Nuovo cinema tedesco Due film, “Quattro minuti” di Chris Kraus e

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Nuovo cinema tedesco Due film, “Quattro minuti” di Chris Kraus e
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Nuovo cinema tedesco
VARIAZIONI PER UNA SONATA DEGLI UOMINI BUONI
Due film, “Quattro minuti” di Chris Kraus e “Le vite degli altri” (premio Oscar) di
Florian Henckel von Donnersmarck, fanno parlare di rinascita del cinema germanico.
Se nel primo l’incontro-scontro tra un’anziana insegnante di pianoforte e una giovane
assassina richiama le colpe mai emendate, perduranti del nazismo, nella seconda
pellicola un agente della Stasi incaricato di spiare un noto drammaturgo segue un
percorso di riscatto che mostra il degrado etico-politico e le contraddizioni che hanno
condotto al crollo della Ddr.
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di Alessandra Lo Russo
“Che importanza ha la vita di due persone comuni, quando il mondo è sconvolto da simili
avvenimenti?” diceva Humphrey Bogart a Ingrid Bergman in Casablanca, film di Michael Curtiz
del 1940. Credo che quella battuta rispecchi la verità, perché evidentemente si riferiva a due
persone comuni, un uomo e una donna, che vivono una storia d’amore più o meno comune. Però, la
storia tra due persone può essere il simbolo di quella con la “S” maiuscola quando ne sono
protagonisti personaggi assolutamente degni di nota, come nel caso de Le vite degli altri, e in
misura minore, di Quattro minuti. Le “persone comuni” in questi due film sono rispettivamente due
uomini e due donne, i cui rapporti sono regolati da circostanze inizialmente fortuite e poi causali,
ma mai comuni.
Due stagioni fa il cinema tedesco aveva dato sentore di nuovo vigore con l’interessante e
controverso adattamento cinematografico di un romanzo di Michel Houellebecq: uscito nel 2006,
Le particelle elementari di Oskar Roheler era stato notato al festival di Berlino oltre che per la
storia conturbante di due fratelli ossessionati rispettivamente da scienza e sesso, anche per la
magnifica interpretazione di uno dei protagonisti maschili, Moritz Blebtreu.
Già quel film era un avvertimento di ciò che la stagione successiva ci avrebbe presentato. Così è
stato, ma Quattro minuti e Le vite degli altri non sono adattamenti cinematografici di romanzi che
parlano dell’attualità e pur avendo pochi punti in comune, entrambi i film affidano alla musica,
(anche se in modo diverso) un ruolo importante, facendo riferimento ad una storia della Germania
più o meno nota. Forse basterà scrivere della Sonata degli uomini buoni per esprimere il concetto
chiave di questi film, ma occorrerà prima raccontarli per dare senso a tale concetto.
Partiamo da Quattro minuti di Chris Kraus, in cui la protagonista anziana, la signora Kruger
(Monica Blebtreau), da ragazza era un’infermiera delle SS, non si era mai sposata perché “dedita
alla ricerca della bellezza”. La donna impartisce lezioni di pianoforte alle detenute di un carcere,
finché non riconosce in Jenny, un’assassina (interpretata dalla debuttante Hannah Herzsprung) un
incredibile talento musicale e si adopera per farla partecipare ad un concorso. Jenny è una ragazza
difficile: aveva subito le violenze del padre a partire da quando aveva smesso di suonare il
pianoforte ed era rinchiusa in carcere per aver ucciso il ragazzo che l’aveva abbandonata incinta:
perde il bambino al momento del parto perché i medici non volevano farle il cesareo; tre ore dopo
viene sbattuta in carcere, dove sfoga la sua ira con estrema violenza e instaura un pessimo rapporto
con le altre detenute. Eppure, grazie all’incontro con la ragazza a dir poco problematica e attraverso
minuscoli frammenti di flashback sul suo passato, Traude Kruger rivive il dolore causato dalla
morte di una giovane donna comunista a cui impartiva le sue lezioni e della quale si era innamorata
durante la guerra.
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Nonostante la rivelazione lesbica della donna, la signora Kruger resta una figura odiosa, chiusa
nella sua bugiarda vecchiaia, forse ancor fiera del suo passato nazista, ma al tempo stesso divorata
dai sensi di colpa a tal punto da decidere di lavorare per sessant’anni nel carcere dove era stata
uccisa la ragazza che amava. Traude Kruger ha le sue regole formali tipiche del nazismo, pretende
l’inchino di una bambina figlia di un poliziotto custode del carcere, ma conquista il rispetto che
Jenny non concede a nessuno: l’anziana chiede la riverenza e l’ubbidienza che lei concedeva ai suoi
superiori, come volendo celare che il nazismo, oltre ad aver distrutto i valori umani, aveva tolto la
speranza nella vita dell’ex infermiera. Preferendo di nascondere la sua omosessualità (forse perché
durante il nazismo si uccideva per molto meno, forse per mancanza di coraggio durante tutto il resto
della sua vita), Traude Kruger decide di vivere nell’inutilità, o forse nell’illusione di poter
incontrare un’altra anima disposta ad amarla. Jenny, invece, le rende una “punizione”: la ragazza,
dopo aver inizialmente picchiato il custode a sangue, parteciperà al concorso, ma non suonerà il
pezzo di Schumann deciso dalla signora Kruger. Decide a sorpresa di suonare al pianoforte
(trattandolo come uno strumento a percussione, oltre che a corde), la sua musica “negra”,
virtuosista, geniale e si esibisce come una performer assatanata di rivincita dalla vita. E quando
guardandola tra la folla del teatro, Jenny riconosce la vecchia nel pubblico, le darà l’ultimo ironico
ben servito: si prostra in un inchino che non mostra reverenza, ma solo l’inutilità di un bon-ton fuori
moda. Evidentemente qui, anche se la signora Kruger non ha mai ucciso nessuno e Jenny è
un’assassina, tra le due solo la ragazza è un personaggio buono: il suo background giustifica la sua
follia, il passato di Traude non bilancia il suo rincorrere la formale perfezione priva dell’umanità
persa nella giovinezza.
Nonostante il film abbia vari punti deboli, la morbosità che si viene ad accrescere nel rapporto tra
la vecchia e la giovane, (basato su una totale mancanza di stima) diventa motivo di vita per Traude
Kruger, a tal punto che l’anziana donna riesce a far evadere Jenny per permetterle di partecipare al
concorso. Attraverso il talento della ragazza, è come se la signora Kruger cercasse di appagare
qualche desiderio di giovinezza perduta e di far rivivere il sentimento per la donna che aveva amato
sessant’anni prima. O chissà. La polizia, quando scopre l’evasione, concede a Jenny quei famosi
“quattro minuti” di esecuzione del pezzo al pianoforte, minuti di follia e di genialità, che saranno
seguiti da un accorato applauso del pubblico e poi dall’irruzione della polizia sul palcoscenico.
La Storia cui invece si rifà Le vite degli altri è stata affrontata meno al cinema rispetto a quella
relativa alla seconda guerra mondiale: anche Hedwig, l’incredibile musical rock di John Cameron
Mitchell aveva sullo sfondo le macerie della Germania est del muro di Berlino e lì quella frattura
era il simbolo della condizione della spaccatura fisica del personaggio, oltre che del popolo tedesco.
In modo diverso, la Germania dell’est (DDR) nel 1984 diventa il teatro dell’opera prima di Florian
Henckel von Donnersmarck, che ha vinto l’Oscar per il migliore film straniero all’ultima edizione
degli Academy Awards.
Le vite degli altri è eccezionale, solido fino alla fine, e non solo perché ha il pregio di parlare di
una Storia dolorosa in cui la polizia segreta (Stasi) aveva creato un universo di spionaggi e di
ingiustizie quasi kafkiane, ma anche perché i personaggi, pur teoricamente negativi, sono pronti al
riscatto: è un’umanità che ha dimenticato il senso di sé stessa e la capacità di amare. E mi riferisco
soprattutto allo splendido Ulrich Muhe (il capitano della Stasi, Wiesler), un Kevin Spacey tedesco
per somiglianza e bravura, (purtroppo scomparso recentemente) senza dimenticare Sebastian Koch
(il commediografo Georg Dreyman) e Martina Gedeck (la sua fidanzata attrice Christa Maria
Sieland).
In quest’universo di spionaggio, il ministro della cultura della DDR, Hempf (Thomas Thieme)
ordina a Wiesler e al suo capo Grubitz di mettere sotto sorveglianza Dreyman, perché era l’unico
scrittore di Berlino est che pubblicava opere lette anche ad occidente; i microfoni vengono nascosti
per tutta la sua casa in modo da ascoltare le sua conversazioni. Mentre all’inizio il suo lavoro è
puntuale nel raccogliere i dati sullo scrittore, Wiesler in un secondo momento comincerà, oltre a
spiarlo, passando per il voyeurismo, ad amare la vita di Dreyman e della sua fidanzata Christa
Maria. Li ama perché non ha affetti, perché la vita lo ha portato a diventare un agente della Stasi e
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ad essere freddo, a rinunciare all’amore, non riuscendo a trattenere nemmeno quello fugace di una
prostituta che deve scappare da un altro cliente e non può più stare con lui.
Uno dei pregi di questo film è di avere come protagonisti maschili due personaggi a ognuno dei
quali corrispondono due diverse facce della stessa medaglia: tra i due esiste un rapporto di chiasmo
per il quale se l’uno è all’apparenza negativo, ma in realtà buono, l’altro è invece apparentemente
positivo, ma in realtà avvantaggiato rispetto al primo. Infatti, Wiesler è ufficialmente membro di
una polizia ingiusta, ufficiosamente pronto a salvare due persone innocenti, mentre Dreyman,
ufficialmente uno scrittore comunista che vuole fare il suo lavoro pur vivendo in un governo quasi
del terrore, ufficiosamente è pronto al compromesso perché, grazie al rapporto di presunto rispetto
con il ministro Hempf, gode di privilegi tali che gli permettono di continuare a scrivere. Lo stesso
rapporto di chiasmo esiste in Quattro minuti tra la signora Kruger e Jenny: all’apparenza la prima è
una donna libera e la ragazza è un’assassina, ma nella realtà, la vecchia è un’ex nazista incapace di
amare, la seconda una giovane sfortunata che subisce più ingiustizie rispetto alle sue reali colpe.
Torniamo a Le vite degli altri. Mentre i suicidi divampano a causa della mancanza di libertà per
uomini comuni e artisti, Dreyman viene spiato 24 ore su 24 da Wiesler, che si affeziona a lui e alla
sua compagna, commuovendosi all’ascolto delle loro conversazioni, invidiando le loro notti
d’amore e desiderando per loro una storia a lieto fine.
Quando realmente Dreyman cominicia a scrivere un articolo che partendo proprio dalla
constatazione dell’alto tasso di suicidi nella DDR, descrive la Germania dell’est come una paese
soggiogato da continue ingiustizie, Wiesler invece scriverà nel rapporto “Laslo”, il dossier relativo
allo scrittore, che quest’ultimo sta scrivendo invece una commedia per festeggiare i quarant’anni
della DDR: l’agente della Stasi inizia a coprire il lavoro “sporco” dello scrittore. Quando l’articolo
uscirà in un numero dello “Spiegel”, Grubitz si rende conto che qualcuno all’interno della polizia di
stato non ha svolto il suo lavoro come avrebbe dovuto e inizia a nutrire dei dubbi nei confronti di
Wiesler…
Passiamo al personaggio femminile, Christa Maria: un’attrice ancora dedita al suo lavoro non solo
per la sua bravura, ma soprattutto grazie al debole che il ministro Hempf ha per lei. Purtroppo, la
donna deve fronteggiare anche i rischi che quel privilegio porta con sé e abbassarsi talvolta a ciò
che il capriccio del ministro richiede, in forma di ricatto morale. In questo punto di svolta avviene il
primo incontro tra la donna e Wiesler, che decide all’occorrenza di intervenire per far riappacificare
Georg e Christa, dopo un brutto litigio in cui lui capisce che la sua donna è stata costretta a
mantenere l’amicizia con il ministro. Wiesler, infatti, segue Christa in un bar e le dirà poche parole,
che la spingeranno a tornare da Georg e non andare dal viscido Hempf.
Tanto appassionato, quanto costretto a sfide morali è il personaggio di Christa Maria:
semplicemente CMS nel dossier “Laslo”, la donna affronta prima l’incontro con il ministro, poi ne
causa l’inimicizia nei suoi confronti; infine, trovandola comprare psicofarmaci illegalmente, la
polizia trova il pretesto per arrestarla e interrogarla sulla colpevolezza del fidanzato scrittore. E lì
cede, confessando che era stato Georg Dreyman a scrivere l’articolo pubblicato dallo “Spiegel” e
durante l’ultimo interrogatorio che le farà proprio Wiesler, Christa Maria svela il luogo dove è
nascosta la macchina con cui il pezzo era stato scritto, unica prova della colpevolezza di Dreyman.
Wiesler, passato ormai completamente dalla parte dei suoi nemici, decide di arrivare prima degli
altri agenti della Stasi per togliere la macchina per scrivere dal luogo in cui era stata nascosta.
Questo gesto riuscirà a salvare lo scrittore, ma non Christa Maria, che, divorata dai sensi di colpa
per aver tradito il suo uomo, sconvolta si butta per la strada dove viene investita e muore tra le
braccia di Dreyman mentre Wiesler cerca di nascondere la commozione di fronte al suo superiore.
Ciò che prima era solo un vacillare da parte di Grubitz, diventa una certezza, anche se non
supportata da alcuna prova: guarda Wiesler e gli dice: “La tua carriera è finita. Finirai ad aprire
buste con il vapore”.
Ed è così che va a finire. Poi, succede un miracolo: ciò che negli altri film è spesso un inutile
quarto d’ora ‘riempitivo’ per spiegare i vari destini dei personaggi, qui è una perfezione di poesia e
storia che inizia con il deus ex machina che pensavamo non arrivasse. “È caduto il muro di Berlino”
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dicono alla radio mentre Wiesler apre l’ennesima busta con il vapore. Quì, se la commozione non è
stata capace di assalire lo spettatore durante la storia dei personaggi, di sicuro arriva alla fine della
Storia che ha diviso un popolo intero, “il simbolo della guerra fredda” cade; gli occhi di Wiesler
sono lucidi di gioia, ma la sua vita non cambia.
Dopo il 9 novembre 1989, la Germania non è più divisa in due, i tedeschi sono liberi e vanno a
teatro a vedere opere non censurate, ma Georg non resiste e scappa dalla platea perché il ruolo di un
personaggio gli ricorda Christa Maria. Fuori e con lo stesso problema, Hempf, sempre viscido
anche se ormai non più ministro, svela a Dreyman che la Stasi aveva tappezzato la sua casa di
microfoni. E lui non riesce a credere di non essere stato scoperto, così va alla ricerca dell’uomo che
lo spiava, Wiesler, arrivando a capire che quest’ultimo aveva coperto attività che sarebbero state
normalmente punite dalla Stasi.
Una volta rintracciato l’uomo, Georg Dreyman lo vede camminare per strada: Wiesler è
dignitoso ma patetico, trascina con sé una valigia e consegna lettere nelle case. Lo scrittore sta per
fermarlo, ma rientra nel taxi, perché ha un altro modo di manifestargli la gratitudine. Infatti, un
giorno, camminando con la sua solita valigia, Wiesler vede nella vetrina di una libreria il nuovo
libro di Dreyman ed entra per leggere la copertina e le prime pagine: il titolo è Sonata per gli
uomini buoni, dal titolo dello spartito che un commediografo suicidatosi all’inizio del film aveva
regalato a Dreyman per il suo compleanno. E nella prima pagina, il libro è dedicato ad un codice,
quello che identificava Wiesler quando era ancora un agente della Stasi. Nella sua dignitosa
commozione, l’uomo si avvicina alla cassa per pagarlo e dopo che il commesso gli ha chiesto: “Le
faccio un pacco regalo?”, Wiesler risponde: “No, è per me”. Basta questo ad appagare una vita
senza affetti: l’unico gesto che l’ex agente della Stasi fa per sé è comprare il libro a lui dedicato.
Questo sentimento non può non ricordarmi la frase finale di uno dei pochi film drammatici di
Woody Allen, Un’altra donna, dove una Gena Rowlands scrittrice riesce a mitigare le sue
inquietudini quando un suo ex fidanzato (Gene Hackman) le fa leggere una pagina del suo ultimo
romanzo in cui si parla di lei. E alla fine, la scrittrice dice: “Mi sentii finalmente appagata” dopo
una vita di delusioni. Intimista come questo è il sentimento che prova Wiesler.
Quell’aiuto che era stato dato senza richieste in forma anonima durante il periodo buio, è
ricambiato da un’unica ma immensa frase di gratitudine per un uomo mai conosciuto e di cui resta
paradossalmente solo un codice omologante a celarne la grande umanità.
Soprattutto, la Sonata degli uomini buoni è la metonimia de Le vite degli altri, in cui non è detto
che essere agente della Stasi oppure uno scrittore illuminato siano due cose tanto lontane.
Soprattutto in quest’opera, dove lo scrittore Georg Dreyman, se riusciva ad avere privilegi durante
il governo della Stasi, a maggior ragione continuerà ad averne dopo la caduta del muro di Berlino:
andrà a teatro e siederà a fianco di donne bellissime che forse diventeranno sue fidanzate, se non lo
sono già. Invece, Wiesler, l’iniziale antagonista, non gode di favori né prima né dopo il crollo del
muro: resterà sempre un dipendente da poteri maggiori. La giustizia e l’ingiustizia non c’entrano,
perché sono relative, come quelle dai confini frastagliati che dividono le due donne in Quattro
minuti. Ma forse ci sarà sempre una sonata a creare un filo di corrispondenze tra tutti i buoni del
mondo: in Quattro minuti non è il pezzo di Schubert che Traude Kruger vuole far suonare a Jenny,
ma è la “musica negra” e ribelle che esprime tutta la forza del suo essere sofferente.