legata intimamente ad una antropologia della violenza, si rivela essere perciò un “fatto sociale totale” 4 si mostra pienamente tale perché tocca in profondità, totalmente, tutti gli ambiti delle società di partenza e delle società di destinazione. È infatti un processo che investe globalmente, nella sua interezza, tutti i campi della vita sociale e individuale, e coinvolge a fondo e su tutti i piani tanto i migranti quanto le società di immigrazione; ogni soggetto individuale e collettivo, ciascun concetto e ogni categoria sociale si trovano ad esserne coinvolti. Inoltre l’immigrazione è un indicatore sociale che mette in luce i caratteri e i problemi congiunturali e strutturali del sistema sociale, un reagente che fa “affiorare” i tratti caratteristici ed i problemi irrisolti della società d’arrivo. La considerazione della migrazione come fatto sociale totale portò inoltre Sayad ad elaborare la teoria del cosiddetto “pensiero di stato”, ovvero di quel dispositivo che per il sociologo algerofrancese costringerebbe le strutture mentali dei cittadini a riflettere quelle dello Stato, a “prendere corpo” negli attori sociali e ad essere naturalizzate fino a diventare ovvie, nascondendo la loro natura sociale e politica. Ciò vuol dire che le categorie attraverso cui pensiamo riflettono le strutture nazionali e sono alla base della nostra visione del mondo; esse sono “strutture strutturate nel senso che sono dei prodotti socialmente e storicamente determinati, ma anche strutture strutturanti nel senso che predeterminano e organizzano tutta la nostra rappresentazione del mondo e, di conseguenza, questo stesso mondo”( Sayad, 2002, p. 368). Essendo costitutive del nostro stesso pensiero, tali categorie vengono necessariamente ad influire anche sulla percezione, l’analisi e l’interpretazione del fenomeno migratorio. Questo significa che anche la posizione del migrante nella società di destinazione è determinata dalle categorie nazionali attraverso cui la società nella sua interezza – dai comuni cittadini ai rappresentanti dello Stato – pensa, percepisce e crea la realtà sociale; tali categorie sono all’opera in maniera precipua nelle normative legislative, espressione dello Stato nazionale e dell’istituzione sovranazionale europea. Il rifugiato, nella modalità dell’essere emigrato-immigrato, si trova in una 5 posizione intermedia tra essere sociale e non-essere. Né cittadino né straniero, né dalla parte dello Stesso né dalla parte dell’Altro [...]. Fuori posto nei due sistemi sociali che definiscono la sua nonesistenza, il migrante, attraverso l’inesorabile vessazione sociale e l’imbarazzo mentale che provoca, ci costringe a riconsiderare da cima a fondo la questione dei fondamenti legittimi della cittadinanza (Pierre Bourdieu, Loïc Wacquant in Sayad, 2005, p. XI) Se questi studi e questi ordini di discorso hanno avuto l’indubbio merito di far emergere la violenza del rapporto tra Stato e cittadinanza, appaiono però oggi pesantemente segnati da una visione dello Stato come unico referente politico degli individui. Un suo uso eccessivo corre il rischio, come avverte Aihwa Ong nel suo lavoro sui rifugiati negli Stati Uniti d’America (Ong, 2005), di nascondere i processi concreti – complessi, ambigui e intrecciati – che governano la condizione di “rifugiato”. Il modello che contrappone rifugiati e Stati come entità omogenee non tiene conto, ad esempio, di come le condizioni storiche possano cambiare la percezione sociale dei rifugiati, o di come “il rifugiato e il cittadino costituiscono l’effetto politico di processi istituzionali profondamente impregnati di valori socioculturali” (Ong, 2005 p.69). Secondo Arjun Appadurai (Appadurai 2005), il declino della sovranità degli Stati così come sono stati concepiti modernamente, la produzione attuale dei beni e i modi in cui vengono distribuiti hanno portato ad un nuovo ordine di uncertainty, che in italiano suona sempre più spesso con il termine di “precarietà”. Una delle espressioni di questo stato di incertezza consisterebbe in un acutizzarsi dei conflitti tra gruppi e individui e dell’ansia riguardo alla definizione dei confini del corpo sociale, che esplode in una violenza generalizzata nel momento in cui le reti sociali, le identità e le autorità sono dilaniate da terribili conflitti, violenze e terrorismi spesso difficili da restituire ad un senso. Il dispositivo della violenza e del massacro, della mutilazione dei corpi e della tortura, diventa allora una strategia rivolta a creare “una macabra forma di certezza”. La violenza, la mutilazione, il terrore, la devastazione dei corpi diventano il paradossale dispositivo per produrre certezza rispetto alle differenze, assumendo il carattere di una tecnica violenta di distinzione tra un "loro" e un "noi" (Beneduce, 2003). La violenza sessuale, ad esempio, esprimerebbe un aspetto particolare di queste dinamiche: “il pene, nello stupro etnocidario, è ad uno stesso tempo uno strumento di degradazione, di purificazione, ed una grottesca forma di intimità con l’"altro" etnico” (Appadurai, 2002). In modo simile Franco Basaglia individuava la base dei meccanismi di potere della nostra società – siano essi evidenti o nascosti da una qualche autorità scientifica legittimata – nell’ideologia della morte come soluzione alle proprie contraddizioni. Gli organismi – istituzionali, filogovernativi, no profit o umanitari – avrebbero l’incarico di far sparire le nostre contraddizioni, ideologizzando una norma “definita come una precisa ‘linea di colore’ fra un bene che si accoglie (che siamo noi) e un male che si rifiuta (che sono loro)” (Basaglia, 2005 p. 144). Potremmo aggiungere tenendo in considerazione l’attuale gestione del diritto di asilo e dei meccanismi di cittadinanza che oggi il male non si rifiuta semplicemente, ma al limite lo si include escludendolo, relegandolo in stereotipi ideologici di vittimizzazione, figli di un dispositivo umanitario che trasforma le persone rifugiate nelle nuove figure postmoderne della povertà, del bisogno e di una interminabile sofferenza di origine traumatica. Il doppio registro politico della rappresentazione del rifugiato – contemporaneamente figura minacciosa e patetica – ha infatti costituito la base per l’istituzionalizzazione della sua assistenza, volta insieme alla “preservazione delle società nazionali contro il pericolo potenziale e della protezione delle vittime sempre più numerose” (Fassin e Rechtman, 2007 p. 377)5. È necessario allora, al fine di una comprensione più adeguata dei fenomeni, considerare la cittadinanza non solo come un insieme di diritti legati ad una condizione legale, ma anche come una complesso ordine di discorsi e di pratiche - a volte micro a volte macro – che regolano e governano la vita dei rifugiati nei paesi di arrivo (oltre a quella di tutti i cittadini). È necessario cioè accompagnare alla decostruzione di un “pensiero di stato” una analitica foucaultiana del potere, che ci permetta di analizzare e resistere a quel dispositivo che, attraverso le microfisiche messe in atto dagli operatori sociali, dai medici, dagli avvocati, dagli assistenti sociali, dai politici, modulano la 6 vita delle persone che chiedono protezione nel nostro Paese, fissandole spesso in una situazione di immobilità, sospensione esistenziale e passività. È quello che abbiamo visto decine e decine di volte nel nostro quotidiano accompagnamento delle persone nell’iter della richiesta d’asilo così come nell’accesso ai servizi pubblici o del privato sociale: sono gli altri a gestire le loro vite assumendo di volta in volta un atteggiamento paternalistico, assistenziale o più o meno velatamente razzista: dall’avvocato che non si prende la briga di spiegare al richiedente asilo cosa sta facendo per la sua richiesta di protezione perché reputa la spiegazione una inutile perdita di tempo alle agenzie di lavoro che non accettano il curriculum di un richiedente asilo in quanto tale. La biopolitica fa da cornice ad un nuovo rapporto tra individui e Stati, e l’analisi non può più fermarsi al “pensiero di stato” ma deve indagare le reti di potere nella gestione dei corpi e gli effetti che ne derivano, mettendo al centro della propria riflessione la cittadinanza come prodotto politico dei dispositivi che regolano l’essere vivente e la nuda vita. Solamente nell’ambito di questo cambiamento di prospettiva è possibile comprendere il fenomeno delle migrazioni forzate e le esperienze dei richiedenti asilo attraverso lenti nuove, con le quali ri-leggere il nesso tra potere, Stato, violenza e corpo. I rifugiati, rompendo con la loro stessa esistenza il nesso – non importa se immaginario o reale – tra cultura, territorio e Stato, interessano la teoria antropologica e politica in quanto rappresentano il prodotto dei discorsi e delle altre pratiche messe in atto da nuovi attori della scena socio-politica ed economica tra i quali particolare importanza rivestono le agenzie non governative che amministrano i programmi per i rifugiati, modulando la loro vita e le loro prospettive di vita. Ancor più che sfide viventi allo Stato-nazione, in un’epoca post-nazionale e fluido-moderna, i rifugiati sono allora vite di scarto (Bauman, 2007) che portano iscritta nella loro carne e nei loro corpi le contraddizioni politiche, culturali ed economiche tanto della mondializzazione che delle società di emigrazione e di arrivo. Sono “persone in eccesso” che non trovano più nel mondo di oggi una “pattumiera” adatta alla violenza che tenta di travolgerli. Come scrive bene Malkii “gli Stati d’asilo e le agenzie internazionali che trattano di rifugiati, così come molta letteratura politicamente orientata o terapeutica, tendono a condividere la premessa che i rifugiati siano necessariamente un ‘problema’. Non semplicemente ‘persone ordinarie’, essi sono piuttosto una anomalia che richiede correzioni specialistiche e interventi terapeutici. È così che spesso l’abbondante letteratura che fa dei rifugiati il suo oggetto di studio non colloca il ‘problema’ prima di tutto nella violenza o nell’oppressione politica che produce spostamenti massicci di persone, ma all’interno dei corpi e delle menti delle persone classificate come rifugiati” (Malkii, 1995 p. 8) 6. È proprio attraverso questi meccanismi che è stato possibile universalizzare la figura del “rifugiato”, fino a farlo aderire alle bio-politiche che costituiscono la protezione internazionale, garantendo una forma di specializzazione nella loro gestione e un business di portata enorme per le varie agenzie umanitarie che se ne occupano. La gestione “terapeutica” dei richiedenti asilo e dei rifugiati parte dal comune presupposto che il rifugiato, dal momento che è stato strappato dal suo specifico “territorio” sia di conseguenza anche privato della sua “cultura” e della sua “storia”, ridotto infine a qualcosa di elementare, denudato fino a consideralo mero corpo da assistere. Questo gioco tra “razza, persone, cultura e nazione” (Balibar, 1991) rende i rifugiati facili oggetti di un assistenzialismo che li ha resi nel nostro immaginario docili, de-privati, sempre traumatizzati e in attesa che qualcuno dica loro come comportarsi: “attraverso un accordo fra narrazioni mediatiche, rappresentazioni universalistiche e procedure istituzionali si delinea un profilo standard di rifugiato, segnato da passività, rassegnazione, sofferenza psichica e sequele post-traumatiche, non esistendo altra voce udibile se non quella del dolore individuale e individuato” (Vacchiano, in AA.VV 2005 pag. 90). È l’idea stessa del legame tra territorio e cultura, tra bisogno di assistenza e risorse culturali, tra cittadinanza e accesso ai diritti sociali a dover essere rimessa in discussione, “una sovranità mobile che trasforma esseri umani/cittadini in corpi di rifugiati o vittime, che agisce nei territori 7 delle catastrofi umanitarie, nei campi dei rifugiati, nei centri di accoglienza e produce il profilo di una diversa cittadinanza transnazionale, una bio-cittadinanza i cui diritti sono strettamente legati all’azione umanitaria. Infatti è attraverso il corpo sofferente che l’azione umanitaria, l’espressione visibile ed esemplare dei nostri tempi, disegna i contorni di una nuova economia morale e dimentica l’idea di liberta, fraternità e uguaglianza dei cittadini per un diritto che salva, cura, protegge, difende solo corpi umani” (Pandolfi, in Malighetti, 2005 p. 163). Sfida che chiama in causa direttamente l’antropologia. 2. Gestione biopolitica dei rifugiati e strategie di (r)esistenza Entrando in contatto con i migranti forzati noi abitiamo un luogo delicatissimo della relazione sociale: possiamo accogliere, dare parola all’altro o possiamo riattualizzare la violenza. È necessario allora, come suggerisce Beneduce, situare storicamente e genealogicamente la relazione di aiuto, riflettere e decostruire preliminarmente le logiche, le ideologie e i discorsi che sottendono a qualsiasi tentativo di terapeuticità o riabilitazione. Altrimenti, il rischio è quello di schiacciare la persona sulle nostre categorie psicopatologiche di “trauma” o di “stress”, facendone delle mere vittime o, peggio ancora, di allearsi silenziosamente con coloro che dell’assistenza ai rifugiati hanno fatto un business. Dobbiamo insomma mettere in discussione alcune categorie che spesso mediano il rapporto con i richiedenti asilo, per andare oltre un rapporto tra “operatore” e “vittima” e ristabilire invece un rapporto tra due soggetti. Questo diventa di necessaria importanza se si parte dal presupposto che il potere non entra in gioco solamente nella produzione della sofferenza ma anche nella sua gestione sociale e nella sua presa in carico.“L’essenzializzazione della tortura e dell’esperienza traumatica, la loro medicalizzazione attraverso categorie mediche che riducono l’impatto emotivo delle vicende da cui i sintomi prendono origine, la cancellazione delle dimensioni morali e politiche della sofferenza, la reificazione della nozione stessa di rifugiato”(Beneduce, 2003 p. 93): solo dopo aver riflettuto criticamente su questi aspetti si potranno costruire interventi più adeguati alle persone e sensibili ad una “antropologia ed etnopsichiatria della violenza”. In virtù di tale genealogia, bisognerebbe cercare di evitare la generalizzazione di categorie diagnostiche o di “strategie psicoterapeutiche” la cui efficacia con persone provenienti da altri contesti culturali è sempre incerta. Le variabili storiche e antropologiche non devono essere considerate infatti come mera curiosità neocoloniale, bizzarro esotismo o fattore contingente; al contrario, esse devono essere prese in seria considerazione quando si vogliono costruire strategie di intervento efficaci, come mostrerò nell’ultima parte di questo testo. Continuando nella decostruzione degli approcci terapeutici ai richiedenti asilo che hanno subito violenza, ci si deve allora domandare se sia possibile offrire loro delle risposte alle loro domande di cura e di aiuto, ignorando le “strategie culturali di elaborazione del lutto e del dolore” o senza compiere una “preliminare analisi dei locali modelli della sofferenza e della cura” (Beneduce, 2003). A scanso di equivoci, è bene sottolineare subito che non si sta qui criticando l’assistenza ai richiedenti asilo nella sua generalità, quanto piuttosto il modello che inchioda il beneficiario all’impotenza rispetto a colui che “aiuta” e che trasforma tutta la popolazione richiedente asilo in una massa omogenea e indifferenziata: “come ha mostrato Marcel Mauss, l’atto di donare non è un qualcosa di semplicemente meccanico: il dono definisce le relazioni di status e di potere che esistono tra il donatore e colui che riceve il dono” (Harrell-Bond, in AA.VV 2005 p. 30). Il dono non è una cosa né un atto individuale, ma si configura già da sempre come relazione sociale. Nell’interpretazione maussiana l’essenza del dono consiste in un trittico: dare-ricevererestituire come sistema di obblighi inerenti al dono: esso perciò non è per nulla gratuito e 8 disinteressato. Ritagliandosi uno spazio tra l’ordine della necessità e quello della libertà, il dono come relazione e legame consente di affermare la propria soggettività verso un altro (o molti altri) senza diventare suoi ostaggi. Il dono è però un gioco sociale complesso, perché mentre espone chi dona alla perdita (il donatore potrebbe non venire corrisposto), esso coinvolge il beneficiario nello stesso rischio: in tutte le società chi non ricambia il dono è escluso dal legame sociale. Segue che il donatario è condotto al contro-dono pena l’annientamento sociale conseguente al fatto di non essere stato al gioco. Lo scambio conduce cioè verso il punto in cui può innestarsi la dinamica del dono: riesce a donare solo chi non necessita di una risposta immediata, chi sovrabbonda di qualcosa. Donare implica, in sostanza, una qualche signoria, ovvero la capacità di un inizio assoluto. Questo meccanismo è fondamentale per comprendere i meccanismi di vittimizzazione agenti sui richiedenti asilo e rifugiati: se il riconoscimento della soggettività dell’altro avviene attraverso la possibilità di restituire il dono e quando ciò non è possibile perché il dono è ridotto ad una merce in mano a chi può permetterselo in termini di potere e di economia, l’alterità è dalla partenza estromessa da questo gioco di riconoscimenti. Colui che riceve aiuto – il dono – non ha possibilità di ricambiarlo perché non è messo nelle condizioni per farlo, in quanto da vittima e da nuda vita è più facile per le bio-politiche plasmarlo a proprio piacimento riducendo il suo corpo a oggetto da proteggere, curare, sfruttare ma non riconoscere, perché ciò implicherebbe un cambiamento dell’ordine sociale e quindi la destabilizzazione dei poteri, in primis quello di “far vivere o lasciare morire” (Foucault). Le persone che incontriamo tutti i giorni vivono spesso in una condizione di passività relazionale che perciò, oltre che a coincidere con le inevitabili difficoltà del primo periodo di esilio, sono anche, e in modo altrettanto violento, alimentate dalle pratiche e dalle narrazioni di tutto il discorso umanitario contemporaneo (Mesnard, 2004) che, sulla base della definizione universalistica ed individualista del soggetto, concede lo status di rifugiato solo a coloro che rientrano nella condizione prerequisita di “vittima”. La convezione di Ginevra del 1951 prevede infatti il riconoscimento del diritto di asilo solo nel caso di “giustificata paura di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o opinione politica”; l’idea di “fondato motivo” è perciò centrale, ma nella pratica l’accesso al diritto di asilo è concesso solamente a chi è nelle condizioni di potere o di essere capace di produrre per se stessi una “giustificata” storia traumatica (Vacchiano, 2005). In questo modo la protezione viene concessa solamente a chi riesce a dimostrare di aver subito minacce, violenze e torture e non solamente di correre il pericolo di essere violentato o torturato; meccanismo questo che si configura come uno svilimento del diritto di asilo tout court e un “primato della tortura”. Nella realtà non è sufficiente essere curdo in Turchia, Oromo in Etiopia, omosessuale in Sudan o appartenente all’UFC7 in Togo - ovvero appartenere ad una delle classi previste dalla convenzione - per diventare automaticamente rifugiato, ma è necessario piuttosto essere in grado di dimostrare di essere stato oggetto di grave pericolo strettamente individuale. La possibilità di sperimentare direttamente la violenza - non argomentandone i traumi potenziali, ma certificando quelli subiti – costituisce oggettivamente la vittima e rende la sua domanda di asilo attendibile. Quella di “vittima” è una categoria in cui oggi ci si imbatte sempre più spesso, sintomo del suo carattere onnivoro: dai genocidi alle deportazioni di massa, dalle popolazioni costrette a conflitti armati fino alla disoccupazione e al fumo passivo. Ma l’apparente ovvietà della definizione richiede uno sforzo critico ancora maggiore; come scrive Federico Rahola, “l’impressione è che in un campo semantico così vasto si celi un inganno, o meglio un’insidia: il fatto di avere a che fare con una categoria, al limite giuridica, ma eminentemente morale, e come tale essenzialmente impolitica” (Rahola, 2005b p. 81). Le “vittime” sembrano oggi essere quell’umanità in eccesso di cui parla Bauman e che abbiamo già nominato, dove l’eccesso in questo caso è tutt’altro che impolitico, ma sempre, per dirla con Spivak, “geopoliticamente situato”: dalle masse in fuga da conflitti e carestie ai corpi esanimi dei civili afghani, iracheni, kosovari, serbi o palestinesi, colpiti accidentalmente o, peggio 9 ancora, per avere essi stessi confuso una bomba a frammentazione con un aiuto umanitario, fino ai migranti naufragati nel Mediterraneo. […] Si tratta di individui collocati definitivamente aldilà delle frontiere statuali-nazionali, e quindi oltre ogni idea di cittadino, la cui vita e la cui morte diventano irrilevanti, non contano e non si contano – e per i quali la morte, quando incombe, è per lo più accidente tecnicamente ineludibile, rubricato nel lessico osceno del warfare management come un “danno collaterale (Rahola, 2005b pp. 81-82) A questo processo di vittimizzazione concorrono molti degli attori sociali – sia pubblici che privati – che si occupano dell’assistenza, o meglio della “gestione” biopolitica dei rifugiati.. Le raffigurazioni delle barbarie naziste – estremo orrore e violenza che l’Occidente concepisce - , così come di quelle avvenute nella guerra in Bosnia o in Rwanda, influenza la sensibilità di numerose persone che consumano tali immagini attraverso internet, la televisione o la stampa. L’effetto più evidente di tale dispositivo è quello di incitare le persone ad aiutare le vittime “attraverso l’offerta di assistenza finanziaria mentre esse rimangono relativamente sicure di non mettere a rischio nulla di proprio” ( Veena e Kleinman, 2000 p.1) 8. Ciò è funzionale alla messa in ombra di un aspetto ben più importante: il rifugiato non ha accesso alla sfera della cittadinanza se non sotto la forma subordinata di “vittima”, di cittadino a metà, di non-persona che la violenza passata ha “degradato e disumanizzato” talmente tanto, evidentemente, da non permettergli di accedere ad una cittadinanza piena e attiva; anche Agier sostiene che “accolti in nome dei diritti umani dalle ONG nazionali, da quelle internazionali e dalle organizzazioni dell’ONU, i rifugiati sono assistiti in quanto pure vittime, come se la loro vita dipendesse unicamente dal loro non “essere (più) nel mondo” (Agier, in AA.VV 2005a p. 61). C’è anche chi, come Summerfield, ha addirittura parlato di una vera e propria trauma industry, che tenderebbe a sovrastimare le conseguenze psicologiche del trauma e il numero di persone che - in conseguenza di esso - necessiterebbero di aiuto psicologico, finendo così tra le mani di psichiatri e di psicoanalisti. Secondo Summerfield il modello di intervento medico sulle sofferenze delle popolazioni in guerra ha con il tempo favorito l’emergenza di una industria del traumatismo che, con le sue pretese universalistiche, si è posto, sotto l’influenza nord-americana, come la variante più subdola della dominazione occidentale9. Tale intervento, donando parola alle “vittime” in virtù dell’autorità clinica e nascondendo in questo modo la sua origine morale, ha contribuito a veicolare una certa immagine della vittima stessa e dell’essere umano in generale, cara alle agenzie umanitarie che si battono per i diritti umani universali. “Trauma” diventa la parola-chiave universale per dare senso ad una sofferenza che ha le sue motivazioni e il suo manifestarsi in contesti tra loro molto differenti. L’efficacia delle categorie psichiatriche come quelle del “Post Traumatic Stress Disorder” in termini sociali e politici sembra in questi casi non solo essere inesistente, ma addirittura funzionale a nascondere e celare il carattere sociale e politico della violenza: “in ragione di quel ‘post’ che allontana lo sguardo dalle sfide del presente, dalla opprimente provvisorietà della loro condizione e del loro destino, si finisce col trascurare la rilevanza e l’impatto dello stress nei paesi di arrivo, uno stress che continua a tormentare gli individui più fragili rappresentando in non pochi casi l’ostacolo più significativo al ristabilirsi di un equilibrio” (Beneduce, 2003 p. 301). Il PTSD sembra funzionare quasi da anestetizzante politico e da versante medicalizzato dei processi di vittimizzazione. La categorizzazione diagnostica sembra essere, nei casi in cui si ha a che fare con persone provenienti da contesi in cui il terrore e la violenza sono vissuti in modo molto più familiare e quotidiano di come noi siamo abituati, assolutamente inadeguata, incapace di comprendere le ragioni dell’individuo sofferente in nome di un rigore causale strettamente clinico. I modi in cui le persone che incontriamo rispondono alle esperienze di sofferenza vissute sono infatti varie, ma in molti casi si traducono in indifferenza, apatia, a cui si aggiunge, in modo a volte non meno violento, lo smarrimento, la declassazione, l’emarginazione, l’indifferenza, la discriminazione e lo sradicamento che comporta la nuova vita in un paese straniero. La loro nuova esistenza sociale e legale è legata all’essere sopravissuti alla violenza e alla tortura, all’essere un corpo, una nuda vita, piuttosto che all’essere cittadini. Ciò vuol dire che l’accesso ai diritti e alle 10 risorse sociali non avviene sulla base della cittadinanza ma dipende dalla possibilità di dimostrare di essere “vittima”, di aderire cioè alla rappresentazione sociale che l’umanitarismo prevede per loro. Per questo la massiccia medicalizzazione dei bisogni dei richiedenti asilo è andata crescendo di pari passo a quella che sottende la logica dell’intervento umanitario, producendo una decontestualizzazione e una rappresentazione della “vittima” universale e senza spessore politico. Ma questo “universalismo destoricizzante” (Malkki, 1995), ancora una volta, non basta a comprendere a pieno l’attuale funzionamento del diritto di asilo . La costruzione della vittima ideale per le politiche sociali, deve anche fare i conti, come suggerisce Vacchiano, con le intese geopolitiche internazionali, con i protocolli di intesa transnazionali, con gli accordi bilaterali tra gli Stati, insomma con le strategie degli organismi governativi che decidono a quali conflitti dare rilevanza e a quali occultare la portata collettiva (Vacchiano, 2005a). Le politiche di alleanza tra Stati, le direttive europee, il livello di visibilità pubblica dei conflitti e la risoluzione mediatica verso una “pacificazione”, pesano sul giudizio di accoglienza del paese ospitante molto di più dell’essere stati torturati in Turchia, imprigionati ingiustamente in Camerun o ricercati dallo “squadrone della morte” in Costa d’Avorio. La contraddizione tra due livelli di intervento concorre alla gestione biopolitica delle persone esiliate: quello del “diritto internazionale, i sui soggetti sono gli Stati nazionali”, e quello del “campo umanitario, il cui soggetto è l’essere umano in generale” (Vacchiano, 2005a p. 91). Il diritto internazionale rappresenta i giochi di forza e di legittimazione politica dei moderni Stati all’interno di uno scenario in cui la gestione politica del fenomeno migratorio, compreso quello dei richiedenti asilo, è sempre più affare sovranazionale. Il discorso umanitario invece fa leva su una visione individualizzante dei soggetti che elimina dal suo sguardo le condizioni di violenza generalizzata e quotidiana o i disordini creati da manovre strutturali di tipo economico e sociale che hanno impatto a livello mondiale. Il diritto d’asilo, e quindi la vita di milioni di persone nel mondo, comprese quelle con cui quotidianamente ci incontriamo, è incastrato qui, tra il diritto internazionale e la retorica umanitaria. In questo modo la vittima può facilmente diventare paziente, a opera di una biomedicina che funziona da vero e proprio dispositivo di cittadinanza e da pratica congiunturale del welfare moderno che trasforma le norme degli individui in soggetti biopolitici. L’accesso al mondo occidentale è concesso a chi si adegua ad un profilo che spesso viene trasfigurato in termini medicopsicologici trasformando la violenza politica e la sofferenza collettiva in malattia individuale. L’umanitarismo gestisce quello che Foucault ha definito un vero e proprio “ordine del discorso”: la rarefazione degli enunciati, la loro continuità o discontinuità, il loro rapporto, i loro effetti di verità. Il sapere-potere diventa qui tanatopolitica (Esposito, 2004), governo della vita e quindi della morte delle persone che tentano tutti i giorni di sfondare quella che è stata definita “fortezza Europa”. I richiedenti asilo non possono evocare anche condizioni di povertà, disoccupazione, sfruttamento, instabilità economica: essi devono diventare ben presto abili a maneggiare il linguaggio della sofferenza che l’umanitarismo impone per poter essere quasicittadini. Così “la storia traumatica costituisce il capitale simbolico del migrante, che esalta la sofferenza individuale del singolo a dispetto di qualunque altra cosa l’esperienza possa (anche) essere” (Vacchiano, 2005a p. 92). La biopolitica e la tanatopolitica a cui facciamo riferimento, lo abbiamo visto, non è tanto quella classica del Leviatano hobbesiano, quanto piuttosto quella disseminata nei vari decreti legislativi, negli atteggiamenti delle istituzioni e degli operatori sociali, insomma nella moltitudine di piccole sovranità: “è dal loro caotico intreccio che motivazioni eterogenee (in qualche caso inconfessabili) decidono della possibilità che uno straniero irregolare sia o meno curato per lunghi periodi, del diritto o meno a rimanere di un richiedente asilo (la risposta alla sua richiesta di regolarizzazione o alla sua ricerca di lavoro dipende allora dalla sua nazionalità, dalla sua “docilità” presunta, dalla sua religione)” (Beneduce, in AA.VV, 2009 p.77). Inoltre Foucault stesso ci ha mostrato come la volontà di verità sia uno dei dispositivi fondanti della nostra storia sociale e come essa funzioni da sistema di esclusione che “sorretta da un supporto 11 e da una distribuzione istituzionale, tende ad esercitare sugli altri discorsi […] una sorta di pressione e quasi un potere di costrizione” (Foucault, 1972 p. 9). L’opposizione, storicamente e culturalmente determinata, tra il vero e il falso regola nel caso dei richiedenti asilo le politiche di cittadinanza e di accesso al sistema di assistenza sociale, appendendo la vita delle persone ad un nesso sapere-potere violento quanto arbitrario. È per questo motivo che la questione della “verità” dei racconti dei richiedenti asilo è divenuta così importante, tanto da rappresentare l’obbiettivo fondamentale delle audizioni delle commissioni territoriali competenti a giudicare la pertinenza o meno della richiesta d’asilo - detto in altri termini, se si ha diritto di esistere in questo Paese o no. Si tratta indubbiamente di una “pratica della verità che riproduce fedelmente umori e diffidenze, diffuse rappresentazioni sociali relativamente a stranieri e rifugiati, ma anche di una pratica psicanalitica che si è a affermata nel nostro tempo e nella nostra cultura come scienza degli indizi, guidata da una logica del sospetto” (Beneduce, 2003 p. 94). All’interno di questa “volontà di sapere” foucaultiana si esaminano le storie dei migranti alla ricerca di evidenze ed incongruenze: così criteri spesso formali come un errore di data o un dettaglio mancante, discrepanze fra versioni prodotte a distanza di mesi o anni, vengono interpretati come contraddizioni, motivando il rigetto della domanda e il conseguente provvedimento di espulsione. Non sono solo normali reazioni della memoria a eventi successi spesso in un tempo piuttosto passato, ma anche conseguenze morali e politiche riconducibili a quell’incertezza assoluta che è la vita dei richiedenti asilo, soprattutto in quel tempo sospeso che si vive aspettando che la commissione ascolti e giudichi la propria storia, e che ci ricorda, ancora una volta, “come la memoria costituisca un processo individuale e collettivo ad uno stesso tempo” (Beneduce, 2003 p. 94). Inoltre bisogna sempre tenere conto che abbiamo a che fare con autobiografie che difficilmente possono concordarsi con i canoni che è abituato ad usare chi le ascolta – l’operatore legale o del centro di accoglienza, l’avvocato, lo psicologo, per fare degli esempi – sia perché a volte si rifanno a schemi diversi da quelli logo-centrici occidentali, sia perché rimandano ad un eccesso di realtà che inevitabilmente si traduce in discontinuità, buchi, mancanze o anacronismi. Come suggerisce Laurence Kirmayer, quando le storie differiscono dalle nostre aspettative e dalle nostre categorie di coerenza, intelligibilità e ordine “abbiamo diverse opzioni: possiamo espandere la nostra visione del possibile; possiamo interpretare le narrazioni come difettive, indicando disfunzioni cognitive o alcune altre forme di psicopatologia; o possiamo interrogare i motivi e la credibilità del narratore” (Kirmayer, in AA. VV, 2007 p. 363) 10. Inutile sottolineare che la maggior parte delle volte l’orientamento di chi dovrebbe giudicare la pertinenza o meno della richiesta di asilo non coincide con la prima ipotesi. “Il mio problema” scriveva Foucault “ è sapere come gli uomini si governano (se stessi e gli altri) attraverso la produzione della verità”, aggiungendo “per produzione di verità, non intendo la produzione di enunciati veri, ma la pianificazione dei campi o la pratica del vero e del falso può essere contemporaneamente regolata e pertinente”. Ciò che coinvolge la vita dei richiedenti asilo è allora un regime di veridicità, dove a essere messi sotto giudizio sono i loro racconti, le rappresentazioni di sé e le loro storie. Il trauma – e con esso la sua codificazione nosografica in “post-traumatic-stress-disorder” – è diventato il dispositivo di questo regime, identifica nuove verità e, in maniera più globale e diffusa, invade lo spazio morale delle società contemporanee. Esso lascia impronte durature e nascoste, che solo uno specialista può individuare: passato il dolore, rimane infatti solo il trauma psichico, più essenziale e testimone di una continuità. La psyché diventa il banco di prova della verità dei racconti e della profondità del soggetto, laddove il corpo non è più capace di mostrare i segni della violenza e della sofferenza. Sono Fassin e Rechtman ad aiutarci in questa analisi, grazie al loro libro “Empire du traumatisme”: 12 per la psicotraumatologia dell’esilio, il sospetto crescente nell’incontro con i richiedenti asilo conduce a fare dell’esposizione del traumatismo una possibilità supplementare di attestare la realtà delle persecuzioni. Politica della riparazione, politica della testimonianza, politica della prova: in questi tre casi, non è solamente l’origine di una sofferenza ad essere curata, ma siamo di fronte anche ad una risorsa grazie alla quale si può far valere un diritto (Fassin e Rechtman, 2007 p. 23) 11. La salute mentale è diventato uno strumento di regolazione dei flussi di rifugiati; con l’avvento di misure politiche sempre più restrittive è diventato necessario screditare i racconti del richiedente asilo, “il suo racconto è sistematicamente messo in dubbio: è quindi il suo corpo a essere convocato. […] Il certificato medico-psicologico segue due processi: mostra le tracce sui corpi e istituisce l’esperto come porta-parola” (ivi, p. 377) 12. Ma il traumatismo non è più limitato alla sola sfera psichiatrica, esso si iscrive dentro il senso comune, “costituisce un nuovo linguaggio dell’evento” (ivi, p. 18) 13. Ecco qui che ritorna quella politica del trauma che ci aveva suggerito prima Beneduce: quando un certificato medico attesta il trauma e i suoi relativi sintomi, quale diritto di asilo e quale tipo di soggettività mette in opera? A cosa serve il certificato? Per quale beneficio individuale e per quale uso politico? Esso è uno strumento di valutazione della verità dei racconti al servizio delle politiche d’asilo? “L’oggetto che rappresenta il certificato medico-psicologico è quindi ben più che il testo scritto su un pezzo di carta intestata istituzionale: esso è un frammento di storia – quella del richiedente asilo, sicuramente, ma anche quella del mondo contemporaneo tutto quanto” (ivi, p. 370) 14. Durante le attività dell’associazione Yousef15, richiedente asilo togolese, torturato nelle prigioni civili di Lomè, mi chiede aiuto per la preparazione della sua intervista alla commissione competente per lo status di rifugiato. Dopo aver delineato con lui che tipo di assistenza aveva avuto fino in quel momento in Italia, chiedo a Yousef se aveva mai richiesto un sostegno psicologico, perché in tal caso avremmo potuto richiedere una certificazione da poter presentare alla commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato. Yousef mi risponde in modo sincero di non aver mai neanche minimamente pensato di poter richiedere un supporto di tipo psicologico perché mai ne ha avvertito la necessità. Subito dopo però Yousef mi sorride e mi dice che, se ciò gli avrebbe dato più chances di ottenere lo status di rifugiato e un permesso di soggiorno, sarebbe andato anche da uno psicologo. Basta raccontare la propria storia, sembrare un po’ depressi, ed ecco qua il certificato, la prova autentica delle sue sofferenze. Yousef l’ha capito e cambia abito come può, esercitando la propria agency e muovendo quello che gli viene offerto come unica modalità di esistenza e resistenza: davanti a me Yousef l’informatico, il ragazzo sportivo e solare, davanti ad uno psicologo Yousef il sofferente, la vittima ideale, l’effetto in carne ossa dei traumi passati. In questi casi non possiamo ragionare in termini di verità o non-verità del racconto di sè, di autenticità o di finzione, a meno di non arrogarci il diritto di stabilire noi cosa è la verità di Yousef. Piuttosto siamo spettatori della manipolazione della retorica e della politica umanitaria, dell’abilità di cambiare a seconda della situazione, di stare sempre in bilico tra più identità, tra racconti di sé saggiamente dosati, immaginati, pronti per l’uso, ma sicuramente agiti. Se il potere è biopotere, presa sulla vita, è allora sulla politicizzazione di quest’ultima che si gioca la nuova partita, la nuova resistenza di una molteplicità di soggetti che, andando oltre il paradigma della nuda vita, lotta per costruire nuove pratiche sociali come azioni micro-politiche, rimarcando così ogni volta la propria inesauribile capacità di azione. Ma non si tratta solo di riconoscere queste modalità come resistenze: nel caso dei rifugiati – ma potremmo allargare il discorso a tutti i migranti – sono piuttosto delle forme messe in atto per esistere, dal momento che la loro condizione e la loro presenza è legata, più di qualunque altro soggetto, alla loro posizione legale. Resistere vuol dire, in questo caso più che mai, esistere. Sotto la realtà dei poteri e delle istituzioni bisogna riconoscere un moto di micro-resistenze, che generano a loro volta delle micro-libertà, mobilitando risorse inaspettate, manipolando spazi imposti: “s’insinuano così uno stile di scambi sociali, uno stile di invenzioni tecniche e uno stile di resistenza 13 morale”, ovvero “un’economia del dono”, “un’estetica dei trucchi” e “un’etica della tenacia” (De Certeau, 2005 p. 60) La deformazione del linguaggio vittimista dell’umanitarismo da parte dei richiedenti asilo si configura come una opera di politicizzazione del quotidiano, del linguaggio, della capacità di rielaborare la propria storia di sofferenza, le proprie esperienze di violenza, di trarre vantaggio dal modo in cui il diritto di asilo è stato costruito. È una tattica, come la definisce in modo perfetto De Certeau, un calcolo che non può contare su una base propria […]. La tattica ha come luogo solo quello dell’altro. […] Il “proprio” è una vittoria del luogo sul tempo. Al contrario, in virtù del suo non luogo, la tattica dipende dal tempo, pronta a “cogliere al volo” possibili vantaggi. Ma ciò che guadagna, non lo tesaurizza. Deve giocare continuamente con gli eventi per trasformarli in “occasioni” (De Certeau, 2005 p. 15). La tattica lascia intatti i confini dello spazio imposto ma permette a chi la mette in pratica di renderlo plurale attraverso una propria creatività. Lo spazio imposto di cui parlo è quello delimitato dall’assistenzialismo e dall’umanitarismo che possono essere lette come le due facce della stessa medaglia: mentre il primo ricorda un paternalismo di stampo coloniale, un moderno “dominio compassionevole” (Ong, 2005) che trasforma i diritti in questioni burocratiche o di sofferenza individuale, il secondo finisce addirittura, paradossalmente, con il ridurre al silenzio i rifugiati stessi, cancellando le loro sofferenze, decontestualizzando la loro condizione e le loro esperienze, astraendole dai contesti violenti e storici nel quale hanno avuto luogo. L’insieme dei loro discorsi e delle loro pratiche trasforma tanto la sofferenze delle persone quanto la natura delle risposte assistenziali, costringendo le persone a diventare malati e pazienti per poter essere riconosciute. Come scrive Fassin, allargando la questione a tutto il fenomeno migratorio, “lo status privilegiato assegnato al corpo nelle procedure di legalizzazione e nell’accesso al servizio sanitario ha influenzato negli immigrati la coscienza della loro identità. […] la società condanna molti stranieri illegali ad esistere ufficialmente solo come persone malate. È in questo senso che possiamo parlare di incorporazione di una condizione sociale dell’immigrato” (Fassin, in AA. VV 2006, p. 317). Le politiche della vita hanno come oggetto la vita nell’ordine della sua esclusione: “è in quanto ‘nuda vita’, corpi sofferenti e da salvare, mera esistenza biologica che oggi gran parte delle popolazione mondiale (dagli immigrati irregolari, alle vittime di tortura, ai richiedenti asilo, agli esclusi delle periferie urbane, alle vittime di catastrofi, ai sopravvissuti del genocidio ecc.) si vede riconosciuti quei diritti ascrivibili alla cittadinanza” (Quaranta, in AA. VV., 2006 p. 10). Altro esempio utile: un po’ di temo fà mi capitò di segnalare all’Ufficio Speciale Immigrazione del Comune di Roma, che si occupa della gestione dei posti nei centri di accoglienza per richiedenti asilo, Samuel, altro ragazzo togolese sfuggito dal carcere e dalla tortura. La nostra segnalazione riguardava il fatto che, trattandosi di una persona che aveva passato buona parte dei suoi ultimi anni in carcere, dentro una cella dove non poteva nemmeno permettersi di alzarsi in piedi viste le sue dimensioni, potesse godere di un posto letto il prima possibile. Dopo pochi giorni l’assistente sociale che ha effettuato il colloquio con la persona in questione ci contatta per dirci che Samuel era sorridente e di buon umore, non aveva niente a che fare con una vittima di tortura, per cui non c’era bisogno di nessun trattamento particolare. Samuel, ragazzo pieno di vita e di energia, non ha indossato quel giorno l’abito da vittima e ha perso l’accesso a quello che dovrebbe essere un suo diritto. Ciò comporta non solo una passivizzazione delle persone che chiedono asilo, incastrate nelle categorie di vittima-paziente e di vittima-indifeso, ma anche processi di incorporazione (Merleau Ponty, 1999; Csordas ) di tali micro e macro politiche. Si tratta di un modello che lega indissolubilmente malattia, assistenza sociale e diritto di cittadinanza, condizioni economicopolitiche, violenze strutturali degli ordinamenti sociali, e che si pone tra incorporazione della malattia e incorporazione delle disuguaglianze sociali, tra violenza esplicita e non esplicita che 14 limita i margini di controllo dei soggetti e la capacità di negoziare i termini della loro esistenza. I richiedenti asilo allora giocano con queste stesse categorie, negoziano le loro storie e i loro racconti al fine di usufruire dei vantaggi, anche economici, della medicalizzazione (per esempio trattamenti, posti nei centri di accoglienza, rimborsi, pensioni, finanche il loro stesso status di rifugiati). La tendenza a ridurre sintomi in segni ha pian piano eroso la forza della loro storia personale e ha indebolito la verità delle loro esperienze. In questa prospettiva, le dimensioni sociali e politiche dei racconti scompaiono, diventano l’indizio di più profonde storie, difficili da narrare, correndo spesso il rischio, dichiarato da Zizek, di costruire una “vittima ideale” coerente con l’ideologia della teoria psicanalitica. Teoria che sembra vacillare di fronte a realtà intessute di terrore, abuso di potere, tortura e violenza difficili inoltre da simbolizzare e rendere decifrabili attraverso i classici meccanismi psicoanalitici. I processi di vittimizzazione tendono perciò a nascondere questi dispositivi e a considerare il malessere di cui soffrono i richiedenti asilo che assistiamo non come contraddizioni di un sistema sociale che lega sempre più welfare e biopolitica, gestione della popolazione e della mobilità e accesso alle risorse sociali, rappresentazioni dell’immigrazione nel suo complesso e retoriche di sicurezza del territorio, ma come effetti a lungo termine del trauma, producendo così “cure in luogo di giustizia sociale” (Vacchiano, 2005a p. 94). 3. Memoria, soggettività, violenza Tenuto conto di tutto quello che fin qui è stato analizzato, all’interno delle associazioni Medici contro la Tortura e Laboratorio 53 abbiamo cercato perciò di lavorare soprattutto nel e sul “presente” della vita dei richiedenti asilo, cercando di non ridurre i loro bisogni e i loro problemi ad una origine totalizzante “traumatica” che avrebbe l’effetto di nascondere le sofferenze, l’umiliazione e i trattamenti “disumani e degradanti” che troppo spesso, le condizioni di vita qui, le politiche di non-accoglienza e l’impedimento di una piena cittadinanza, comportano. Ci siamo impegnati a prenderci cura dei disagi di queste persone nell’unico modo per noi possibile, ovvero cercando di lavorare e stare nella congiuntura tra la violenza della tortura e la violenza della condizione di vita del richiedente asilo o rifugiato Una prospettiva che spesso è tralasciata, portando avanti politiche che, concentrandosi su vecchie sofferenze, ne produce di nuove senza accorgersene. Fassin e Rechtman parlano di un vero e proprio cambiamento di paradigma intervenuto negli anni ‘90 del secolo scorso, quando l’attenzione si sarebbe spostata dalla sofferenza dell’esilio a quella della violenza. Il paradigma della violenza, grazie al suo carattere malleabile, avrebbe poi inglobato tutti gli altri fattori che possono portare una persona a soffrire, finanche a manifestare disturbi psicotici, e aperto la strada all’attuale traumatismo. Quelle che incontriamo non sono perciò “vittime”, ma persone, la cui identità – nella molteplicità e nell’etnocentrismo che questa nozione porta con sé – è stata bersaglio di distruzione nel suo peculiare rapporto con il mondo (inteso in senso fenomenologico), ovvero con l’insieme delle relazioni sociali. Troppo spesso si parla di categoria omogenea “migrante” o “rifugiato”. Il migrante forzato è sempre un uomo, una donna, un togolese, un curdo o un sudanese; è un sarto, un infermiere, un contadino, un padre, una madre o un figlio, un attivista politico o un analfabeta. Sono mondi radicalmente diversi che essi ci portano. Si tratta per noi di costruire insieme quei contesti di narrabilità di cui ha parlato Serrano per permettere loro di ricominciare ad avere fiducia – nell’altro e nel mondo - e poter ri-disegnare un proprio progetto di vita desiderabile. Ma spesso noi operatori dobbiamo affrontare la difficoltà di avere a che fare con fatti passati che ci vengono narrati senza che si possa avere nessuna informazione diretta, da persone che “sembrano provenire da un territorio incerto della storia e della geografia: da luoghi che spesso facciamo fatica a immaginare e che talvolta, propriamente parlando, 15 ignoriamo, da vicende i cui termini e i cui protagonisti non conosciamo se non sommariamente.” (Beneduce, 2003) . La strategia che dobbiamo mettere in atto in una pratica dell’accoglienza deve allora agire su due fronti: costruire insieme delle pratiche dell’identità mobili (delle “leve culturali” come scrive Nathan) e attivare e lavorare sulle differenze, senza mai dimenticare il contesto sociale e politico in cui i migranti vivono, le loro rivendicazioni e le loro modalità di resistenza. Identità e differenze non vissute come assolute, omogenee, fisse e monolitiche, ma avendo sempre a mente l’idea di De Certeau secondo la quale “ciascuna individualità è il luogo in cui si espleta una pluralità incoerente (e spesso contraddittoria) delle sue determinazioni relazionali” (De Certeau, 2005 p. 5). Tenendo insieme questi due processi, opposti e speculari, si vuole mettere le persone in grado di riflettere sulle loro risorse personali dalle quale partire per cominciare a ripensare la propria esistenza e costruire un senso a quello che hanno vissuto e che vivono, un senso che ha le sue radici e il suo significato più profondo nella storia e nella memoria. La sofferenza è sempre anche un modo di resistere, di ricordare, di riattivare la storia, di mettere in luce i rapporti di forza. Per quanto possa sembrare paradossale, anche il silenzio è una modalità di riattivazione della memoria individuale e collettiva (Beneduce, 2007). La modalità della narrazione, del racconto di vita, che non sviluppiamo solo in senso eurologo-centrico ma anzi sfruttando diverse forme di espressione a partire da quelle che portano i partecipanti al gruppo, rappresenta per noi uno strumento efficace per incrociare processi di individuazione personale e percorsi di risignificazione collettiva. Se usata nel pieno rispetto della libertà di ciascuno essa può infatti favorire il recupero ed il consolidamento dei legami microsociali, nonché di quelli “macro”. La dimensione del raccontarsi risponde alla necessità di costituire, attraverso la narrazione, un’esperienza sensata, una rappresentazione di sé significativa e continuativa, in risposta a quella perdita di riferimenti che la migrazione forzata porta con sé e che chiude spesso l’individuo su se stesso, mettendolo davanti all’impossibilità di ricostruire un senso ed una soggettività in grado di stabilire nuovamente relazioni sociali. Essa si basa sulla valorizzazione dell’uomo come soggetto delle sue azioni e delle sue rappresentazioni. La narrazione in gruppo gioca allora su due piani: da un lato sull’intersoggettività come condizione del soggetto, dall’altro sull’autoriflessione come condizione della sua indipendenza. L’invito a entrare in un progetto di narrazione, in quanto percorso di sviluppo, può favorire la costruzione o il consolidamento dell’una e/o dell’altra di queste due figure. Riscrivere una storia è sempre costruirla di nuovo, per alimentare una conoscenza e il riconoscimento di sé; il racconto è perciò sentito come una messa in scena del narratore che costruisce, in funzione della storia, la scena nella quale egli salta fuori come soggetto in ricerca di un senso che è messo in gioco e agito all’interno del gruppo (Florence Giust-Desprairies, 2003). Ma voglio scansare due equivoci che altrimenti potrebbe inficiare pesantemente tutta la comprensione di quello che vorrei comunicare. Prima di tutto quando parlo di “narrazione” non mi riferisco né al racconto delle violenze e delle torture subite, né alla restituzione impossibile di un racconto coerente e sensato tra il suo passato “lì” e il suo presente “qui”. Quando una persona nuova arriva al gruppo, non chiediamo mai in primo luogo di sapere la sua storia passata, i motivi che l’hanno costretto alla fuga o che cosa ha lasciato nel suo Paese. Piuttosto cerchiamo di lavorare su quello che è il suo presente qui, a partire dalle risorse che possono riattivarsi e sulle relazioni che possono stabilirsi e che dipendono da molte variabili tra di loro collegate: genere, età, istruzione, stato sociale di provenienza, religione, ecc. Operazione non meno pericolosa e difficile, poiché mette comunque la persona di fronte al fatto di trovarsi “qui” e non più “lì” e potrebbe farla sentire nuda rispetto al mancante che ha lasciato. In secondo luogo quello che pensiamo sia importante non sono tanto i significati dei racconti, quanto ciò che viene messo in gioco nella loro espressione: è il senso di ciò che viene detto nello spazio intersoggettivo costituito in e attraverso lo spazio della messa in scena, e che comprende operatori e utenti insieme. 16 La realtà presentata nel nostro gruppo è piuttosto quella della vita, sia di quella vissuta nel Paese d’origine sia di quella vissuta in Italia, nella quale il piacere e la sofferenza trovano lo spazio per esprimersi, ma anche quello dell’immaginazione, della riflessione, del gioco. Attualizzare e svelare queste scene, che di nuovo diventano immagini e significati, favorisce un lavoro di elaborazione. In questa prospettiva l’autonomia non può essere considerata come una condizione slegata rispetto ai rapporti con l’altro ma identifica un processo di apertura delle relazioni, attraverso lo sviluppo di un’interiorità, una forma di presenza a se stessi, capace di sopportare l’esperienza della perdita, del limite, delle difficoltà, e di favorire la formazione di una memoria condivisa che rigenera lo spessore del gruppo stesso. Il passaggio dall’isolamento, dove la percezione di sé è minacciata, alla messa in scena di una rappresentazione collettiva crea inoltre le condizioni di una dilatazione comprensiva dei giochi di reciprocità e delle dinamiche delle situazioni affettive e sociali, offrendo uno spazio possibile per il racconto in gruppo, là dove si sperimenta il vuoto di un’assenza di discorso comune. In questo modo si può favorire la condivisione, potendosi ognuno rappresentare in rapporto con gli altri e in reciproco riconoscimento. Lavorare sul senso di “casa” e di “memoria del tempo presente” non è quindi immaginare o fantasticare su una pacificazione impossibile: è piuttosto trovare un luogo – inizialmente straniero, quello ospitante – in cui si possa restituire quello che si è dopo che si è stati attraversati da esperienze spesso indicibili. Uno spazio in cui si realizzi, scrive Nathan, da qualche parte e in qualche modo una “eccedenza di densità” del proprio vissuto comunicabile e testimoniabile ad una comunità. Eccedenza che ricomprende l’esilio non o non solo in termini di privazione ma anche e soprattutto nella direzione di un di più – vivere più di una casa, più di una lingua, più di una cultura, più di un legame - delineando così un futuro possibile in faccia a uno, quello da cui si fugge, invivibile. La creatività è perciò un altro dei pilastri della nostra metodologia; non essere creativi, nel lavoro sociale, significa affrontare i problemi in modo amministrativo, ovvero, in ultima analisi, rinforzare la quotidianità anziché modificarla. Lo sforzo consiste invece nel rendersi sensibile alle circostanze per far emergere il potenziale inespresso e provare a riformulare i problemi in contesti sempre più larghi, nel tentativo di riaprire l’azione a una funzione generativa e costruttiva. È questo quello che tentiamo di fare, riattivando innanzitutto le modalità di espressione di ciascuno a partire spesso dal campo extraverbale, soprattutto in considerazione delle difficoltà linguistiche degli utenti. Ciò vuol dire alleggerirsi, ogni tanto, del peso della lingua per trovare canali comunicativi, di espressione di sé e di condivisione spesso inesplorati ma che si rivelano invece facilitatori di relazioni e di autoesplorazione. Tali canali si configurano in questo modo come un intervento di aiuto e di sostegno alla persona attraverso una mediazione non verbale che utilizza i materiali narrativi come sostituzione o integrazione della comunicazione verbale, nella relazione di gruppo. L'intervento si svolge attraverso un percorso in cui la persona è protagonista di quanto avviene: i richiedenti asilo o rifugiati vittime di tortura esprimono contenuti personali (ricordi, sensazioni, sogni, desideri, emozioni), attuando un riconoscimento di sé e della propria presenza in grado di lasciare una traccia. Inoltre, nel momento in cui le sensazioni si traducono nell'oggetto creato – la narrazione -, avviene un processo di autocomprensione più profonda: il riuscire a raffigurare immagini, sentimenti ed emozioni, permette di poterli osservare come qualcosa di staccato da sé. Ecco allora che anche nelle immagini più cariche di sofferenza e di angoscia si crea uno spazio di comprensione storica, che può essere di aiuto all'individuo nella ricerca di nuove modalità di interazione tra il proprio mondo interno e il mondo relazionale esterno. All’interno del percorso di cura nell’accezione più ampia del termine, che ne strappa il primato alla medicina psicologizzante, allora la ricostruzione della storia personale, il suo riconoscimento socio-politico e giuridico, la restituzione dello spessore molteplice dell’identità della persona in terra d’esilio, e il lavoro sulle memorie individuali e collettive, emergono come primi passi di resistenza alla violenza antropogena subita. In questo modo la “tortura” comincia a 17 perdere la connotazione essenzialista che molti le attribuiscono e cessa di essere uno sfortunato “caso” per essere letta invece nella sua complessità, in un contesto in cui spesso la violenza, il dolore e la sofferenza rappresentano situazioni maggiormente abituali rispetto a quello che siamo abituati ad esperire. Non è possibile per noi prendersi cura di richiedenti asilo che hanno subito torture senza tenere sempre bene a mente che abbiamo a che fare con un ordine di problemi che, ancor prima di essere teorico, epistemologico, di assistenza sociale, è propriamente politico – contrapponendoci in questo in blocco all’impolitico dell’umanitarismo. Abbiamo imparato bene cosa vuole dire sostenere una persona che ha visto rifiutarsi il suo status di rifugiato, che vive per strada o in un centro di accoglienza o che intraprende ricorsi legali lunghi, estenuanti e dall’esito incerto. In questo ci è venuto d’aiuto con il tempo una certa etnopsichiatria, in particolare quello stimolante e duro – anche se per molti estenuante – dibattito che in Francia ha visto contrapporsi in modo netto l’approccio terapeutico di Tobie Nathan e quello critico di Didier Fassin. Come è noto a molti, Fassin, medico e antropologo, ha pubblicato nel marzo 2000 sulla rivista “L’Homme” un articolo che prendeva di mira in modo molto diretto le posizioni di Nathan e in generale l’approccio del Centre Devereux. Fassin paragona Nathan a Carothers, psichiatra inglese di origine sudafricana che negli anni ’50 lavorò in Kenia anche per conto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Egli appoggiò, con le sue ricerche sulla “mente e cultura africane”, il governo britannico coloniale al fine di tenere sotto controllo il movimento nazionale dei Mau Mau che poi portò il Kenia all’indipendenza. Descrisse e diede gli strumenti per comprendere i vari rituali violenti e i sacrifici a cui dovevano sottoporsi i nuovi membri del movimento, al fine di incutere paura e scoraggiare chi aveva intenzione di prendervi parte. Carothers descrisse l'esistenza di certe patologie “culturali” presso i Kikuyu, che dichiarò essere le reali cause della rivolta, a cui sottrasse pertanto ogni valore politico e di cui legittimò la repressione16. Si tratta quindi di accuse che pesano quelle che Fassin muove e Nathan. La creazione di patologie culturali laddove si dovrebbero leggere rivendicazioni politiche sarebbe la stessa operazione cha fa Nathan nel suo approccio etnopsichiatrico, stimolando la chiusura culturale dei mondi dei migranti e la creazione di ghetti funzionali al sistema post-coloniale. Proprio come Carothers aveva fatto gli interessi della colonizzazione occultando i motivi socio-politici della rivolta e coprendoli con elementi psicologici e culturali, così Nathan occulta il conflitto sociopolitico-economico che sta alla base del disagio dei migranti. Così come Carothers proponeva come soluzione la “villagizzazione” dei Kikuyu in unità piccole, isolate, lontane dalla città e dalla modernizzazione, Nathan risponderebbe ai disagi dei migranti chiudendoli con i loro oggetti nei villaggi di origine, territorializzandoli, offrendo così il razionale psicologico alle politiche razziste e xenofobe. Questo approccio risulta quindi essere il versante culturalista, buonista e attratto dal fascino per l’alterità del passato dominio coloniale, che usava il materiale sociale e culturale delle ricerche antropologiche – spesso con la complicità degli antropologi stessi – a fini politici e di repressione. La differenza appena citata tra la sofferenza dell’esilio e il traumatismo della violenza – che fa da spartiacque nel senso comune tra migranti economici e migranti forzati – avrebbe portato la nuova etnopsichiatria a sostenere un approccio essenzialista all’alterità che si basa sulla possibilità di una esperienza comune della sofferenza da parte di una cultura, intesa come omogenea e sempre uguale a se stessa, all’interno di una visione della cittadinanza che divide i cittadini relegandone taluni a serie A e altri a serie B, svantaggiati socialmente, meno tutelati e titolari di diritti “speciali”. Fassin sembra attaccare Nathan nello stesso punto in cui tanta antropologia ha attaccato Lévi-Strauss: il fascino per la differenza porta a voler preservare a tutti i costi la differenza stessa, senza tenere conto del contesto nel quale essa si inscrive, delle relazioni politiche e di forza, delle condizioni sociali, riperpetuando le violenze strutturali della società e quelle più specificatamente legate alla gestione dei flussi migratori e dell’accesso alla cittadinanza. A sua argomentazione, Fassin riporta una frase di Nathan, che dovrebbe riassumere in sé tutti i punti dolenti del pensiero e della pratica etnopsichiatrica: “Per me, l’etnopsichiatria fa parlare la 18 cultura al posto del soggetto. Non si ascolta il paziente. Non è il soggetto, ma un oggetto di ricerca che ha il nome di paziente”. In questa sostituzione del soggetto con la “cultura” Fassin vede la cancellazione del soggetto stesso, un processo pericoloso di “culturalizzazione del politico”, che legge in termini culturali processi e dinamiche che sono invece da leggere in termini di forza, potere, disquilibrio di risorse e del loro accesso, incorporazione di dinamiche sociali. Le critiche di Fassin sicuramente colgono in pieno alcuni punti controversi della pratica nathaniana, che tende a non prendere in seria considerazione le condizioni socio-politiche di vita dei migranti nelle società di arrivo. Eppure, proprio Nathan scrive in merito al legame tra antropologia e dominio: “si vuole una psichiatria che si potrebbe definire culturalmente rischiarata, illuminata (ecleree). Ma una psichiatria dopo tutto utilizza i contributi antropologici per rendere la psichiatria possibile con delle popolazioni che poco hanno nelle loro tradizioni che le predisporrebbero a questo genere di pratiche. In verità questa psichiatria consacra il legame fra antropologia e conquista, poiché domanda all’antropologia di darle quelle conoscenze che le permetterebbero di penetrare per sé, di passare attraverso le difese che queste popolazioni oppongono alle pratiche psichiatriche occidentali”(Nathan, in AA.VV 2000 p. 37). Piero Coppo difendendo la posizione di Nathan, sostiene che quest’ultimo, tra individuo e comunità abbia scelto la comunità proprio per contrapporsi ad una psicologia occidentale che isola gli individui per rendere maggiormente efficace il dispositivo di cura che essa stessa ha creato, ovvero quello duale della psicoanalisi, cancellando così con un colpo solo tutti i riferimenti che ciascun gruppo umano ha rispetto al visibile e all’invisibile (la famiglia, i viventi, gli antenati e i discendenti, gli spiriti, ecc…). “Anche questa è una scelta, una scelta politica appunto […]. – scrive Coppo - Se i progetti delle agenzie internazionali privilegiano le azioni che dissolvono i legami tradizionali delle comunità per istituire gli individui in modo che sia possibile l'impianto del capitalismo competitivo, psicologizzare, e cioè modernizzare la percezione di sé, orientare nella direzione dell'interiorità e dell'individualismo psicologico un modello antropologico altro attivo in un determinato etnòs significa fare azione politica” (Coppo). Quale è allora la posta in gioco? Di nuovo ci troviamo a che fare con il rapporto tra cultura, politica e violenza, o meglio del significato politico dei dispositivi di cura e assistenza. Fassin ricorda come la psichiatria dell’immigrazione – ma noi estendiamo l’analisi, come abbiamo fin qui fatto, a tutta la gestione “psico-sociale” dei migranti – si sia costituita, a partire dagli anni ’50 del Novecento in particolare su due figure in due momenti storici differenti: l’indigeno nell’epoca coloniale e lo straniero nel mondo post-coloniale. Molte persone che oggi si occupano a vario titolo di assistere migranti – operatori sociali, avvocati, psicologi, assistenti sociali, ecc. - non sono consapevoli di questo legame storico di dominio e ripetono con sorprendente facilità modalità di rapporto tipiche di un dominio coloniale prima e post-coloniale dopo. Nel nostro quotidiano lavoro con richiedenti asilo e rifugiati ci siamo accorti che quello che definiamo “cultura”, è qualcosa che ogni individuo maneggia e vive in modo differente: può essere un aspetto che la persona tende a proteggere e a rivendicare, così come può essere vissuto come un pesante fardello, che nella società d’esilio produce identità intollerabili, che non si vuole attivare, che non si ritiene siano adatte al nuovo contesto di vita o che comunque producano una angosciante sofferenza. Questo significa per noi innanzitutto una cosa: i propri riferimenti culturali non rappresentano mai qualcosa di contingente o di secondario, un qualcosa in più da considerare nei processi di cura. Quello che ci siamo posti è, piuttosto, di lavorare su questi elementi, per renderli dei dispositivi capaci di attivarsi o disattivarsi a seconda delle situazioni, senza doverli necessariamente e dolorosamente estromettere o intromettere dal proprio nuovo percorso di vita. Si tratta di una modalità che, come dice bene Beneduce, “non sa quando funziona bene che cosa sia la cultura, non può saperlo. La cultura dell’altro sta sempre un po’ al di qua, o un po’ al di là di dove ce l’aspetteremmo, perché se ne fa lui qualcosa” (Beneduce, in AA. VV 2000, p. 39). La violenza della tortura ci pone anche di fronte all’impossibilità di assumere in modo semplicistico l’idea di una “cultura” e di una “comunità” che valgano sempre e comunque come 19 risorsa e a quanto dobbiamo sforzarci di ricostruire – proprio a partire dalle differenze personali e dalle individuali capacità di affrontare esperienze dolorose – la possibilità di un diverso rapporto con i propri contesti culturali di provenienza: un rapporto che renda questi ultimi ancora “pensabili”. Allo stesso modo la storia a volte si rivela essere una “risorsa insufficiente” (Appadurai, 1981), alla quale i richiedenti asilo e rifugiati non possono attingere liberamente, pena il riattivare dolorosi ricordi e riaprire ferite che spesso si vogliono tenere chiuse. Questi discorsi assumono una peculiare importanza nel momento in cui si ha a che fare non solo con migranti, per lo più forzati, ma con persone che hanno subito violenze e torture. Fondamentale diventa allora il plesso memoria-cultura-violenza. Beneduce, riprendendo la nozione di “stato di guerra” di Mbembe, mostra come la violenza bellica che caratterizza conflitti come quelli in Repubblica Democratica del Congo o in Liberia, diventa spesso la premessa e la giustificazione di un diritto scontato e generalizzato ad esercitare un potere di morte, individuale quanto collettivo. Gli effetti del vivere in questi contesti si ripercuote poi nella fragilità delle persone che incontriamo, che, anche a distanza di anni e di migliaia di kilometri, si sentono esposti alla minaccia di ritorsioni, assediati, o preoccupati dall’idea di poter, un giorno o l’altro, essere riconosciuti da un loro connazionale. Questo orizzonte ci permette di evitare un rischio: assumere che la decomposizione dell’ordine sociale, le atrocità di massa, la tortura o le violenze macabre che le hanno contraddistinte costituiscano un’anomalia, un’eccezione. Usando invece le parole di Agamben, potremmo dire che la violenza trova un terreno fertile nel momento in cui lo stato di eccezione diventa norma, annientando ogni senso logico, sospendendo la possibilità di comprensione storica degli eventi, inchiodando le persone ad una angoscia che li sradica dalla capacità di spiegare i fatti con gli ordinari codici sociali e culturali. Ma non è solo l’identità soggettiva e individuale – la psyche come costruzione culturale della psicologia occidentale - ad essere colpita dalla tortura, è anche e soprattutto l’identità come nodo relazionale e sociale ad entrare in una crisi profonda. La violenza si scopre, come elemento estremo della relazione umana, nella forma della negazione e della fagocitazione dell’altro; ma ciò vuol dire che essa non è un accidente, qualcosa di eccezionale all’interno della condizione umana e delle culture che viene a scombinare l’esistenza ordinaria, ma al contrario un elemento strutturale delle società e delle relazioni interpersonali. Nella cura delle persone che frequentano le nostre associazioni, dobbiamo considerare la violenza di cui sono state oggetto non solo come atto distruttivo che cancella e annienta, ma anche come pratica “positiva”, come ci esortava a fare Foucault nei confronti di qualsiasi potere. “La violenza produce pratiche, ‘economie’, memorie e trasformazioni psichiche” (Beneduce, in AA.VV 2005a p. 11) che dobbiamo essere in grado di vedere e comprendere. Nelle pratiche di tortura l’ideologia della morte di cui parlava Basaglia ha dunque la sua linea di colore nella disumanizzazione dell’altro, nello smembramento del suo corpo, oppure nell’impossibilità di compiere il seppellimento rituale dei morti come modalità di produrre certezza sui confini tra i gruppi. Ogni logica deve essere spazzata via, in modo tale da produrre un terrore esperibile solo al di fuori di qualsiasi ordinaria esperienza: nessuna possibilità di ricostruire un possibile senso deve essere lasciato alla vittime in modo tale da assicurare un “successo traumatico” molto più longevo della durata delle pratiche stesse. È per questo che gli elementi antropogeni e intenzionali sono quelli più devastanti delle pratiche di tortura perché sono un evento intersoggettivo nel quale la violenza è prodotta da un uomo su un altro uomo, ed è prodotta volontariamente. Questo aspetto che può sembrare scontato è in realtà un elemento particolarmente importante per capire quanto il trauma possa essere profondo e reiterato nel tempo: il fatto che il dolore sia stato inflitto deliberatamente da un altro uomo rende la tortura un’esperienza-frattura, un vissuto che eccede la capacità di rappresentare, narrare, restituire a un senso condiviso. Eccede perché la capacità di rappresentare e comprendere il significato di un evento a cui si partecipa dipende dalla posizione di soggetto all’interno dell’evento, mentre nella tortura è proprio questa posizione che si viene a perdere, nel momento in 20 cui si è ridotti ad oggetto, a corpo, a nuda vita nelle mani dell’altro che ha il potere di “lasciar morire o far vivere” (Foucault, 1985). Questo dispositivo produce una sorta di “anestesia morale” (Beneduce, 2003) nei confronti delle persone torturate che rimangono spesso come sospese o fisse in uno stato esistenziale di disorientamento, incapaci di dare un senso a quello che hanno subito, il cui carattere assurdo e gratuito sembra impedire qualsiasi possibilità di analisi storica, producendo così un terreno fertile per una violenza generalizzata, ritualizzata e spettacolarizzata. C., richiedente asilo beninese, vittima di un macabro rituale voodo, aiutata dalla nostra associazione a ricostruire la sua storia di persecuzione ai fini dell’audizione alla Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato, ci ha riportato un racconto in cui l’uso delle maschere era funzionale proprio a segnare simbolicamente l’incertezza, la confusione tra differenze e appartenenze, tra vittime e carnefici, la uncertainty di cui sopra ha parlato Appadurai. Paradossalmente, si tratta di esperienze in cui rimane solo il corpo a produrre senso, continuità e resistenza, sia nel là della violenza che nel qui della richiesta di protezione. Stiamo parlando di persone che hanno conosciuto la disumanità dei loro torturatori, l’inganno dei loro amici o l’indifferenza dei loro vicini, la paura dei loro familiari, il cinismo dei loro aguzzini, l’impotenza generalizzata (propria e altrui) a opporsi alla logica di annichilimento che domina nei contesti dove la violenza è diventata ormai “un modo di vita”. La disumanità dell’ “altro” è diventata la propria umiliazione, il proprio dolore fisico, la propria disumanizzazione; la memoria è come una piaga viva: quelle esperienze hanno generato un’altra incertezza, quella sulla propria umanità e sul significato stesso di questa parola. L’anestesia che li sovrasta è però il prodotto non solo di una lotta contro i propri disturbi, contro l’assedio di una memoria feroce, ma anche contro i problemi concreti dell’asilo politico, contro l’indifferenza delle istituzioni e della sopravvivenza. La violenza che incontrano nel nostro Paese, che li incastra in stereotipi della vittima, del bisognoso, del povero, dell’assistito, non è forse meno strutturale di quella da cui scappano. È sorprendente sentire come molte persone scappate da contesti di violenza generalizzata avvertano la loro vita nel nostro paese ancora una volta e, per questo ancora di più, disumana, degradante, offensiva. Dai centri di accoglienza che assomigliano più a dei dormitori-parcheggi alla fila quotidiana per poter mangiare, dalla razzializzazione dei loro corpi (Foucault, 1998; Fassin 2006) alle politiche paternalistiche, dalla sensazione di “vita sospesa” dovuta ai tempi morti del sistema burocratico al misconoscimento di una cittadinanza piena ed attiva, le parole che più ricorrono dalle loro bocche sono due: “vita difficile”. D’altronde i richiedenti asilo che conosciamo chiedono in fondo nient’altro che una vita “normale” e la scommessa per noi è di intendere per normale il giusto. Chiedono una vita giusta in un Paese un po’ più giusto del loro. A., richiedente asilo curdo iraniano, che frequenta le nostre attività, impazzisce quando si ritrova scaraventato dalla parte dell’ingiusto. La Commissione non ha ritenuto la sua storia credibile e A. ha iniziato un ricorso al Tribunale Civile che non sa quanto durerà né che esito avrà. Deve solamente aspettare, inghiottito nel frattempo nel mercato nero del lavoro e nelle sue insidie, mentre si convince sempre più che questo è quello che si merita perché lui è segnato dal marchio dell’illegalità e nell’illegalità deve soccombere. Colpevole due volte, per aver lasciato la sua vita là e non esser stato degno di un’accoglienza qua. Non riconosciuto e non creduto – A. si sente impazzire quando capisce di essere non creduto. Con le persone che incontriamo cerchiamo perciò di creare dei luoghi dove poter nuovamente parlare, raccontare la Storia, esserne di nuovo soggetti, piuttosto che spettatori passivi, degli “spazi narrativi come forme territoriali dell’agire sociale e dei suoi conflitti” (De Certeau, 2005 p. XV): ciò si rivela una strategia decisiva, soprattutto per chi ha visto il proprio nome cancellato dalla Storia, ovvero dal proprio mondo sociale, e vive come umanità in eccesso, a volte invisibile, a volte invece troppo visibile, per conto di una macchina mediatica e di politiche che lo stringono tra le categorie di “vittima” e di “clandestino”. Ritornare padroni della propria storia individuale, passata e presente, e riattivare allo stesso tempo memorie collettive, trovare persone pronte a condividere ed 21 ascoltare queste narrazioni, permette di percepire il futuro come nuovamente “agibile” e non solo più “agito”. È un tentativo di impedire che le violenze – tengo a ribadirlo, passate e presenti - possano reiterare continuamente il processo di vittimizzazione, schiacciando la persona nel ruolo di vittima, desoggettivata, impotente, vergognosa, isolata; “per i rifugiati agire e prendere la parola nei luoghi dell’esilio significa rifiutare la vulnerabilità come cura della vittima pura e senza nome […] I dislocati e i rifugiati cessano di essere tali non quando ritornano ‘a casa’ ma quando, in quanto tali, lottano per il loro corpo, la loro salute, la loro socializzazione: allora, cessano di essere le vittime che la ‘scena umanitaria’ presuppone, per diventare soggetti.”(Agier, in AA.VV., 2005a pp.6163)17. È la produzione di nuove comunità immaginate (Anderson) ad essere influente nel nostro caso, una memoria collettiva da costruire che non si basa solo sulla condivisione di un passato di violenze o torture (il che è del tutto illusorio dal momento che ogni storia deve essere letta all’interno del contesto nella quale ha preso vita) ma di un presente di esilio e di nuova cittadinanza. Pensare la sofferenza come universale, vorrebbe dire infatti utilizzare il modello dei promotori del PTSD, che indicano il traumatismo come categoria che fa della sofferenza un elemento senza frontiere e differenze culturali, una lettura universalista della migrazione e della violenza basata su una visione differenzialista che Fassin ritrova anche nell’etnopischiatria di Nathan. Se la sofferenza è comune tra le persone che fanno parte del nostro laboratorio di accoglienza, l’evento che ci caratterizza è la rilettura della storia e delle vicende presenti e “se sul piano sociologico e politico lo spazio vissuto dal rifugiato è, a priori, un luogo o un vuoto, nella realtà questo spazio si riempie di relazioni, quelle stesse relazioni che sono create dall’intervento umanitario e dalla formazione degli spazi-tempi dei rifugiati” (Agier, in AA. VV., 2005a p. 61). Il tentativo è allora quello di lavorare in questo luogo di relazioni in un modo peculiare: se la lettura psicoanalitica del traumatismo fa riferimento al collettivo solo attraverso l’intermediario dell’individuale, noi cerchiamo di compiere un doppio andirivieni: dall’individuo al collettivo e dal collettivo all’individuo, affinché la storia di ognuno non sia una testimonianza individuale quanto piuttosto uno degli elementi di nuove traiettorie identitarie. Questo punto merita una precisazione: quello che le nostre attività di gruppo vogliono realizzare non è quella che Vinh-Kim Nguyen chiama forme di “biosocialità” (Nguyen, in AA. VV., 2006), riferendosi ai gruppi di auto-aiuto di origine nord-americana che hanno attualmente in gestioni diversi fondi per l’HIV in molti paesi africani (Costa d’Avorio, Bukina Faso, Guinea, ecc.) e il cui principale obbiettivo è la legittimazione di una esperienza condivisa nei termini di una malattia. Al contrario, il tentativo è proprio inverso, ovvero va nella direzione di una demedicalizzazione dei propri vissuti, di una de-traumatizzazione del proprio passato e del proprio presente, affinché sempre più la propria posizione non sia vincolata da modalità e linguaggi biomedici, ma da una presa soggettiva sulla propria realtà e da nuove forme di cittadinanza. A questo punto è nuovamente utile chiedersi con Fassin: “è necessario essere traumatizzato per aver riconosciuto lo status di rifugiato? La diagnosi dello psicologo o dello psichiatra può non solamente attestare la verità di un racconto, ma affermare la verità di una storia?” (Fassin e Rechtman, 2007 p. 394)18.In questo caso si tratterebbe ancora una volta di una violenza etica ed epistemologica, che azzittisce l’altro e pretende di parlare al suo posto, anche laddove la certificazione medica può testimoniare – con risultati positivi, dal punto di vista del riconoscimento legale – senza per questo esprimere la verità del richiedente asilo. Questi, più la sua parola si trova devalorizzata, più si trova costretto a mettere la propria storia nelle mani esperte di medici e psicologi, alla ricerca nel corpo o nella psyche delle violenze subite nel passato. In conclusione possiamo dire che il traumatismo, la logica umanitaria e l’assistenzialismo spersonalizzante producono una vittima-utente ideale, indeterminata nella sua essenza, universale nel proprio essere nuda vita. Una pratica che, dichiarandosi super partes finisce per depoliticizzare non solo se stessa, ma la sofferenza delle persone che dice di accogliere e proteggere, rivelando in toto la sua natura di strumento di gestione biopolitico. L’unico modo per curarsi delle vittime 22 sembra essere cancellare la natura sociale, violenta e politica di quello che hanno vissuto e che vivono, tenendo sempre in una lontananza gestita la loro sofferenza, costruendo confini che riducono sempre, nel migliore dei casi, i soggetti di diritti in oggetti di assistenza. 1 L’analisi dell’ultima opera di Merleau-Ponty, “Il visibile e l’invisibile” ci offre due importanti strumenti per analizzare il nesso tra corpo, mondo – inteso in senso fenomenologico -, violenza e politica. Il primo termine è quello di carne attraverso il quale si supera la dicotomia sartriana del rapporto tra per sè e in sè, tra soggetto e oggetto, per giungere a una condizione dell’essere che è condivisa tra l’uomo e il mondo. L’uomo e il mondo sono fatti della stessa carne, segnano una continuità dove il soggetto è contemporaneamente oggetto, senziente e sentito, toccante e toccato. L’altro termine è quello di “chiasma”: il soggetto carnale non si riduce totalmente al mondo esterno diventandone un prodotto come un altro. L’uomo organizza la sua esistenza attraverso un rapporto di reciprocità col mondo, ma il mondo non si riduce alla sua connotazione visibile e concreta; il rapporto tra la visibilità del mondo e questa dimensione invisibile fatta di relazioni, forze energetiche, movimenti intensivi, viene definito “chiasma”, intendendo la reciproca necessità e complementarietà, ma soprattutto l’impossibilità di districare una delle due dimensioni dall’altra. Se l’uomo e il mondo sono fatti della stessa carne, allora il legame tra violenza e cultura non è semplicemente contingente, ma strutturale. 2 Paul Farmer intende per violenza strutturale quella violenza anonima, senza un attore sociale preciso che la attui, che nasce dalle disuguaglianze sociali e dall’organizzazione sociale stessa e che si traduce in patologie, miserie, diversità di accesso a cure mediche e sociali, ecc. “Se la violenza strutturale affonda le sue lame attraverso la limitazione della capacità di azione dei soggetti che occupano le posizioni più marginali all’interno di contesti segnati da profonde disuguaglianze sociali, ecco che l’infezione dal HIV, la tubercolosi, la violenza politica e di genere, le discriminazioni razziali vengono a configurarsi come specifiche modalità in cui la sofferenza sociale si materializza nella vita delle persone, come incorporazione individuale di più ampi processi sociali: la natura viene così socializzata, il corpo emerge a processo storico, il rischio statistico e un beffardo destino si trasformano in responsabilità politica e l’impegno dell’antropologo va oltre l’esame dei mondi morali locali per ergersi a strumento di critica politica e di azione trasformativa” (Quaranta, in AA. V., 2006 p. 7). 3 “All of these theorist have in one way or another suggested that the modern system of nation-states requires study, not just as political system narrowly understood, but as a powerful regime of order and knowledge that is at once politico-economic, historical, cultural, aestethic and cosmological” (Malkki 1995, pag. 12). 4 Per fatto sociale totale, Marcel Mauss intendeva specifici fatti in grado, da soli, di convogliare una gran quantità di altri fenomeni coinvolgendo globalmente la società. In tal modo diventava possibile porre l'attenzione non ad una serie di rappresentazioni collettive, quanto ad un singolo fenomeno, in grado, però, di dar conto del modo in cui veniva strutturata la società da parte dei suoi membri. In virtù della complessa rete di rapporti che sottintende, nel fatto sociale totale entra in gioco l'insieme dei fattori costituenti la realtà di un gruppo umano nella sua organizzazione sociale. 5 “Danse ce contexte où l’image politique deu rifugi se trouve prise entre une figure menaçante et une figure pathétique, le XX siècle a été marqué par l’institutionnalisation del leur assistance sous ce double registre de la préservation des sociétés nationales contre ce danger potentiel et de la protection des victimes de persécution de plus en plus nombreuses”.(Fassin e Rechtman, 2007 p. 377). 6 “Asylum states and international agencies dealing with refugees, as well as much of the policy-oriented, therapeutic literature on refugees, tend to share the premise that refugees are necessarily “a problem”. Not jus “ordinary people”, they are constituted, rather, as an anomaly requiring specialized correctives and therapeutic interventions. It is strictly how often the abundant literature claiming refugees as its object of study locates “the problem” not first in the political oppression or violence that produces massive territorial displacement of people, but within the bodies and minds of people classified as refugees” (Malkii, 1995 p. 8). 7 UFC sta per Union des Forces de Changement, attuale partito di opposizione in Togo, i cui membri sono costantemente e segretamente perseguitati, minacciati e talune volte imprigionati e torturati. 23 8 “ They may be moved to help by offering financial assistance while remaining relatively secure that they risk nothing” (Veena e Kleinman, 2000 p.1) 9 È proprio per queste sue posizioni estreme che Summerfield è stato duramente attaccato da molte “vittime”: accusando il traumatismo come modello di dominio occidentale, egli avrebbe negato l’autenticità delle loro sofferenze. 10 “When stories deviate from our expectations for plausibility, intelligibility, order, and coherence, we have several options: we can expand our vision of the possible; we can interpret the narratives as defective, indicating cognitive dysfunction or some other form of psychopathology; or we can question the motives and credibility of the narrator” (Kirmayer, in AA. VV, 2007 p. 363). 11 “Pour la psychotraumatologie de l’exil, la suspicion croissante à l’encontre des demandeurs l’asile conduit à faire de l’exposition des traumatismes une possibilité supplementare d’attester la réalité des persécutions. Politique de la réparation, politique du tèmoignance, politique de la preuve: dans le trois cas, le traumatisme n’est pas seulement l’origine d’une souffranceque l’on soigne, il est aussi une ressource grâce à laquelle on peut faire valoir un droit.” (Fassin e Rechtman, 2007 p. 23). 12 “Avec la mise in place de politiques plus restrictives, il devient nécessaire de décrédibiliser le discours du candidat au statut de rifugi. Son récit est systématiquement mis en dout: c’èst donc son corps qui est convoqué. […] Le certificat médico-psychologique li eces deux processus: il montre les traces sur le corps et institue l’expert comme porte-parole” (Fassin e Rechtman, 2007 p. 377) 13 “Il constitue un nouveau langage de l’événement” (Fassin e Rechtman, 2007 p. 18). 14 “L’objet que représente le certificat médico-psychologique est donc bien plus que le texte inscrit sur un papier à entête institutionnel: il est un fragment d’historie –ce lle du demandeur d’asile, bien sûr, mais celle du monde contemporain, tout autant” (Fassin e Rechtman, 2007 p. 370). 15 Tutti i nomi dei richiedenti asilo a cui farò riferimento sono stati ovviamente modificati in modo tale da renderli irriconoscibili, per tutelare la loro privacy e la loro sicurezza. 16 “Carothers definisce i Kikuju individualisti, astuti, litigiosi, insicuri, sospettosi verso i vicini e gli esseri invisibili, predisposti al segreto e alla violenza, facilmente attirati dai rituali iniziatici, parte essenziale della loro organizzazione segreta. Frustrati dalle speranze deluse di poter diventare come i britannici, avrebbero sviluppato contro di loro risentimento e rancore. Tutto ciò spiegherebbe la loro "sleale" rivolta. La loro doppiezza criminale non sarebbe per lo psichiatra che l'espressione dei tratti di dissociazione della personalità così marcati tra gli Africani” (Coppo). 17 Restituire il diritto di soggettività non vuol dire però avvicinarsi alla figura del “testimone”. Quest’ultima si rivela infatti piuttosto problematica, dal momento che rischia sempre di ricadere in un lavoro di riattualizzazione della “vittima”, inchiodandola in un cortocircuito temporale e in una pratica di desoggettivazione. Scrive Rahola: “Le vittime iper-rappresentate, quelle onnipresenti in tutte le campagne di sottoscrizione delle agenzie umanitarie, costituiscono quasi il rovesciamento della figura del testimone. Nella testimonianza dei sopravvissuti dell’Olocausto, per esempio, al prezzo altissimo di un presente ipotecato dal passato e di un passato che non riesce a riscattarsi nel presente, è in gioco la possibilità di recuperare un’individualità da un evento e un contesto il cui senso era precisamente quello di ridurre ogni individuo a un corpo, a un numero, a una massa indistinta. Per “rappresentare” la dimensione di vittima veicolata dai media, al contrario, è necessario smarrire ogni traccia di individualità e di memoria, così da rendere quelle figure “credibili”, universalmente accessibili, infinitamente sostituibili. Per questo le vittime oggi si assomigliano drammaticamente tutte. E proprio in questa serialità risiede la loro universalità” (Rahola, in AA. VV 2005b p. 60). 18 “Fallait-il être traumatisé pour être reconnu dans le statut de réfugie? Le diagnostic du psychologue ou du psychiatre pouvait-il non seulement attester la véracité d’un récit, mais dire la vérité d’une historie? Ces interrogations, éthiques autant que politiques, il nous faut maintenant les reconsidérer” (Fassin e Rechtman, 2007 p. 394). 24 Riferimenti bibliografici AA.VV., Percorsi a confronto. Attraverso le “storie” e le “cure” verso la formalizzazione di nuove tecnologie, Naga, Milano 2000 (http://www.naga.it/pdf/gruppo_etno_ricerca_01.pdf); AA. VV., Antropologia, Corpi, n°3, Meltemi, Roma 2003; AA. VV., Antropologia, Rifugiati, n° 5, Meltemi, Roma 2005a; AA. VV., Antropologia, Sofferenza sociale, n° 8, Meltemi, Roma 2006; AA. VV., Antropologia, Violenza, n° 9-10, Meltemi, Roma 2008; AA. VV., The mental health of refugees : ecological approaches to healing and adaptation, Lawrence Erlbaum, Mahwah 2004; AA.VV., Conflitti globali: la guerra dei mondi, Shake Milano 2005b; AA. 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