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Rubriche: Il colore degli altri - QT n. 9, ottobre 2009
Mangiare, bere, leggere, scrivere
Cina: l’alfabeto della diversità
di Mattia Pelli
Come fanno, i cinesi, a scrivere un SMS? Potrà sembrare un interrogativo poco sensato come punto di partenza per un viaggio
nella cultura e nella mentalità cinese, ma poi, chi l’ha detto? Anche i Maestri sono d’accordo nel dire che la lingua è
connaturata alla cultura di un popolo, e così dunque la scrittura. Noam Chomsky, parlando delle strutture cognitive degli
esseri umani spiega che “forse la più intricata tra queste é il linguaggio”. E certo non potrebbe esserci aggettivo più azzeccato
per definire la lingua cinese e la sua scrittura: intricate.
Tanto per dire, il cinese (cioè il mandarino, parlato da più di un miliardo di persone) è una lingua tonale e con un sacco di
parole omofone. Ci sono quattro tipi di accenti e se per caso vi capita (e capita...) di sbagliarlo, susciterete l’ilarità generale: al
posto di dire “cavallo” avrete detto “mamma”. In più vi sono termini che hanno anche lo stesso suono e lo stesso accento, pur
volendo dire tutt’altro: il significato giusto si può capire soltanto dal contesto.
Non è un caso dunque che - come mi ha spiegato Giorgia, studentessa italiana di cinese a Shanghai e mia prima ospite - tutto
l’umorismo e le storielle buffe di questo popolo siano basate sull’immensa risorsa di equivoci insita nella lingua.
A volte, l’unico modo per gli stessi cinesi di capire di che cosa si sta parlando (se di una mamma o di un cavallo) è quello di
scrivere l’ideogramma corrispondente alla parola: sulle mani, per esempio, come vi capiterà di vedere camminando per le
strade di Shanghai o di Pechino.
Parliamone, della scrittura: per leggere un quotidiano cinese “basta” conoscere 3.000 caratteri; una persona di buona cultura
ne domina 5.000. In tutto sono circa 85.000.
Da qui si cominciano ad intuire due o tre cose sulla Cina: primo, si tratta di una cultura di una finezza incredibile, che ha fatto
della scrittura un’arte. Dopo aver sudato per 20 ore su 2-3 ideogrammi prima di partire, mi sono quasi messo a piangere
davanti alla bellezza delle calligrafie conservate al museo nazionale di Shanghai. Secondo: in Cina, se sei analfabeta, sei
fregato e come in nessun altro paese al mondo la conoscenza della lingua e della scrittura è una questione di classe. Gli
analfabeti sono 87 milioni.
Terzo: mentre nelle lingue alfabetiche (come l’italiano) ad una lettera corrisponde un suono, nel cinese non è così:
l’ideogramma é un segno che nella maggior parte dei casi ha poco a che fare con la parola che descrive. Quindi, imparare ad
esprimersi con la scrittura è molto, ma molto più difficile. Ci vogliono anni di studio per memorizzare più caratteri possibili e
dal momento che lo Stato paga solo sette anni di scuola, c’è un rapporto diretto tra ricchezza della famiglia, conoscenza della
scrittura, cultura individuale e possibilità di ascesa sociale.
Studiare tanto, sempre, senza posa: è il motto degli studenti cinesi, orgogliosi delle loro divise tutte uguali, sottoposti ad una
disciplina ferrea, obbligati la mattina prima di entrare in classe ad esercizi ginnici di gruppo. Tutti quanti con problemi di
vista, come mi ha spiegato Nishua, la figlia tredicenne della mia ospite di Nanjing, secondo la quale il 60% dei suoi compagni
(compresa lei) è miope. Una classe di 60 studenti.
Dunque, vi viene ancora da ridere pensando a un cinese che scrive un SMS?
Un analfabeta nel metrò
Quando arrivi a Shanghai tutto quello che ti immaginavi della Cina comincia inesorabilmente a sgretolarsi: lo skyline
mozzafiato del nuovo quartiere Pudong non ha niente a che fare con l’immagine rurale che spesso si ha in testa. Niente polizia
in ogni angolo di strada, maree di turisti (cinesi) e enormi shopping malls: qui è il regno non del socialismo, ma del
turbocapitalismo. La democrazia e la libertà di espressione sono state scambiate con la libertà di vendere e comperare e alla
maggioranza dei cinesi - ancora tramortiti dal decennio buio della Rivoluzione culturale e dalle ristrettezze economiche - pare
andare benissimo così.
Ma questa è Shanghai, una città da più di 18 milioni di abitanti; non è “la” Cina, anche se ne rappresenta una parte. Diciamo
allora che ci sono almeno due “Cine”, una accanto all’altra, la cui contemporaneità è quasi incomprensibile, tanto sono
opposte in tutto.
Comincio a rendermene conto andando a casa di Giorgia, il mio primo contatto Couchsurf (letteralemente “surf del divano”),
rete di ospitalità “zaino in spalla” basata sul web (www.couchsurf.org).
Per arrivare da lei mi tocca prendere il métro, e dai finestrini dei vagoni supermoderni vedo alternarsi agli enormi grattaceli
casupole con i tetti di lamiera, quartieri popolari come labirinti, biciclette che trainano carretti pieni all’inverosimile su strade
a sei corsie, gente che gioca a Mahjong per strada, venditori di galline (vive) all’ombra di torri futuristiche.
Prendere la metropolitana in Cina è alquanto formativo per il viaggiatore: è davanti a un distributore automatico di biglietti
che per la prima volta ho provato quel senso di disorientamento che mi ha accompagnato per tutto il viaggio. Tutte le scritte
erano in inglese, a parte quelle dei nomi delle stazioni: non c’era, insomma, la trascrizione in alfabeto latino, il cosiddetto
“pinyin”.
Una grande bella fregatura questo “pinyin”. Prendete i taxisti, per esempio: non pensate di potergli far vedere un indirizzo
cinese scritto con caratteri latini, non sapranno che farsene. Già conoscere le strade di una città di milioni di abitanti é
impossibile, se poi gli chiedete anche di conoscere una scrittura che non é la loro... Unica soluzione? Il telefono. Per arrivare a
casa di Beldy a Pechino, il mio terzo ospite, uno studente di cinese di origini tunisine, ho dovuto chiamarlo e farlo parlare
direttamente con il taxista.
Disorientamento, dunque. Per i nomi delle vie, scritti in ideogrammi; per le strade che il giorno prima non c’erano e che
rendono subito vecchie le cartine; per i quartieri popolari che vengono abbattuti senza pietà e sostituiti da palazzi. Come
quello di Giorgia, piccolo piccolo, solo 16 piani, per trovare il quale ho dovuto camminare per un’ora buona con lo zaino in
spalla, nemmeno sicuro di essere nel quartiere giusto.
Inutile chiedere, se vi siete persi, una mano ai passanti cinesi: un semplice “Scusi, dov’é la tal via?” pronunciato nel mio
inglese zoppicante era in grado di suscitare nel passante interpellato una reazione simile al panico. È stato Beldy a chiarire il
mistero, facendosi due risate: “Fare loro una domanda alla quale non sanno rispondere, o perché non sanno l’inglese o
perché non conoscono la risposta, significa metterli in difficoltà e esporli a una figuraccia, cosa terribile per un cinese”.
Si impara, in Cina, ad amare il caso, quello che ha guidato i miei passi in luoghi belli e indimenticabili, a toccare con mano la
malinconia della distanza - di lingua, di cultura - e nello stesso tempo la nuda possibilità dell’incontro, basata sul gesto e su
ciò che vi è di più umano, l’ospitalità di un sorriso...
Niente politica, please
Una delle cose che ti senti ripetere da chi conosce la Cina è: “non parlare di politica con i cinesi”. Così, quando Sara ha
cominciato a parlarmi della Rivoluzione culturale, un po’ mi sono spaventato: poi ho capito che non vedeva l’ora.
Straordinaria ospite, Sara: circa 40 anni, sposata con una figlia, impiegata presso una multinazionale, vive in un quartiere
“classi medie” a Nanchino, una bella “cittadina” di cinque milioni di abitanti (di lei ho già parlato sul mio blog nel sito di QT).
Iscritta al Partito comunista, mi spiega di condividere assolutamente gli orientamenti del governo: liberalizzazione,
liberalizzazione, liberalizzazione. Mi parla con riprovazione di Mao (“Però - dice - ha ridato dignità al nostro Paese con la
Rivoluzione”) e benissimo di Deng Xiaoping; approva la politica di riduzione delle nascite, che impone non più di un bambino
a coppia.
Eppure mi spiega che il costo della vita per i cinesi è altissimo, soprattutto in città, e che per mandare in una scuola privata la
figlia deve fare dei grossi sacrifici. Il marito, insegnante, è un oppositore al governo. “Io vorrei la democrazia e la libertà
politica - mi dice con i suoi occhi sorridenti e con voce posata - e sono un ammiratore di Bush”. Strane contraddizioni cinesi,
come quella tra città e campagna, dove ancora si ara trainando a spalla l’aratro. Mi corre davanti mentre in treno discuto con
un belga, affascinato come tutti gli occidentali che ho incontrato nel mio viaggio (pochi per la verità) dal miracolo cinese.
Eppure io mi interrogo: che queste due Cine in realtà non siano poi così contrapposte? Forse, semplicemente, una è costruita
sulle spalle dell’altra.
Il modo più semplice (ma non l’unico) per scrivere un SMS in cinese consiste nello scrivere in pinyin sulla tastiera, mentre il
cellulare cercherà il carattere corrispondente.
Capirsi vuol dire tradurre, ma anche perdersi.