Rifugiati. Fare e disfare il ruolo di vittima.

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Rifugiati. Fare e disfare il ruolo di vittima.
Rifugiati.
Fare e disfare il ruolo di vittima.
di Ivan Mei
Introduzione...…………………………………………………………………………... 2
1. Il diritto di asilo dal pensiero di stato alle microfisiche del potere ………………….. 4
2. Gestione bio-politica dei rifugiati e strategie di (r)esistenza………..………….……...8
3. Memoria, soggettività, violenza ...………………………………………………….. 15
Riferimenti bibliografici……………………………………………………………….. 25
1
Introduzione
Le pagine seguenti possono essere considerate delle note a margine di un lavoro che mi porta
da tre anni a lavorare in stretto contatto con richiedenti asilo e rifugiati, costruendo delle relazioni
interpersonali che si sviluppano spesso aldilà del classico e stereotipato rapporto utente-operatore.
Da diversi anni infatti, all’interno delle associazioni Medici contro la tortura e Laboratorio 53,
si è dato avvio ad un laboratorio sperimentale di socializzazione pensato per richiedenti asilo e
rifugiati ed in particolare per coloro che hanno subito violenze e torture. Difficile etichettare questa
forma laboratoriale: quando, messi alle strette, ci viene richiesto esso assume le forme di “gruppo di
auto-mutuo-aiuto”, “gruppo di accoglienza”, “gruppo di socio-terapia”, “laboratorio di narrazione
ed espressione”, ma nessuna di queste definizioni si adatta alle dinamiche che un gruppo di rifugiati
mette in atto nel momento in cui si crea un ambiente ed uno spazio di condivisione, reciproca
conoscenza e confronto. Proverò allora ad illustrarlo nelle sue linee essenziali nello svolgimento di
questo breve testo.
Le persone che incontriamo tutti i giorni nel nostro lavoro sono esiliate, costrette a lasciare il
loro paese, i loro affetti, la loro vita e a dover affrontare uno sradicamento né voluto, né spesso
elaborato in un nuovo percorso di vita. Ma se numerose sono le difficoltà che un richiedente asilo
incontra nel corso del suo percorso migratorio forzato, dal senso di sradicamento ai vissuti di lutto,
dal cambiamento culturale alla precarietà abitativa e lavorativa, certo gli stereotipi, i pregiudizi e le
discriminazioni di cui è sovente oggetto nella società di arrivo giocano un ruolo non di poco conto
nella costruzione della sua sofferenza. Ecco allora che i sentimenti di nostalgia, come invita a
riflettere Roberto Beneduce, non sono soltanto un melanconico abbandono a un tempo passato ma
costituiscono soprattutto un’ostinata forma di resistenza al contesto ambientale avverso e
sfavorevole del tempo presente sordo alla singolarità di ogni individuo, perennemente annegata in
categorie etniche stereotipate. L’appello alla memoria funziona come una risposta ad un deficit di
identità, una modalità critica di relazione con il contesto presente.
Nella nostra esperienza abbiamo potuto constatare come la dimensione di “gruppo”, piuttosto
che quella strettamente individualizzante delle nostre psicologie o della maggior parte dei
dispositivi terapeutici, possa costituire un luogo aperto ai cambiamenti, elastico rispetto alle
situazioni e alle sempre nuove persone dove sviluppare un clima in cui la soggettività di ciascuno
incontri l’intersoggettività del gruppo, dove cioè il condividere il tempo e le esperienze permetta di
trasformare la situazione drammatica che l’individuo sta vivendo attraverso una riappropriazione di
sé e una messa in gioco collettiva. La dimensione di gruppo permette inoltre di superare una rigida
dicotomia di subalternità tra operatori e utenti, di costituire nuove collettività determinate da
linguaggi comuni che si vanno di volta in volta a costruire, da uno spazio il più possibile dilatato –
da quello dell’associazione ai luoghi di vita dei richiedenti asilo (i centri di accoglienza, per fare un
esempio) fino a quello della città – e da un tempo che possa essere sia limitato che allargato da un
senso di socializzazione interno al gruppo all’intero contesto sociale.
2
Le seguenti riflessioni nascono quindi da questo lavoro costante di presa in carico e cura di
richiedenti asilo e rifugiati e in particolare, per quel che mi riguarda, di un lavoro di ricucitura del
proprio passato professionale e lavorativo all’interno del nuovo contesto sociale in cui ci si è
costretti a vivere. Ribaltando la classica “osservazione partecipante” di stampo malinowskiano
potremmo perciò dire che le tesi qui riportate nascono piuttosto da una “partecipazione osservante”,
ovvero da riflessioni scaturite all’interno di un lavoro sociale a stretto contatto con le soggettività in
oggetto. Insomma, è bene tenere a mente che sono un attore delle scene che, a titolo secondario,
tento di analizzare.
La complessità delle condizioni di vita e delle esperienze dei richiedenti asilo nella nostra
società, e in particolare in quella romana dove svolgiamo le nostre attività di associazione, richiede
necessariamente una modalità di intervento e di aiuto che vada oltre, o meglio, contamini il
supporto sanitario e psicologico di impianto biomedico. Necessità che si è imposta proprio a partire
dai rischi che la relazione di aiuto con richiedenti asilo corre nell’oscillare tra la medicalizzazione –
che nasconde nuove relazioni di potere e nuove condizioni di violenza attraverso quella che Roberto
Beneduce non ha esitato a definire una “politica del trauma” (Beneduce 2003) – e l’assistenzialismo
– che inchioda la persona in un circolo vizioso di vittimizzazione, subordinazione, paternalismo e
passività.
Proverò attraverso questa prospettiva a mostrare le tattiche e le strategie che i richiedenti asilo
e rifugiati mettono in atto per resistere alle schiacciante categoria di “vittima”, per esistere aldilà e
nonostante essa, torcendola a proprio vantaggio laddove si possa, al fine di costruirsi un ambito di
soggettività - per quanto limitato dalla funzione esclusiva del nostro modello attuale di cittadinanza
- dove poter ricominciare a pensare un progetto di vita, una nuova esistenza sociale inevitabilmente
ri-negoziata all’interna di un prisma di identità che si muovono in territori spesso incerti ma
sicuramente nuovi.
Una frase di Michel de Certeau, scritta in “L’invenzione del quotidiano” risuona
particolarmente carica di significato, quando ci ricorda che “mille modi di fare o disfare il gioco
dell’altro, ovvero lo spazio istituito da altri, caratterizzano l’attività, sottile, tenace, resistente, di
gruppi che, non avendo un luogo proprio, devono districarsi in una rete di forze e di
rappresentazioni prestabilite”. (De Certeau, 2005 pag. 49) I richiedenti asilo e rifugiati che conosco
fanno e disfanno continuamente questo gioco dell’altro, ovvero il ruolo prestabilito di “vittima” che
dovrebbero impersonare per aderire al sistema politico, economico e socio-sanitario occidentale nel
suo complesso che proprio sulle “vittime” produce il suo business e la sua ideologia. Questo vuol
dire riconoscere a loro non una passività, ma al contrario una agency, una notevole capacità di
sapersi muovere tra categorie preconfezionate, forzandole nella forma e nei contenuti per
riaffermare la propria individualità e l’accesso ai diritti sociali e di cittadinanza, capacità che De
Certeau riusciva in modo straordinario a intravedere nelle pieghe del quotidiano, delle relazioni di
forza, delle pratiche discorsive dominanti.
Il nostro laboratorio è un piccolo tentativo di rispondere, con una micropratica di resistenza, ai
bisogni e alle difficoltà che i richiedenti asilo trovano nel vivere in un paese straniero, estraneo e
spesso non scelto, rinforzando questo fare e disfare. Questo non vuol dire ignorare o sminuire le
richieste di aiuto propriamente medico-cliniche, ma piuttosto focalizzare l’attenzione sulla totalità
dei bisogni di chi arriva a chiedere protezione nel nostro paese sforzandosi sempre di considerare i
problemi che deve affrontare – passati e presenti – come risultati di vicende storiche complesse e
violente, mai generalizzabili. Lavorare con e per persone che hanno subito violenze vuol dire
innanzitutto strapparle dalla categoria di “vittime”, metterle in grado di ricucire il tessuto sociale
che gli è stato sofferentemente strappato, pensando a delle strategie che non medicalizzino
semplicemente i bisogni, ma che provino a rispondere ad essi in un senso pienamente sociale
riabilitando le persone in quanto soggetti e mettendo in moto una pratica di cittadinanza.
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N.B: tutte le traduzioni dei testi non tradotti in lingua italiana sono state curate da me; per la
versione originale ho rimandato alle note finali.
1.
Il diritto d’asilo dal pensiero di stato alle microfisiche di potere
Abidjan, Addis Abeba, Asmara, Lomè, Conakry, Porto Novo, Ghazni, ecc... sono solo alcuni
dei nomi - spesso per noi sconosciuti o offuscati da un alone di esotismo tutto occidentale - che le
persone che incontriamo si portano con sé. Insieme ai nomi ci sono i loro ricordi, i loro discorsi, le
loro speranze bruscamente interrotti.
Sono nomi che disegnano continuamente nuove geopolitiche e nuove frontiere, riattivano
spesso vecchie o nuovissime violenze in una costellazione che oggi si usa definire “post-coloniale”,
non tanto per definirle storicamente quanto per indicarne l’essenza di dominio a cui rimandano. Ma
ci sono anche altri spazi, questa volta a noi più familiari, che disegnano nuove frontiere in cui la
propria esistenza diventa un fatto di carne e di politica 1(Merleau Ponty, 1999): Ceuta, Melilla,
Lampedusa, Sangatte, Venezia, Fiumicino. Sono “campi di forza” (Sciurba 2009) dove i migranti,
con i loro corpi e la loro stessa presenza, forzano i tracciati che le politiche migratorie europee
segnano per loro, costringendoli a percorsi sempre più tortuosi e pericolosi.
Spazi, si badi bene, e non luoghi. Se infatti i luoghi abitano la vita vissuta, tramano i rapporti,
costruiscono relazioni in connessione ad un tempo soggettivo e ad una possibilità di incontro con
l’altro, gli spazi sono invece misura, confine, tempo cronometrato, uniformità e quantità. Per
questo, come spiegato da Monica Serrano, nella nostra attività abbiamo deciso di lavorare in un
luogo e non in uno spazio, o meglio cerchiamo di trasformare gli spazi della quotidianità in luoghi
dove ricucire nuove relazioni sociali, presupposto essenziale per potersi prendere cura di chi ha
conosciuto nella propria vita la ferocia dell’essere umano e la violenza antropogena.
Molto spesso le persone che incontriamo sono state torturate, violentate e rese nude vite
(Agamben 1995) da azioni “disumane e degradanti”, come recitano le convenzioni internazionali.
L’esperienza clinica e l’analisi dei bisogni sociali in tanti anni di lavoro ci ha permesso di essere un
osservatorio privilegiato per comprendere gli effetti propriamente bio-politici di tali pratiche.
Politiche in quanto strettamente connesse con la violenza e bio perché capaci di produrre
l’incorporazione della violenza stessa nei corpi dei migranti.
Ma la distinzione tra “migranti economici” e “rifugiati”, così come ormai il diritto
internazionale e tanta sociologia ci hanno insegnato, è sempre più difficile da condividere, in un
contesto di globalizzazione e di violenze strutturali2 (Appadurai, 2001; Farmer in Quaranta 2006 e
AAVV 2006). Il diritto di asilo, e perciò l’esistenza di “rifugiati” così come previsti dalla
Convenzione di Ginevra, ha però costretto fin da subito a mettere in discussione, a riconsiderare da
cima a fondo i rapporti tra cittadinanza, territorio, popolazione e Stato così come sono stati oggetto
di pratiche discorsive e di politiche in Europa. Wallerstein, Balibar, Anderson, Arendt, Appadurai –
per citare alcuni nomi - hanno studiato i modi in cui l’attuale sistema globale post-nazionale si
configura come una topografia egemonica: tutti loro “hanno in un modo o in un altro suggerito che
il moderno esige uno studio, non solo come sistema politico narrativamente compreso, ma come un
4
potente regime di ordine e di conoscenza che è allo stesso tempo politico-economico, storico,
culturale, estetico e cosmologico” (Malkki, 1995 p. 12)3
Questi e molti altri studiosi hanno analizzato perciò la figura del “rifugiato” proprio all’interno
della relazione tra cittadinanza e nazione, o meglio, della gerarchia cittadino-nazione-stato; la
condizione di rifugiato emerge in queste ricerche come socialmente opposta a quella del cittadino
“integrato”. I rifugiati sfidano la sovranità dello Stato e l’ordine globale delle nazioni, per questo un
modo interessante e fruttuoso di esaminare la categoria di “nazione” è stato quello di indagarla dal
punto di vista di chi la disfà o la sovverte: i rifugiati rappresentano precisamente questo tipo di
sovversione, essi sono contemporaneamente il frutto dell’ordine categoriale nazionale (Malkii,
1995) e il suo prodotto di scarto.
Le vite dei rifugiati rappresentano inoltre in modo eclatante quella “funzione-specchio” che
Abdelmalek Sayad leggeva in ogni migrazione:
l’occasione privilegiata che essa costituisce per rendere palese ciò che è latente nella costituzione e nel
funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò che si ha
interesse a ignorare e lasciare in uno stato di “innocenza” o ignoranza sociale, per portare alla luce o
ingrandire (ecco l’effetto specchio) ciò che abitualmente è nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò
votato a rimanere nell’ombra, allo stato di segreto o non pensato sociale. (Sayad ,1996 p 10)
Le loro vite rappresenterebbero una ferita aperta per i confini nazionali e nello stesso tempo
una minaccia per la sicurezza glocale. I rifugiati però - e ce ne portano testimonianza coloro che
frequentano le nostre associazioni - rifiutano di incasellare le loro storie in una sola identità, che sia
essa costituita da una nazione o da una unica traiettoria storica. Essi costringono il pensiero
antropologico a rivedere i vecchi concetti di nazionalità e di Stato e le interconnessioni tra la
memoria storica e la coscienza nazionale, oltre alle relazioni tra storia, violenza e cultura
La migrazione, e ancor di più quella forzata perché legata intimamente ad una antropologia
della violenza, si rivela essere perciò un “fatto sociale totale” 4 si mostra pienamente tale perché
tocca in profondità, totalmente, tutti gli ambiti delle società di partenza e delle società di
destinazione. È infatti un processo che investe globalmente, nella sua interezza, tutti i campi della
vita sociale e individuale, e coinvolge a fondo e su tutti i piani tanto i migranti quanto le società di
immigrazione; ogni soggetto individuale e collettivo, ciascun concetto e ogni categoria sociale si
trovano ad esserne coinvolti. Inoltre l’immigrazione è un indicatore sociale che mette in luce i
caratteri e i problemi congiunturali e strutturali del sistema sociale, un reagente che fa “affiorare” i
tratti caratteristici ed i problemi irrisolti della società d’arrivo.
La considerazione della migrazione come fatto sociale totale portò inoltre Sayad ad elaborare
la teoria del cosiddetto “pensiero di stato”, ovvero di quel dispositivo che per il sociologo algerofrancese costringerebbe le strutture mentali dei cittadini a riflettere quelle dello Stato, a “prendere
corpo” negli attori sociali e ad essere naturalizzate fino a diventare ovvie, nascondendo la loro
natura sociale e politica. Ciò vuol dire che le categorie attraverso cui pensiamo riflettono le strutture
nazionali e sono alla base della nostra visione del mondo; esse sono “strutture strutturate nel senso
che sono dei prodotti socialmente e storicamente determinati, ma anche strutture strutturanti nel
senso che predeterminano e organizzano tutta la nostra rappresentazione del mondo e, di
conseguenza, questo stesso mondo”( Sayad, 2002, p. 368). Essendo costitutive del nostro stesso
pensiero, tali categorie vengono necessariamente ad influire anche sulla percezione, l’analisi e
l’interpretazione del fenomeno migratorio.
Questo significa che anche la posizione del migrante nella società di destinazione è
determinata dalle categorie nazionali attraverso cui la società nella sua interezza – dai comuni
cittadini ai rappresentanti dello Stato – pensa, percepisce e crea la realtà sociale; tali categorie sono
all’opera in maniera precipua nelle normative legislative, espressione dello Stato nazionale e
dell’istituzione sovranazionale europea. Il rifugiato, nella modalità dell’essere emigrato-immigrato,
si trova in una
5
posizione intermedia tra essere sociale e non-essere. Né cittadino né straniero, né dalla parte dello
Stesso né dalla parte dell’Altro [...]. Fuori posto nei due sistemi sociali che definiscono la sua nonesistenza, il migrante, attraverso l’inesorabile vessazione sociale e l’imbarazzo mentale che provoca, ci
costringe a riconsiderare da cima a fondo la questione dei fondamenti legittimi della cittadinanza
(Pierre Bourdieu, Loïc Wacquant in Sayad, 2005, p. XI)
Se questi studi e questi ordini di discorso hanno avuto l’indubbio merito di far emergere la
violenza del rapporto tra Stato e cittadinanza, appaiono però oggi pesantemente segnati da una
visione dello Stato come unico referente politico degli individui. Un suo uso eccessivo corre il
rischio, come avverte Aihwa Ong nel suo lavoro sui rifugiati negli Stati Uniti d’America (Ong,
2005), di nascondere i processi concreti – complessi, ambigui e intrecciati – che governano la
condizione di “rifugiato”. Il modello che contrappone rifugiati e Stati come entità omogenee non
tiene conto, ad esempio, di come le condizioni storiche possano cambiare la percezione sociale dei
rifugiati, o di come “il rifugiato e il cittadino costituiscono l’effetto politico di processi istituzionali
profondamente impregnati di valori socioculturali” (Ong, 2005 p.69).
Secondo Arjun Appadurai (Appadurai 2005), il declino della sovranità degli Stati così come
sono stati concepiti modernamente, la produzione attuale dei beni e i modi in cui vengono distribuiti
hanno portato ad un nuovo ordine di uncertainty, che in italiano suona sempre più spesso con il
termine di “precarietà”. Una delle espressioni di questo stato di incertezza consisterebbe in un
acutizzarsi dei conflitti tra gruppi e individui e dell’ansia riguardo alla definizione dei confini del
corpo sociale, che esplode in una violenza generalizzata nel momento in cui le reti sociali, le
identità e le autorità sono dilaniate da terribili conflitti, violenze e terrorismi spesso difficili da
restituire ad un senso.
Il dispositivo della violenza e del massacro, della mutilazione dei corpi e della tortura, diventa
allora una strategia rivolta a creare “una macabra forma di certezza”. La violenza, la mutilazione, il
terrore, la devastazione dei corpi diventano il paradossale dispositivo per produrre certezza rispetto
alle differenze, assumendo il carattere di una tecnica violenta di distinzione tra un "loro" e un "noi"
(Beneduce, 2003). La violenza sessuale, ad esempio, esprimerebbe un aspetto particolare di queste
dinamiche: “il pene, nello stupro etnocidario, è ad uno stesso tempo uno strumento di degradazione,
di purificazione, ed una grottesca forma di intimità con l’"altro" etnico” (Appadurai, 2002).
In modo simile Franco Basaglia individuava la base dei meccanismi di potere della nostra
società – siano essi evidenti o nascosti da una qualche autorità scientifica legittimata –
nell’ideologia della morte come soluzione alle proprie contraddizioni. Gli organismi – istituzionali,
filogovernativi, no profit o umanitari – avrebbero l’incarico di far sparire le nostre contraddizioni,
ideologizzando una norma “definita come una precisa ‘linea di colore’ fra un bene che si accoglie
(che siamo noi) e un male che si rifiuta (che sono loro)” (Basaglia, 2005 p. 144).
Potremmo aggiungere tenendo in considerazione l’attuale gestione del diritto di asilo e dei
meccanismi di cittadinanza che oggi il male non si rifiuta semplicemente, ma al limite lo si include
escludendolo, relegandolo in stereotipi ideologici di vittimizzazione, figli di un dispositivo
umanitario che trasforma le persone rifugiate nelle nuove figure postmoderne della povertà, del
bisogno e di una interminabile sofferenza di origine traumatica. Il doppio registro politico della
rappresentazione del rifugiato – contemporaneamente figura minacciosa e patetica – ha infatti
costituito la base per l’istituzionalizzazione della sua assistenza, volta insieme alla “preservazione
delle società nazionali contro il pericolo potenziale e della protezione delle vittime sempre più
numerose” (Fassin e Rechtman, 2007 p. 377)5.
È necessario allora, al fine di una comprensione più adeguata dei fenomeni, considerare la
cittadinanza non solo come un insieme di diritti legati ad una condizione legale, ma anche come una
complesso ordine di discorsi e di pratiche - a volte micro a volte macro – che regolano e governano
la vita dei rifugiati nei paesi di arrivo (oltre a quella di tutti i cittadini). È necessario cioè
accompagnare alla decostruzione di un “pensiero di stato” una analitica foucaultiana del potere, che
ci permetta di analizzare e resistere a quel dispositivo che, attraverso le microfisiche messe in atto
dagli operatori sociali, dai medici, dagli avvocati, dagli assistenti sociali, dai politici, modulano la
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vita delle persone che chiedono protezione nel nostro Paese, fissandole spesso in una situazione di
immobilità, sospensione esistenziale e passività.
È quello che abbiamo visto decine e decine di volte nel nostro quotidiano accompagnamento
delle persone nell’iter della richiesta d’asilo così come nell’accesso ai servizi pubblici o del privato
sociale: sono gli altri a gestire le loro vite assumendo di volta in volta un atteggiamento
paternalistico, assistenziale o più o meno velatamente razzista: dall’avvocato che non si prende la
briga di spiegare al richiedente asilo cosa sta facendo per la sua richiesta di protezione perché reputa
la spiegazione una inutile perdita di tempo alle agenzie di lavoro che non accettano il curriculum di
un richiedente asilo in quanto tale.
La biopolitica fa da cornice ad un nuovo rapporto tra individui e Stati, e l’analisi non può più
fermarsi al “pensiero di stato” ma deve indagare le reti di potere nella gestione dei corpi e gli effetti
che ne derivano, mettendo al centro della propria riflessione la cittadinanza come prodotto politico
dei dispositivi che regolano l’essere vivente e la nuda vita. Solamente nell’ambito di questo
cambiamento di prospettiva è possibile comprendere il fenomeno delle migrazioni forzate e le
esperienze dei richiedenti asilo attraverso lenti nuove, con le quali ri-leggere il nesso tra potere,
Stato, violenza e corpo. I rifugiati, rompendo con la loro stessa esistenza il nesso – non importa se
immaginario o reale – tra cultura, territorio e Stato, interessano la teoria antropologica e politica in
quanto rappresentano il prodotto dei discorsi e delle altre pratiche messe in atto da nuovi attori della
scena socio-politica ed economica tra i quali particolare importanza rivestono le agenzie non
governative che amministrano i programmi per i rifugiati, modulando la loro vita e le loro
prospettive di vita.
Ancor più che sfide viventi allo Stato-nazione, in un’epoca post-nazionale e fluido-moderna, i
rifugiati sono allora vite di scarto (Bauman, 2007) che portano iscritta nella loro carne e nei loro
corpi le contraddizioni politiche, culturali ed economiche tanto della mondializzazione che delle
società di emigrazione e di arrivo. Sono “persone in eccesso” che non trovano più nel mondo di
oggi una “pattumiera” adatta alla violenza che tenta di travolgerli.
Come scrive bene Malkii “gli Stati d’asilo e le agenzie internazionali che trattano di rifugiati,
così come molta letteratura politicamente orientata o terapeutica, tendono a condividere la premessa
che i rifugiati siano necessariamente un ‘problema’. Non semplicemente ‘persone ordinarie’, essi
sono piuttosto una anomalia che richiede correzioni specialistiche e interventi terapeutici. È così che
spesso l’abbondante letteratura che fa dei rifugiati il suo oggetto di studio non colloca il ‘problema’
prima di tutto nella violenza o nell’oppressione politica che produce spostamenti massicci di
persone, ma all’interno dei corpi e delle menti delle persone classificate come rifugiati” (Malkii,
1995 p. 8) 6.
È proprio attraverso questi meccanismi che è stato possibile universalizzare la figura del
“rifugiato”, fino a farlo aderire alle bio-politiche che costituiscono la protezione internazionale,
garantendo una forma di specializzazione nella loro gestione e un business di portata enorme per le
varie agenzie umanitarie che se ne occupano. La gestione “terapeutica” dei richiedenti asilo e dei
rifugiati parte dal comune presupposto che il rifugiato, dal momento che è stato strappato dal suo
specifico “territorio” sia di conseguenza anche privato della sua “cultura” e della sua “storia”,
ridotto infine a qualcosa di elementare, denudato fino a consideralo mero corpo da assistere. Questo
gioco tra “razza, persone, cultura e nazione” (Balibar, 1991) rende i rifugiati facili oggetti di un
assistenzialismo che li ha resi nel nostro immaginario docili, de-privati, sempre traumatizzati e in
attesa che qualcuno dica loro come comportarsi: “attraverso un accordo fra narrazioni mediatiche,
rappresentazioni universalistiche e procedure istituzionali si delinea un profilo standard di rifugiato,
segnato da passività, rassegnazione, sofferenza psichica e sequele post-traumatiche, non esistendo
altra voce udibile se non quella del dolore individuale e individuato” (Vacchiano, in AA.VV 2005
pag. 90).
È l’idea stessa del legame tra territorio e cultura, tra bisogno di assistenza e risorse culturali,
tra cittadinanza e accesso ai diritti sociali a dover essere rimessa in discussione, “una sovranità
mobile che trasforma esseri umani/cittadini in corpi di rifugiati o vittime, che agisce nei territori
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delle catastrofi umanitarie, nei campi dei rifugiati, nei centri di accoglienza e produce il profilo di
una diversa cittadinanza transnazionale, una bio-cittadinanza i cui diritti sono strettamente legati
all’azione umanitaria. Infatti è attraverso il corpo sofferente che l’azione umanitaria, l’espressione
visibile ed esemplare dei nostri tempi, disegna i contorni di una nuova economia morale e dimentica
l’idea di liberta, fraternità e uguaglianza dei cittadini per un diritto che salva, cura, protegge,
difende solo corpi umani” (Pandolfi, in Malighetti, 2005 p. 163). Sfida che chiama in causa
direttamente l’antropologia.
2.
Gestione biopolitica dei rifugiati e strategie di (r)esistenza
Entrando in contatto con i migranti forzati noi abitiamo un luogo delicatissimo della relazione
sociale: possiamo accogliere, dare parola all’altro o possiamo riattualizzare la violenza. È
necessario allora, come suggerisce Beneduce, situare storicamente e genealogicamente la relazione
di aiuto, riflettere e decostruire preliminarmente le logiche, le ideologie e i discorsi che sottendono a
qualsiasi tentativo di terapeuticità o riabilitazione. Altrimenti, il rischio è quello di schiacciare la
persona sulle nostre categorie psicopatologiche di “trauma” o di “stress”, facendone delle mere
vittime o, peggio ancora, di allearsi silenziosamente con coloro che dell’assistenza ai rifugiati hanno
fatto un business.
Dobbiamo insomma mettere in discussione alcune categorie che spesso mediano il rapporto
con i richiedenti asilo, per andare oltre un rapporto tra “operatore” e “vittima” e ristabilire invece un
rapporto tra due soggetti. Questo diventa di necessaria importanza se si parte dal presupposto che il
potere non entra in gioco solamente nella produzione della sofferenza ma anche nella sua gestione
sociale e nella sua presa in carico.“L’essenzializzazione della tortura e dell’esperienza traumatica, la
loro medicalizzazione attraverso categorie mediche che riducono l’impatto emotivo delle vicende
da cui i sintomi prendono origine, la cancellazione delle dimensioni morali e politiche della
sofferenza, la reificazione della nozione stessa di rifugiato”(Beneduce, 2003 p. 93): solo dopo aver
riflettuto criticamente su questi aspetti si potranno costruire interventi più adeguati alle persone e
sensibili ad una “antropologia ed etnopsichiatria della violenza”.
In virtù di tale genealogia, bisognerebbe cercare di evitare la generalizzazione di categorie
diagnostiche o di “strategie psicoterapeutiche” la cui efficacia con persone provenienti da altri
contesti culturali è sempre incerta. Le variabili storiche e antropologiche non devono essere
considerate infatti come mera curiosità neocoloniale, bizzarro esotismo o fattore contingente; al
contrario, esse devono essere prese in seria considerazione quando si vogliono costruire strategie di
intervento efficaci, come mostrerò nell’ultima parte di questo testo. Continuando nella
decostruzione degli approcci terapeutici ai richiedenti asilo che hanno subito violenza, ci si deve
allora domandare se sia possibile offrire loro delle risposte alle loro domande di cura e di aiuto,
ignorando le “strategie culturali di elaborazione del lutto e del dolore” o senza compiere una
“preliminare analisi dei locali modelli della sofferenza e della cura” (Beneduce, 2003).
A scanso di equivoci, è bene sottolineare subito che non si sta qui criticando l’assistenza ai
richiedenti asilo nella sua generalità, quanto piuttosto il modello che inchioda il beneficiario
all’impotenza rispetto a colui che “aiuta” e che trasforma tutta la popolazione richiedente asilo in
una massa omogenea e indifferenziata: “come ha mostrato Marcel Mauss, l’atto di donare non è un
qualcosa di semplicemente meccanico: il dono definisce le relazioni di status e di potere che
esistono tra il donatore e colui che riceve il dono” (Harrell-Bond, in AA.VV 2005 p. 30).
Il dono non è una cosa né un atto individuale, ma si configura già da sempre come relazione
sociale. Nell’interpretazione maussiana l’essenza del dono consiste in un trittico: dare-ricevererestituire come sistema di obblighi inerenti al dono: esso perciò non è per nulla gratuito e
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disinteressato. Ritagliandosi uno spazio tra l’ordine della necessità e quello della libertà, il dono
come relazione e legame consente di affermare la propria soggettività verso un altro (o molti altri)
senza diventare suoi ostaggi.
Il dono è però un gioco sociale complesso, perché mentre espone chi dona alla perdita (il
donatore potrebbe non venire corrisposto), esso coinvolge il beneficiario nello stesso rischio: in
tutte le società chi non ricambia il dono è escluso dal legame sociale. Segue che il donatario è
condotto al contro-dono pena l’annientamento sociale conseguente al fatto di non essere stato al
gioco. Lo scambio conduce cioè verso il punto in cui può innestarsi la dinamica del dono: riesce a
donare solo chi non necessita di una risposta immediata, chi sovrabbonda di qualcosa. Donare
implica, in sostanza, una qualche signoria, ovvero la capacità di un inizio assoluto.
Questo meccanismo è fondamentale per comprendere i meccanismi di vittimizzazione agenti
sui richiedenti asilo e rifugiati: se il riconoscimento della soggettività dell’altro avviene attraverso la
possibilità di restituire il dono e quando ciò non è possibile perché il dono è ridotto ad una merce in
mano a chi può permetterselo in termini di potere e di economia, l’alterità è dalla partenza
estromessa da questo gioco di riconoscimenti. Colui che riceve aiuto – il dono – non ha possibilità
di ricambiarlo perché non è messo nelle condizioni per farlo, in quanto da vittima e da nuda vita è
più facile per le bio-politiche plasmarlo a proprio piacimento riducendo il suo corpo a oggetto da
proteggere, curare, sfruttare ma non riconoscere, perché ciò implicherebbe un cambiamento
dell’ordine sociale e quindi la destabilizzazione dei poteri, in primis quello di “far vivere o lasciare
morire” (Foucault).
Le persone che incontriamo tutti i giorni vivono spesso in una condizione di passività
relazionale che perciò, oltre che a coincidere con le inevitabili difficoltà del primo periodo di esilio,
sono anche, e in modo altrettanto violento, alimentate dalle pratiche e dalle narrazioni di tutto il
discorso umanitario contemporaneo (Mesnard, 2004) che, sulla base della definizione
universalistica ed individualista del soggetto, concede lo status di rifugiato solo a coloro che
rientrano nella condizione prerequisita di “vittima”. La convezione di Ginevra del 1951 prevede
infatti il riconoscimento del diritto di asilo solo nel caso di “giustificata paura di essere perseguitato
per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o opinione
politica”; l’idea di “fondato motivo” è perciò centrale, ma nella pratica l’accesso al diritto di asilo è
concesso solamente a chi è nelle condizioni di potere o di essere capace di produrre per se stessi una
“giustificata” storia traumatica (Vacchiano, 2005). In questo modo la protezione viene concessa
solamente a chi riesce a dimostrare di aver subito minacce, violenze e torture e non solamente di
correre il pericolo di essere violentato o torturato; meccanismo questo che si configura come uno
svilimento del diritto di asilo tout court e un “primato della tortura”.
Nella realtà non è sufficiente essere curdo in Turchia, Oromo in Etiopia, omosessuale in
Sudan o appartenente all’UFC7 in Togo - ovvero appartenere ad una delle classi previste dalla
convenzione - per diventare automaticamente rifugiato, ma è necessario piuttosto essere in grado di
dimostrare di essere stato oggetto di grave pericolo strettamente individuale. La possibilità di
sperimentare direttamente la violenza - non argomentandone i traumi potenziali, ma certificando
quelli subiti – costituisce oggettivamente la vittima e rende la sua domanda di asilo attendibile.
Quella di “vittima” è una categoria in cui oggi ci si imbatte sempre più spesso, sintomo del
suo carattere onnivoro: dai genocidi alle deportazioni di massa, dalle popolazioni costrette a
conflitti armati fino alla disoccupazione e al fumo passivo. Ma l’apparente ovvietà della definizione
richiede uno sforzo critico ancora maggiore; come scrive Federico Rahola, “l’impressione è che in
un campo semantico così vasto si celi un inganno, o meglio un’insidia: il fatto di avere a che fare
con una categoria, al limite giuridica, ma eminentemente morale, e come tale essenzialmente
impolitica” (Rahola, 2005b p. 81).
Le “vittime” sembrano oggi essere quell’umanità in eccesso di cui parla Bauman e che
abbiamo già nominato, dove l’eccesso in questo caso è tutt’altro che impolitico, ma sempre, per
dirla con Spivak, “geopoliticamente situato”: dalle masse in fuga da conflitti e carestie ai corpi
esanimi dei civili afghani, iracheni, kosovari, serbi o palestinesi, colpiti accidentalmente o, peggio
9
ancora, per avere essi stessi confuso una bomba a frammentazione con un aiuto umanitario, fino ai
migranti naufragati nel Mediterraneo. […] Si tratta di individui collocati definitivamente aldilà delle
frontiere statuali-nazionali, e quindi oltre ogni idea di cittadino, la cui vita e la cui morte diventano
irrilevanti, non contano e non si contano – e per i quali la morte, quando incombe, è per lo più
accidente tecnicamente ineludibile, rubricato nel lessico osceno del warfare management come un
“danno collaterale (Rahola, 2005b pp. 81-82)
A questo processo di vittimizzazione concorrono molti degli attori sociali – sia pubblici che
privati – che si occupano dell’assistenza, o meglio della “gestione” biopolitica dei rifugiati.. Le
raffigurazioni delle barbarie naziste – estremo orrore e violenza che l’Occidente concepisce - , così
come di quelle avvenute nella guerra in Bosnia o in Rwanda, influenza la sensibilità di numerose
persone che consumano tali immagini attraverso internet, la televisione o la stampa. L’effetto più
evidente di tale dispositivo è quello di incitare le persone ad aiutare le vittime “attraverso l’offerta
di assistenza finanziaria mentre esse rimangono relativamente sicure di non mettere a rischio nulla
di proprio” ( Veena e Kleinman, 2000 p.1) 8.
Ciò è funzionale alla messa in ombra di un aspetto ben più importante: il rifugiato non ha
accesso alla sfera della cittadinanza se non sotto la forma subordinata di “vittima”, di cittadino a
metà, di non-persona che la violenza passata ha “degradato e disumanizzato” talmente tanto,
evidentemente, da non permettergli di accedere ad una cittadinanza piena e attiva; anche Agier
sostiene che “accolti in nome dei diritti umani dalle ONG nazionali, da quelle internazionali e dalle
organizzazioni dell’ONU, i rifugiati sono assistiti in quanto pure vittime, come se la loro vita
dipendesse unicamente dal loro non “essere (più) nel mondo” (Agier, in AA.VV 2005a p. 61).
C’è anche chi, come Summerfield, ha addirittura parlato di una vera e propria trauma
industry, che tenderebbe a sovrastimare le conseguenze psicologiche del trauma e il numero di
persone che - in conseguenza di esso - necessiterebbero di aiuto psicologico, finendo così tra le
mani di psichiatri e di psicoanalisti. Secondo Summerfield il modello di intervento medico sulle
sofferenze delle popolazioni in guerra ha con il tempo favorito l’emergenza di una industria del
traumatismo che, con le sue pretese universalistiche, si è posto, sotto l’influenza nord-americana,
come la variante più subdola della dominazione occidentale9. Tale intervento, donando parola alle
“vittime” in virtù dell’autorità clinica e nascondendo in questo modo la sua origine morale, ha
contribuito a veicolare una certa immagine della vittima stessa e dell’essere umano in generale, cara
alle agenzie umanitarie che si battono per i diritti umani universali.
“Trauma” diventa la parola-chiave universale per dare senso ad una sofferenza che ha le sue
motivazioni e il suo manifestarsi in contesti tra loro molto differenti. L’efficacia delle categorie
psichiatriche come quelle del “Post Traumatic Stress Disorder” in termini sociali e politici sembra
in questi casi non solo essere inesistente, ma addirittura funzionale a nascondere e celare il carattere
sociale e politico della violenza: “in ragione di quel ‘post’ che allontana lo sguardo dalle sfide del
presente, dalla opprimente provvisorietà della loro condizione e del loro destino, si finisce col
trascurare la rilevanza e l’impatto dello stress nei paesi di arrivo, uno stress che continua a
tormentare gli individui più fragili rappresentando in non pochi casi l’ostacolo più significativo al
ristabilirsi di un equilibrio” (Beneduce, 2003 p. 301). Il PTSD sembra funzionare quasi da
anestetizzante politico e da versante medicalizzato dei processi di vittimizzazione. La
categorizzazione diagnostica sembra essere, nei casi in cui si ha a che fare con persone provenienti
da contesi in cui il terrore e la violenza sono vissuti in modo molto più familiare e quotidiano di
come noi siamo abituati, assolutamente inadeguata, incapace di comprendere le ragioni
dell’individuo sofferente in nome di un rigore causale strettamente clinico.
I modi in cui le persone che incontriamo rispondono alle esperienze di sofferenza vissute sono
infatti varie, ma in molti casi si traducono in indifferenza, apatia, a cui si aggiunge, in modo a volte
non meno violento, lo smarrimento, la declassazione, l’emarginazione, l’indifferenza, la
discriminazione e lo sradicamento che comporta la nuova vita in un paese straniero. La loro nuova
esistenza sociale e legale è legata all’essere sopravissuti alla violenza e alla tortura, all’essere un
corpo, una nuda vita, piuttosto che all’essere cittadini. Ciò vuol dire che l’accesso ai diritti e alle
10
risorse sociali non avviene sulla base della cittadinanza ma dipende dalla possibilità di dimostrare di
essere “vittima”, di aderire cioè alla rappresentazione sociale che l’umanitarismo prevede per loro.
Per questo la massiccia medicalizzazione dei bisogni dei richiedenti asilo è andata crescendo di pari
passo a quella che sottende la logica dell’intervento umanitario, producendo una
decontestualizzazione e una rappresentazione della “vittima” universale e senza spessore politico.
Ma questo “universalismo destoricizzante” (Malkki, 1995), ancora una volta, non basta a
comprendere a pieno l’attuale funzionamento del diritto di asilo . La costruzione della vittima ideale
per le politiche sociali, deve anche fare i conti, come suggerisce Vacchiano, con le intese
geopolitiche internazionali, con i protocolli di intesa transnazionali, con gli accordi bilaterali tra gli
Stati, insomma con le strategie degli organismi governativi che decidono a quali conflitti dare
rilevanza e a quali occultare la portata collettiva (Vacchiano, 2005a). Le politiche di alleanza tra
Stati, le direttive europee, il livello di visibilità pubblica dei conflitti e la risoluzione mediatica
verso una “pacificazione”, pesano sul giudizio di accoglienza del paese ospitante molto di più
dell’essere stati torturati in Turchia, imprigionati ingiustamente in Camerun o ricercati dallo
“squadrone della morte” in Costa d’Avorio.
La contraddizione tra due livelli di intervento concorre alla gestione biopolitica delle persone
esiliate: quello del “diritto internazionale, i sui soggetti sono gli Stati nazionali”, e quello del
“campo umanitario, il cui soggetto è l’essere umano in generale” (Vacchiano, 2005a p. 91). Il diritto
internazionale rappresenta i giochi di forza e di legittimazione politica dei moderni Stati all’interno
di uno scenario in cui la gestione politica del fenomeno migratorio, compreso quello dei richiedenti
asilo, è sempre più affare sovranazionale. Il discorso umanitario invece fa leva su una visione
individualizzante dei soggetti che elimina dal suo sguardo le condizioni di violenza generalizzata e
quotidiana o i disordini creati da manovre strutturali di tipo economico e sociale che hanno impatto
a livello mondiale. Il diritto d’asilo, e quindi la vita di milioni di persone nel mondo, comprese
quelle con cui quotidianamente ci incontriamo, è incastrato qui, tra il diritto internazionale e la
retorica umanitaria.
In questo modo la vittima può facilmente diventare paziente, a opera di una biomedicina che
funziona da vero e proprio dispositivo di cittadinanza e da pratica congiunturale del welfare
moderno che trasforma le norme degli individui in soggetti biopolitici. L’accesso al mondo
occidentale è concesso a chi si adegua ad un profilo che spesso viene trasfigurato in termini medicopsicologici trasformando la violenza politica e la sofferenza collettiva in malattia individuale.
L’umanitarismo gestisce quello che Foucault ha definito un vero e proprio “ordine del
discorso”: la rarefazione degli enunciati, la loro continuità o discontinuità, il loro rapporto, i loro
effetti di verità. Il sapere-potere diventa qui tanatopolitica (Esposito, 2004), governo della vita e
quindi della morte delle persone che tentano tutti i giorni di sfondare quella che è stata definita
“fortezza Europa”. I richiedenti asilo non possono evocare anche condizioni di povertà,
disoccupazione, sfruttamento, instabilità economica: essi devono diventare ben presto abili a
maneggiare il linguaggio della sofferenza che l’umanitarismo impone per poter essere quasicittadini. Così “la storia traumatica costituisce il capitale simbolico del migrante, che esalta la
sofferenza individuale del singolo a dispetto di qualunque altra cosa l’esperienza possa (anche)
essere” (Vacchiano, 2005a p. 92).
La biopolitica e la tanatopolitica a cui facciamo riferimento, lo abbiamo visto, non è tanto
quella classica del Leviatano hobbesiano, quanto piuttosto quella disseminata nei vari decreti
legislativi, negli atteggiamenti delle istituzioni e degli operatori sociali, insomma nella moltitudine
di piccole sovranità: “è dal loro caotico intreccio che motivazioni eterogenee (in qualche caso
inconfessabili) decidono della possibilità che uno straniero irregolare sia o meno curato per lunghi
periodi, del diritto o meno a rimanere di un richiedente asilo (la risposta alla sua richiesta di
regolarizzazione o alla sua ricerca di lavoro dipende allora dalla sua nazionalità, dalla sua “docilità”
presunta, dalla sua religione)” (Beneduce, in AA.VV, 2009 p.77).
Inoltre Foucault stesso ci ha mostrato come la volontà di verità sia uno dei dispositivi fondanti
della nostra storia sociale e come essa funzioni da sistema di esclusione che “sorretta da un supporto
11
e da una distribuzione istituzionale, tende ad esercitare sugli altri discorsi […] una sorta di pressione
e quasi un potere di costrizione” (Foucault, 1972 p. 9). L’opposizione, storicamente e culturalmente
determinata, tra il vero e il falso regola nel caso dei richiedenti asilo le politiche di cittadinanza e di
accesso al sistema di assistenza sociale, appendendo la vita delle persone ad un nesso sapere-potere
violento quanto arbitrario.
È per questo motivo che la questione della “verità” dei racconti dei richiedenti asilo è divenuta
così importante, tanto da rappresentare l’obbiettivo fondamentale delle audizioni delle commissioni
territoriali competenti a giudicare la pertinenza o meno della richiesta d’asilo - detto in altri termini,
se si ha diritto di esistere in questo Paese o no. Si tratta indubbiamente di una “pratica della verità
che riproduce fedelmente umori e diffidenze, diffuse rappresentazioni sociali relativamente a
stranieri e rifugiati, ma anche di una pratica psicanalitica che si è a affermata nel nostro tempo e
nella nostra cultura come scienza degli indizi, guidata da una logica del sospetto” (Beneduce, 2003
p. 94).
All’interno di questa “volontà di sapere” foucaultiana si esaminano le storie dei migranti alla
ricerca di evidenze ed incongruenze: così criteri spesso formali come un errore di data o un
dettaglio mancante, discrepanze fra versioni prodotte a distanza di mesi o anni, vengono interpretati
come contraddizioni, motivando il rigetto della domanda e il conseguente provvedimento di
espulsione. Non sono solo normali reazioni della memoria a eventi successi spesso in un tempo
piuttosto passato, ma anche conseguenze morali e politiche riconducibili a quell’incertezza assoluta
che è la vita dei richiedenti asilo, soprattutto in quel tempo sospeso che si vive aspettando che la
commissione ascolti e giudichi la propria storia, e che ci ricorda, ancora una volta, “come la
memoria costituisca un processo individuale e collettivo ad uno stesso tempo” (Beneduce, 2003 p.
94).
Inoltre bisogna sempre tenere conto che abbiamo a che fare con autobiografie che
difficilmente possono concordarsi con i canoni che è abituato ad usare chi le ascolta – l’operatore
legale o del centro di accoglienza, l’avvocato, lo psicologo, per fare degli esempi – sia perché a
volte si rifanno a schemi diversi da quelli logo-centrici occidentali, sia perché rimandano ad un
eccesso di realtà che inevitabilmente si traduce in discontinuità, buchi, mancanze o anacronismi.
Come suggerisce Laurence Kirmayer, quando le storie differiscono dalle nostre aspettative e dalle
nostre categorie di coerenza, intelligibilità e ordine “abbiamo diverse opzioni: possiamo espandere
la nostra visione del possibile; possiamo interpretare le narrazioni come difettive, indicando
disfunzioni cognitive o alcune altre forme di psicopatologia; o possiamo interrogare i motivi e la
credibilità del narratore” (Kirmayer, in AA. VV, 2007 p. 363) 10. Inutile sottolineare che la maggior
parte delle volte l’orientamento di chi dovrebbe giudicare la pertinenza o meno della richiesta di
asilo non coincide con la prima ipotesi.
“Il mio problema” scriveva Foucault “ è sapere come gli uomini si governano (se stessi e gli
altri) attraverso la produzione della verità”, aggiungendo “per produzione di verità, non intendo la
produzione di enunciati veri, ma la pianificazione dei campi o la pratica del vero e del falso può
essere contemporaneamente regolata e pertinente”. Ciò che coinvolge la vita dei richiedenti asilo è
allora un regime di veridicità, dove a essere messi sotto giudizio sono i loro racconti, le
rappresentazioni di sé e le loro storie.
Il trauma – e con esso la sua codificazione nosografica in “post-traumatic-stress-disorder” – è
diventato il dispositivo di questo regime, identifica nuove verità e, in maniera più globale e diffusa,
invade lo spazio morale delle società contemporanee. Esso lascia impronte durature e nascoste, che
solo uno specialista può individuare: passato il dolore, rimane infatti solo il trauma psichico, più
essenziale e testimone di una continuità. La psyché diventa il banco di prova della verità dei
racconti e della profondità del soggetto, laddove il corpo non è più capace di mostrare i segni della
violenza e della sofferenza.
Sono Fassin e Rechtman ad aiutarci in questa analisi, grazie al loro libro “Empire du
traumatisme”:
12
per la psicotraumatologia dell’esilio, il sospetto crescente nell’incontro con i richiedenti asilo conduce
a fare dell’esposizione del traumatismo una possibilità supplementare di attestare la realtà delle
persecuzioni. Politica della riparazione, politica della testimonianza, politica della prova: in questi tre
casi, non è solamente l’origine di una sofferenza ad essere curata, ma siamo di fronte anche ad una
risorsa grazie alla quale si può far valere un diritto (Fassin e Rechtman, 2007 p. 23) 11.
La salute mentale è diventato uno strumento di regolazione dei flussi di rifugiati; con
l’avvento di misure politiche sempre più restrittive è diventato necessario screditare i racconti del
richiedente asilo, “il suo racconto è sistematicamente messo in dubbio: è quindi il suo corpo a
essere convocato. […] Il certificato medico-psicologico segue due processi: mostra le tracce sui
corpi e istituisce l’esperto come porta-parola” (ivi, p. 377) 12.
Ma il traumatismo non è più limitato alla sola sfera psichiatrica, esso si iscrive dentro il senso
comune, “costituisce un nuovo linguaggio dell’evento” (ivi, p. 18) 13. Ecco qui che ritorna quella
politica del trauma che ci aveva suggerito prima Beneduce: quando un certificato medico attesta il
trauma e i suoi relativi sintomi, quale diritto di asilo e quale tipo di soggettività mette in opera? A
cosa serve il certificato? Per quale beneficio individuale e per quale uso politico? Esso è uno
strumento di valutazione della verità dei racconti al servizio delle politiche d’asilo? “L’oggetto che
rappresenta il certificato medico-psicologico è quindi ben più che il testo scritto su un pezzo di carta
intestata istituzionale: esso è un frammento di storia – quella del richiedente asilo, sicuramente, ma
anche quella del mondo contemporaneo tutto quanto” (ivi, p. 370) 14.
Durante le attività dell’associazione Yousef15, richiedente asilo togolese, torturato nelle
prigioni civili di Lomè, mi chiede aiuto per la preparazione della sua intervista alla commissione
competente per lo status di rifugiato. Dopo aver delineato con lui che tipo di assistenza aveva avuto
fino in quel momento in Italia, chiedo a Yousef se aveva mai richiesto un sostegno psicologico,
perché in tal caso avremmo potuto richiedere una certificazione da poter presentare alla
commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato. Yousef mi risponde in modo
sincero di non aver mai neanche minimamente pensato di poter richiedere un supporto di tipo
psicologico perché mai ne ha avvertito la necessità. Subito dopo però Yousef mi sorride e mi dice
che, se ciò gli avrebbe dato più chances di ottenere lo status di rifugiato e un permesso di soggiorno,
sarebbe andato anche da uno psicologo. Basta raccontare la propria storia, sembrare un po’ depressi,
ed ecco qua il certificato, la prova autentica delle sue sofferenze. Yousef l’ha capito e cambia abito
come può, esercitando la propria agency e muovendo quello che gli viene offerto come unica
modalità di esistenza e resistenza: davanti a me Yousef l’informatico, il ragazzo sportivo e solare,
davanti ad uno psicologo Yousef il sofferente, la vittima ideale, l’effetto in carne ossa dei traumi
passati.
In questi casi non possiamo ragionare in termini di verità o non-verità del racconto di sè, di
autenticità o di finzione, a meno di non arrogarci il diritto di stabilire noi cosa è la verità di Yousef.
Piuttosto siamo spettatori della manipolazione della retorica e della politica umanitaria, dell’abilità
di cambiare a seconda della situazione, di stare sempre in bilico tra più identità, tra racconti di sé
saggiamente dosati, immaginati, pronti per l’uso, ma sicuramente agiti. Se il potere è biopotere,
presa sulla vita, è allora sulla politicizzazione di quest’ultima che si gioca la nuova partita, la nuova
resistenza di una molteplicità di soggetti che, andando oltre il paradigma della nuda vita, lotta per
costruire nuove pratiche sociali come azioni micro-politiche, rimarcando così ogni volta la propria
inesauribile capacità di azione.
Ma non si tratta solo di riconoscere queste modalità come resistenze: nel caso dei rifugiati –
ma potremmo allargare il discorso a tutti i migranti – sono piuttosto delle forme messe in atto per
esistere, dal momento che la loro condizione e la loro presenza è legata, più di qualunque altro
soggetto, alla loro posizione legale. Resistere vuol dire, in questo caso più che mai, esistere. Sotto la
realtà dei poteri e delle istituzioni bisogna riconoscere un moto di micro-resistenze, che generano a
loro volta delle micro-libertà, mobilitando risorse inaspettate, manipolando spazi imposti:
“s’insinuano così uno stile di scambi sociali, uno stile di invenzioni tecniche e uno stile di resistenza
13
morale”, ovvero “un’economia del dono”, “un’estetica dei trucchi” e “un’etica della tenacia” (De
Certeau, 2005 p. 60)
La deformazione del linguaggio vittimista dell’umanitarismo da parte dei richiedenti asilo si
configura come una opera di politicizzazione del quotidiano, del linguaggio, della capacità di
rielaborare la propria storia di sofferenza, le proprie esperienze di violenza, di trarre vantaggio dal
modo in cui il diritto di asilo è stato costruito. È una tattica, come la definisce in modo perfetto De
Certeau,
un calcolo che non può contare su una base propria […]. La tattica ha come luogo solo quello
dell’altro. […] Il “proprio” è una vittoria del luogo sul tempo. Al contrario, in virtù del suo non luogo,
la tattica dipende dal tempo, pronta a “cogliere al volo” possibili vantaggi. Ma ciò che guadagna, non
lo tesaurizza. Deve giocare continuamente con gli eventi per trasformarli in “occasioni” (De Certeau,
2005 p. 15).
La tattica lascia intatti i confini dello spazio imposto ma permette a chi la mette in pratica di
renderlo plurale attraverso una propria creatività.
Lo spazio imposto di cui parlo è quello delimitato dall’assistenzialismo e dall’umanitarismo
che possono essere lette come le due facce della stessa medaglia: mentre il primo ricorda un
paternalismo di stampo coloniale, un moderno “dominio compassionevole” (Ong, 2005) che
trasforma i diritti in questioni burocratiche o di sofferenza individuale, il secondo finisce addirittura,
paradossalmente, con il ridurre al silenzio i rifugiati stessi, cancellando le loro sofferenze,
decontestualizzando la loro condizione e le loro esperienze, astraendole dai contesti violenti e
storici nel quale hanno avuto luogo. L’insieme dei loro discorsi e delle loro pratiche trasforma tanto
la sofferenze delle persone quanto la natura delle risposte assistenziali, costringendo le persone a
diventare malati e pazienti per poter essere riconosciute. Come scrive Fassin, allargando la
questione a tutto il fenomeno migratorio, “lo status privilegiato assegnato al corpo nelle procedure
di legalizzazione e nell’accesso al servizio sanitario ha influenzato negli immigrati la coscienza
della loro identità. […] la società condanna molti stranieri illegali ad esistere ufficialmente solo
come persone malate. È in questo senso che possiamo parlare di incorporazione di una condizione
sociale dell’immigrato” (Fassin, in AA. VV 2006, p. 317).
Le politiche della vita hanno come oggetto la vita nell’ordine della sua esclusione: “è in
quanto ‘nuda vita’, corpi sofferenti e da salvare, mera esistenza biologica che oggi gran parte delle
popolazione mondiale (dagli immigrati irregolari, alle vittime di tortura, ai richiedenti asilo, agli
esclusi delle periferie urbane, alle vittime di catastrofi, ai sopravvissuti del genocidio ecc.) si vede
riconosciuti quei diritti ascrivibili alla cittadinanza” (Quaranta, in AA. VV., 2006 p. 10).
Altro esempio utile: un po’ di temo fà mi capitò di segnalare all’Ufficio Speciale
Immigrazione del Comune di Roma, che si occupa della gestione dei posti nei centri di accoglienza
per richiedenti asilo, Samuel, altro ragazzo togolese sfuggito dal carcere e dalla tortura. La nostra
segnalazione riguardava il fatto che, trattandosi di una persona che aveva passato buona parte dei
suoi ultimi anni in carcere, dentro una cella dove non poteva nemmeno permettersi di alzarsi in
piedi viste le sue dimensioni, potesse godere di un posto letto il prima possibile. Dopo pochi giorni
l’assistente sociale che ha effettuato il colloquio con la persona in questione ci contatta per dirci che
Samuel era sorridente e di buon umore, non aveva niente a che fare con una vittima di tortura, per
cui non c’era bisogno di nessun trattamento particolare. Samuel, ragazzo pieno di vita e di energia,
non ha indossato quel giorno l’abito da vittima e ha perso l’accesso a quello che dovrebbe essere un
suo diritto.
Ciò comporta non solo una passivizzazione delle persone che chiedono asilo, incastrate nelle
categorie di vittima-paziente e di vittima-indifeso, ma anche processi di incorporazione (Merleau
Ponty, 1999; Csordas ) di tali micro e macro politiche. Si tratta di un modello che lega
indissolubilmente malattia, assistenza sociale e diritto di cittadinanza, condizioni economicopolitiche, violenze strutturali degli ordinamenti sociali, e che si pone tra incorporazione della
malattia e incorporazione delle disuguaglianze sociali, tra violenza esplicita e non esplicita che
14
limita i margini di controllo dei soggetti e la capacità di negoziare i termini della loro esistenza. I
richiedenti asilo allora giocano con queste stesse categorie, negoziano le loro storie e i loro racconti
al fine di usufruire dei vantaggi, anche economici, della medicalizzazione (per esempio trattamenti,
posti nei centri di accoglienza, rimborsi, pensioni, finanche il loro stesso status di rifugiati).
La tendenza a ridurre sintomi in segni ha pian piano eroso la forza della loro storia personale e
ha indebolito la verità delle loro esperienze. In questa prospettiva, le dimensioni sociali e politiche
dei racconti scompaiono, diventano l’indizio di più profonde storie, difficili da narrare, correndo
spesso il rischio, dichiarato da Zizek, di costruire una “vittima ideale” coerente con l’ideologia della
teoria psicanalitica. Teoria che sembra vacillare di fronte a realtà intessute di terrore, abuso di
potere, tortura e violenza difficili inoltre da simbolizzare e rendere decifrabili attraverso i classici
meccanismi psicoanalitici.
I processi di vittimizzazione tendono perciò a nascondere questi dispositivi e a considerare il
malessere di cui soffrono i richiedenti asilo che assistiamo non come contraddizioni di un sistema
sociale che lega sempre più welfare e biopolitica, gestione della popolazione e della mobilità e
accesso alle risorse sociali, rappresentazioni dell’immigrazione nel suo complesso e retoriche di
sicurezza del territorio, ma come effetti a lungo termine del trauma, producendo così “cure in luogo
di giustizia sociale” (Vacchiano, 2005a p. 94).
3.
Memoria, soggettività, violenza
Tenuto conto di tutto quello che fin qui è stato analizzato, all’interno delle associazioni Medici
contro la Tortura e Laboratorio 53 abbiamo cercato perciò di lavorare soprattutto nel e sul
“presente” della vita dei richiedenti asilo, cercando di non ridurre i loro bisogni e i loro problemi ad
una origine totalizzante “traumatica” che avrebbe l’effetto di nascondere le sofferenze,
l’umiliazione e i trattamenti “disumani e degradanti” che troppo spesso, le condizioni di vita qui, le
politiche di non-accoglienza e l’impedimento di una piena cittadinanza, comportano.
Ci siamo impegnati a prenderci cura dei disagi di queste persone nell’unico modo per noi
possibile, ovvero cercando di lavorare e stare nella congiuntura tra la violenza della tortura e la
violenza della condizione di vita del richiedente asilo o rifugiato Una prospettiva che spesso è
tralasciata, portando avanti politiche che, concentrandosi su vecchie sofferenze, ne produce di
nuove senza accorgersene. Fassin e Rechtman parlano di un vero e proprio cambiamento di
paradigma intervenuto negli anni ‘90 del secolo scorso, quando l’attenzione si sarebbe spostata
dalla sofferenza dell’esilio a quella della violenza. Il paradigma della violenza, grazie al suo
carattere malleabile, avrebbe poi inglobato tutti gli altri fattori che possono portare una persona a
soffrire, finanche a manifestare disturbi psicotici, e aperto la strada all’attuale traumatismo.
Quelle che incontriamo non sono perciò “vittime”, ma persone, la cui identità – nella
molteplicità e nell’etnocentrismo che questa nozione porta con sé – è stata bersaglio di distruzione
nel suo peculiare rapporto con il mondo (inteso in senso fenomenologico), ovvero con l’insieme
delle relazioni sociali. Troppo spesso si parla di categoria omogenea “migrante” o “rifugiato”. Il
migrante forzato è sempre un uomo, una donna, un togolese, un curdo o un sudanese; è un sarto, un
infermiere, un contadino, un padre, una madre o un figlio, un attivista politico o un analfabeta. Sono
mondi radicalmente diversi che essi ci portano.
Si tratta per noi di costruire insieme quei contesti di narrabilità di cui ha parlato Serrano per
permettere loro di ricominciare ad avere fiducia – nell’altro e nel mondo - e poter ri-disegnare un
proprio progetto di vita desiderabile. Ma spesso noi operatori dobbiamo affrontare la difficoltà di
avere a che fare con fatti passati che ci vengono narrati senza che si possa avere nessuna
informazione diretta, da persone che “sembrano provenire da un territorio incerto della storia e della
geografia: da luoghi che spesso facciamo fatica a immaginare e che talvolta, propriamente parlando,
15
ignoriamo, da vicende i cui termini e i cui protagonisti non conosciamo se non sommariamente.”
(Beneduce, 2003) .
La strategia che dobbiamo mettere in atto in una pratica dell’accoglienza deve allora agire su
due fronti: costruire insieme delle pratiche dell’identità mobili (delle “leve culturali” come scrive
Nathan) e attivare e lavorare sulle differenze, senza mai dimenticare il contesto sociale e politico in
cui i migranti vivono, le loro rivendicazioni e le loro modalità di resistenza. Identità e differenze
non vissute come assolute, omogenee, fisse e monolitiche, ma avendo sempre a mente l’idea di De
Certeau secondo la quale “ciascuna individualità è il luogo in cui si espleta una pluralità incoerente
(e spesso contraddittoria) delle sue determinazioni relazionali” (De Certeau, 2005 p. 5). Tenendo
insieme questi due processi, opposti e speculari, si vuole mettere le persone in grado di riflettere
sulle loro risorse personali dalle quale partire per cominciare a ripensare la propria esistenza e
costruire un senso a quello che hanno vissuto e che vivono, un senso che ha le sue radici e il suo
significato più profondo nella storia e nella memoria. La sofferenza è sempre anche un modo di
resistere, di ricordare, di riattivare la storia, di mettere in luce i rapporti di forza. Per quanto possa
sembrare paradossale, anche il silenzio è una modalità di riattivazione della memoria individuale e
collettiva (Beneduce, 2007).
La modalità della narrazione, del racconto di vita, che non sviluppiamo solo in senso eurologo-centrico ma anzi sfruttando diverse forme di espressione a partire da quelle che portano i
partecipanti al gruppo, rappresenta per noi uno strumento efficace per incrociare processi di
individuazione personale e percorsi di risignificazione collettiva. Se usata nel pieno rispetto della
libertà di ciascuno essa può infatti favorire il recupero ed il consolidamento dei legami microsociali,
nonché di quelli “macro”. La dimensione del raccontarsi risponde alla necessità di costituire,
attraverso la narrazione, un’esperienza sensata, una rappresentazione di sé significativa e
continuativa, in risposta a quella perdita di riferimenti che la migrazione forzata porta con sé e che
chiude spesso l’individuo su se stesso, mettendolo davanti all’impossibilità di ricostruire un senso
ed una soggettività in grado di stabilire nuovamente relazioni sociali. Essa si basa sulla
valorizzazione dell’uomo come soggetto delle sue azioni e delle sue rappresentazioni.
La narrazione in gruppo gioca allora su due piani: da un lato sull’intersoggettività come
condizione del soggetto, dall’altro sull’autoriflessione come condizione della sua indipendenza.
L’invito a entrare in un progetto di narrazione, in quanto percorso di sviluppo, può favorire la
costruzione o il consolidamento dell’una e/o dell’altra di queste due figure. Riscrivere una storia è
sempre costruirla di nuovo, per alimentare una conoscenza e il riconoscimento di sé; il racconto è
perciò sentito come una messa in scena del narratore che costruisce, in funzione della storia, la
scena nella quale egli salta fuori come soggetto in ricerca di un senso che è messo in gioco e agito
all’interno del gruppo (Florence Giust-Desprairies, 2003).
Ma voglio scansare due equivoci che altrimenti potrebbe inficiare pesantemente tutta la
comprensione di quello che vorrei comunicare. Prima di tutto quando parlo di “narrazione” non mi
riferisco né al racconto delle violenze e delle torture subite, né alla restituzione impossibile di un
racconto coerente e sensato tra il suo passato “lì” e il suo presente “qui”. Quando una persona nuova
arriva al gruppo, non chiediamo mai in primo luogo di sapere la sua storia passata, i motivi che
l’hanno costretto alla fuga o che cosa ha lasciato nel suo Paese. Piuttosto cerchiamo di lavorare su
quello che è il suo presente qui, a partire dalle risorse che possono riattivarsi e sulle relazioni che
possono stabilirsi e che dipendono da molte variabili tra di loro collegate: genere, età, istruzione,
stato sociale di provenienza, religione, ecc. Operazione non meno pericolosa e difficile, poiché
mette comunque la persona di fronte al fatto di trovarsi “qui” e non più “lì” e potrebbe farla sentire
nuda rispetto al mancante che ha lasciato.
In secondo luogo quello che pensiamo sia importante non sono tanto i significati dei racconti,
quanto ciò che viene messo in gioco nella loro espressione: è il senso di ciò che viene detto nello
spazio intersoggettivo costituito in e attraverso lo spazio della messa in scena, e che comprende
operatori e utenti insieme.
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La realtà presentata nel nostro gruppo è piuttosto quella della vita, sia di quella vissuta nel
Paese d’origine sia di quella vissuta in Italia, nella quale il piacere e la sofferenza trovano lo spazio
per esprimersi, ma anche quello dell’immaginazione, della riflessione, del gioco. Attualizzare e
svelare queste scene, che di nuovo diventano immagini e significati, favorisce un lavoro di
elaborazione. In questa prospettiva l’autonomia non può essere considerata come una condizione
slegata rispetto ai rapporti con l’altro ma identifica un processo di apertura delle relazioni,
attraverso lo sviluppo di un’interiorità, una forma di presenza a se stessi, capace di sopportare
l’esperienza della perdita, del limite, delle difficoltà, e di favorire la formazione di una memoria
condivisa che rigenera lo spessore del gruppo stesso.
Il passaggio dall’isolamento, dove la percezione di sé è minacciata, alla messa in scena di una
rappresentazione collettiva crea inoltre le condizioni di una dilatazione comprensiva dei giochi di
reciprocità e delle dinamiche delle situazioni affettive e sociali, offrendo uno spazio possibile per il
racconto in gruppo, là dove si sperimenta il vuoto di un’assenza di discorso comune. In questo
modo si può favorire la condivisione, potendosi ognuno rappresentare in rapporto con gli altri e in
reciproco riconoscimento.
Lavorare sul senso di “casa” e di “memoria del tempo presente” non è quindi immaginare o
fantasticare su una pacificazione impossibile: è piuttosto trovare un luogo – inizialmente straniero,
quello ospitante – in cui si possa restituire quello che si è dopo che si è stati attraversati da
esperienze spesso indicibili. Uno spazio in cui si realizzi, scrive Nathan, da qualche parte e in
qualche modo una “eccedenza di densità” del proprio vissuto comunicabile e testimoniabile ad una
comunità. Eccedenza che ricomprende l’esilio non o non solo in termini di privazione ma anche e
soprattutto nella direzione di un di più – vivere più di una casa, più di una lingua, più di una cultura,
più di un legame - delineando così un futuro possibile in faccia a uno, quello da cui si fugge,
invivibile.
La creatività è perciò un altro dei pilastri della nostra metodologia; non essere creativi, nel
lavoro sociale, significa affrontare i problemi in modo amministrativo, ovvero, in ultima analisi,
rinforzare la quotidianità anziché modificarla. Lo sforzo consiste invece nel rendersi sensibile alle
circostanze per far emergere il potenziale inespresso e provare a riformulare i problemi in contesti
sempre più larghi, nel tentativo di riaprire l’azione a una funzione generativa e costruttiva. È questo
quello che tentiamo di fare, riattivando innanzitutto le modalità di espressione di ciascuno a partire
spesso dal campo extraverbale, soprattutto in considerazione delle difficoltà linguistiche degli
utenti. Ciò vuol dire alleggerirsi, ogni tanto, del peso della lingua per trovare canali comunicativi, di
espressione di sé e di condivisione spesso inesplorati ma che si rivelano invece facilitatori di
relazioni e di autoesplorazione.
Tali canali si configurano in questo modo come un intervento di aiuto e di sostegno alla
persona attraverso una mediazione non verbale che utilizza i materiali narrativi come sostituzione o
integrazione della comunicazione verbale, nella relazione di gruppo. L'intervento si svolge
attraverso un percorso in cui la persona è protagonista di quanto avviene: i richiedenti asilo o
rifugiati vittime di tortura esprimono contenuti personali (ricordi, sensazioni, sogni, desideri,
emozioni), attuando un riconoscimento di sé e della propria presenza in grado di lasciare una
traccia. Inoltre, nel momento in cui le sensazioni si traducono nell'oggetto creato – la narrazione -,
avviene un processo di autocomprensione più profonda: il riuscire a raffigurare immagini,
sentimenti ed emozioni, permette di poterli osservare come qualcosa di staccato da sé. Ecco allora
che anche nelle immagini più cariche di sofferenza e di angoscia si crea uno spazio di comprensione
storica, che può essere di aiuto all'individuo nella ricerca di nuove modalità di interazione tra il
proprio mondo interno e il mondo relazionale esterno.
All’interno del percorso di cura nell’accezione più ampia del termine, che ne strappa il
primato alla medicina psicologizzante, allora la ricostruzione della storia personale, il suo
riconoscimento socio-politico e giuridico, la restituzione dello spessore molteplice dell’identità
della persona in terra d’esilio, e il lavoro sulle memorie individuali e collettive, emergono come
primi passi di resistenza alla violenza antropogena subita. In questo modo la “tortura” comincia a
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perdere la connotazione essenzialista che molti le attribuiscono e cessa di essere uno sfortunato
“caso” per essere letta invece nella sua complessità, in un contesto in cui spesso la violenza, il
dolore e la sofferenza rappresentano situazioni maggiormente abituali rispetto a quello che siamo
abituati ad esperire.
Non è possibile per noi prendersi cura di richiedenti asilo che hanno subito torture senza
tenere sempre bene a mente che abbiamo a che fare con un ordine di problemi che, ancor prima di
essere teorico, epistemologico, di assistenza sociale, è propriamente politico – contrapponendoci in
questo in blocco all’impolitico dell’umanitarismo. Abbiamo imparato bene cosa vuole dire
sostenere una persona che ha visto rifiutarsi il suo status di rifugiato, che vive per strada o in un
centro di accoglienza o che intraprende ricorsi legali lunghi, estenuanti e dall’esito incerto.
In questo ci è venuto d’aiuto con il tempo una certa etnopsichiatria, in particolare quello
stimolante e duro – anche se per molti estenuante – dibattito che in Francia ha visto contrapporsi in
modo netto l’approccio terapeutico di Tobie Nathan e quello critico di Didier Fassin.
Come è noto a molti, Fassin, medico e antropologo, ha pubblicato nel marzo 2000 sulla rivista
“L’Homme” un articolo che prendeva di mira in modo molto diretto le posizioni di Nathan e in
generale l’approccio del Centre Devereux. Fassin paragona Nathan a Carothers, psichiatra inglese di
origine sudafricana che negli anni ’50 lavorò in Kenia anche per conto dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità. Egli appoggiò, con le sue ricerche sulla “mente e cultura africane”, il
governo britannico coloniale al fine di tenere sotto controllo il movimento nazionale dei Mau Mau
che poi portò il Kenia all’indipendenza. Descrisse e diede gli strumenti per comprendere i vari
rituali violenti e i sacrifici a cui dovevano sottoporsi i nuovi membri del movimento, al fine di
incutere paura e scoraggiare chi aveva intenzione di prendervi parte. Carothers descrisse l'esistenza
di certe patologie “culturali” presso i Kikuyu, che dichiarò essere le reali cause della rivolta, a cui
sottrasse pertanto ogni valore politico e di cui legittimò la repressione16.
Si tratta quindi di accuse che pesano quelle che Fassin muove e Nathan. La creazione di
patologie culturali laddove si dovrebbero leggere rivendicazioni politiche sarebbe la stessa
operazione cha fa Nathan nel suo approccio etnopsichiatrico, stimolando la chiusura culturale dei
mondi dei migranti e la creazione di ghetti funzionali al sistema post-coloniale. Proprio come
Carothers aveva fatto gli interessi della colonizzazione occultando i motivi socio-politici della
rivolta e coprendoli con elementi psicologici e culturali, così Nathan occulta il conflitto sociopolitico-economico che sta alla base del disagio dei migranti. Così come Carothers proponeva come
soluzione la “villagizzazione” dei Kikuyu in unità piccole, isolate, lontane dalla città e dalla
modernizzazione, Nathan risponderebbe ai disagi dei migranti chiudendoli con i loro oggetti nei
villaggi di origine, territorializzandoli, offrendo così il razionale psicologico alle politiche razziste e
xenofobe.
Questo approccio risulta quindi essere il versante culturalista, buonista e attratto dal fascino
per l’alterità del passato dominio coloniale, che usava il materiale sociale e culturale delle ricerche
antropologiche – spesso con la complicità degli antropologi stessi – a fini politici e di repressione.
La differenza appena citata tra la sofferenza dell’esilio e il traumatismo della violenza – che fa da
spartiacque nel senso comune tra migranti economici e migranti forzati – avrebbe portato la nuova
etnopsichiatria a sostenere un approccio essenzialista all’alterità che si basa sulla possibilità di una
esperienza comune della sofferenza da parte di una cultura, intesa come omogenea e sempre uguale
a se stessa, all’interno di una visione della cittadinanza che divide i cittadini relegandone taluni a
serie A e altri a serie B, svantaggiati socialmente, meno tutelati e titolari di diritti “speciali”. Fassin
sembra attaccare Nathan nello stesso punto in cui tanta antropologia ha attaccato Lévi-Strauss: il
fascino per la differenza porta a voler preservare a tutti i costi la differenza stessa, senza tenere
conto del contesto nel quale essa si inscrive, delle relazioni politiche e di forza, delle condizioni
sociali, riperpetuando le violenze strutturali della società e quelle più specificatamente legate alla
gestione dei flussi migratori e dell’accesso alla cittadinanza.
A sua argomentazione, Fassin riporta una frase di Nathan, che dovrebbe riassumere in sé tutti i
punti dolenti del pensiero e della pratica etnopsichiatrica: “Per me, l’etnopsichiatria fa parlare la
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cultura al posto del soggetto. Non si ascolta il paziente. Non è il soggetto, ma un oggetto di ricerca
che ha il nome di paziente”. In questa sostituzione del soggetto con la “cultura” Fassin vede la
cancellazione del soggetto stesso, un processo pericoloso di “culturalizzazione del politico”, che
legge in termini culturali processi e dinamiche che sono invece da leggere in termini di forza,
potere, disquilibrio di risorse e del loro accesso, incorporazione di dinamiche sociali.
Le critiche di Fassin sicuramente colgono in pieno alcuni punti controversi della pratica
nathaniana, che tende a non prendere in seria considerazione le condizioni socio-politiche di vita dei
migranti nelle società di arrivo. Eppure, proprio Nathan scrive in merito al legame tra antropologia
e dominio: “si vuole una psichiatria che si potrebbe definire culturalmente rischiarata, illuminata
(ecleree). Ma una psichiatria dopo tutto utilizza i contributi antropologici per rendere la psichiatria
possibile con delle popolazioni che poco hanno nelle loro tradizioni che le predisporrebbero a
questo genere di pratiche. In verità questa psichiatria consacra il legame fra antropologia e
conquista, poiché domanda all’antropologia di darle quelle conoscenze che le permetterebbero di
penetrare per sé, di passare attraverso le difese che queste popolazioni oppongono alle pratiche
psichiatriche occidentali”(Nathan, in AA.VV 2000 p. 37). Piero Coppo difendendo la posizione di
Nathan, sostiene che quest’ultimo, tra individuo e comunità abbia scelto la comunità proprio per
contrapporsi ad una psicologia occidentale che isola gli individui per rendere maggiormente
efficace il dispositivo di cura che essa stessa ha creato, ovvero quello duale della psicoanalisi,
cancellando così con un colpo solo tutti i riferimenti che ciascun gruppo umano ha rispetto al
visibile e all’invisibile (la famiglia, i viventi, gli antenati e i discendenti, gli spiriti, ecc…). “Anche
questa è una scelta, una scelta politica appunto […]. – scrive Coppo - Se i progetti delle agenzie
internazionali privilegiano le azioni che dissolvono i legami tradizionali delle comunità per istituire
gli individui in modo che sia possibile l'impianto del capitalismo competitivo, psicologizzare, e cioè
modernizzare la percezione di sé, orientare nella direzione dell'interiorità e dell'individualismo
psicologico un modello antropologico altro attivo in un determinato etnòs significa fare azione
politica” (Coppo).
Quale è allora la posta in gioco? Di nuovo ci troviamo a che fare con il rapporto tra cultura,
politica e violenza, o meglio del significato politico dei dispositivi di cura e assistenza. Fassin
ricorda come la psichiatria dell’immigrazione – ma noi estendiamo l’analisi, come abbiamo fin qui
fatto, a tutta la gestione “psico-sociale” dei migranti – si sia costituita, a partire dagli anni ’50 del
Novecento in particolare su due figure in due momenti storici differenti: l’indigeno nell’epoca
coloniale e lo straniero nel mondo post-coloniale. Molte persone che oggi si occupano a vario titolo
di assistere migranti – operatori sociali, avvocati, psicologi, assistenti sociali, ecc. - non sono
consapevoli di questo legame storico di dominio e ripetono con sorprendente facilità modalità di
rapporto tipiche di un dominio coloniale prima e post-coloniale dopo.
Nel nostro quotidiano lavoro con richiedenti asilo e rifugiati ci siamo accorti che quello che
definiamo “cultura”, è qualcosa che ogni individuo maneggia e vive in modo differente: può essere
un aspetto che la persona tende a proteggere e a rivendicare, così come può essere vissuto come un
pesante fardello, che nella società d’esilio produce identità intollerabili, che non si vuole attivare,
che non si ritiene siano adatte al nuovo contesto di vita o che comunque producano una angosciante
sofferenza.
Questo significa per noi innanzitutto una cosa: i propri riferimenti culturali non rappresentano
mai qualcosa di contingente o di secondario, un qualcosa in più da considerare nei processi di cura.
Quello che ci siamo posti è, piuttosto, di lavorare su questi elementi, per renderli dei dispositivi
capaci di attivarsi o disattivarsi a seconda delle situazioni, senza doverli necessariamente e
dolorosamente estromettere o intromettere dal proprio nuovo percorso di vita. Si tratta di una
modalità che, come dice bene Beneduce, “non sa quando funziona bene che cosa sia la cultura, non
può saperlo. La cultura dell’altro sta sempre un po’ al di qua, o un po’ al di là di dove ce
l’aspetteremmo, perché se ne fa lui qualcosa” (Beneduce, in AA. VV 2000, p. 39).
La violenza della tortura ci pone anche di fronte all’impossibilità di assumere in modo
semplicistico l’idea di una “cultura” e di una “comunità” che valgano sempre e comunque come
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risorsa e a quanto dobbiamo sforzarci di ricostruire – proprio a partire dalle differenze personali e
dalle individuali capacità di affrontare esperienze dolorose – la possibilità di un diverso rapporto
con i propri contesti culturali di provenienza: un rapporto che renda questi ultimi ancora
“pensabili”. Allo stesso modo la storia a volte si rivela essere una “risorsa insufficiente”
(Appadurai, 1981), alla quale i richiedenti asilo e rifugiati non possono attingere liberamente, pena
il riattivare dolorosi ricordi e riaprire ferite che spesso si vogliono tenere chiuse.
Questi discorsi assumono una peculiare importanza nel momento in cui si ha a che fare non
solo con migranti, per lo più forzati, ma con persone che hanno subito violenze e torture.
Fondamentale diventa allora il plesso memoria-cultura-violenza.
Beneduce, riprendendo la nozione di “stato di guerra” di Mbembe, mostra come la violenza
bellica che caratterizza conflitti come quelli in Repubblica Democratica del Congo o in Liberia,
diventa spesso la premessa e la giustificazione di un diritto scontato e generalizzato ad esercitare un
potere di morte, individuale quanto collettivo. Gli effetti del vivere in questi contesti si ripercuote
poi nella fragilità delle persone che incontriamo, che, anche a distanza di anni e di migliaia di
kilometri, si sentono esposti alla minaccia di ritorsioni, assediati, o preoccupati dall’idea di poter, un
giorno o l’altro, essere riconosciuti da un loro connazionale.
Questo orizzonte ci permette di evitare un rischio: assumere che la decomposizione
dell’ordine sociale, le atrocità di massa, la tortura o le violenze macabre che le hanno
contraddistinte costituiscano un’anomalia, un’eccezione. Usando invece le parole di Agamben,
potremmo dire che la violenza trova un terreno fertile nel momento in cui lo stato di eccezione
diventa norma, annientando ogni senso logico, sospendendo la possibilità di comprensione storica
degli eventi, inchiodando le persone ad una angoscia che li sradica dalla capacità di spiegare i fatti
con gli ordinari codici sociali e culturali.
Ma non è solo l’identità soggettiva e individuale – la psyche come costruzione culturale della
psicologia occidentale - ad essere colpita dalla tortura, è anche e soprattutto l’identità come nodo
relazionale e sociale ad entrare in una crisi profonda. La violenza si scopre, come elemento estremo
della relazione umana, nella forma della negazione e della fagocitazione dell’altro; ma ciò vuol dire
che essa non è un accidente, qualcosa di eccezionale all’interno della condizione umana e delle
culture che viene a scombinare l’esistenza ordinaria, ma al contrario un elemento strutturale delle
società e delle relazioni interpersonali. Nella cura delle persone che frequentano le nostre
associazioni, dobbiamo considerare la violenza di cui sono state oggetto non solo come atto
distruttivo che cancella e annienta, ma anche come pratica “positiva”, come ci esortava a fare
Foucault nei confronti di qualsiasi potere. “La violenza produce pratiche, ‘economie’, memorie e trasformazioni psichiche” (Beneduce, in AA.VV 2005a p. 11) che dobbiamo essere in grado di vedere e comprendere. Nelle pratiche di tortura l’ideologia della morte di cui parlava Basaglia ha dunque la sua linea
di colore nella disumanizzazione dell’altro, nello smembramento del suo corpo, oppure
nell’impossibilità di compiere il seppellimento rituale dei morti come modalità di produrre certezza
sui confini tra i gruppi. Ogni logica deve essere spazzata via, in modo tale da produrre un terrore
esperibile solo al di fuori di qualsiasi ordinaria esperienza: nessuna possibilità di ricostruire un
possibile senso deve essere lasciato alla vittime in modo tale da assicurare un “successo traumatico”
molto più longevo della durata delle pratiche stesse.
È per questo che gli elementi antropogeni e intenzionali sono quelli più devastanti delle
pratiche di tortura perché sono un evento intersoggettivo nel quale la violenza è prodotta da un
uomo su un altro uomo, ed è prodotta volontariamente. Questo aspetto che può sembrare scontato è
in realtà un elemento particolarmente importante per capire quanto il trauma possa essere profondo
e reiterato nel tempo: il fatto che il dolore sia stato inflitto deliberatamente da un altro uomo rende
la tortura un’esperienza-frattura, un vissuto che eccede la capacità di rappresentare, narrare,
restituire a un senso condiviso. Eccede perché la capacità di rappresentare e comprendere il
significato di un evento a cui si partecipa dipende dalla posizione di soggetto all’interno
dell’evento, mentre nella tortura è proprio questa posizione che si viene a perdere, nel momento in
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cui si è ridotti ad oggetto, a corpo, a nuda vita nelle mani dell’altro che ha il potere di “lasciar
morire o far vivere” (Foucault, 1985).
Questo dispositivo produce una sorta di “anestesia morale” (Beneduce, 2003) nei confronti
delle persone torturate che rimangono spesso come sospese o fisse in uno stato esistenziale di
disorientamento, incapaci di dare un senso a quello che hanno subito, il cui carattere assurdo e
gratuito sembra impedire qualsiasi possibilità di analisi storica, producendo così un terreno fertile
per una violenza generalizzata, ritualizzata e spettacolarizzata. C., richiedente asilo beninese,
vittima di un macabro rituale voodo, aiutata dalla nostra associazione a ricostruire la sua storia di
persecuzione ai fini dell’audizione alla Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato,
ci ha riportato un racconto in cui l’uso delle maschere era funzionale proprio a segnare
simbolicamente l’incertezza, la confusione tra differenze e appartenenze, tra vittime e carnefici, la
uncertainty di cui sopra ha parlato Appadurai. Paradossalmente, si tratta di esperienze in cui rimane
solo il corpo a produrre senso, continuità e resistenza, sia nel là della violenza che nel qui della
richiesta di protezione.
Stiamo parlando di persone che hanno conosciuto la disumanità dei loro torturatori, l’inganno
dei loro amici o l’indifferenza dei loro vicini, la paura dei loro familiari, il cinismo dei loro
aguzzini, l’impotenza generalizzata (propria e altrui) a opporsi alla logica di annichilimento che
domina nei contesti dove la violenza è diventata ormai “un modo di vita”. La disumanità dell’
“altro” è diventata la propria umiliazione, il proprio dolore fisico, la propria disumanizzazione; la
memoria è come una piaga viva: quelle esperienze hanno generato un’altra incertezza, quella sulla
propria umanità e sul significato stesso di questa parola.
L’anestesia che li sovrasta è però il prodotto non solo di una lotta contro i propri disturbi,
contro l’assedio di una memoria feroce, ma anche contro i problemi concreti dell’asilo politico,
contro l’indifferenza delle istituzioni e della sopravvivenza. La violenza che incontrano nel nostro
Paese, che li incastra in stereotipi della vittima, del bisognoso, del povero, dell’assistito, non è forse
meno strutturale di quella da cui scappano. È sorprendente sentire come molte persone scappate da
contesti di violenza generalizzata avvertano la loro vita nel nostro paese ancora una volta e, per
questo ancora di più, disumana, degradante, offensiva. Dai centri di accoglienza che assomigliano
più a dei dormitori-parcheggi alla fila quotidiana per poter mangiare, dalla razzializzazione dei loro
corpi (Foucault, 1998; Fassin 2006) alle politiche paternalistiche, dalla sensazione di “vita sospesa”
dovuta ai tempi morti del sistema burocratico al misconoscimento di una cittadinanza piena ed
attiva, le parole che più ricorrono dalle loro bocche sono due: “vita difficile”.
D’altronde i richiedenti asilo che conosciamo chiedono in fondo nient’altro che una vita
“normale” e la scommessa per noi è di intendere per normale il giusto. Chiedono una vita giusta in
un Paese un po’ più giusto del loro. A., richiedente asilo curdo iraniano, che frequenta le nostre
attività, impazzisce quando si ritrova scaraventato dalla parte dell’ingiusto. La Commissione non ha
ritenuto la sua storia credibile e A. ha iniziato un ricorso al Tribunale Civile che non sa quanto
durerà né che esito avrà. Deve solamente aspettare, inghiottito nel frattempo nel mercato nero del
lavoro e nelle sue insidie, mentre si convince sempre più che questo è quello che si merita perché
lui è segnato dal marchio dell’illegalità e nell’illegalità deve soccombere. Colpevole due volte, per
aver lasciato la sua vita là e non esser stato degno di un’accoglienza qua. Non riconosciuto e non
creduto – A. si sente impazzire quando capisce di essere non creduto.
Con le persone che incontriamo cerchiamo perciò di creare dei luoghi dove poter nuovamente
parlare, raccontare la Storia, esserne di nuovo soggetti, piuttosto che spettatori passivi, degli “spazi
narrativi come forme territoriali dell’agire sociale e dei suoi conflitti” (De Certeau, 2005 p. XV):
ciò si rivela una strategia decisiva, soprattutto per chi ha visto il proprio nome cancellato dalla
Storia, ovvero dal proprio mondo sociale, e vive come umanità in eccesso, a volte invisibile, a volte
invece troppo visibile, per conto di una macchina mediatica e di politiche che lo stringono tra le
categorie di “vittima” e di “clandestino”. Ritornare padroni della propria storia individuale, passata
e presente, e riattivare allo stesso tempo memorie collettive, trovare persone pronte a condividere ed
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ascoltare queste narrazioni, permette di percepire il futuro come nuovamente “agibile” e non solo
più “agito”.
È un tentativo di impedire che le violenze – tengo a ribadirlo, passate e presenti - possano
reiterare continuamente il processo di vittimizzazione, schiacciando la persona nel ruolo di vittima,
desoggettivata, impotente, vergognosa, isolata; “per i rifugiati agire e prendere la parola nei luoghi
dell’esilio significa rifiutare la vulnerabilità come cura della vittima pura e senza nome […] I
dislocati e i rifugiati cessano di essere tali non quando ritornano ‘a casa’ ma quando, in quanto tali,
lottano per il loro corpo, la loro salute, la loro socializzazione: allora, cessano di essere le vittime
che la ‘scena umanitaria’ presuppone, per diventare soggetti.”(Agier, in AA.VV., 2005a pp.6163)17.
È la produzione di nuove comunità immaginate (Anderson) ad essere influente nel nostro
caso, una memoria collettiva da costruire che non si basa solo sulla condivisione di un passato di
violenze o torture (il che è del tutto illusorio dal momento che ogni storia deve essere letta
all’interno del contesto nella quale ha preso vita) ma di un presente di esilio e di nuova cittadinanza.
Pensare la sofferenza come universale, vorrebbe dire infatti utilizzare il modello dei promotori del
PTSD, che indicano il traumatismo come categoria che fa della sofferenza un elemento senza
frontiere e differenze culturali, una lettura universalista della migrazione e della violenza basata su
una visione differenzialista che Fassin ritrova anche nell’etnopischiatria di Nathan.
Se la sofferenza è comune tra le persone che fanno parte del nostro laboratorio di accoglienza,
l’evento che ci caratterizza è la rilettura della storia e delle vicende presenti e “se sul piano
sociologico e politico lo spazio vissuto dal rifugiato è, a priori, un luogo o un vuoto, nella realtà
questo spazio si riempie di relazioni, quelle stesse relazioni che sono create dall’intervento
umanitario e dalla formazione degli spazi-tempi dei rifugiati” (Agier, in AA. VV., 2005a p. 61). Il
tentativo è allora quello di lavorare in questo luogo di relazioni in un modo peculiare: se la lettura
psicoanalitica del traumatismo fa riferimento al collettivo solo attraverso l’intermediario
dell’individuale, noi cerchiamo di compiere un doppio andirivieni: dall’individuo al collettivo e dal
collettivo all’individuo, affinché la storia di ognuno non sia una testimonianza individuale quanto
piuttosto uno degli elementi di nuove traiettorie identitarie.
Questo punto merita una precisazione: quello che le nostre attività di gruppo vogliono
realizzare non è quella che Vinh-Kim Nguyen chiama forme di “biosocialità” (Nguyen, in AA. VV.,
2006), riferendosi ai gruppi di auto-aiuto di origine nord-americana che hanno attualmente in
gestioni diversi fondi per l’HIV in molti paesi africani (Costa d’Avorio, Bukina Faso, Guinea, ecc.)
e il cui principale obbiettivo è la legittimazione di una esperienza condivisa nei termini di una
malattia. Al contrario, il tentativo è proprio inverso, ovvero va nella direzione di una demedicalizzazione dei propri vissuti, di una de-traumatizzazione del proprio passato e del proprio
presente, affinché sempre più la propria posizione non sia vincolata da modalità e linguaggi biomedici, ma da una presa soggettiva sulla propria realtà e da nuove forme di cittadinanza.
A questo punto è nuovamente utile chiedersi con Fassin: “è necessario essere traumatizzato
per aver riconosciuto lo status di rifugiato? La diagnosi dello psicologo o dello psichiatra può non
solamente attestare la verità di un racconto, ma affermare la verità di una storia?” (Fassin e
Rechtman, 2007 p. 394)18.In questo caso si tratterebbe ancora una volta di una violenza etica ed
epistemologica, che azzittisce l’altro e pretende di parlare al suo posto, anche laddove la
certificazione medica può testimoniare – con risultati positivi, dal punto di vista del riconoscimento
legale – senza per questo esprimere la verità del richiedente asilo. Questi, più la sua parola si trova
devalorizzata, più si trova costretto a mettere la propria storia nelle mani esperte di medici e
psicologi, alla ricerca nel corpo o nella psyche delle violenze subite nel passato.
In conclusione possiamo dire che il traumatismo, la logica umanitaria e l’assistenzialismo
spersonalizzante producono una vittima-utente ideale, indeterminata nella sua essenza, universale
nel proprio essere nuda vita. Una pratica che, dichiarandosi super partes finisce per depoliticizzare
non solo se stessa, ma la sofferenza delle persone che dice di accogliere e proteggere, rivelando in
toto la sua natura di strumento di gestione biopolitico. L’unico modo per curarsi delle vittime
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sembra essere cancellare la natura sociale, violenta e politica di quello che hanno vissuto e che
vivono, tenendo sempre in una lontananza gestita la loro sofferenza, costruendo confini che
riducono sempre, nel migliore dei casi, i soggetti di diritti in oggetti di assistenza.
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L’analisi dell’ultima opera di Merleau-Ponty, “Il visibile e l’invisibile” ci offre due importanti strumenti per
analizzare il nesso tra corpo, mondo – inteso in senso fenomenologico -, violenza e politica. Il primo termine è quello di
carne attraverso il quale si supera la dicotomia sartriana del rapporto tra per sè e in sè, tra soggetto e oggetto, per
giungere a una condizione dell’essere che è condivisa tra l’uomo e il mondo. L’uomo e il mondo sono fatti della stessa
carne, segnano una continuità dove il soggetto è contemporaneamente oggetto, senziente e sentito, toccante e toccato.
L’altro termine è quello di “chiasma”: il soggetto carnale non si riduce totalmente al mondo esterno diventandone un
prodotto come un altro. L’uomo organizza la sua esistenza attraverso un rapporto di reciprocità col mondo, ma il mondo
non si riduce alla sua connotazione visibile e concreta; il rapporto tra la visibilità del mondo e questa dimensione
invisibile fatta di relazioni, forze energetiche, movimenti intensivi, viene definito “chiasma”, intendendo la reciproca
necessità e complementarietà, ma soprattutto l’impossibilità di districare una delle due dimensioni dall’altra.
Se l’uomo e il mondo sono fatti della stessa carne, allora il legame tra violenza e cultura non è semplicemente
contingente, ma strutturale.
2
Paul Farmer intende per violenza strutturale quella violenza anonima, senza un attore sociale preciso che la attui, che
nasce dalle disuguaglianze sociali e dall’organizzazione sociale stessa e che si traduce in patologie, miserie, diversità di
accesso a cure mediche e sociali, ecc. “Se la violenza strutturale affonda le sue lame attraverso la limitazione della
capacità di azione dei soggetti che occupano le posizioni più marginali all’interno di contesti segnati da profonde
disuguaglianze sociali, ecco che l’infezione dal HIV, la tubercolosi, la violenza politica e di genere, le discriminazioni
razziali vengono a configurarsi come specifiche modalità in cui la sofferenza sociale si materializza nella vita delle
persone, come incorporazione individuale di più ampi processi sociali: la natura viene così socializzata, il corpo emerge
a processo storico, il rischio statistico e un beffardo destino si trasformano in responsabilità politica e l’impegno
dell’antropologo va oltre l’esame dei mondi morali locali per ergersi a strumento di critica politica e di azione
trasformativa” (Quaranta, in AA. V., 2006 p. 7).
3
“All of these theorist have in one way or another suggested that the modern system of nation-states requires study,
not just as political system narrowly understood, but as a powerful regime of order and knowledge that is at once
politico-economic, historical, cultural, aestethic and cosmological” (Malkki 1995, pag. 12).
4
Per fatto sociale totale, Marcel Mauss intendeva specifici fatti in grado, da soli, di convogliare una gran quantità di
altri fenomeni coinvolgendo globalmente la società. In tal modo diventava possibile porre l'attenzione non ad una serie
di rappresentazioni collettive, quanto ad un singolo fenomeno, in grado, però, di dar conto del modo in cui veniva
strutturata la società da parte dei suoi membri. In virtù della complessa rete di rapporti che sottintende, nel fatto sociale
totale entra in gioco l'insieme dei fattori costituenti la realtà di un gruppo umano nella sua organizzazione sociale.
5
“Danse ce contexte où l’image politique deu rifugi se trouve prise entre une figure menaçante et une figure pathétique,
le XX siècle a été marqué par l’institutionnalisation del leur assistance sous ce double registre de la préservation des
sociétés nationales contre ce danger potentiel et de la protection des victimes de persécution de plus en plus
nombreuses”.(Fassin e Rechtman, 2007 p. 377).
6
“Asylum states and international agencies dealing with refugees, as well as much of the policy-oriented, therapeutic
literature on refugees, tend to share the premise that refugees are necessarily “a problem”. Not jus “ordinary people”,
they are constituted, rather, as an anomaly requiring specialized correctives and therapeutic interventions. It is strictly
how often the abundant literature claiming refugees as its object of study locates “the problem” not first in the political
oppression or violence that produces massive territorial displacement of people, but within the bodies and minds of
people classified as refugees” (Malkii, 1995 p. 8).
7
UFC sta per Union des Forces de Changement, attuale partito di opposizione in Togo, i cui membri sono
costantemente e segretamente perseguitati, minacciati e talune volte imprigionati e torturati.
23
8
“ They may be moved to help by offering financial assistance while remaining relatively secure that they risk nothing”
(Veena e Kleinman, 2000 p.1)
9
È proprio per queste sue posizioni estreme che Summerfield è stato duramente attaccato da molte “vittime”:
accusando il traumatismo come modello di dominio occidentale, egli avrebbe negato l’autenticità delle loro
sofferenze.
10
“When stories deviate from our expectations for plausibility, intelligibility, order, and coherence, we have several
options: we can expand our vision of the possible; we can interpret the narratives as defective, indicating cognitive
dysfunction or some other form of psychopathology; or we can question the motives and credibility of the narrator”
(Kirmayer, in AA. VV, 2007 p. 363).
11
“Pour la psychotraumatologie de l’exil, la suspicion croissante à l’encontre des demandeurs l’asile conduit à faire de
l’exposition des traumatismes une possibilité supplementare d’attester la réalité des persécutions. Politique de la
réparation, politique du tèmoignance, politique de la preuve: dans le trois cas, le traumatisme n’est pas seulement
l’origine d’une souffranceque l’on soigne, il est aussi une ressource grâce à laquelle on peut faire valoir un droit.”
(Fassin e Rechtman, 2007 p. 23).
12
“Avec la mise in place de politiques plus restrictives, il devient nécessaire de décrédibiliser le discours du candidat
au statut de rifugi. Son récit est systématiquement mis en dout: c’èst donc son corps qui est convoqué. […] Le certificat
médico-psychologique li eces deux processus: il montre les traces sur le corps et institue l’expert comme porte-parole”
(Fassin e Rechtman, 2007 p. 377)
13
“Il constitue un nouveau langage de l’événement” (Fassin e Rechtman, 2007 p. 18).
14
“L’objet que représente le certificat médico-psychologique est donc bien plus que le texte inscrit sur un papier à entête institutionnel: il est un fragment d’historie –ce lle du demandeur d’asile, bien sûr, mais celle du monde
contemporain, tout autant” (Fassin e Rechtman, 2007 p. 370).
15
Tutti i nomi dei richiedenti asilo a cui farò riferimento sono stati ovviamente modificati in modo tale da renderli
irriconoscibili, per tutelare la loro privacy e la loro sicurezza.
16
“Carothers definisce i Kikuju individualisti, astuti, litigiosi, insicuri, sospettosi verso i vicini e gli esseri invisibili,
predisposti al segreto e alla violenza, facilmente attirati dai rituali iniziatici, parte essenziale della loro organizzazione
segreta. Frustrati dalle speranze deluse di poter diventare come i britannici, avrebbero sviluppato contro di loro
risentimento e rancore. Tutto ciò spiegherebbe la loro "sleale" rivolta. La loro doppiezza criminale non sarebbe per lo
psichiatra che l'espressione dei tratti di dissociazione della personalità così marcati tra gli Africani” (Coppo).
17
Restituire il diritto di soggettività non vuol dire però avvicinarsi alla figura del “testimone”. Quest’ultima si rivela
infatti piuttosto problematica, dal momento che rischia sempre di ricadere in un lavoro di riattualizzazione della
“vittima”, inchiodandola in un cortocircuito temporale e in una pratica di desoggettivazione. Scrive Rahola: “Le vittime
iper-rappresentate, quelle onnipresenti in tutte le campagne di sottoscrizione delle agenzie umanitarie, costituiscono
quasi il rovesciamento della figura del testimone. Nella testimonianza dei sopravvissuti dell’Olocausto, per esempio, al
prezzo altissimo di un presente ipotecato dal passato e di un passato che non riesce a riscattarsi nel presente, è in gioco
la possibilità di recuperare un’individualità da un evento e un contesto il cui senso era precisamente quello di ridurre
ogni individuo a un corpo, a un numero, a una massa indistinta. Per “rappresentare” la dimensione di vittima veicolata
dai media, al contrario, è necessario smarrire ogni traccia di individualità e di memoria, così da rendere quelle figure
“credibili”, universalmente accessibili, infinitamente sostituibili. Per questo le vittime oggi si assomigliano
drammaticamente tutte. E proprio in questa serialità risiede la loro universalità” (Rahola, in AA. VV 2005b p. 60).
18
“Fallait-il être traumatisé pour être reconnu dans le statut de réfugie? Le diagnostic du psychologue ou du psychiatre
pouvait-il non seulement attester la véracité d’un récit, mais dire la vérité d’une historie? Ces interrogations, éthiques
autant que politiques, il nous faut maintenant les reconsidérer” (Fassin e Rechtman, 2007 p. 394).
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