La scimmia che siamo - 760017

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La scimmia che siamo - 760017
LIBRO
IN
ASSAGGIO
LA SCIMMIA CHE
SIAMO
DI FRANS DE WAAL
LA SCIMMIA CHE SIAMO
IL PASS ATO E IL FUTURO DELLA N ATURA UMANA
SCIMMIE IN FAMIGLIA
Si può strappare la scimmia dalla giungla, ma non la giungla dalla scimmia.
Questo vale anche per noi, grandi scimmie bipedi. Fin dai tempi in cui i nostri antenati
passavano da un albero ali altro, la vita in piccoli gruppi e stata una nostra ossessione. I
politici che si battono il petto in televisione, le starlette delle soap opera che passano da un
appuntamento romantico all’altro, e chi vince e chi perde nei reality show non ci stufano mai:
ridere di tutto questo nostro comportamento da primati sarebbe facile, se non fosse per il fatto
che le nostre amiche scimmie prendono sul serio il potere e il sesso proprio quanto noi.
In comune con loro non abbiamo solo il potere e il sesso però: la solidarietà e l’empatia
svolgono un ruolo altrettanto importante, anche se di rado vengono citate come parte della
nostra eredità biologica. Invece di riconoscere alla natura il merito di ciò che ci piace di noi
stessi, preferiamo incolparla di quello che non ci piace. Come diceva Katharine Hepburn ne La
regina d’Africa. con una battuta rimasta famosa: «La natura, signor Allnut, è ciò per il cui
superamento noi fummo messi in questo mondo».
Questa opinione è ancora ampiamente diffusa. Sulla natura umana sono state scritte
milioni di lungo il corso dei secoli, ma quelle degli ultimi trent’anni sono le più cupe e le più
inesatte. Vi leggiamo che abbiamo dei geni egoisti, che la bontà umana è una finzione, e che
ci comportiamo secondo dei principi morali solo al fine di fare buona impressione sugli altri.
Ma se ciò che sta a cuore alla gente è unicamente il proprio tornaconto, come mai un bambino
nato da un giorno piange quando sente piangere un altro bambino? Questo è il modo in cui
comincia a manifestarsi l’empatia; forse in una maniera non molto sofisticata, ma si può star
certi che un neonato non cerca di fare buona impressione su nessuno. Siamo nati con impulsi
che ci spingono verso gli altri e che più avanti nella vita ci porteranno a prenderci cura di loro.
Il tempo remoto a cui risalgono questi impulsi è testimoniato in modo evidente dal
comportamento dei nostri parenti primati. Il bonobo, una scimmia antropomorfa poco
conosciuta e genericamente a noi vicina quanto gli scimpanzé, rappresenta un caso veramente
interessante. Una bonobo di nome Kuni allo zoo Twycross in Gran Bretagna vide uno storno
sbattere contro il vetro del suo recinto e andò a soccorrerlo. Dopo averlo raccolto tramortito,
Kuni lo rimise delicatamente in piedi e poiché non si muoveva, provò a spingerlo pian piano,
ma l’uccellino agitava a malapena le ali. Allora, con lo storno fra le mani, Kuni si arrampicò
sulla cima dell’albero più alto, avvinghiandosi al tronco solo con le zampe così da avere le
mani libere per reggere l’uccellino e, una volta in cima, gli dispiegò con cura le ali, gliele aprì
del tutto, tenendo tra le dita un’ala per mano, prima di lanciarlo come si fa con un
aeroplanino, al di là della barriera del recinto. Ma l’uccello cadde a un passo dalla libertà e
atterrò sulla riva di un fossato. Kuni ridiscese e rimase in piedi a sorvegliare lo storno per un
bel pezzo, per proteggerlo dalla curiosità di un giovane bonobo. Alla fine della giornata,
l’uccello si era ripreso ed era volato via sano e salvo.
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Il modo in cui Kuni aveva trattato l’uccellino era sicuramente diverso da quello che avrebbe
adottato per venire in aiuto a un’altra antropomorfa, perché invece di seguire un modello di
comportamento programmato, aveva adattato il suo intervento alla situazione specifica di un
animale totalmente differente da lei. Doveva quindi essersi fatta un’idea di che aiuto fosse
necessario osservando gli uccelli che passavano per il suo recinto. Questo genere di empatia è
quasi ignoto tra gli animali, poiché dipende dalla capacità di immaginare le circostanze in cui
si trova un altro essere. Adam Smith, uno dei pionieri dell’economia, deve aver avuto presenti
dei gesti come quello di Kuni (di certo non fatti da una scimmia) quando, più di due secoli fa,
diede la definizione più duratura dell’empatia: «Uno scambio di posto nella fantasia con chi
soffre».
La possibilità che l’empatia faccia parte della nostra eredità di primati dovrebbe farci
contenti, ma non siamo abituati ad aderire alla nostra natura. Quando le persone si
macchiano di un genocidio le definiamo «animali», ma quando fanno la carità ai poveri ne
tessiamo le lodi perché si dimostrano «umane». Quest’ultimo comportamento ci piace
riconoscerlo come nostro. Solo quando una grande scimmia salvò un membro della nostra
specie, la possibilità di uno spirito umanitario non umano destò l’attenzione generale. Il 16
agosto del 1996, allo zoo Brookfield di Chicago, una gorilla di otto anni di nome Binti Jua
trasse in salvo un bambino di tre anni caduto da un’altezza di circa sei metri nel recinto dei
primati. Reagendo tempestivamente, Binti lo raccolse e lo portò al sicuro, poi si sedette su un
ceppo in un torrente, cullando il bambino che aveva in grembo e dandogli dei delicati colpetti
di incoraggiamento sulla schiena prima di portarlo al personale dello zoo che la stava
aspettando. Questo semplice atto di solidarietà, ripreso dal video e mostrato in tutto il mondo,
toccò il cuore di molti e Binti fu salutata come un’eroina. Era la prima volta nella storia degli
Stati Uniti che una scimmia antropomorfa, elevata a modello di compassione, trovava posto
perfino nei discorsi dei politici più importanti.
SCIMMIE IN FAMIGLIA
Il fatto che il comportamento di Binti abbia suscitato tanto stupore tra la gente la dice lunga
sull’immagine che i media danno degli animali: non aveva fatto niente di straordinario, o
almeno niente che un’antropomorfa non avrebbe fatto per qualsiasi piccolo della sua specie.
Mentre i recenti documentari sulla natura concentrano la loro attenzione sugli animali feroci (o
sui macho che li mettono al tappeto), penso invece che sia vitale cercare di trasmettere la vera
e profonda portata del nostro legame con la natura. Questo libro si prefigge di esplorare le
affascinanti e paurose analogie che ci sono tra il comportamento dei primati e il nostro, senza
chiudere gli occhi davanti al buono, al brutto e al cattivo.
Abbiamo la fortuna di poter studiare due primati nostri parenti stretti diversi tra loro come il
giorno e la notte: uno è un tipo ambizioso dall’aria scostante che non sa gestire la propria
rabbia, mentre l’altro è un egualitario, che pratica uno stile di vita libero. Chi non conosce lo
scimpanzé, noto alla scienza fin dal XVII secolo, il cui comportamento gerarchico e omicida ha
ispirato un modo comune di vedere gli uomini come «grandi scimmie assassine»? Prendere il
potere sopraffacendo gli altri ed essere sempre in guerra, secondo alcuni scienziati, è il nostro
destino biologico. Ho visto abbastanza spargimenti di sangue tra gli scimpanzé da convenire
sul fatto che in loro ci sia una vena di violenza, ma non dobbiamo dimenticarci che abbiamo
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anche un altro parente stretto, il bonobo, scoperto solo nel secolo scorso. I bonobo sono un
gruppo spensierato, con sani appetiti sessuali. Pacifici per natura, smentiscono l’assunto che la
nostra linea di discendenza sia puramente sanguinaria.
I bonobo riescono a comprendere bisogni e desideri reciproci e contribuiscono a
realizzarli grazie all’empatia. Una volta, la figlia di due anni di una bonobo di nome Linda si
mise a piagnucolare con le labbra protese verso la madre, lasciando intendere che voleva
essere allattata. La piccola era stata al nido dello zoo di San Diego ed era stata reintrodotta
nel gruppo quando Linda ormai da tempo non aveva più latte. La madre però capì il
messaggio e andò alla fontana a riempirsi la bocca d’acqua, poi sedette davanti alla figlioletta
e increspò le labbra in modo che la piccola potesse bere direttamente da esse. Linda ripeté il
suo andirivieni tre volte fino a che sua figlia non fu soddisfatta.
È il genere di comportamento che ci lascia incantati, il che di per sé è già una forma di
empatia. Ma questa stessa capacità di capire gli altri rende possibile anche far loro del male
di proposito: sia la compassione sia la crudeltà dipendono dalla capacità di immaginare come
il proprio comportamento abbia effetto sugli altri. Non c’è dubbio che animali con un cervello
di dimensioni ridotte, come gli squali, facciano del male agli altri senza però aver la minima
idea di quello che gli altri patiscono. Invece le scimmie antropomorfe hanno un cervello che è
un terzo del nostro, sufficientemente complesso quindi per arrivare a esercitare forme di
crudeltà. Le grandi scimmie a volte infliggono dolore solo per divertimento, come fanno i
ragazzi quando tirano sassi alle anatre di uno stagno. Alcuni giovani scimpanzé di laboratorio
attiravano per gioco dei polli al di là di una rete con briciole di pane e ogni volta che i polli si
avvicinavano, li colpivano con un bastone o li punzecchiavano con la punta acuminata di un
pezzo di fil di ferro. Per combattere la noia, si erano inventati questo supplizio di Tantalo, a
cui i polli erano tanto scemi da partecipare (anche se non c’è dubbio che per loro fosse
proprio un supplizio) e lo perfezionarono al punto che un’antropomorfa aveva il ruolo
dell’adescatore e un’altra quello del picchiatore.
Le grandi scimmie sono talmente simili a noi da essere note come «antropoidi», dalla
parola greca che significa «simili all’uomo». Per noi avere due parenti stretti con due società
così drasticamente diverse tra loro, è oltremodo istruttivo. Avido di potere e brutale, lo
scimpanzé si contrappone al bonobo amante della pace e sensuale, un po’ come il dottor Jekill
si contrappone a mister Hyde, e la nostra natura è il risultato di un difficile matrimonio tra i
due. Il nostro lato oscuro è dolorosamente evidente: solo nel XX secolo, circa 160 milioni di
persone hanno perso la vita in guerre, genocidi e persecuzioni politiche, tutto a causa della
capacità dell’uomo di essere brutale. Ancora più raggelanti di questi numeri inconcepibili,
sono le manifestazioni di crudeltà umana dei singoli individui, come lo spaventoso episodio,
avvenuto in una piccola cittadina del Texas nel 1998, in cui tre bianchi offrirono un passaggio
a un uomo di colore di quarantanove anni e anziché portarlo a casa, lo condussero in un
luogo isolato e lo picchiarono, lo legarono al loro camioncino e lo trascinarono per parecchi
chilometri lungo la strada asfaltata, spezzandogli la testa e il braccio destro.
Siamo in grado di giungere a una simile ferocia pur avendo la capacità di immaginare
cosa patiscono gli altri, o forse proprio a causa di questa. D’altra parte, è questa stessa
capacità che, combinata con un atteggiamento positivo, ci induce a mandare cibo alle
popolazioni che muoiono di fame, a fare validi sforzi per salvare persone a noi completamente
sconosciute (come durante i terremoti e gli incendi), a piangere quando qualcuno racconta una
storia triste o a unirci ad altri nella ricerca del bambino scomparso di un vicino. Con un lato
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crudele e uno compassionevole, ci ergiamo in questo mondo come una testa di Giano, con le
nostre due facce rivolte in direzioni opposte. Talvolta questo può confonderci al punto di
portarci a un’eccessiva semplificazione di ciò che siamo: o sosteniamo di essere «l’apice della
creazione» o ci dipingiamo come gli unici veri cattivi.
Perché non accettare che siamo tutte e due le cose? Questi due lati della nostra specie
corrispondono alle caratteristiche dei nostri due parenti più stretti ancora viventi. Lo
scimpanzé mostra talmente bene il lato violento della natura umana che sono pochi gli
scienziati che si occupano di altri aspetti, ma noi siamo anche delle creature profondamente
sociali, che dipendono l’una dall’altra e che di fatto hanno bisogno di interagire con gli altri
per condurre delle vite equilibrate e felici. Dopo la morte, la cella d’isolamento è la peggiore
delle punizioni per noi, perché i nostri corpi e le nostre menti non sono progettati per una vita
solitaria e, in mancanza di compagnia umana, sprofondiamo in una depressione senza
speranza e ci ammaliamo. Secondo una ricerca medica recente, alcuni volontari sani esposti
ai virus del raffreddore e dell’influenza, si ammalavano più facilmente se avevano pochi amici
e familiari attorno a sé.
Le donne avvertono in maniera del tutto naturale questa necessità di avere dei legami e, tra
i mammiferi, le cure parentali e l’allattamento non possono essere separati. Lungo i 180 milioni
di anni della loro evoluzione, le femmine dei mammiferi che rispondevano ai bisogni dei loro
nati si riproducevano di più rispetto a quelle che restavano fredde e distaccate. Poiché
discendiamo da una lunga sequenza di madri che allattavano, nutrivano, pulivano, portavano
in braccio, confortavano e difendevano i loro piccoli, non dovremmo meravigliarci davanti al
fatto che l’empatia umana sia diversa nei due generi. Le differenze si manifestano ben prima
della socializzazione: il primo segno di empatia, cioè piangere quando un altro bambino
piange, è già un tratto più caratteristico delle neonate che dei neonati e anche più avanti nella
vita l’empatia si presenta molto più sviluppata nelle femmine che nei maschi. Questo non
significa che i maschi manchino di empatia o che non abbiano bisogno di legarsi agli altri, ma
che la cercano più tra le donne che tra gli altri maschi, non per niente una relazione a lungo
termine con una donna, come il matrimonio, per un maschio è il sistema più efficace di
allungarsi la vita. L’altra faccia di tutto questo è l’autismo, un disturbo dell’empatia, quattro
volte più frequente nei maschi rispetto alle femmine, che impedisce di entrare in relazione con
gli altri.
Gli empatici bonobo si mettono costantemente nei panni degli altri. Al Georgia State
University Language Research Center di Atlanta, un bonobo di nome Kanzi è stato addestrato
a comunicare con le persone. E diventato una celebrità, noto per la sua straordinaria
comprensione dell’inglese. Rendendosi conto che alcuni suoi compagni bonobo non hanno
avuto lo stesso training, di quando in quando Kanzi si mette a fare l’insegnante. Una volta se
ne stava seduto vicino alla sua sorellina Tamuli, mentre un ricercatore cercava di farla reagire
a delle semplici richieste verbali, ma la bonobo non addestrata, e pressoché mai entrata in
contatto col linguaggio umano, non rispondeva. Il ricercatore si rivolgeva a Tamuli, ma era
Kanzi che cominciava a mimare i significati. Quando a Tamuli venne chiesto di fare il
grooming a Kanzi, lui le prese la mano e se la mise sotto il mento, schiacciandogliela tra il
mento e il petto. Da questa posizione, Kanzi puntò lo sguardo negli occhi di Tamuli in un modo
che i presenti interpretarono come uno sguardo interrogativo e quando Kanzi ripeté il gesto, la
giovane appoggiò le dita sul petto di lui come per chiedersi cosa avrebbe dovuto fare.
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Kanzi capisce benissimo se gli ordini sono diretti a lui o ad altri e non stava eseguendo un
ordine diretto a Tamuli, ma cercava di farglielo capire. La sensibilità di Kanzi verso
l’ignoranza della sorella, la sua gentilezza nel volerla istruire, indicano un livello di empatia
riscontrata, per quanto ne sappiamo, solo tra esseri umani e scimmie antropomorfe.
© 2005 by Frans de Waal
© 2006, Garzanti Libri S.p.A.
Titolo originale: Our Inner Ape
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
su licenza Garzanti Libri S.p.A.
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