Num. 34 - Dicembre 2008 - Associazione Medici Diabetologi

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Num. 34 - Dicembre 2008 - Associazione Medici Diabetologi
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THE JOURNAL OF
C LINICAL
AND
A PPLIED R ESEARCH
AND
E DUCATION
NUMERO TRENTAQUATTRO
Diabetes Care
EDIZIONE ITALIANA A CURA DELL’ASSOCIAZIONE MEDICI DIABETOLOGI
Selezione di articoli da Diabetes Care
DICEMBRE 2008
Diabetes Care
4
AFFILIATA I.D.F. - International Diabetes Federation
Presidente:
Adolfo Arcangeli
(Pistoia)
Diabetes Care
EDIZIONE ITALIANA
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5
6
INDICE
Fratture associate a rosiglitazone nel diabete di tipo 2
pag.
7
Effetti di ramipril e rosiglitazone sugli eventi cardiovascolari e
renali nei soggetti con tolleranza al glucosio o glicemia
a digiuno alterate
pag. 16
Gestione del diabete preesistente in gravidanza
pag. 22
Un passo indietro – o avanti?
pag. 42
Aggiustamento al target nel diabete di tipo 2
pag. 46
Efficacia, sicurezza e tollerabilità del trattamento con pregabalin
nella neuropatia periferica diabetica dolorosa
pag. 52
Rosiglitazone e rischio di tumori
pag. 59
Morte al conteggio dei carboidrati?
pag. 65
Come tradurre i livelli di A1C in valori glicemici medi
pag. 67
7
8
La combinazione di sulfoniluree e metformina è associata ad
aumento del rischio di patologia cardiovascolare o di mortalità
per qualsiasi causa?
pag. 73
Come impiegare il dosaggio dell’A1C
pag. 80
DIABETES CARE, MAY 2008
Fratture associate a rosiglitazone nel
diabete di tipo 2
Un’analisi del Diabetes Outcome Progression Trial (ADOPT)
STEVEN E. KAHN, MB, CHB1
BERNARD ZINMAN, MD2
JOHN M. LACHIN, SCD3
STEVEN M. HAFFNER, MD4
WILLIAM H. HERMAN, MD5
RURY R. HOLMAN, MD6
BARBARA G. KTAVITZ, MS7
DAHONG YU, PHD7
MARK A. HEISE, PHD7
R. PAUL AFTRING, MD, PHD7
GIANCARLO VIBERTI, MD8
FOR THE A DIABETES OUTCOME
PROGRESSION TRIAL (ADOPT)
STUDY GROUP*
OBIETTIVO – L’obiettivo di questo studio è stato quello di esaminare i fattori
associati all’aumento del rischio di fratture osservato con il rosiglitazone nel A
Diabetes Outcome Progression Trial (ADOPT).
DISEGNO DELLA RICERCA E METODI – I dati di 1.840 donne e 2.511
uomini assegnati in maniera randomizzata a rosiglitazone, metformina o
glibenclamide per un periodo medio di 4.0 anni sono stati esaminati relativamente a:
tempo intercorso prima della fattura, tassi di ricorrenza e siti delle fratture.
RISULTATI – Negli uomini i tassi di frattura non differivano nei gruppi di
trattamento. Nelle donne veniva riportata almeno 1 frattura in 60 pazienti con
rosiglitazone (9.3% dei pazienti, 2.74 per 100 pazienti-anno), in 30 pazienti con
metformina (5.1%, 1.54 per 100 pazienti-anno) e in 21 pazienti con glibenclamide
(3.5%, 1.29 per 100 pazienti-anno). L’incidenza cumulativa (95% CI) a 5 anni delle
fratture nelle donne era del 15.1% (11.2-19.1) con rosiglitazone, 7.3% (4.4-10.1) con
metformina e 7.7% (3.7-11.7) con glibenclamide, e determinava un rischio
proporzionale (95% CI) di 1.81 (1.17-2.80) e 2.13 (1.30-3.51) con rosiglitazone rispetto a
metformina e glibenclamide, rispettivamente. L’aumento delle fratture con
rosiglitazone si verificava nelle donne in pre- e post-menopausa e le fratture erano
principalmente a carico degli arti inferiori e superiori. Non si identificava alcun
particolare fattore di rischio sotteso all’aumento delle fratture nelle pazienti trattate
con rosiglitazone.
CONCLUSIONI – È necessario continuare a indagare i fattori di rischio e la
fisiopatologia sottesa all’aumento delle fratture nelle donne trattate con rosiglitazone,
per correlarli ai dati pre-clinici e per comprendere meglio le implicazioni cliniche di
questi dati e i possibili interventi praticabili.
Diabetes Care 31: 845-851, 2008
Da: the 1Division of Metabolism, Endocrinology and Nutrition, Department of Medicine, VA Puget Sound Health Care System and University of Washington, Seattle, Washington; the 2Samuel
Lunenfeld Research Institute, Mount Sinai Hospital and University of Toronto, Toronto, Ontario,
Canada; the 3Biostatistics Center, George Washington University, Rockville, Maryland; the 4University of Texas Health Science Center at San Antonio, San Antonio, Texas; the 5Departments of
Internal Medicine and Epidemiology, University of Michigan, Ann Arbor, Michigan; the 6Diabetes Trials Unit, Oxford Centre for Diabetes, Endocrinology and Metabolism, Oxford, U.K.;
7GlaxoSmithKline, King of Prussia, Pennsylvania e 8King’s College London School of Medicine,
King’s College London, London, U.K.
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
l diabete di tipo 2 è associato ad aumento del rischio di fratture; il rischio
aumenta con l’aumento della durata
della malattia (1,2). Queste fratture interessano prevalentemente bacino, arti superiori e inferiori (1-5) e si verificano anche se la densità minerale ossea è normale o persino aumentata nei pazienti con
diabete di tipo 2, rispetto a coloro che
non soffrono d’iperglicemia (5-7). Sebbene non sia chiaro il motivo di quest’aumento del rischio, è stato ipotizzato che
nei pazienti anziani possa essere correlato in parte a disabilità e cadute (8). Nel
contesto di trattamenti specifici per il
diabete un recente articolo su Health,
Aging and Body Composition Study –
uno studio osservazionale – ha notato
che le donne anziane affette da diabete di
tipo 2 trattate con tiazolidinedioni avevano un aumento della perdita ossea, rispetto ai soggetti di controllo, mentre
non si osservava alcuna differenza negli
uomini (9). Tuttavia un recente studio retrospettivo ha suggerito una riduzione
della densità minerale ossea negli uomini trattati con rosiglitazone (10).
Il A Diabetes Outcome Progression
Trial (ADOPT) è un trial clinico, randomizzato e controllato che confronta l’effetto del tiazolidinedione rosiglitazone,
della biguanide metformina e della
sulfonilurea glibenclamide sul controllo
della glicemia in pazienti non ancora sottoposti a trattamento farmacologico, con
diagnosi recente (<3 anni) di diabete di
tipo 2 (11). Nello studio è stato dimostrato che il trattamento con rosiglitazone
produceva un controllo più prolungato
della glicemia, rispetto a metformina o
glibenclamide, sulla base della misura
della glicemia a digiuno e dell’A1C. Quest’effetto era il risultato della maggiore
preservazione della funzione β-cellulare
con rosiglitazone. Dopo il completamento del programma pre-specificato di analisi statistica, una revisione degli eventi
avversi di particolare interesse ha rivelato un aumento del numero delle fratture
nelle donne che assumevano rosiglitazone; una breve descrizione del dato è stata
aggiunta come post-scriptum al manoscritto principale in corso di stampa in
quel momento (11). Abbiamo osservato
una maggiore ricorrenza di fratture ossee
I
9
DIABETES CARE, MAY 2008
negli arti superiori e inferiori nelle donne, ma non di fratture dell’anca e delle
vertebre. Successivamente è stato riportato un aumento del rischio di fratture
nelle donne trattate con pioglitazone
(12), l’altro tiazolidinedione di uso clinico corrente. In quest’articolo riportiamo
dettagliatamente i dati dell’ADOPT correlati alle fratture.
DISEGNO DELLA RICERCA E
METODI
Nell’ADOPT sono stati randomizzati
4.360 soggetti con diabete di tipo 2 diagnosticato da non più di 3 anni e che non
avevano mai assunto farmaci ipoglicemizzanti orali. 9 di questi soggetti non
hanno mai assunto il farmaco dello studio; 1.456 sono stati assegnati a trattamento con rosiglitazone, 1.454 a trattamento con metformina e 1.441 a quello
con glibenclamide. Lo studio è stato condotto in 488 centri, in 17 paesi in nord
America e in Europa. Il protocollo è stato
controllato e approvato dai comitati etici
di ciascun centro e tutti i soggetti hanno
fornito consenso informato, scritto. Lo
studio è stato un trial clinico registrato.
Il protocollo dello studio è stato pubblicato in precedenza (13). In breve, l’ADOPT è un trial randomizzato, in doppio
cieco, per gruppi paralleli. I pazienti diabetici eleggibili erano d’età compresa tra
30 e 75 anni, con concentrazione della
glicemia plasmatica a digiuno tra 126 e
180 mg/dl ed erano trattati solo con stile
di vita. I criteri d’esclusione comprendevano epatopatia clinicamente significativa, alterazioni renali, storia di latto-acidosi, angina instabile o grave, scompenso cardiaco congestizio noto (classi I-IV
della New York Heart Association), che
richiedeva intervento farmacologico,
ipertensione non controllata o patologie
croniche che necessitavano di trattamento periodico o intermittente con corticosterioidi orali o somministrati per via endovenosa o uso continuato di corticosteroidi per inalazione.
I soggetti sono stati assegnati in maniera randomizzata a trattamento in
doppio cieco con rosiglitazone, metformina o glibenclamide. Le dosi giornaliere iniziali erano di 4 mg di rosiglitazone,
500 mg di metformina e 2.5 mg di glibenclamide e la dose è stata titolata fino a
quella massima giornaliera (4 mg di rosiglitazone due volte al giorno, 1 g di
metformina due volte al giorno e 7.5 mg
di glibenclamide due volte al giorno). La
titolazione forzata della dose del farmaco
è stata eseguita nel corso di ciascuna visita quando il valore della glicemia plasmatica a digiuno era ≥140 mg/dl. L’esito primario era il tempo che trascorreva
prima che la monoterapia fallisse con la
10
dose massima tollerata del farmaco dello
studio, ed è stato definito come glicemia
plasmatica a digiuno >180 mg/dl in due
occasioni successive o in base ad aggiudicazione indipendente (11).
Uso di farmaci concomitanti e
riferimento di eventi avversi
I ricercatori in ciascun sito hanno registrato l’uso di tutti i farmaci concomitanti prescritti al basale e ad ogni visita
clinica. I farmaci sono stati classificati
mediante un sistema di codificazione validato (GSKDrug). I ricercatori hanno riportato gli eventi avversi verificatesi nella fase di trattamento dello studio e questi sono stati categorizzati mediante il
Medical Dictionary for Regulatory Activities (MedDRA). Le fratture comprendevano qualsiasi frase scelta che includeva la parola “frattura” nell’ambito della
frase del gruppo di livello superiore di
“lesioni alle ossa o alle articolazioni”.
Nel caso di fratture il loro sito era quello
riportato o determinato dai ricercatori,
senza che il protocollo dello studio prevedesse aggiudicazione o successiva valutazione diretta.
Metodi, assay e calcoli
Sono stati prelevati campioni ematici
a digiuno per la misurazione di glicemia
plasmatica a digiuno, A1C e insulina.
Tutti gli esami sono stati effettuati presso
un laboratorio centrale (13).
Metodi statistici
L’incidenza cumulativa delle variabili
relative al tempo necessario per il verificarsi dell’evento è stata stimata con il
metodo di Kaplan-Meier (14), con censura degli abbandoni imputabili al farmaco
dello studio. Il rischio relativo (rischio
proporzionale [HR]) è stato stimato in
base al modello dei rischi proporzionali
di Cox (14). Questi metodi permettono
una durata d’esposizione differenziale
nei gruppi. Il confronto del trattamento
relativamente al tempo intercorso prima
della prima fattura per sito corporeo si è
basato anche sulla regressione dei rischi
proporzionali di Cox, ma è stato effettuato con il test esatto di Fisher se il conteggio era zero (cioè non v’erano fratture) in
uno dei gruppi di trattamento.
I test rank-sum di Wilcoxson sono
stati usati nel confronto delle variabili
basali nei gruppi, sulla base dell’assegnazione del trattamento (15). Le differenze
nelle proporzioni sono state testate con il
test χ2 della contingenza e le differenze
nelle variabili quantitative o ordinali sono state testate con il test di Kruskal-Wallis (15). I modelli dei rischi proporzionali
di Cox sono stati usati per valutare l’effetto dei valori correnti, aggiornati, di
peso, creatinina serica, ematocrito, calcio,
A1C e circonferenza vita, come covariate
dipendenti dal tempo sul rischio di fratture.
I dati sono presentati come medie ±
SD, se non diversamente specificato. Una
P a due vie ≤ 0.005 è stato considerata
statisticamente significativa. Le analisi
sono state condotte mediante SAS (SAS
Institute, Cary, NC).
RISULTATI
Variabili demografiche e cliniche al
basale e al follow-up
Gli uomini e le donne assegnati in
maniera randomizzata alle tre braccia del
trattamento erano ben appaiati al basale
(tabella 1). Come previsto, la maggior
parte delle donne dello studio aveva > 50
anni (71%) e riferiva di essere in postmenopausa (77%). Al basale le proporzioni di pazienti che assumevano categorie selezionate di farmaci per la salute
delle ossa non differivano per sesso nei
gruppi di trattamento (tabella 1), sebbene in generale un numero maggiore di
donne, rispetto agli uomini, assumeva
farmaci efficaci sul metabolismo osseo
(ormoni contenenti estrogeni, integratori
di calcio e bisfosfonati).
La durata media del follow-up era di
4.0 anni nei gruppi rosiglitazone e
metformina e di 3.3 anni in quello glibenclamide. Le proporzioni di pazienti
che completavano lo studio erano del 63,
62 e 56% nei gruppi rosiglitazone,
metformina e glibenclamide, rispettivamente. Pertanto il numero di pazientianno esposto al farmaco era di 4.953,8
nel gruppo rosiglitazone, 4.905,6 nella
coorte metformina e 4.243,6 nel gruppo
glibenclamide.
Fratture ossee per assegnazione di
trattamento
Sui 4.351 pazienti trattati 200 riportavano 1 frattura durante lo studio: 92
(6.3%) tra quelli assegnati in maniera
randomizzata a rosiglitazone, 59 (4.1%)
nel gruppo metformina e 49 (3.4%) nel
gruppo glibenclamide. Tenendo conto
delle differenze d’esposizione al trattamento, l’incidenza di una frattura era di
1.86 per 100 pazienti-anno con rosiglitazone, 1.20 per 100 pazienti-anni con
metformina e di 1.15 per 100 pazienti-anno con glibenclamide. La figura 1A presenta l’incidenza cumulativa stimata con
il test di Kaplan-Meier di una frattura
(95% CI), che a 5 anni raggiunge il 9.8%
(7.7-11.9) con rosiglitazone, il 5.6% (4.17.1) con metformina e il 5.7% (3.9-7.6)
con glibenclamide. Con il modello dei rischi proporzionali di Cox, gli HR stimati
(95% CI) per il rischio di frattura con rosiglitazone vs. metformina e glibenclamide erano di 1.57 (1.13-2.17; P = 0.0073) e
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, MAY 2008
Tabella 1 – Caratteristiche demografiche, misure cliniche e uso pregresso di farmaci al basale in uomini e donne per assegnazione
di trattamento
Donne
Uomini
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Rosiglitazone Metformina Glibenclamide Rosiglitazone Metformina Glibenclamide
n 645
Età (anni)
In post-menopausa
Tempo dalla diagnosi di diabete
< 1 anno
1-2 anni
> 2 anni
BMI (kg/m2)
Circonferenza vita (cm)
Rapporto vita-fianchi
Pressione arteriosa sistolica (mmHg)
Pressione arteriosa diastolica
(mmHg)
Glicemia plasmatica a digiuno (mg/dl)
A1C (%)
Insulina a digiuno (pmol)
Ormoni a contenuto di estrogeni
Integratori di calcio
Bisfosfonati
Glucocorticoidi*
Diuretici tiazidi
Diuretici dell’ansa
590
56.1 ± 10.2
498 (77.2)
605
56.7 ± 10.0
463 (78.5)
811
56.3 ± 10.7
449 (74.2)
864
56.4 ± 9.9
NA
836
57.0 ± 9.9
NA
56.6 ± 9.8
NA
275 (42.6)
351 (54.4)
18 (2.8)
33.6 ± 7.2
103.4 ± 15.3
0.90 ± 0.09
132.2 ± 15.8
79.0 ± 8.8
281 (47.6)
288 (47.6)
21 (3.6)
3.8 ± 6.8
104.4 ± 15.2
0.91 ± 0.09
132.9 ± 15.2
79.3 ± 8.5
278 (46.0)
309 (51.1)
18 (3.0)
33.8 ± 7.1
103.8 ± 16.3
0.90 ± 0.09
132.3 ± 15.1
79.2 ± 8.7
375 (46.2)
407 (50.2))
29 (3.6)
31.1 ± 6.1
106.7 ± 13.9
0.99 ± 0.07
133.65 ± 15.5
80.4 ± 8.5
392 (45.4)
436 (450,5)
36 (4.2)
31.0 ± 5.2
106.4 ± 13.6
0.98 ± 0.09
132.8 ± 15.6
80.0 ± 9.2
359 (42.9)
442 (52.9)
35 (4.2)
31.0 ± 5.3
106.8 ± 14.2
0.98 ± 0.07
133.0 ± 15.6
79.4 ± 9.1
150.9 ± 23.3
7.37 ± 0.89
154.2 ± 99.1
125 (19.4)
41 (6.4)
12 (1.9)
47 (7.3)
120 (18.6)
20 (3.1)
150.6 ± 25.6
7.36 ± 0.93
162.6 ± 113.4
137 (23.2)
52 (8.8)
11 (1.9)
41 (6.9)
123 (20,8)
27 (4.6)
151.9 ± 27.6
7.35 ± 0.88
167.8 ± 132.3
114 (18.8)
40 (6.6)
8 (1.3)
51 (8.4)
126 (20.8)
23 (3.8)
151.9 ± 25.6
7.36 ± 0.97
146.4 ± 114.9
1 (0.1)
11 (1.4)
1 (0.1)
31 (7.5)
109 (13.4)
9 (1.1)
152.8 ± 27.1
7.36 ± 0.94
144.5 ± 109.9
1 (0.1)
15 (1.7)
2 (0.2)
50 (5.8)
96 (11.1)
18 (2.1)
7.34 ± 0.95
137.9 ± 95.1
0
5 (0.6)
1 (0.1)
53 (6.3)
94 (11.2)
16 (1.9)
I dati sono medie ± SD o n (%). *Comprende tutti i modi di somministrazione. NA, non applicabile.
1.61 (1.14-2.28; P = 0.0069), rispettivamente. È interessante notare che l’aumento del rischio di frattura con rosiglitazone si manifestava per la prima volta
dopo circa 12 mesi di trattamento.
Fratture ossee negli uomini
Sui 2.511 uomini 89 riportavano 1
frattura, senza differenza tra i gruppi: 32
(4.0%) di quelli trattati con rosiglitazone,
29 (3.4%) con metformina e 28 (3.4%) con
glibenclamide. L’incidenza nel periodo
di esposizione era di 1.16 per 100 pazienti-anno con rosiglitazone, 0.98 per 100
pazienti-anno con metformina e 1.07 per
100 pazienti-anno con glibenclamide. La
figura 1B presenta l’incidenza cumulativa di una frattura stimata con il test di
Kaplan-Meier e non dimostra alcuna differenza significativa nel rischio, rispetto
al modello dei rischi proporzionali di
Cox. I siti delle fratture per assegnazione
di trattamento negli uomini sono elencati
con maggiore dettaglio nella tabella 1
dell’appendice on-line, disponibile al sito
http://dx.doi.org/10.2337/dc07-2270.
Fratture ossee nelle donne
Sulle 1.840 donne 111 riportavano 1
frattura: 60 (9.3%) di quelle trattate con
rosiglitazone, 30 (5.1%) di quelle trattate
con metformina e 21 (3.5%) di quelle trattate con glibenclamide. L’incidenza nel
periodo di esposizione era di 2.74 per
100 pazienti-anno con rosiglitazone, 1.54
per 100 pazienti-anno con metformina e
1.29 per 100 pazienti-anno con glibenclamide. L’incidenza cumulativa a 5 anni di
una frattura (figura 1C) raggiungeva il
15.1% (95% CI 11.2-19.1) con rosiglitazone, il 7.3% (4.4-10.1) con metformina e il
7.7% (3.7-11.7) con glibenclamide. Con il
modello dei rischi proporzionali di Cox
l’HR stimato (95% CI) per il rischio di
fratture con rosiglitazone vs. metformina
era di 1.81 (1.17-2.80; P = 0.008) e con rosiglitazone vs. glibenclamide era di 2.13
(1.30-3.51; P = 0.0029). Non v’era aumento apparente del rischio di fratture con
rosiglitazone nell’arco di 12 mesi di esposizione, perché l’aumento del rischio si
manifestava oltre i 12 mesi. Il rischio di
fratture non sembrava essere correlato
ad appartenenza etnica, ma i soggetti nei
sottogruppi non erano numerosi. L’11.7%
delle donne nel gruppo rosiglitazone, il
16.7% di quelle nel gruppo metformina e
il 23.8% di quelle nel gruppo glibenclamide riportavano un danno accidentale o
una caduta nei 30 giorni precedenti alla
frattura. Inoltre il 18.3% delle donne fratturate trattate con rosiglitazone, il 16.7%
di quelle trattate con metformina e il
14.3% di quelle trattate con glibenclamide riportavano più di 1 frattura.
Il 6.8% (10 su 147) delle donne in pre-
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
menopausa trattate con rosiglitazone riportava 1 frattura vs. il 3.2% (4 su 127) di
quelle trattate con metformina (P =
0.1709) e l’1.9% (3 su 156) di quelle trattate con glibenclamide (P = 0.0362). Il
10.0% (50 su 498) delle donne in postmenopausa trattate con rosiglitazone, il
5.6% (26 su 463) di quelle trattate con
metformina e il 4.0% (18 su 449) di quelle
trattate con glibenclamide riportavano 1
frattura (P = 0.0111 con rosiglitazone vs.
metformina e P = 0.0003 vs. glibenclamide).
La tabella 2 illustra le caratteristiche
demografiche e cliniche e l’uso al basale
di alcuni farmaci nelle donne che riportavano e non riportavano fratture nell’ambito di ciascun gruppo di trattamento.
Nel gruppo glibenclamide le donne che
riportavano fratture erano più anziane al
basale; nel gruppo rosiglitazone un numero maggiore di donne che riportava 1
frattura era sottoposto a trattamento antiipertensivo al basale.
La tabella 2 dell’appendice on-line
presenta le proporzioni di alcuni farmaci
concomitanti, selezionati, assunti dalle
donne con 1 frattura (fino al momento
della prima frattura) e da quelle senza
fratture (in qualsiasi momento nel corso
dello studio). Non v’erano differenze evidenti nei modi d’uso di: ormoni contenenti estrogeni, integratori di calcio, bi-
11
DIABETES CARE, MAY 2008
Figura 1 – Stime di Kaplan-Meier dell’incidenza cumulativa di fratture a 5 anni in tutti i pazienti (A), negli uomini (B) e nelle donne
(C). Le fratture erano quelle riportate nel sito clinico e gli HR (95%
CI) di questi eventi sono elencati per confronto nei gruppi di trattamento. Le barre rappresentano 95% CI.
sfosfonati, diuretici tiazidici e dell’ansa o
glucocorticoidi nelle donne che riportavano (fino al momento della prima frattura) o non riportavano una frattura (in
qualsiasi momento nel corso dello studio), in ciascun gruppo di trattamento.
Le proporzioni dei farmaci concomitanti
usati dalle donne con e senza fratture sono elencate con maggiore dettaglio nella
tabella 2 dell’appendice on-line.
Il 5.6% delle donne nel gruppo rosiglitazone riportava 1 frattura agli arti inferiori vs. il 3.1% nel gruppo metformina
(P = 0.0432) e l’1.3% nel gruppo glibenclamide (P = 0.0020) e il 3.4% riportava
una frattura agli arti superiori vs. l’1.7%
nel gruppo metformina (P = 0.0753) e
l’1.5% nel gruppo glibenclamide (P =
0.1188). Non v’era alcuna differenza nella
proporzione di donne che riportava una
12
frattura spinale (0.2% con rosiglitazone,
0.2% con metformina e 0.2% con glibenclamide). Quando si prendevano in considerazione siti specifici, si osservava
una differenza nella proporzione di donne che avevano fratture del piede (3.4%
con rosiglitazone, 1.2% con metformina e
0.7% con glibenclamide; P < 0.05 con rosiglitazone, rispetto a metformina e glibenclamide), dell’omero (0.8% con rosiglitazone e 0% con gli altri trattamenti) e
della mano (1.2% con rosiglitazone, 0.7%
con metformina e 0.2% con glibenclamide; P > 0.05 con rosiglitazone, rispetto a
metformina e glibenclamide). La figura 1
dell’appendice on-line illustra la proporzione di donne in ciascun gruppo che riportava una frattura in siti specifici e nella tabella 3 dell’appendice on-line si trova una descrizione più dettagliata dei siti
delle fratture per assegnazione di trattamento.
Nelle analisi delle covariate dipendenti dal tempo, inserite separatamente
in ciascun gruppo, l’unico effetto nominalmente significativo al valore di P
≤0.05 era l’effetto della circonferenza vita
nel gruppo glibenclamide (HR 1.031 per
cm [95% CI 1.001-1.062]; P = 0.0402). Tuttavia l’effetto di questa covariata non differiva significativamente nei gruppi di
trattamento. Nessuna della altre covariate aveva effetto significativo (P nominale
≤0.05) sul rischio di fratture nelle donne
di ciascun gruppo e inoltre gli effetti delle covariate non differivano nei gruppi.
Sebbene le modificazioni di peso non influissero significativamente sul rischio di
fratture nelle donne di ciascun gruppo di
trattamento, indipendentemente dal trat-
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, MAY 2008
Tabella 2 – Caratteristiche demografiche, basali e farmaci precedentemente utilizzati per assegnazione del trattamento nelle donne con e senza fratture
Rosiglitazone
Metformina
Glibenclamide
–––––––––––––––––––––––––––––––– –––––––––––––––––––––––––––––– –––––––––––––––––––––––––––––––––––
Con
fratture
n
60
Età
≤ 50 anni
11 (18.3)
> 50 a ≤ 60 anni
24 (40.0)
> 60 anni
25 (41.7)
Razza
Bianca
53 (88.3)
Di colore
1 (1.7)
Asiatica
0 (0.0)
Ispanica
5 (8.3)
Altro
1 (1.7)
In post-menopausa: sì
50 (83.3)
Status di fumatore: sì
4 (6.7)
Consumo di alcol: sì
17 (28.3)
Farmaci antiipertensivi
40 (66.7)
sì
Farmaci ipolipemizzanti 14 (23.3)
sì
Ormoni contenenti
13 (21.7)
estrogeni
Integratori del calcio
4 (6.7)
Vitamina D
6 (10.0)
Bisfosfonati
1 (1.7)
Glucocorticoidi
4 (6.7)
Statine
10 (16.7)
Diuretici tiazidici
14 (23.3)
Diuretici dell’ansa
2 (3.3)
Età (anni)
58.7 ± 9.70
33.5 ± 6.42
BMI (kg/m2)
A1C (%)
7.49 ± 0.957
Glicemia plasmatica
152.8 ± 20.35
a digiuno (mg/dl)
Pressione arteriosa
132.1 ± 13.90
sistolica
Pressione arteriosa
78.7 ± 8.04
diastolica
Senza
fratture
P
585
Con
fratture
Senza
fratture
P
Con
fratture
Senza
fratture
21
584
3 (14.3)
197 (33.7)
13 (61.9)
176 (30.1)
508 (87.0)
0.805
12 (2.1)
25 (4.3)
1 (0.2)
431 (73.8)
71 (12.2)
163 (27.9)
336 (57.5)
0.220
0.347
0.136
0.367
30
560
8 (26.7)
11 (36.3)
11 (36.7)
153 (27.3)
4855 (86.6)
13 (2.3)
25 (4.5)
5 (0.9)
437 (78.0)
67 (12.0)
143 (25.5)
325 (58.0)
0.263
0.443
0.180
0.052
20 (95.2)
38 (6.5)
0 (0.0)
0 (0.0)
0 (0.0)
18 (85.7)
4 (19.0)
9 (42.9)
10 (47.6)
181 (30.9)
205 (35.0)
199 (34.0)
0.065
497 (85.0)
28 (4.8)
15 (2.6)
42 (.7.2)
3 (0.5)
448 (76.6)
79 (13.5)
173 (29.6)
306 (52.3)
0.398
2 (6.7)
0.235
0.132
0.841
0.034
28 (93.3)
32 (5.7)
0 (0.0)
0 (0.0)
0 (0.0)
26 (86.7)
5 (16.7)
11 (36.7)
12 (40.0)
138 (23.6)
0.965
7 (23.3)
140 (25.0)
0.837
7 (33.3)
134 (22.9)
0.269
112 (19.1)
0.638
5 (16.7)
132 (23.6)
0.383
5 (23.8)
109 (18.7)
0.554
37 (6.3)
47 (8.0)
11 (1.9)
43 (7.4)
119 (20.3)
106 (18.1)
18 (3.1)
55.9 ± 10.17
33.7 ± 7.23
7.36 ± 0.879
150.7 ± 23.56
0.918
0.598
0.907
0.846
0.498
0.323
0.193
0.041
0.936
0.373
0.1914
3 (10.0)
49 (8.8)
0.814
3 (10.0)
52 (9.3)
0.896
1 (3.3)
10 (1.8)
0.542
1 (3.3)
40 (7.1)
0.424
6 (20.0)
126 (22.5)
0.749
4 (13.3)
119 (21.3)
0.298)
2 (6.7)
25 (4.5)
0.574
57.4 ± 9.73
56.6 ± 10.02 0.854
34.1 ± 5.98
33.8 ± 6.86
0.713
7.31 ± 0.821 7.36 ± 0.935 0.883
149.1 ± 23.37 150.7 ± 25.75 0.686
1 (4.8)
2 (9.5)
0
2 (9.5)
5 (23.8)
5 (23.8)
0
61.1 ± 9.09
32.6 ± 6.77
7.31 ± 1.103
148.3 ± 17.04
39 (6.7)
45 (7.7)
8 (1.4)
49 (8.4)
111 (19.0)
121 (20.7)
23 (3.8)
56.1 ± 10.76
33.8 ± 7.08
7.36 ± 0.872
152.0 ± 27.86
0.728
0.760
0.589
0.854
0.583
0.732
0.354
0.029
0.496
0.644
0.758
132.2 ± 15.98
0.759
131.0 ± 12.94 133.0 ± 15.31
0.648
129.4 ± 13.97
132.5 ± 15.17 0.497
79.1 ± 8.89
0.658
0.160
80.5 ± 7.95
77.1 ± 7.77
0.954
5 (23.8)
P
204 (36.4)
79.4 ± 8.49
0.645
1 (4.8)
0.012
211 (36.1)
79.2 ± 8.76
0.452
I dati sono n (%) o media ± SD. *Comprende tutti i modi di somministrazione.
tamento tutte le donne avevano un maggior rischio di fratture con l’aumento del
peso corporeo (1.04 per kg [1.01-1.07]; P
= 0.0140). Tuttavia le modificazioni del
peso nel tempo non influivano in maniera significativa sull’aumento stimato del
rischio con rosiglitazone, poiché l’HR aggiustato per rosiglitazone vs. glibenclamide era di 2.06 (95% CI 1.25-3.42) e un
HR di 1.60 (0.99-2.60) vs.metformina, simili a quelli delle analisi aggiustate.
CONCLUSIONI
Abbiamo riscontrato che nelle donne
con diabete di tipo 2 il trattamento prolungato con il tiazolidinedione rosiglitazone comporta approssimativamente il
raddoppio del rischio di fratture ossee,
rispetto al trattamento con metformina o
glibenclamide. Questo aumento del rischio si verifica nelle donne in pre-menopausa e in quelle in post-menopausa, si
manifesta dopo 1 anno di trattamento e
sembra dipendere da un aumento delle
cadute o di incidenti agli arti. La maggioranza degli eventi si verificava nelle donne in post-menopausa, che avevano
un’incidenza maggiore di fratture. Il numero limitato di dati relativi alle donne
in pre-menopausa, sebbene non sia definitivo, concorda con un effetto simile.
Nell’arco di 5 anni di follow-up non si
registrava aumento del rischio di fratture
negli uomini.
Il nostro articolo mette in luce l’utilità
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
di trial ampi, a lungo termine. La maggior parte degli studi clinici sui tiazolidinedioni è di dimensioni limitate e ha una
durata di 3-12 mesi. Sulla base dei dati
dello studio ADOPT, secondo i quali l’incidenza cumulativa delle fratture non
differiva nei 3 trattamenti se non dopo 1
anno, non sorprende che quest’effetto
avverso non sia stato riportato precedentemente. Infatti fino a quando non abbiamo documentato quest’effetto negativo
del rosiglitazone nell’ADOPT (11), non
era mai stato dimostrato clinicamente un
aumento del rischio di fratture con un
tiazolidinedione. L’unica indicazione di
questa possibilità era venuta da uno studio epidemiologico, condotto su 69 donne d’età compresa tra 70 e 79 anni, che
13
DIABETES CARE, MAY 2008
manifestavano aumento della perdita
minerale ossea nel trattamento con un
tiazolidinedione (9). Successivamente alla nostra pubblicazione iniziale è stato riportato anche l’altro tiazolidinedione, il
pioglitazone, è associato a un amento di
~ 70% del rischio di fratture nelle donne
(12) e ciò indica che quest’effetto avverso
è probabilmente un effetto della classe
dei tiazolidinedioni.
È nota l’associazione tra diabete e aumento del rischio di fratture (1-3,5) e questo rischio è stato ben documentato nello
studio Women’s Health Initiative, nel
quale > 90.000 donne sono state seguite
per 7 anni (5). La coorte comprendeva circa il 5% di donne diabetiche, nelle quali si
osservava l’associazione del diabete con
un aumento del 20% del rischio di fratture, più frequentemente localizzate nella
colonna vertebrale, nell’anca, e negli arti
inferiori e superiori, ad eccezione di
avambraccio, polso e mano. Quest’aumento del rischio di fratture si verificava
nonostante l’aumento della densità ossea
nelle pazienti diabetiche, rispetto a quelle
non diabetiche (5-7). Inoltre le fratture
nelle pazienti diabetiche spesso sono di
natura non traumatica (16).
Quale, pertanto, può essere il meccanismo responsabile dell’aumento del rischio di fratture nelle donne trattate con
tiazolidinedioni? Questo meccanismo non
è del tutto chiaro, ma dati animali (17) e,
recentemente, umani (10,18) hanno dimostrato che la somministrazione di tiazolidinedioni è associata a riduzione della
densità ossea. È stato recentemente riportato che negli esseri umani quest’effetto
deleterio si è verificato in donne non diabetiche, in post-menopausa, che sono state sottoposte a trattamento per 14 settimane e, sulla base delle misure di biomarcatori, è stato osservato che si tratta del risultato dell’accelerazione del riassorbimento osseo e della riduzione della
neoformazione ossea (18). Questi dati sono supportati da studi sui roditori (17),
che hanno anche dimostrato che l’attivazione del recettore perossissomiale proliferator-activated promuove la differenziazione dell’adipocita e non dell’osteoblasto
dalle cellule progenitrici mesenchimali
(19-21) e può ridurre i valori di IGF-1 nell’osso e pertanto ridurre anche la formazione di osteoblasti (22). Abbiamo riportato in precedenza che nell’ADOPT 5 anni
dopo l’inizio del trattamento con rosiglitazone il rischio di fallimento della monterapia si riduceva del 32%, rispetto a quello con metformina e del 63%, rispetto a
quello con glibenclamide (11). Il fatto che
le fratture aumentassero nelle donne trattate con rosiglitazone, nonostante il farmaco garantisse maggiore durata del controllo della glicemia, indica che non è probabile che l’iperglicemia sia un mediatore
14
di quest’effetto deleterio della classe dei
farmaci tiazolidinedioni. Infine l’analisi
delle covariate dipendenti dal tempo non
è riuscita a identificare un qualsiasi fattore
particolare di rischio relativamente all’aumento delle fratture con rosiglitazone che,
in particolare, non era correlato ad aumento del peso.
I nostri dati hanno dei limiti, che
però non sembravano influire sulla rilevanza clinica delle osservazioni. Primo, i
rilievi delle fratture non sono stati raccolti sistematicamente o aggiudicati e il fatto che le fratture vertebrali spesso non
sono avvertite ha forse determinato errori di accertamento. Inoltre la causa e l’esito delle fratture riportate non sono stati
valutati sistematicamente. Secondo, non
abbiamo misurazioni della densità ossea
per valutare se l’uso a lungo termine del
rosiglitazone comportava perdita ossea.
Terzo, poiché la coorte era relativamente
giovane e il follow-up si è protratto per
una media di 4.0 anni, non possiamo
escludere che l’esposizione al farmaco
nel tempo non sia associata ad aumento
del rischio di fratture in altri siti.
Per riassumere, abbiamo documentato
un aumento del rischio di fratture con rosiglitazone, rispetto a metformina o glibenclamide, nelle donne con diabete di tipo 2. È stato osservato un aumento del rischio di fratture anche con pioglitazone e
questi aumenti si verificano in generale
nel contesto del rischio elevato di fratture
nelle donne con diabete di tipo 2. Non è
chiaro il meccanismo mediante il quale
queste fratture avvengono. Tuttavia il rischio di fratture dovrebbe essere preso in
considerazione nel trattamento di pazienti
con diabete di tipo 2, soprattutto nel caso
di donne trattate con tiazolidinedioni e si
deve prestare attenzione alla valutazione
e al mantenimento della salute ossea, sulla base degli standard di cura correnti.
Bibliografia
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, MAY 2008
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
15
DIABETES CARE, MAY 2008
Effetti di ramipril e rosiglitazone sugli
eventi cardiovascolari e renali nei
soggetti con tolleranza al glucosio o
glicemia a digiuno alterate
Risultati del trial Diabetes REduction Assessment with ramipril and rosiglitazone
Medication (DREAM)
THE DREAM TRIAL INVESTIGATORS*
OBIETTIVO – L’alterata tolleranza al glucosio (IGT) e/o l’alterata glicemia a
digiuno (IFG) sono fattori di rischio per diabete, patologia cardiovascolare (CVD) e
renale. Abbiamo determinato gli effetti di ramipril e rosiglitazone su CVD combinata
e individuale e sugli eventi renali nei soggetti con IGT e/o IFG del trial Diabetes
Reduction Assessment with ramipril and rosiglitazone Medication (DREAM).
DISEGNO DELLA RICERCA E METODI – 5.269 soggetti d’età ≥ 30 anni,
con IGT e/o IFG senza CVD o insufficienza renale sono stati randomizzati a 15
mg/giorno di ramipril vs. placebo e 8 mg/giorno di rosiglitazone vs. placebo. Un
esito composito cardiorenale e le sue componenti CVD e renale sono stati valutati nel
corso del follow-up di 3 anni.
RISULTATI – Rispetto al placebo, né il ramipril (15.7% [412 su 2.623] vs. 16.0% [424
su 2.646]; rischio proporzionale [HR] 0.98 [95% CI 0.84-1.13]; P = 0.75) né il
rosiglitazone (15.0% [394 su 2.635] vs. 16.8% [442 su 2.634]; 0.87 [0.75-1.01]; P = 0.07)
riducevano il rischio dell’esito composito cardiorenale. Il ramipril non aveva alcun
impatto sulle componenti CVD e renale. Il rosiglitazone aumentava lo scompenso
cardiaco (0.53 vs. 0.08%; HR 7.04 [95% CI 1.60-31.0]; P = 0.01), ma riduceva il rischio
della componente renale (0.80 [0.68-0.93]; P = 0.005); la prevenzione del diabete era
indipendentemente associata alla prevenzione renale (P < 0.001).
CONCLUSIONI – Il ramipril non modifica gli eventi cardiorenali o le loro
componenti. Il rosiglitazone, che riduceva il rischio di diabete, riduceva anche lo
sviluppo della patologia renale, ma non gli eventi cardiorenali e aumentava il rischio
di scompenso cardiaco.
Diabetes Care 31: 1007-1014, 2008
l trial Diabetes Reduction Assessment
with ramipril and rosiglitazone Medication (DREAM) ha assegnato in maniera randomizzata soggetti con alterata
glicemia a digiuno (IFG) e/o alterata tolleranza al glucosio, senza patologia cardiovascolare (CVD) nota o patologia renale significativa all’ACE inibitore ramipril o a placebo e al tiazolidinedione rosiglitazone o a placebo, in base a un disegno fattoriale 2 x 2 (1). Dopo un followup medio di 3 anni il ramipril non riduceva significativamente l’esito primario
I
di diabete o morte, rispetto al placebo;
tuttavia esso riduceva in maniera modesta i valori della glicemia dopo carico e
aumentava la regressione di IGT o IFG a
normoglicemia (2). Nell’arco dello stesso
periodo il rosiglitazone riduceva l’esito
primario del 60% e i valori della glicemia
a digiuno e dopo carico e aumentava la
regressione alla normoglicemia (3). Complessivamente nessuno dei due farmaci
incideva sugli eventi di CVD; invece lo
0.5% dei partecipanti assegnati a rosiglitazone vs. lo 0.1% di quelli assegnati a
Da: the DREAM Trial Study Group, Population Health Research Institute, Hamilton, Canada.
16
placebo sviluppava scompenso cardiaco
congestizio.
IFG e IGT sono fattori di rischio per
CVD (4,5); tuttavia i soggetti con IFG o
IGT con CVD sono stati esclusi dal trial
perché sono noti i benefici cardiovascolari degli ACE inibitori (6). Pertanto sono
stati previsti pochi eventi di CVD e il
protocollo ha pre-specificato un esito secondario composito cardiorenale, che
comprendeva eventi cardiovascolari e renali. Gli effetti di ramipril e rosiglitazone
su quest’esito composito e sulle sue componenti sono descritti qui di seguito.
DISEGNO DELLA RICERCA E
METODI
Il disegno del trial DREAM è stato riportato precedentemente (1-3). In breve,
uomini e donne non diabetici d’età ≥ 30
anni con IFG (glicemia plasmatica a digiuno tra 110 e 126 mg/dl [6.1-7.0
mmol/l]) e/o IGT (2 h dopo carico con
75 g di glucosio orale glicemia plasmatica tra 140 e 200 mg/dl [7.8-11.0 mmol/l])
sono stati arruolati in 191 centri, tra luglio 2001 e agosto 2003. I criteri chiave
d’esclusione sono stati: eiezione ventricolare sinistra < 40% o scompenso cardiaco congestizio, CVD documentata e
definita come cardiopatia ischemica,
stroke, claudicatio intermittense con indice di pressione caviglia-braccio ≤ 0.8,
ipertensione non controllata, che necessitava di ACE inibitori o di bloccanti del
recettore dell’angiotensina-2, stenosi dell’arteria renale nota, clearance della creatinina ≤ 2.26 mg/dl (200 µmol/l) o proteinuria clinica. Il protocollo è stato approvato dal comitato etico di ciascun
centro e tutti i partecipanti hanno fornito
il consenso informato, scritto.
Valutazione, randomizzazione e
follow-up
Al basale i partecipanti sono stati sottoposti a breve esame e hanno risposto alle domande di un questionario standar-
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, MAY 2008
dizzato riguardo alla loro storia clinica,
sintomi correnti di CVD, uso di farmaci e
trattamenti cardiovascolari e renali. Dopo
la randomizzazione i partecipanti sono
stati assegnati a 5 mg/giorno di ramipril
per 2 mesi, 10 mg/giorno per 10 mesi e
successivamente 15 mg/giorno o a placebo e a 4 mg/giorno di rosiglitazone per 2
mesi e 8 mg/giorno da quel momento in
poi o a placebo. Le visite dello studio sono
state effettuate a 2 e 6 mesi e successivamente ogni 6 mesi. Il periodo medio di follow-up è stato di 3 anni.
Gli eventi clinici sono stati accertati nel
corso di ciascuna visita. La pressione arteriosa a riposo e la frequenza cardiaca sono
state misurate al basale, a 2 e 12 mesi e
ogni 12 mesi da quel momento in poi; gli
elettrocardiogrammi (ECG) sono stati registrati al basale, a 2 anni e alla fine dello
studio. Sono stati prelevati campioni serici
e delle prime urine del mattino al basale e
alla fine dello studio e sono stati inviati al
laboratorio centrale per la misurazione
della creatinina serica e del rapporto albumina-creatinina urinarie. La stima del tasso di filtrazione glomerulare (eGFR) è stata calcolata col metodo di Cockroft e
Gault, che si basa su creatinina serica, età,
sesso e peso dei partecipanti.
Urina e creatinina serica sono state misurate mediante analizzatore Roche Hitachi 917 e l’albumina urinaria con un metodo di cromatografia liquida ad elevata
prestazione approvato dalla Federal Drug
Administration. Poiché questo metodo individua quantità maggiori di albumina
nelle urine, rispetto all’immunoassay, e ha
minori probabilità di sottovalutare i frammenti di albumina nei soggetti diabetici
(7,8), nel rapporto albumina-creatinina sono stati identificati valori soglie di microalbuminuria e proteinuria clinica, che
corrispondevano alle soglie dell’immunoassay di 2.0 e 36 mg/mmol, rispettivamente (pre-specificate nel protocollo
DREAM), mediante confronto della cromatografia liquida ad alta prestazione e
dell’immunoassay delle urine nel Heart
Outcome, Prevention Evaluation (HOPE)
(9-11).
Esiti dello studio
L’esito cardiorenale composito prespecificato comprendeva: 1) un evento
cardiovascolare composito, definito come
il primo evento di morte cardiovascolare,
successiva rianimazione cardiaca, infarto
non fatale del miocardio (MI), stroke, procedura di rivascolarizzazione, angina stabile o instabile nuova con ischemia documentata o scompenso cardiaco o 2) evento
renale composito, definito come uno qualsiasi dei seguenti eventi: progressione da
normoalbuminuria a microalbuminuria o
proteinuria o da microalbuminuria a proteinuria, riduzione del GFR di ≥ 30% o in-
sufficienza renale che richiedeva dialisi o
trapianto. È stata definita microalbuminuria un singolo rapporto albumina-creatinina del primo mattino > 4.4 mg/mmol e <
36 mg/mmol. È stata definita proteinuria
clinica un rapporto albumina-creatinina ≥
36 mg/mmol o un riferimento aggiudicato di proteinuria clinica. È stata anche valutata la regressione da microalbuminuria
a normoalbuminuria.
La morte cardiovascolare comprendeva l’improvvisa morte cardiovascolare,
morte per MI, stroke, scompenso cardiaco,
aritmia, vascolopatia (embolia polmonare
o rottura aortica), CVD presunta (morte
non compatibile con i criteri di MI o
stroke) o morte per causa sconosciuta. La
diagnosi di MI richiedeva 1) un valore della troponina almeno doppio del valore più
basso, che indicava necrosi, o valore dell’isoenzima MB della creatinin-chinasi ≥ 1.5
volte al limite superiore normale o altri enzimi cardiaci almeno doppi, rispetto al limite superiore normale e 2) modificazioni
ischemiche acute all’ECG o dolore ischemico precorttiale della durata di almeno
10 min. La diagnosi di stroke richiedeva
un deficit neurologico acuto localizzato,
della durata di almeno 24 h e diagnostica
per immagini. Lo scompenso cardiaco richiedeva ospedalizzazione o ricovero in
pronto soccorso per 2 giorni consecutivi
per scompenso cardiaco diagnosticato in
base a 2 dei 3 criteri seguenti: 1)segni e/o
sintomi di scompenso cardiaco, 2) evidenza radiologica di congestione polmonare o
3) uso di diuretici o di farmaci inotropi o
vasodilatatori. Tutti gli eventi sono stati
aggiudicati da cardiologi o endocrinologi
che non conoscevano i farmaci somministrati nello studio, compresi 3 nuovi casi
di angina (1 trattato con rosiglitazone solamente, 1 con solo ramipril e 1 con doppio
placebo) non elencati nelle pubblicazioni
originali del trial DREAM, in quanto si
erano verificati nel corso della fase attiva
dello studio, ma non erano stati identificati al momento della chiusura dei siti clinici, successivamente alla fase di interruzione post-trial.
Analisi statistica
Il test t di Student e i test χ2 sono stati
impiegati nei confronti univariati delle variabili continue e di categoria, rispettivamente. È stato ritenuto che i partecipanti
che alla fine dello studio non avevano
campioni di urina e serici avessero valori
non diversi da quelli basali. I soggetti dei
quali non era disponibile lo status di CVD
alla visita finale sono stati censurati al momento della visita finale. I modelli dei rischi proporzionali di Cox sono stati usati
nella stima dell’effetto di ciascuno farmaco
dello studio, stratificato per l’altro farmaco
relativamente ai rischi proporzionali (HR)
degli esiti di CVD ed è stata valutata la
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
possibilità d’interazione statistica tra i 2
farmaci dello studio su questi esiti, includendo un termine d’interazione nel modello. HR e 95% CI sono stati calcolati con
i corrispondenti valori di P a due vie. Gli
HR per esiti cardiorenali e renali sono stati
calcolati mediante modelli di regressione
logistica, con aggiustamenti per l’effetto
dell’altro farmaco. Non è stato possibile
usare i modelli di Cox per questi esiti perché essi sono stati valutati in tutti i partecipanti solamente alla fine dello studio. Sono stati costruiti modelli di regressione logistica anche per determinare se la prevenzione del diabete con rosiglitazone
avrebbe anche potuto prevenire l’esito
composito renale (la variabile dipendente). Nel primo modello sono stati inclusi
come variabili indipendenti il diabete incidente (nel corso del follow-up medio di 3
anni del trial DREAM) e l’assegnazione a
rosiglitazone. Nel secondo modello il diabete è stato sostituito con il tempo necessario per lo sviluppo del diabete, classificato in base al suo verificarsi nei primi 1.5
anni del follow-up, dopo 1.5 anni o mai. In
questi 2 modelli sono anche stati inclusi
l’assegnazione a ramipril, il rapporto basale albumina-creatinina e l’eGFR calcolato
al basale, come variabili indipendenti. Le
interazioni sono state testate includendo
nel modello un termine d’interazione.
RISULTATI
Alla fine dello studio era disponibile lo
status di CVD del 98% dei partecipanti
randomizzati. I valori di albumina creatinina-urinarie e della creatinina serica rilevati alla visita finale erano disponibili in
4.106 (78%) e 4.236 (80%) partecipanti, rispettivamente. Rispetto ai partecipanti che
avevano un accertamento renale finale,
quelli che non l’avevano erano più giovani
(53.5 vs. 55.0 anni, P = 0.0013), v’erano
maggiori probabilità che fossero donne
(62.1 vs. 58.6%, P = 0.042), avevano glicemia plasmatica a digiuno più bassa (5.78
vs. 5.85 mmol/l, P = 0.004), un valore più
elevato della glicemia a 2 h (8.80 vs. 8.66
mmol/l, P = 0.006), creatinina serica più
bassa (74.3 vs. 75.7 mg/dl, P = 0.04), avevano maggiore probabilità di essere fumatori (14.8 vs. 11.6%, P = 0.004) e assumevano in misura minore aspirina (12.1 vs.
14.8%, P = 0.023) e farmaci ipolipemizzanti (12.5 vs. 15.4%, P = 0.020).
Esito cardiorenale
Nel corso dei 3 anni di follow-up 836
partecipanti avevano un primo evento
cardiorenale composito, che comprendeva 133 (2.5%) eventi cardiovascolari compositi e 718 (13.6%) eventi renali compositi. L’evento cardiorenale composito si
verificava in 1) 412 su 2.623 (15.7%) partecipanti assegnati a ramipril e 424 su
17
DIABETES CARE, MAY 2008
Tabella 1 – Caratteristiche basali dei partecipanti con e senza esiti cardiorenali, cardiovascolari e renali
Caratteristica
Cardiorenali
––––––––––––––––––––––––
Sì
No
n
836 (100)
Età (anni)
57.4 ± 11.2
Donne
521 (62.3)
IFG isolata
110 (13.2)
IGT isolata
459 (54.9)
IFG + IGT
267 (32.0)
Glicemia plasmatica a digiuno (mmol/l) 5.88 ± 0.67
2 h dopo 75 g glucosio (mmol/l)
8.74 ± 1.43
Creatinina serica (mmol/l)
74.5 ± 22.2
Microalbuminuria
96 (11.6)
Ipercolesterolemia
307 (36.7)
Storia d’ipertensione
428 (51.2)
Pressione arteriosa sistolica (mmHg)
138.4 ± 17.9
Pressione arteriosa diastolica (mmHg) 83.4 ± 10.4
Indice caviglia braccio
1.21 ±0.17
BMI (kg/m2)
31.0 ± 5.7
Rapporto vita-fianchi (uomini)
0.96 ± 0.06
Rapporto vita fianchi (donne)
0.87 ± 0.08
Fumatori correnti
110 (13.2)
Unità/l di alanina aminotrasferasi
27.2 ± 14.6
ECG-LVH con segni di sovraccarico
25 (3.0)
Aspirina o antipiastrinici
150 (18.0)
Tiazidi
94 (11.3)
Altri diuretici
71 (8.5)
Aldactone
10 (1.2)
Bloccanti del recettore dell’angiotensina 48 (5.7)
Beta-bloccanti
174 (20.8)
Bloccanti del canale del calcio
152 (18.2)
Alfa-bloccanti
18 (2.2)
Farmaci ipolipemizzanti
132 (15.8)
4,433 (100)
54.2 ± 10.8*
2,599 (58.6)†
629 (144.2)
2,568 (57.9)
1,236 (27.9)†
5.82 ± 0.66†
8.67 ± 1.43
75.6 ± 16.5
895 (20.9)*
1,564 (35.3)
1,863 (42.0)*
135.7 ± 18.4‡
83.4 ± 10.9
1.22 ± 0.18
30.9 ± 5.6
0.96 ± 0.07
0.87 ± 0.08
532 (12.0)
292 ± 16.5§
51 (1.2)*
604 (13.6)‡
419 (9.5)
203 (4.6)*
30 (0.7)
238 (5.4)
738 (16.6)§
525 (11.8)*
90 (2.0)
648 (14.6)
Cardiovascolari
––––––––––––––––––––––––
Sì
No
133 (100)
62.9 ± 10.0
60 (45.1)
17 (12.8)
62 (46.6)
54 (40.6)
6.01 ± 0.66
8.80 ± 1.49
83.7 ± 20.5
37 (29.1)
64 (48.1)
87 (65.4)
142.2 ± 18.4
84.1 ± 10.6
0.19 ± 0.20
30.5 ± 5.6
0.97 ± 0.06
0.88 ± 0.08
18 (13.5)
26.9 ± 13.6
11 (8.3)
33 (24.8)
25 (18.8)
20 (15.0)
4 (3.0)
14 (10.5)
36 (27.1)
35 (26.3)
3 (2.3)
32 (24.1)
5,136 (100)
54.5 ± 10.9*
3,060 (59.6)‡
722 (14.1)
2,965 (57.7)§
1,449 (28.2)§
5.83 ± 0.66§
8.68 ± 1.43
75.3 ± 17.4
954 (19.1)§
1,807 (35.2)§
2,204 (42.9)*
135.9 ± 18.3*
83.4 ± 10.8
1.19 ± 0.20
30.9 ± 5.6
0.96 ± 0.07
0.87 ± 0.08
624 (12.2)
28.9 ± 16.3
65 (1.3)*
721 (14.0)‡
488 (9.5)‡
254 (5.0)*
36 (0.7)§
272 (5.3)§
876 (17.1)§
642 (12.5)*
105 (2.0)
748 (14.6)§
Renali
–––––––––––––––––––––––––––
Sì
No
718 (100)
56.4 ± 11.1
472 (65.7)
95 (13.2)
408 (56.8)
215 (29.9)
5.85 ± 0.67
8.73 ± 1.43
72.9 ± 22.0
62 (8.7)
249 (34.7)
355 (49.4)
137.7 ± 17.6
83.3 ± 10.4
1.21 ± 0.16
31.0 ± 5.6
0.96 ± 0.06
0.87 ± 0.08
94 (13.1)
27.2 ± 14.8
18.0 (2.5)
120 (16.7)
72 (10.0)
52 (7.3)
8 (1.1)
36 (5.0)
143 (19.9)
122 (17.0)
15 (2.1)
102 (14.2)
4,551 (100)
54.1 ± 10.9*
2,648 (58.2)*
644 (14.2)
2,619 (57.6)
1,288 (28.3)
5.83 ± 0.66
8.68 ± 1.43
75.9 ± 16.7‡
929 (21.1)*
1,622 (35.6)
1,936 (42.5)§
135.8 ± 18.5†
83.4 ± 10.8
1.22 ± 0.18
30.9 ± 5.6
0.96 ± 0.07
0.87 ± 0.08
548 (12.0)
29.1 ± 16.5§
634 (13.9)†
634 (13.9)†
441 (9.7)
222 (4.9)§
32 (0.7)
250 (5.5)
769 (16.9)†
555 (12.2)‡
93 (2.0)
678 (14.9)
I dati sono medie ± SD o n (%). *P <0.0001; †P <0.001; §P <0.01. LVH, ipertrofia ventricolare sinistra.
2.646 (16.0%) assegnati a placebo (HR
0.98 [95% CI 0.84-1.13]; P = 0.75) e 2) 394
su 2.635 (15.0%) partecipanti assegnati a
rosiglitazone e 442 su 2.634 (16.8%) assegnati a placebo (0.87 [0.75-1.01]; P =
0.07). Le caratteristiche basali dei partecipanti con e senza eventi cardiorenali e le
loro componenti sono illustrate nella tabella 1. Non v’era alcuna interazione statisticamente significativa tra gli effetti di
ramipril e rosiglitazone sull’esito cardiorenale (P = 0.09). I tassi degli eventi per
ciascuna cellula del disegno fattoriale
erano 1) del 15.6% (204 su 1.310) con rosiglitazone e ramipril, 2) del 15.7% (207
su 1.313) con ramipril e placebo, 3) del
14.3% (189 su 1.325) con rosiglitazone e
placebo e 4) del 17.8% (235 su 1.321) con
placebo e placebo.
Componente cardiovascolare
Il ramipril non alterava il numero degli eventi cardiovascolari o quello composito di morte cardiovascolare, MI non fatale o stroke o di qualsiasi evento cardiovascolare individuale. Allo stesso modo il ro-
18
siglitazone non riduceva il rischio complessivo di eventi cardiovascolari, ma aumentava significativamente il rischio di
scompenso cardiaco (tabella 2). Non v’era
alcuna interazione negli esiti della componente cardiovascolare tra ramipril e rosiglitazone (P = 0.07). I tassi degli eventi per
ciascuna cellula del disegno fattoriale erano del 3.4% (45 su 1.310) con rosiglitazone
e ramipril, 1.8% (24 su 1.313) con ramipril
e placebo, 2.4% (32 su 1.325) con rosiglitazone e placebo e 2.4% ( 32 su 1.321) con
placebo e placebo.
I 16 pazienti con scompenso cardiaco
erano a maggior rischio per eventi cardiovascolari, rispetto agli altri partecipanti
del trial DREAM. Essi erano più anziani
(67.5 vs. 54.7 anni), avevano pressione arteriosa sistolica più alta (147.5 vs. 136.1
mmHg) e più frequentemente presentavano storia d’ipertensione (94 vs. 43%) e
ipertrofia ventricolare sinistra al tracciato
ECG (25 vs. 5%). Essi assumevano anche
più antipiastrinici, diuretici, beta-bloccanti, bloccanti del recettore dell’angiotensina,
farmaci ipolipemizzanti e bloccanti del ca-
nale del calcio. I dati tratti dalla documentazione fornita per l’aggiudicazione dei 16
partecipanti con scompenso cardiaco evidenziavano che 1) 3 casi erano associati a
grave patologia delle valvole cardiache, 2)
4 a coronaropatia acuta, 3) 2 a frazione
d’eiezione ventricolare sinistra < 40% e 4)
2 a fibrillazione atriale. Sui 14 partecipanti
che sviluppavano scompenso cardiaco con
rosiglitazone, 9 sospendevano il trattamento, 2 morivano (1 successivamente all’intervento di sostituzione della valvola
aortica e all’impianto di bypass coronario
e 1 per MI acuto associato a scompenso
cardiaco) e 1 soggetto con insufficienza renale aveva scompenso cardiaco ricorrente,
nonostante avesse sospeso il rosiglitazone
al momento del primo episodio.
Componente renale
Il ramipril non alterava la componente
renale dell’esito composito (tabella 3). Il
rosiglitazone riduceva questa componente
del 20%, grazie a riduzione nella progressione dell’albuminuria, ma una riduzione
dell’eGFR ≥ 30% non era significativa (ta-
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, MAY 2008
Tabella 2 – Componente cardiovascolare dell’esito composto cardiorenale
Evento
Evento composto cardiovascolare
Morte cardiovascolare
MI
Stroke
Scompenso cardiaco congestizio
Rivascolarizzazione
Nuova angina
Morte cardiovascolare, MI o stroke
Mortalità totale
Ramipril
Placebo
HR (95% CI)
Rosiglitazone
Placebo
HR (95% CI)
69 (2.6)
12 (0.5)
14 (0.5)
4 (0.2)
12 (0.5)
28 (1.1)
24 (0.9)
27 (1.0)
31 (1.2)
64 (2.4)
10 (0.4)
11 (0.4)
8 (0.3)
4 (0.2)
38 (1.4)
20 (0.8)
29 (1.1)
32 (1.2)
1.09 (0.78-1.53)*
1.21 (0.52-2.80)
1.29 (0.59-2.84)
0.50 (0.15-1.66)
3.06 (0.99-9.48)
0.74 (0.46-1.21)
1.21 (0.67-2.19)
0.94 (0.5-1.59)*
0.98 (0.60-1.61)*
77 (2.9)
12 (0.5)
16 (06)
7 (0.3)
14 (0.5)
37 (1.4)
24 (0.9)
33 (1.3)
30 (1.1)
56 (2.1)
10 (0.4)
9 (0.3)
5 (0.2)
2 (0.1)
29 (1.1)
20 (0.8)
23 (0.9)
33 (1.3)
1.38 (0.98-1.95)
1.20 (0.52-2.77)
1.78 (0.7-4.03)
1.40 (0.44-4.40)
7.04 (1.60-3.1.0)
1.27 (0.78-2.07)
1.20 (0.66-2.17)
1.43 (0.84-2.44)*
0.91 (0.56-1.49)*
I dati sono n (%), se non indicato diversamente. Rivascolarizzazione = interventi su arterie coronariche o periferiche. L’evento composto cardiovascolare rappresenta il primo episodio di morte cardiovascolare, MI o stroke. Relativamente agli altri eventi individuali tutti i partecipanti con un evento sono inclusi in ogni riga. *P>0.1; †P = 0.067
bella 3). In un modello logistico che comprendeva anche l’assegnazione a rosiglitazone, l’assegnazione a ramipril, il rapporto basale albumina-creatinina e l’eGFR basale, l’esito renale era associato indipendentemente a diabete incidente (HR 1.42
[95% CI 1.16-1.74]; P < 0.001) e assegnazione a rosiglitazone (0.83 [0.70-0.98]; P =
0.027); questo HR non subiva modificazioni quando nell’equazione il diabete incidente veniva sostituito dalla media della
glicemia plasmatica a digiuno. Questa
possibile correlazione tra prevenzione del
diabete con rosiglitazone e prevenzione
dell’esito renale è stata indagata, sostituendo il diabete con il tempo necessario
per lo sviluppo del diabete. Dopo il controllo per assegnazione a rosiglitazone e
per le altre variabili, lo sviluppo del diabete nei primi 1.5 anni del follow-up era associato con un rischio più elevato di 1.59
volte di esito renale (95% CI 1.16-2.17) (P =
0.0039) vs. assenza di diabete; lo sviluppo
del diabete dopo 1.5 anni era associato a
rischio più elevato di 1.34 volte (1.05-1.71)
(P = 0.0019). Non v’era alcuna interazione,
relativamente agli esiti della componente
renale, tra ramipril e rosiglitazone (P =
0.2). I tassi degli eventi per ciascuna cellu-
la del disegno fattoriale erano 1) del 12.7%
(166 su 1.310) con rosiglitazone e ramipril,
2) del 14.2% (186 su 1.313) con ramipril e
placebo, 3) dell’11.8% (157 su 1.325) con
rosiglitazone e placebo e 4) del 15.7% (208
su 1.321) con placebo e placebo.
CONCLUSIONI
Il trial Dream ha escluso i soggetti con
IFG e/o IGT che avevano CVD perché
erano noti i benefici del ramipril sulla
CVD. Pertanto quando il trial è stato disegnato 1) è stato riconosciuto che vi sarebbe stato un tasso basso di eventi di CVD,
che non sarebbe stato sufficiente per individuare effetti anche modesti sulla CVD
(un’ipotesi confermata dalla bassa incidenza, 2.5%, della CVD) e 2) è stato prespecificato un esito secondario cardiorenale composito, che avrebbe prodotto un
tasso più elevato di eventi. Né ramipril né
rosiglitazone hanno influito significativamente su questo esito cardiorenale composito e il ramipril non ha alterato le sue
componenti cardiovascolari o renali. Invece il rosiglitazone ha ridotto in maniera significativa la componente renale di quest’esito, ma ha aumentato il rischio di
scompenso cardiaco.
Il fatto che ramipril riduce gli esiti cardiovascolari e la progressione dell’albuminuria nei soggetti ad alto rischio di
CVD è stato chiaramente evidenziato nello studio HOPE (10,11). Quest’effetto è
stato attribuito alla modulazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone. La
mancanza di questi effetti positivi nel trial
DREAM può essere dipesa dalla bassa incidenza di CVD (l’esito composto di morte cardiovascolare, MI o stroke è stato documentato solamente nell’1% [56 su
5.269], rispetto al 16% [1.477 su 9.297] dello studio HOPE) e dal follow-up relativamente breve di 3 anni, rispetto ai 4.5 anni
dello studio HOPE. Inoltre, dato che è
possibile che i partecipanti DREAM a basso rischio abbiano una bassa attivazione
del sistema renina-angiotensina, era prevedibile che un’ulteriore inibizione con
ramipril avesse effetto minimo.
Il diabete è un forte fattore di rischio
per patologia renale. Poiché i criteri della
glicemia impiegati nella diagnosi del diabete rappresentano le soglie oltre le quali
il rischio di retinopatia e di patologia renale aumenta rapidamente, un intervento
che riduce l’incidenza del diabete (cioè
Tabella 3 – Componente renale dell’esito composto cardiorenale
Evento
Ramipril
Placebo
HR (95% CI)
Rosiglitazone
Placebo
HR (95% CI)
Esito composto renale
Progressione dell’albuminuria
Da normale a microalbuminuria
Da normale a proteinuria
Da MA a proteinuria
Riduzione di eGFR ≥30%
Regressione della microalbuminuria
alla normalità
353 (13.5)
267 (10.2)
253 (9.7)
5 (0.19)
9 (0.34)
99 (3.8)
204 (53.7)
365 (13.8)
287 (10.9)
273 (10.3)
4 (0.15)
10 (0.39)
88 (3.3)
174 (47.3)
0.97 (0.83-1.14)*
0.93 (0.78-1.11)*
0.93 (0.77-1.11)
1.26 (0.34-4.71)
0.91 (0.37-2.24)
1.14 (0.85-1.53)*
1.30 (0.98-1.74)||
324 (12.3)
253 (9.6)
241 (9.2)
6 (0.23)
6 (0.23)
82 (3.1)
193 (52.5)
394 (15.0)
301 (11.4)
285 (10.8)
3 (0.11)
13 (0.49)
105 (4.0)
185 (48.7)
0.80 (0.68-0.93)†
0.82 (0.69-0.98)‡
0.83 (0.69-0.99)
2.00 (050-8.01)
0.46 (0.18-1.21)
0.77 (0.58-1.04)§
1.18 (0.88-1.57)*
I dati sono n (%), se non indicato diversamente. La componente renale dell’esito composto è il primo episodio di qualsiasi progressione dell’albuminuria, di riduzione dell’eGFR ≥30% o d’insufficienza renale che richiede dialisi o trapianto. Relativamente agli altri eventi individuali tutti i partecipanti ccon quest’evento sono inclusi in ciascuna riga. *P > 0.1; †P = 0.005; ‡P = 0.031; §P = 0.087;
||P = 0.073.
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
19
DIABETES CARE, MAY 2008
l’aumento dei valori della glicemia oltre la
soglia diabetica) può ridurre anche la patologia renale. Questa possibilità è fortemente supportata dal dato seguente: il rosiglitazone, che chiaramente riduceva il
rischio di diabete, riduceva anche il rischio di patologia renale del 20% vs. placebo, con modificazioni consistenti dell’esito renale. Essa è anche supportata dai
modelli di regressione nei quali il diabete
incidente, il tempo necessario al suo sviluppo (prima o dopo 1.5 anni) e l’assegnazione a rosiglitazone erano indipendentemente associati all’esito renale. Questi dati non permettono di determinare se fattori aggiuntivi, oltre al miglioramento del
controllo metabolico, contribuivano agli
effetti renali osservati.
Il rosiglitazone chiaramente aumentava il rischio di scompenso cardiaco. Quest’effetto è stato notato ripetutamente in
altri studi sui tiazolidinedioni (12-16) e
sembra essere dovuto alla ritenzione di
sodio e di liquidi a livello renale, all’aumento dell’attività della renina plasmatica
(17-19), forse correlato in parte a una modesta riduzione della pressione arteriosa
(20, 21) e all’aumento dell’azione dell’insulina (20). Due studi ecocardiografici (22,
23) hanno dimostrato che il rosiglitazone
non riduceva significativamente la funzione sistolica ventricolare, sinistra. È importante notare il fatto che l’effettiva incidenza dello 0.5% dello scompenso cardiaco con rosiglitazone durante questo trial
di 3 anni, condotto su soggetti a basso rischio di esiti cardiovascolari, era inferiore
alle incidenza di 1.5% (12), 1.7% (15) e
5.7% (16), riportate in trial di durata simile con i tiazolidinedioni, condotti su soggetti a rischio più elevato di esiti cardiovascolari. Ciò nonostante il rischio relativo elevato di scompenso cardiaco rappresenta una nuova evidenza che i soggetti a
basso rischio non sono protetti da quest’effetto collaterale.
La mancanza di un evidente beneficio cardiorenale (a causa dell’assenza di
effetto sulla componente cardiovascolare) era sorprendente alla luce dei tanti effetti positivi del rosiglitazone sui marker
surrogati di CVD (15,20,21,24). È possibile che il breve periodo del follow-up e la
bassa incidenza di eventi cardiovascolari
fossero insufficienti a permettere un effetto cardiovascolare. In alternativa, è
possibile che il rosiglitazone abbia un effetto neutro sugli eventi di CVD ischemica. In effetti, di recente sono sorte preoccupazioni che esso possa aumentare il rischio di CVD ischemica (25), ma l’assenza di qualsiasi beneficio o danno cardiovascolare evidente del rosiglitazone in
un’analisi ad interim di un ampio trial
cardiovascolare (15) ha alimentato incertezze riguardo ai suoi effetti sulla CVD
ischemica e mette in luce la necessità di
20
ampi trial, in grado di risolvere questo
dilemma.
I punti forti del nostro studio comprendono il fatto che tutti gli esiti misurati sono stati definiti, raccolti e aggiudicati
in maniera prospettica. I dati sono limitati
dal fatto che alla fine dello studio erano
disponibili gli esiti renali solamente del
78% dei partecipanti.
Per riassumere, il trial DREAM non ha
dimostrato alcun impatto significativo di
ramipril sull’esito cardiorenale composito
o sulle sue componenti cardiovascolare o
renale. Esso non ha neanche dimostrato
un effetto del rosiglitazone sull’esito cardiorenale o sulla sua componente cardiovascolare, ma un aumento dello scompenso cardiaco. Tuttavia il rosiglitazone ha ridotto la componente renale di quest’esito,
una delle complicanze del diabete, oltre a
ridurre l’incidenza del diabete stesso.
Bibliografia
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, MAY 2008
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
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DIABETES CARE, MAY 2008
Gestione del diabete preesistente in
gravidanza
Sommario di evidenze e raccomandazioni di consenso
JOHN L. KITZMILLER, MD, MS1
JENNIFER M. BLOCK, BS, RN, CDE2
FLORENC M. BROWN, MD3
PATRICK M. CATALANO, MD4
DEBORAH L. CONWAY, MD5
DONALD R. COUSTAN, MD6
ERICA P. GUNDERSON, RD, PHD7
WILLIAM H. HERMAN, MD, MPH8
LISA D. HOFFMAN, MSW, LCSW9
MARIBETH INTURRISI, RN MS CNS, CDE10
uesto documento di consenso contiene raccomandazioni per il trattamento di donne in gravidanza con
diabete preesistente, di tipo 1 e 2. Esso ha
lo scopo di aiutare i clinici nel trattamento dell’ampio spettro di problemi che
sorgono nella gestione del diabete prima
e durante la gravidanza e di preparare le
donne diabetiche a un trattamento che
può ridurre le complicanze negli anni
successivi alla gravidanza. Una discussione completa delle evidenze a supporto delle raccomandazioni è presentata
nel volume Management of Preexisting
Diabetes and Pregnancy, scritto da coloro
che hanno partecipato alla stesura di
questo documento di consenso e pubbli-
Q
LOIS B. JOVANOVIC, MD11
SIRI I. KJOS, MD2
ROBERT H. KNOPP, MD13
MARTIN N. MONITORO, MD14
EDWARD S. OGATA, MD15
PATHMAJA PARAMSOTHY, MD, MS16
DIANE M. READER, RD, CDE17
BARAK M. ROSENE, MD18
ALYCE M. THOMAS, RD19
M. SUE KIRMAN, MD20
cato dall’American Diabetes Association
(ADA) nel 2008 (1). Sarà pubblicato separatamente un documento di consenso su
gestione ostetrica e post partum.
Le raccomandazioni consistono in
azioni diagnostiche e terapeutiche, ritenute utili per gli esiti materni e perinatali
nelle gravidanze complicate da diabete.
È stato adottato il sistema di classificazione dell’ADA per chiarire e codificare
le evidenze alla base delle raccomandazioni (2). Sfortunatamente esistono pochi
trial controllati e randomizzati (RCT) sui
differenti aspetti della gestione del diabete e della gravidanza. Pertanto le nostre raccomandazioni spesso si basano su
trial condotti su donne diabetiche non in
Da: the 1Division of Maternal-Fetal Medicine, Santa Clara Valley Medical Center, San Jose, California; the 2Division of Pediatric Endocrinology, Stanford University Medical Center, Stanford,
California; the 3Department of Internal Medicine, Joslin Diabetes Center, Boston, Massachusetts;
the 4Department of Obstetrics and Gynecology, Metrohealth Medical Center, Cleveland, Ohio;
the 5Department of Obstetrics and Gynecology, University of Texas Health Sciences Center, San
Antonio, Texas; the 6Department of Obstetrics and Gynecology, Women and Infants Hospital,
Brown Medical School, Providence, Rhode Island; the 7Epidemiology and Prevention Section,
Division of Research, Kaiser Permanente Foundation, Oakland, California; the 8Department of
Medicine, University of Michigan Medical School, Ann Arbor, Michigan; the 9Diabetes and Pregnancy Program, Obstetrix Medical Group, San Jose, California; the 10California Diabetes and
Pregnancy Program, Northcoast Region UCSF, San Francisco, California; the 11Sansum Diabetes
Research Institute, Santa Barbara, California; the 12Department of Obstetrics and Gynecology,
Harbor/UCLA Medical Center, Torrance, California; the 13Northwest Lipid Research Clinic, University of Washington School of Medicine, Seattle, Washington; the 14Division of Medical Endocrinology, University of Southern California School of Medicine, Los Angeles, California; the
15Division of Neonatology, Children’s Memorial Hospital, Northwestern University School of
Medicine, Chicago, Illinois; the 16Division of Cardiology, University of Washington School of
Medicine, Seattle, Washington; the 17International Diabetes Center, Minneapolis, Minnesota; the
18Division of Maternal-Fetal Medicine, St. Luke’s Roosevelt Hospital Center, New York, New
York; the 19Department of Obstetrics and Gynecology, St. Joseph’s Regional Medical Center, Paterson, New Jersey e the 20American Diabetes Association, Alexandria, Virginia.
22
gravidanza o su donne non diabetiche in
gravidanza, e anche su esperienze riesaminate da pari prima e durante la gravidanza di donne con diabete preesistente
(3-4). Abbiamo anche riesaminato e adattato le linee guida esistenti relative a diabete e gravidanza (5-10) e le linee guida
per le complicanze e le comorbilità diabetiche (2,3,11-14).
I. GESTIONE DEL DIABETE
PREESISTENTE IN
GRAVIDANZA
A. Organizzazione relativa al periodo
anteriore al concepimento e al
trattamento in gravidanza
Raccomandazioni
• Le donne diabetiche in grado di procreare dovrebbero essere educate in
merito alla necessità di mantenere un
buon controllo della glicemia prima
della gravidanza e dovrebbero prendere parte ad un’adeguata pianificazione familiare. (E)
• Ogniqualvolta è possibile, organizzare per le donne con diabete preesistente che si preparano alla gravidanza un trattamento multi-disciplinare,
centrato sulla paziente. (B)
• Le donne diabetiche che pensano di
iniziare una gravidanza dovrebbero
essere sottoposte ad esami e, se è il
caso, trattate per nefropatia diabetica,
neuropatia e retinopatia, come anche
per patologia cardiovascolare (CVD),
ipertensione, dislipidemia, depressione e patologia della tiroide. (E)
• L’uso di farmaci dovrebbe essere valutato prima del concepimento, poiché i farmaci impiegati comunemente
nel trattamento del diabete e delle
sue complicanze possono essere controindicati o non raccomandati in
gravidanza, come statine, ACE inibitori, bloccanti del recettore dell’angiotensina II (ARB) e la maggior parte dei trattamenti non insulinici. (E)
• Proseguire il trattamento multidisciplinare centrato sulla paziente per
tutto il periodo della gravidanza e
dopo il parto. (E)
• Visite regolari di follow-up sono importanti per gli aggiustamenti del
programma di trattamento correlati
allo stadio della gravidanza, al con-
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, MAY 2008
trollo della glicemia e della pressione
arteriosa, all’aumento del peso e ad
esigenze individuali della paziente.
(E)
• Educare le donne diabetiche in gravidanza in merito ai grandi benefici di
1) riduzione a lungo termine dei fattori di rischio per CVD, 2) allattamento al seno e 3) efficace pianificazione familiare, con un buon controllo della glicemia prima di affrontare
un’altra gravidanza. (E)
La gravidanza incide profondamente
sulla gestione del diabete (15-18). Gli ormoni della placenta, i fattori di crescita e
le citochine causano un aumento progressivo dell’insulino-resistenza, che rende necessario un trattamento nutrizionale intensivo e frequenti aggiustamenti
dell’insulina somministrata per prevenire l’iperglicemia, che è pericolosa per il
feto. L’insulino-resistenza aumenta il rischio di chetoacidosi in risposta allo
stress causato da patologie concorrenti o
dai farmaci usati nella gestione delle
complicanze ostetriche. L’ipoglicemia indotta da insulina insorge più rapidamente durante la gravidanza e rappresenta
un pericolo per la donna, specialmente
se è affetta da diabete di tipo 1. Frequentemente, quando iniziano una gravidanza le donne con diabete di tipo 2 hanno
una notevole insulino-resistenza e sono
obese, circostanze che contribuiscono a
rendere problematico il controllo ottimale della glicemia.
Questi problemi hanno portato allo
sviluppo di programmi multidisciplinari
in centri d’eccellenza, per ridurre in maniera sostanziale le complicanze materne, fetali e neonatali. Tuttavia dati di popolazione continuano ad evidenziare tassi in eccesso di malformazioni congenite
e di morbilità e mortalità perinatale (1). È
indispensabile estendere gli sforzi per
permettere alle pazienti diabetiche l’accesso a cure prenatali di qualità e garantire loro un buon controllo della glicemia
per tutto il periodo della gravidanza (4,
19-27). I migliori successi sono stati conseguiti dai modelli di cure che pongono
una paziente responsabile al centro di un
team sanitario multidisciplinare (2, 2831). Il volume Management of Preexisting
Diabetes and Pregnancy (1) contiene una
discussione completa sui ruoli dei diversi clinici nei programmi multidisciplinari
di trattamento di diabete e gravidanza.
È importante collegare le componenti
del trattamento disegnato per il beneficio
prolungato della salute della madre, con
riferimento speciale a CVD e complicanze diabetiche microvascolari e neurologiche. Fortunatamente esistono evidenze
che la gravidanza non è un fattore indipendente di rischio per progressione a
lungo termine delle complicanze microvascolari (32-35). Tuttavia abbiamo bisogno di ulteriori dati sull’influenza di glicemia, pressione arteriosa, lipidi, albuminuria, stress ossidativo e infiammazione
in gravidanza sul rischio a lungo termine
di CVD. I clinici possono avvantaggiarsi
della forte motivazione delle donne diabetiche in gravidanza, per insegnare loro
comportamenti e modalità di auto-gestione, che possono tenere sotto controllo
i fattori di rischio per CVD. Per ottenere
esiti ottimali nel lungo termine è necessario promuovere la gestione intensiva anche negli anni successivi alla gravidanza
e in preparazione di un eventuale nuovo
concepimento.
Valutazione iniziale
Raccomandazioni relative ad anamnesi
ed esame obiettivo
All’inizio del trattamento precedente
al concepimento o, in sua assenza, all’inizio della gravidanza, dovrebbe essere effettuata una completa valutazione clinica
per:
• Classificare la paziente e individuare
la presenza di complicanze diabetiche, cardiovascolari, tiroidee o ostetriche
• Riesaminare i pattern nutrizionali, attività fisica e problemi psico-sociali
• Informare la paziente sulla prognosi
• Stabilire le aspettative di partecipazione della paziente
• Contribuire alla formulazione di un
programma di gestione insieme ai
membri del team sanitario
• Fornire la base del trattamento continuativo e dei test di laboratorio
La valutazione dovrebbe riprendere
in esame gravidanze passate e comorbilità, come dislipidemie e altri fattori di rischio cardiaco, ipertensione, albuminuria, sintomi d’ischemia cardiaca e di
scompenso e vascolopatia periferica, sintomi di neuropatie, consapevolezza dell’ipoglicemia ed episodi d’ipoglicemia
grave, sintomi intestinali, malattia celiaca, disordini della tiroide e malattie infettive, come anche educazione al diabete e
trattamento precedente, e livelli passati e
presenti del controllo della glicemia.
Accanto a un adeguato esame ostetrico, l’esame obiettivo dovrebbe comprendere la determinazione della pressione
arteriosa (11), della frequenza cardiaca
ortostatica e delle risposte della pressione arteriosa, se indicato (36); palpazione
della tiroide; auscultazione di soffi carotidei e femorali, palpazione del dorso del
piede; presenza/assenza dei riflessi di
Achille e determinazione della vibrazione e della sensibilità al monofilamento
nei piedi (37) e l’ispezione visiva di tutti
e due i piedi.
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
Le raccomandazioni relative ai test di
laboratorio, idonee alla valutazione della
condizione della paziente, sono elencate
nella tabella 1. Sebbene vi siano complicanze che non possono essere trattate
con farmaci ottimali in corso di gravidanza, la loro identificazione permette
l’intensificazione del trattamento post
partum. Prima del concepimento o in
corso di gravidanza tutte le pazienti dovrebbero essere sottoposte a test per
A1C, profilo lipidico, status del ferro,
status della tiroide, steatosi, albuminuria
e retinopatia diabetica. Alcune pazienti
possono avere bisogno di elettrocardiogramma (ECG) o di ecocardiografia, a
causa del rischio di coronaropatia (CHD)
associato a età e durata del diabete o a
sintomatologia. Le pazienti con diabete
di tipo 1 che non dispongono di test recenti dovrebbero essere sottoposte a
screening per lo status di vitamina B12 e
malattia celiaca, a causa dell’associazione
con auto-immunità prodotta dalla malattia. Nelle pazienti con rapporto su campione random albumina-creatinina urinarie (ACR) al limite superiore della normalità per le donne (25-29 µg/mg) può
essere utile la raccolta delle urine delle
24 h per la misura della microalbuminuria. Le pazienti con proteinuria al limite
dovrebbero essere sottoposte a esame
delle urine delle 24 h per la proteina urinaria totale e la clearance della creatinina
(CrCl).
L’attenzione alle componenti di una
valutazione comprensiva del diabete (tabella 7 di Standards of Medical Care in
Diabetes – 2008 [2]) aiuterà il team sanitario a fornire una gestione ottimale della
donna con diabete preesistente nel periodo anteriore al concepimento e durante
la gravidanza.
B. Controllo della glicemia
1. Esito perinatale e obiettivi glicemici
Raccomandazioni
• Prima della gravidanza, per prevenire aborti spontanei in eccesso e
malformazioni congenite maggiori,
l’obiettivo è l’A1C più vicina possibile alla normalità, senza ipoglicemia
significativa. (B)
• Assicurare contraccezione efficace fino a quando non si ottiene una glicemia stabile e accettabile. (E)
• Un controllo glicemico eccellente nel
primo trimestre prolungato per tutta
la durata della gravidanza è associato
a frequenza minima di complicanze
materne, fetali e neonatali. Sviluppare o aggiustare il piano di gestione in
maniera da ottenere una glicemia
quasi normale e, nel contempo, minimizzare l’ipoglicemia significativa.
(B)
• Per tutta la durata della gravidanza
23
DIABETES CARE, MAY 2008
Tabella 1 – Componenti degli esami di laboratorio e di esami speciali nella valutazione iniziale e successiva di donne in gravidanza con diabete preesistente di tipo 1 o 2 (in aggiunta agli usuali test prenatali di laboratorio)
Valutazione iniziale
Test successivi
A1C
Profilo lipidico a digiuno, *compresi trigliceridi e colesterolo totale,
HDL e LDL
TSHU e anticorpi anti-perossidasi tiroidea; prendere in considerazione
gli anticorpi anti-recettore TSH se TSH è soppresso < 0.03 µU/ml
Emoglobina, ferritina serica; prendere in considerazione la vitamina
B12 nel diabete di tipo 1
Prendere in considerazione gli anti-tTG o anti-EMA più le IgA
nel diabete di ti tipo1 per la diagnosi della malattia celica*
ALT/AST; possibile ecografia epatica
Raccolta random delle urine per ACR o delle urine delle 24 h per
microalbuminuria e clearance della creatinina (misurare l’escrezione
totale della proteina delle 24 h se l’esame delle urine è positivo per
albumina o proteine). La creatinina serica per stirame il GFR stimato in
fase di pre-concepimento; la clearance della creatinina in gravidanza
Esame della retina dilatata*
Valutare i fattori di rischio per CHD. ECG* a riposo nelle pazienti
asintomatiche di 35 anni o più (notare le modificazioni per ischemia
latente pregressa, LVH, e QTc). Le donne con sospetto di angina, dolore
atipico al petto, dispnea significativa, ECG anomalo o altri motivi di
sospetto di CHD dovrebbero essere sottoposte a consulto cardiologico
con ECG sotto sforzo, ecocardiogramma sotto sforzo o altra tecnica
per immagini*
Prendere in considerazione di valutare* la neuropatia cardiaca autonomica
(variabilità della frequenza cardiaca con respirazione profonda, risposta
della pressione arteriosa in posizione eretta)
Prendere in considerazione l’ecocardiogramma 2-D o Doppler o l’ecografia*
Doppler, con indicazione di cardiomiopatia diabetica o
scompenso cardiaco sistolico o diastolico
Prendere in considerazione di valutare* il rischio di patologia vascolare
arteriosclerotica periferica se elevato (ecografica della carotide, pressione
arteriosa caviglia-braccio)
Ogni 1-3 mesi
Quando indicato
Per monitorare il trattamento
Per monitorare il trattamento
Ripetere per confermare un risultato
anomalo o monitorare l’effetto del regime alimentare
privo di glutine
Se indicato
Ogni 1-3 mesi se anomalo
Ogni 1-6 mesi in base al rischio di progressione
Se indicato
Se indicato
Se indicato
Se indicato
*Può essere ritardato od omesso se è stato effettuato prima della gravidanza. EMA = anticorpi anti-endomisio; LVH = ipertrofia
ventricolare sinistra; QTc, intervallo Q-T della frequenza cardiaca; tTG = transglutaminasi.
gli obiettivi ottimali della glicemia
sono: glicemia 60-99 mg/dl prima del
pasto, all’ora di andare a dormire e
durante la notte, picco postprandiale
100-129 mg/dl e media giornaliera <
110 mg/dl e A1C < 6.0. (B)
• Obiettivi più elevati della glicemia
possono essere usati nelle pazienti inconsapevoli dell’ipoglicemia o incapaci di sopportare un trattamento intensivo. (E)
L’iperglicemia materna durante le prime settimane di gravidanza è fortemente
associata ad aborti spontanei e malformazioni congenite maggiori (23,24). Le soglie
glicemiche per l’aumento del rischio comprendoni valori dell’A1C ≥ 3 SD oltre la
media non diabetica in gravidanza (≥
6.3%). Il rischio aumenta con il peggioramento dei valori della glicemia (1,38-41).
La relazione che intercorre tra glicemia
della madre ed esito della gravidanza è un
24
continuum e i risultati ideali si ottengono
quando le concentrazioni di glicemia materna rientrano nei limiti della normalità
(42-46), ma non sono eccessivamente basse
(47).
Dopo 12 settimane di gestazione l’iperglicemia induce iperinsulinemia fetale, accelerazione della crescita e adiposità in eccesso nei modelli animali e nelle donne
diabetiche. V’è macrosomia (peso alla nascita > 4.000-4.500 g) (16) nel 27-62% dei
neonati di madri diabetiche, rispetto a
~10% in quelli dei soggetti di controllo. La
macrosomia è associata a tassi aumentati
di parto non naturale e traumi alla nascita,
morte del feto e complicanze neo-natali,
come: ipoglicemia, cardiomiopatia ipertrofica, policitemia e iperbilirubinemia (1).
Numerosi studi indicano che la glicemia di metà trimestre è il miglior predittore delle dimensioni in eccesso del feto e
che la macrosomia e altre complicanze
neo-natali sono minimizzate se si intensifi-
ca il controllo della glicemia (1,48). I valori
della glicemia postprandiale erano più
fortemente associati a peso in eccesso alla
nascita negli studi in cui venivano misurate la glicemia prima del pasto e quella postprandiale (49-52). Un controllo troppo rigoroso (glicemia plasmatica media < 80-90
mg/dl) è stato associato a ridotta crescita
del feto, che porta con se una serie di problemi neo-natali e relativi allo sviluppo
del bambino.
L’iperglicemia fetale causa ipossia e
acidosi fetale, che può spiegare i tassi in
eccesso di parti di feti morti che è ancora
possibile osservare nelle donne con diabete inadeguatamente controllato (1). I neonati macrosomici a causa del modesto
controllo glicemico della madre e d’iperinsulinemia fetale hanno maggiori probabilità di sviluppare più tardi obesità e intolleranza al glucosio (1,53) e studi di followup a lungo termine (5-15 anni) su neonati
di madri diabetiche suggeriscono che un
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, MAY 2008
modesto controllo della glicemia in gravidanza influisce negativamente sullo sviluppo intellettuale e psico-motorio (1).
Questi dati sottolineano gli effetti prolungati dell’esposizione intrauterina al diabete sulla prole (1,53). Decenni di lavoro indicano che un controllo adeguato della glicemia riduce morbilità e mortalità perinatale. Un controllo rigoroso della glicemia
può anche beneficiare direttamente la madre, in quanto la glicemia alta in gravidanza è correlata a progressione di retinopatia
e neuropatia e a pre-eclampsia e parto prematuro (1).
2.Valutazione del controllo metabolico
Raccomandazioni
• L’auto-monitoraggio della glicemia
(SMBG) è una componente chiave del
trattamento del diabete in gravidanza
e dovrebbe essere incluso nel programma di trattamento. L’SMBG
giornaliero prima e dopo i pasti, all’ora di andare a dormire e occasionalmente alle 2.00 – 4.00 del mattino
fornirà risultati ottimali in gravidanza. (E)
• L’SMBG con puntura del dito è il metodo migliore in gravidanza, poiché è
possibile che il test in siti alternativi
non identifichi modificazioni veloci
delle concentrazioni glicemiche, caratteristiche delle donne diabetiche in
gravidanza. (E)
• In media la glicemia postprandiale
capillare, misurata 1 h dopo l’inizio
del pasto, si avvicina meglio al picco
della glicemia postprandiale misurata continuativamente ©, ma a causa
delle differenze individuali può essere utile che ciascuna paziente determini qual’è per lei l’ora più adatta
per valutare il picco postprandiale.
(E)
• Il monitoraggio continuo della glicemia può essere uno strumento aggiuntivo al SMBG in alcune pazienti
con diabete di tipo 1, soprattutto in
quelle che non avvertono la ipoglicemia. (E)
• Insegnare alle pazienti in gravidanza
come misurare i chetoni urinari
quando si è ammalati o quando la
glicemia raggiunge i 200 mg/dl. I valori positivi dovrebbero essere immediatamente riferiti ai responsabili del
trattamento. (E)
• Eseguire il test dell’A1C con un assay
indicato nel Diabetes Control and
Complications Trial (DCCT), durante
la visita iniziale e mensilmente fino a
quando non si ottiene l’obiettivo di
valori < 6.0 e ogni 2-3 mesi da quel
momento in poi. (E)
L’SMBG permette alle pazienti di valutare la propria risposta individuale al
trattamento e di stabilire se si stanno raggiungendo gli obiettivi glicemici. Una
valutazione frequente è necessaria in
gravidanza quando vi è la possibilità di
insorgenza rapida dell’ipoglicemia, in assenza di cibo o durante l’attività fisica e
per risposte iperglicemiche eccessive all’ingestione di cibo, stress psicologico e
malattia intercorrente. Si raccomanda l’SMBG prima e dopo i pasti e occasionalmente nel corso della notte (1). L’utilità
del test postprandiale in gravidanza è
supportata da trial controllati (54, 55). Il
test in siti alternativi nella condizione dinamica della gravidanza, caratterizzata
da modificazioni rapide della glicemia,
può produrre risultati differenti da quelli
del test con puntura del dito (1). L’accuratezza dell’SMBG dipende dallo strumento e da chi lo usa (56) e il personale
sanitario dovrebbe valutare inizialmente
e successivamente a intervalli regolari la
tecnica di monitoraggio impiegata da
ciascuna paziente. L’uso ottimale delle
SMBG richiede l’interpretazione adeguata dei dati per aggiustare l’assunzione di
cibo, l’attività fisica o il trattamento insulinico, al fine di ottenere specifici obiettivi glicemici. I responsabili del trattamento dovrebbero valutare regolarmente la
capacità della paziente di usare i dati che
guidano il trattamento. Le pazienti dovrebbero usare misuratori calibrati per la
glicemia plasmatica e in grado di immagazzinare i dati, ma dovrebbero anche
registrarli per iscritto. Le pazienti dovrebbero poter contattare rapidamente i
membri del team sanitario per telefono o
in altro modo, per un esame regolare dei
dati nell’intervallo tra le visite e per discutere problemi di gestione della malattia.
Il test dei chetoni è importante in gravidanza, poiché la presenza di chetoni
può indicare cheto-acidosi diabetica
(DKA), che può svilupparsi rapidamente
in gravidanza quando i valori della glicemia superano 200 mg/dl (57). La DKA è
associata a tasso elevato di mortalità fetale. I chetoni urinari dovrebbero essere
misurati quando la donna diabetica in
gravidanza è ammalata o presenta iperglicemia persistente. La chetonemia a digiuno nelle donne in gravidanza con diabete inadeguatamente controllato è stata
associata a riduzione dell’intelligenza e
delle capacità motorie della prole (58).
Sono disponibili test domiciliari per l’acido β-idrossibutirico, da usare nei giorni
di malattia, ma questi test non sono stati
valutati sistematicamente in corso di gravidanza (1).
C. Trattamento medico nutrizionale
Raccomandazioni
• Le donne diabetiche in gravidanza
dovrebbero seguire un trattamento
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
•
•
•
•
•
•
•
nutrizionale individualizzato (MNT),
che permetta loro di raggiungere gli
obiettivi del trattamento, preferibilmente somministrato da un dietista
abilitato che conosce le componenti
del MNT per diabete e gravidanza,
che agisce di concerto con gli altri
membri del team clinico, che dovrebbero anche conoscere e supportare il
programma alimentare individualizzato. (B)
Valutare il BMI prima della gravidanza e porsi come obiettivo un aumento
del peso gestazionale individuale nel
range più basso previsto dalle raccomandazioni dell’Institute of Medicine
(IOM) in base a gruppi di BMI, assunzione calorica basale per gruppo
di BMI, livello di attività fisica, pattern di crescita fetale e desiderio di
prevenire un aumento di peso eccessivo e dopo il parto. (E)
Elaborare il programma alimentare
(pattern di pasti e snack giornalieri)
sulla base delle preferenze individuali, includendo 1) valore calorico appropriato, 2) consumo adeguato di
proteine (1.1 g · kg-1 · giorno-1), grassi
e micronutrienti, 3) consumo di 175
g/giorno di carboidrati digeribili e 4)
distribuzione dell’assunzione dei carboidrati in maniera tale da promuovere un controllo ottimale della glicemia ed evitare ipoglicemia e chetonemia. (E)
Promuovere il consumo di un regime
alimentare integrale e bilanciato, tenendo conto delle esigenze di natura
etnica, culturale ed economica. Preservare il piacere di mangiare scegliendo i cibi sulla base di evidenza
scientifica, aumento di peso e risposte della glicemia postprandiale. (E)
Istruire la donna diabetica su come
valutare la quantità di carboidrati per
porzione e pasto/snack e su come
scegliere i carboidrati che contribuiranno a tenere sotto controllo la glicemia postprandiale; incoraggiare l’assunzione di fibre (28 g/giorno), mediante il consumo di cereali integrali,
frutta e verdure. (E)
Sottolineare l’importanza del rispetto
giornaliero dell’orario di pasti e
spuntini, per minimizzare l’ipoglicemia e in accordo con il dosaggio dell’insulina, per prevenire iperglicemia.
(E)
Incoraggiare le pazienti a registrare
sempre il cibo e le bevande consumate o a farlo per almeno 1 settimana
prima di ciascuna visita, per valutare
l’adeguatezza dell’assunzione di nutrienti e confrontare l’assunzione di
carboidrati con le registrazioni del
SMBG. (E)
Insegnare alle pazienti come control-
25
DIABETES CARE, MAY 2008
lare l’assunzione di grassi nell’interesse del mantenimento della propria
salute; incoraggiare il consumo di
acidi grassi insaturi, compresi gli acidi grassi n-6 e n-3; limitare i grassi saturi a < 10% dell’assunzione calorica
e i grassi trans al minimo. (A)
• Consumare 600 µg/giorno di folati
nel periodo anteriore al concepimento e in quello prenatale, attraverso integrazione alimentare e fonti alimentari rinforzate. (A)
• Integrare l’assunzione di minerali,
elementi in tracce e vitamine, per assumerne in quantità adeguata o per
raggiungere i livelli delle razioni alimentari raccomandati dal IOM in tutti i trimestri della gravidanza. (E)
Gli obiettivi del MNT in gravidanza
comprendono: a) assunzione adeguata di
nutrienti per supportare una gravidanza
sana, b) controllo eccellente della glicemia, grazie ad assunzione bilanciata di
alimenti/carboidrati, associata ad attività fisica e trattamento insulinico, c) aumento adeguato, ma non eccessivo del
peso e d) apprendimento di comportamenti appropriati in materia di alimentazione e attività fisica, che possono contribuire al mantenimento in buona salute
della madre nel tempo. Trial clinici condotti su donne diabetiche non in gravidanza e l’esperienza clinica della gravidanza supportano l’efficacia del MNT
fornito da dietisti abilitati in concerto con
altri membri del team sanitario (1). Management of Preexisting Diabetes and Pregnancy (1) fornisce una trattazione completa del fabbisogno energetico e dell’assunzione adeguata di acqua, elettroliti,
macronutrienti e micronutrienti (minerali e vitamine) nella gravidanza complicata da diabete, sulla base della documentazione sulla nutrizione fornita dal IOM
(1,59,60).
A causa del rischio di difetti del canale neurale si raccomanda che le donne in
grado di concepire consumino giornalmente 400 µg di acido folico, attraverso
l’uso d’integratori alimentari, cibi arricchiti o di entrambi e di un regime alimentare vario. Nel periodo del concepimento e in quello prenatale è raccomandata l’assunzione di 600 µg/giorno attraverso integratori o cibi arricchiti. L’integrazione con folati può mascherare i segni di carenza di B12 nelle donne con
diabete di tipo 1, che possono soffrire di
gastrite auto-immune. Pertanto si faccia
in modo di misurare i valori basali della
vitamina B12 in queste pazienti (1).
Quattro studi sull’assunzione di nutrienti di donne diabetiche in gravidanza
negli Stati Uniti e nel Regno Unito indicano che il consumo di calcio, rame, magnesio, zinco, vitamina C e vitamina E
26
può essere sub-ottimale (1). Le donne sono incoraggiate ad assumere i micronutrienti attraverso il cibo, ma nelle donne
con diabete preesistente dovrebbe essere
presa in considerazione l’integrazione
prenatale di vitamine e minerali. L’integrazione di ferro non è necessaria, a meno che l’emoglobina non sia < 11.0 g/dl
nel primo e terzo trimestre o < 10.5 g/dl
nel secondo trimestre e non vi sia evidenza di laboratorio di carenza di ferro
(61). Le donne vegetariane in gravidanza
possono avere bisogno di integrazione di
vitamina D e B12. Non esistono sufficienti evidenze a favore dell’integrazione generalizzata di acidi grassi n-3 nelle gravidanze diabetiche (1).
Il peso dovrebbe essere monitorato
nel corso di ciascuna visita e si dovrebbero fare aggiustamenti relativamente all’assunzione di nutrienti o all’attività fisica, per raggiungere gli obiettivi desiderati. Gli obiettivi dell’aumento di peso gestazionale si basano sul BMI di prima
della gravidanza: aumenti minori nelle
donne in soprappeso e aumenti maggiori
in quelle sottopeso (59). L’aumento del
peso della madre ha un impatto sull’esito
perinatale (1). L’aumento eccessivo di peso è associato ad aumento di macrosomia fetale, trauma potenziale alla nascita, taglio cesareo e ritenzione di grasso e
peso dopo la gravidanza.
Le condizioni cliniche correlate al
diabete, che richiedono approcci alimentari particolari in gravidanza, sono la
malattia celiaca, la gastrite atrofica autoimmune e la steatosi non da alcol, come
pure l’impianto di bypass gastrico per
obesità grave. Nel libro si discutono prevalenza, fisiopatogia e trattamento di
queste condizioni (1). I disordini alimentari sono presi in considerazione nella sezione dedicata alla terapia comportamentale (II. G.). A causa dei rischi di
CVD o di ipertrigliceridemia le donne
diabetiche sono incoraggiate a mangiare
almeno due pasti di pesce azzurro alla
settimana, per aumentare gli acidi grassi
n-3 (acidi eicosapentenoico e docosaessanoico), ma le donne in gravidanza dovrebbero evitare di mangiare pesce ad alto contenuto potenziale di metilmercurio
(cioè pesce spada, merluzzo, squalo) (1).
D. Trattamento insulinico
Raccomandazioni
• Per il controllo ottimale della glicemia in gravidanza nelle donne con
diabete preesistente i migliori risultati sono solitamente garantiti con regimi intensivi d’insulina basale e al pasto (regimi a dosaggio multiplo d’insulina sottocutanea ad azione prolungata e breve o infusione continua
d’insulina sottocutanea [CSII]). (E)
• Le pazienti trattate con insulina dete-
•
•
•
•
mir o glargine dovrebbero passare a
insulina NPH 2 o 3 volte al giorno,
preferibilmente prima della gravidanza o alla prima visita prenatale, in
attesa di trial clinici che dimostrino
sicurezza ed efficacia di questi analoghi. (E)
Adeguare i dosaggi d’insulina al pasto ad assunzione di carboidrati, glicemia prima del pasto e previsione di
attività fisica. (E)
Gli analoghi dell’insulina ad azione
rapida, come lispro o aspart, possono
produrre un migliore controllo postprandiale con minore ipoglicemia, rispetto all’insulina regolare. (E)
Le iniezioni dovrebbero essere praticate nell’addome o nei glutei per un
miglior assorbimento. (E)
A causa dell’aumento dei rischi di
chetosi in gravidanza le pazienti che
usano CSII dovrebbero essere ben addestrate nell’individuazione e nel
trattamento dell’iperglicemia ingiustificata, per sottodosaggio della insulina somministrata (problemi relativi alla pompa o al sito dell’infusione). (E)
La somministrazione sottocutanea
d’insulina è il cardine del trattamento intensivo del diabete preesistente in gravidanza. La somministrazione d’insulina
basale/pasto mediante iniezioni multiple
o CSII è molto efficace. Nelle pazienti
con diabete di tipo 1 può esservi un periodo iniziale in cui la sensibilità all’insulina aumenta, intorno alla 10°-14° settimana di gestazione. Successivamente il
dosaggio dell’insulina solitamente aumenta in maniera sequenziale, con variazioni individuali piuttosto ampie, che
spesso si appiattiscono o si riducono dopo 35 settimane. Nella maggior parte
delle pazienti risulta appropriato un algoritmo per l’aggiustamento delle dosi
d’insulina prima dei pasti, che corregge
per i valori della glicemia che esulano
dal range desiderato. Quando si avvia il
trattamento insulinico nelle donne con
diabete di tipo 2 spesso è efficace una dose giornaliera iniziale di 0.7-1.0 unità/kg
di peso corporeo effettivo, aggiustata
sulla base delle successive concentrazioni glicemiche. Nelle donne obese può essere necessario somministrare dosi più
elevate d’insulina, che possono raddoppiarsi o triplicarsi in corso di gravidanza.
Nel libro (1) e in altre pubblicazioni
(62,63) sono illustrati i protocolli d’avvio
e di gestione del trattamento insulinico.
Tra gli analoghi dell’insulina solamente
aspart e lispro sono stati dimostrati sicuri
ed efficaci in trial clinici sulla gravidanza
(1).
RCT con iniezioni multiple giornaliere vs. CSII in gravidanza hanno general-
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, MAY 2008
mente evidenziato controllo della glicemia ed esito perinatale equivalenti. La
infusione basale, multipla, aggiustabile,
ottenibile con CSII può essere particolarmente utili nelle pazienti con ipoglicemia
diurna o notturna o prevalentemente all’alba (aumentata richiesta d’insulina tra
le 4.00 e le 8.00 del mattino). Gli svantaggi della CSII sono i costi, la possibilità
d’iperglicemia elevata e il rischio di DKA
in conseguenza di problemi nella somministrazione dell’insulina (solitamente dipendenti da piegatura accidentale del catetere o altre problematiche connesse al
sito dell’infusione); pertanto è molto importante un buon addestramento della
paziente (1).
E. Farmaci ipoglicemizzanti orali nel
diabete di tipo 2
Raccomandazioni
• I farmaci orali per il trattamento del
diabete di tipo 2 dovrebbero essere
sospesi e dovrebbe essere avviata e titolata l’insulina, per ottenere un controllo adeguato della glicemia prima
del concepimento. (E)
• Le donne che entrano in gravidanza
mentre stanno assumendo farmaci
orali dovrebbero iniziare l’insulina il
più presto possibile. Da dati limitati
relativi al primo trimestre si può dedurre che è possibile continuare con
metformina e glibenclamide fino a
quando non si inizia l’insulina, per
evitare l’iperglicemia grave che è un
oto fattore teratogeno. (E)
• Sono necessari trial controllati per determinare se il trattamento con glibenclamide nelle donne con diabete
di tipo 2 (da solo o in combinazione
con insulina) è sicuro all’inizio della
gravidanza o efficace nel corso della
gestazione. (E)
• La metformina dovrebbe essere usata
solamente nell’ambito di trial adeguatamente controllati in corso di
gravidanza, fino a quando non vi
sarà ampia evidenza di efficacia e sicurezza. In questi trial si dovrebbero
prestare particolare attenzione a sviluppo e funzione metabolica dei neonati nel lungo termine. (E)
• In gravidanza tiazolidinedioni, repaglinide e incretine dovrebbe essere
usati solamente in trial clinici approvati. (E)
L’impiego in gravidanza di agenti orali
nelle donne con diabete di tipo 2 è controverso a causa di a) preoccupazione per il
passaggio nella placenta dei farmaci durante organogenesi e successivo sviluppo
del feto e b) aumento dell’insulino-resistenza nella gravidanza, che rende problematico il raggiungimento degli obiettivi
glicemici. Tra le sulfaniluree la glibencla-
mide sembra avere il minore passaggio
placentare (1). Un RCT fondamentale, condotto su donne con diabete gestazionale
trattate con glibenclamide dopo il primo
trimestre, non ha evidenziato alcun danno
fetale/neo-natale apparente e ha prodotto
un controllo della glicemia equivalente a
quello con insulina nelle pazienti con iperglicemia lieve. Lo studio aveva un potere
non adeguato per dimostrare un esito perinatale equivalente nelle pazienti con diabete gestazionale e iperglicemia marcata
(64,65). Non sappiamo di trial su glibenclamide in donne in gravidanza con diabete di tipo 2. La metformina attraversa
prontamente la placenta ed è stata usata in
gravidanza in studi osservazionali su donne con la sindrome dell’ovaio plicistico. Si
attendono risultati di trial clinici per determinare se la metformina è efficace e sicura
nelle donne in gravidanza con diabete di
tipo 2. È stato dimostrato un limitato trasferimento placentare di rosiglitazone in
esperimenti di perfusione ex-vivo nel primo trimestre e in gravidanze a termine e
nelle cellule del trofoblasto sono espressi i
recettori bersaglio dei glitazoni. Non si sa
se i tiazolidinedioni (glitazoni) possono
danneggiare o essere utili al feto. Gli analoghi della meglitinide, gli inibitori delle
α-glucosidasi e le incretine non sono stati
ben studiati in gravidanza e pertanto non
sono state dimostrate le loro sicurezza ed
efficacia in gravidanza (1).
F. Attività fisica
Raccomandazioni
• Educare le donne diabetiche sull’opportunità della pratica quotidiana di
attività fisica. (A)
• Prendere in esame tipi specifici di attività fisica prima del concepimento.
Sottoporre tutte le donne in stato interessante con diabete preesistente ad
esame per complicanze cliniche, come CVD, retinopatia, nefropatia e
neuropatia. Se presenti, può essere
necessario modificare l’attività fisica.
(E)
• Incoraggiare le donne in gravidanza
cui l’attività fisica non è controindicata d’impiegarla nell’ambito della gestione complessiva del diabete, per
almeno 30 min./giorno. (E)
• Monitorare attentamente la glicemia
capillare in prossimità dell’attività fisica, prendere in considerazione aggiustamenti relativamente alle richieste di carboidrati e d’insulina e mantenere una buona idratazione prima,
durante e dopo l’attività fisica. (E)
• Istruire le donne a monitorare l’intensità dell’attività fisica e a scegliere attività che evitino la posizione supina
e minimizzino il rischio di trauma al
feto. (E)
• Insegnare alle pazienti quali sono i
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
segnali di allerta per sospendere l’attività e chiedere l’aiuto del medico.
(E)
I benefici che l’attività fisica apporta
alle donne in gravidanza comprendono
senso di benessere, riduzione dell’aumento di peso, miglioramento del controllo della glicemia e maggiore tolleranza del travaglio (66). Quando si programma l’attività fisica si devono prendere in considerazioni normali adattamenti fisiologici della gravidanza e tale
attività dovrebbe essere modificata se
l’aumento di peso è modesto o si evidenzia crescita limitata del feto. Nelle donne
in gravidanza senza complicanze diabetiche sono raccomandati 30 o più min. al
giorno di attività fisica d’intensità moderata che non comporti rischio elevato di
caduta o di trauma addominale, come la
passeggiata (67-69). L’obiettivo minimo
di 30 min. può essere suddiviso in 3 sessioni di 10 minuti ciascuna, preferibilmente dopo i pasti. Gli aggiustamenti
del trattamento del diabete sono essenziali per ridurre il rischio d’ipoglicemia
indotta dall’attività fisica, che può essere
esacerbato in gravidanza. Il consumo di
carboidrati prima, durante e dopo l’attività fisica contribuirà a evitare l’ipoglicemia, specialmente se la glicemia è < 100
mg/dl.
Le controindicazioni all’attività fisica
di tipo aerobico durante la gravidanza,
sottolineate dal American College of Obstetrics and Gynecology (66) e dalla Society of Obstetricians and Gynecologists
of Canada (70), sono elencate in tabelle
nel libro (1). Entrambe le organizzazioni
raccomandano alle donne che hanno dispnea, dolore precordiale, vertigini, mal
di testa, dolore ai polpacci, sanguinamento vaginale, perdita di liquido amniotico o contrazioni uterine dolorose di
interrompere l’attività fisica e di rivolgersi al medico.
G. Terapia comportamentale
Raccomandazioni
• Incorporare nelle cure di routine la
valutazione e il trattamento psicologico, invece di aspettare che venga
identificato un problema specifico o
che si deteriori lo status psicologico.
(E)
• Lo screening e il follow-up psicologico dovrebbero comprendere anche,
ma non solo, attitudini verso il diabete, aspettative relativamente alla gestione e agli esiti clinici, stato d’animo, qualità della vita in generale e in
correlazione al diabete, risorse (economiche, sociali ed emozionali) e storia psichiatrica. (E)
• Sottoporre le donne diabetiche in
gravidanza a screening per depres-
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DIABETES CARE, MAY 2008
•
•
•
•
sione, ansia/stress e disordini alimentari e aggiustare conseguentemente il programma del trattamento.
(E)
Usare una psicoterapia strutturata
nel trattamento di prima linea della
depressione lieve. (A)
Proseguire o iniziare il trattamento
psico-farmacologico per disordini depressivi maggiori in gravidanza, in
seguito a consultazioni appropriate,
analisi rischi-benefici e consenso
informato. (E)
Fornire interventi intensivi alle donne affette da anoressia nervosa, per
assicurare nutrizione prenatale e sviluppo fetale adeguati. (E)
Fornire alle donne affette da bulimia
nervosa o da disordini alimentari terapia cognitivo-comportamentale
specificatamente adattata. (A)
Il benessere emozionale fa parte della
gestione del diabete (2). Disordini psicologici, che possono influire sul controllo
della glicemia interessano circa un terzo
delle pazienti diabetiche (1,71), comprese
le donne in stato interessante. È dimostrato l’effetto positivo dei trattamenti
psico-sociali nella gestione del diabete
(72). È indicata una valutazione attenta
dei problemi di natura psico-sociale, che
possono influire sulla capacità delle pazienti di rispondere al trattamento e di
collaborare con il team ostetrico (73). Il libro mette a disposizione un semplice
strumento di valutazione promulgato
dall’American College of Obstetricians
and Gynecologists (72).
La depressione nelle donne diabetiche è fortemente associata ad auto-cura e
controllo glicemico modesti, complicanze micro- e macrovascolari e aumento
delle spese sanitarie (74). Si pensa che le
modificazioni ormonali e gli altri fattori
di stress della gravidanza aumentino la
vulnerabilità a insorgenza o ritorno della
depressione (75), che è associata a esito
perinatale modesto (76). La psicoterapia
strutturata può essere un trattamento di
prima linea utile nella depressione lieve,
ma in quella grave è necessario il trattamento con farmaci. Il rischio di esposizione del feto a disordine depressivo
maggiore non trattato è più preoccupante dell’esposizione del feto ai farmaci antidepressivi, alcuni dei quali sono stati
collegati a malformazioni congenite e a
sindrome da privazione nei neonati
(77,78). Nel libro sono discussi gli studi
sugli effetti dei farmaci antidepressivi in
gravidanza (1).
I disordini alimentari sono frequenti
nelle giovani donne con diabete di tipo 1,
che possono mettere in atto comportamenti dannosi per il controllo del peso,
come usare male l’insulina (79,80). Le
28
donne con diabete di tipo 2 possono avere problemi di alimentazione eccessiva.
Le donne in gravidanza, con disordini
alimentari, hanno un maggior rischio di
iperemesi parto prematuro, crescita limitata del feto e depressione post-partum
(1). Nelle donne con diabete di tipo 1 sono utili strumenti diagnostici validati,
che possono differenziare comportamenti e attitudini nella norma da quelli disfunzionali (80,81). Importanti principi
di gestione sono a) individuare i fattori
che possono avere scatenato i disordini
alimentari, b) coinvolgere i familiari nel
trattamento, c) insegnare a mangiare e a
fare spuntini a orari regolari e a come rispondere agli stimoli della fame e del
senso di sazietà, d) incoraggiare a non
privarsi del cibo e e) usare la terapia cognitivo-comportamentale, specificatamente adattata alle donne affette da bulimia nervosa e da disordini alimentari
(82,83).
Le tecniche di gestione dello stress,
come visualizzazione, rilassamento muscolare e respirazione rilassante, forniscono alle pazienti strumenti per la gestione dei fattori stressanti. Approcci psico-sociali e il supporto di parenti sono
importanti quando diventa necessario
modificare i comportamenti o il trattamento farmacologico per far smettere di
fumare o di consumare alcol o droghe in
gravidanza. Negli attacchi di panico in
gravidanza sono raccomandati gli antidepressivi triciclici. È importante che le
donne con depressione o con disordini
alimentari siano indirizzate da uno specialista di salute mentale (1).
II. GESTIONE DELLE
COMPLICANZE DIABETICHE
A. Disturbi metabolici
1. Chetoacidosi (DKA)
Raccomandazioni
• Tutte le donne con diabete preesistente che programmano una gravidanza
o che sono già in gravidanza dovrebbero ricevere un’educazione in merito a DKA, prevenzione mediante
SMBG, MNT e trattamento insulinico
adeguato e gestione dei giorni di malattia. (A)
• Il personale responsabile delle cure
dovrebbe sospettare una DKA nelle
donne diabetiche in gravidanza con
nausea, vomito, dolore addominale,
febbre e scarsa assunzione orale di cibo. (A)
• Insegnare alla paziente a eseguire l’esame dei chetoni urinari in condizione di malattia o quando i valori della
glicemia superano persistentemente i
200 mg/dl e a riportare prontamente
i valori alla norma. (E)
• I protocolli di gestione della DKA in
gravidanza comprendono la correzione della deplezione volumetrica, l’infusione d’insulina, il monitoraggio e
la correzione dello squilibrio elettrolitico, l’identificazione e il trattamento
dei fattori precipitanti e il monitoraggio continuo del feto. (A)
• Le cure iniziali per DKA sono meglio
fornite nei reparti di terapia intensiva, esperti nel monitoraggio delle
gravidanze ad alto rischio. (E)
Il notevole aumento dell’insulino-resistenza e di lipolisi/chetosi associato alla gravidanza è responsabile del maggior
rischio di DKA durante la gestazione
(57). Sebbene la DKA sia di solito osservata nelle pazienti con diabete di tipo 1,
essa può verificarsi anche in quelle con
diabete di tipo 2 (84,85). I fattori predisponenti sono: infezioni, vomito e disidratazione, gastroparesi diabetica, omissione della dose d’insulina e uso ostetrico di farmaci β-simpatomimetici e di glucocorticoidi (57,86,87). La DKA mette a
repentaglio il benessere della madre e del
feto. È stato riportato che in gravidanza
il 10-30% dei casi di DKA si verifica in
presenza di valori moderatamente elevati della glicemia (< 250 mg/dl) (57,84). Le
donne diabetiche in gravidanza che accusano nausea, vomito e iperglicemia
persistente, anche moderata, dovrebbero
essere testate per chetoacidosi. La DKA è
trattata in maniera ottimale nei reparti di
terapia intensiva di ospedali attrezzati
nel monitoraggio delle gravidanze ad alto rischio (87). I protocolli di trattamento
della DKA si basano su correzione della
deplezione volumetrica, somministrazione d’insulina per infusione, monitoraggio e correzione accurati degli squilibri
elettrolitici e identificazione e trattamento dei fattori precipitanti (86). Il monitoraggio continuo della frequenza cardiaca
fetale e i test biofisici devono essere impiegati per valutare il benessere del feto
nei casi che si verificano dopo 24 settimane di gestazione. In caso di andamento
negativo è possibile non dover ricorrere
al parto immediato, poiché la correzione
della DKA spesso riporta i tale andamento alla normalità..
2. Ipoglicemia materna
Raccomandazioni
• Educare e addestrare tutte le donne
che pianificano una gravidanza o che
sono già in gravidanza a riconoscere
e trattare l’ipoglicemia, ad usare l’SMBG e sulla necessità di portare con
sé glucosio e un sistema di allarme
sanitario. (E)
• Il glucosio (15-20 g) è il trattamento
d’elezione nelle donne coscienti con
ipoglicemia, sebbene si possa somministrare qualsiasi tipo di carboidrato.
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•
•
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Se l’SMBG 15 min. dopo il trattamento evidenzia persistenza dell’ipoglicemia, si dovrebbe ripetere il trattamento. Quando la glicemia ritorna alla normalità la donna dovrebbe consumare un pasto o uno snack, per
evitare che l’ipoglicemia si ripeta. (E)
Informare le donne che il rischio d’ipoglicemia grave aumenta all’inizio
della gravidanza. Intensificare il controllo della glicemia prima del concepimento può comportare un rischio
minore d’ipoglicemia grave e di inavvertenza dell’ipoglicemia durante la
gravidanza. (A)
Bilanciare l’attività fisica con tempi e
quantità delle dosi d’insulina e assunzione di carboidrati ai pasti e negli spuntini, per minimizzare l’ipoglicemia iatrogenica. (E)
Gli obiettivi glicemici dovrebbero essere innalzati nelle pazienti che non
avvertono l’ipoglicemia, fino a quando la sindrome non rientra con la
prevenzione meticolosa degli episodi
ipoglicemici. (E)
Istruire mariti, partner e colleghi di
lavoro delle donne a rischio d’ipoglicemia sull’uso appropriato del glucagone. (E)
L’ipoglicemia è l’evento avverso più
frequente ed importante, associato al
trattamento intensivo del diabete di tipo
1 (88) e limita il raggiungimento del controllo ottimale della glicemia nel diabete
di tipo 2 insulino-trattato (89). V’è una
forte evidenza che la glicemia plasmatica
post-assorbimento si riduce di 10 mg/dl
nella fase iniziale della gravidanza (1) e
qualche evidenza che la soglia della secrezione degli ormoni contro-regolatori è
più bassa (48-57 mg/dl) durante la gestazione nelle donne diabetiche (90,91). È
ragionevole usare una soglia di < 60
mg/dl (3.3 mmol/l) per definire l’ipoglicemia in gravidanza. L’ipoglicemia ripetuta e documentata è frequente all’inizio
della gravidanza (41-68% delle pazienti)
(1), così come lo è l’ipoglicemia notturna
asintomatica (92,93). La frequenza d’ipoglicemia grave era del 18% nelle donne
in gravidanza con diabete di tipo 1 che
partecipavano al DCCT che erano tutte
trattate intensivamente, indipendentemente dal loro status alla randomizzazione. L’ipoglicemia grave era predetta
dal suo verificarsi prima della gravidanza, ma era meno frequente nelle donne
nel braccio del controllo glicemico intensivo, rispetto al braccio del trattamento
convenzionale prima della gravidanza
(94). Studi osservazionali europei riportano tassi d’ipoglicemia grave persino
più elevati all’inizio della gravidanza,
con predittori di rischio che comprendono storia di ipoglicemia prima della gra-
vidanza e inconsapevolezza dell’ipoglicemia (93,95,96).
Può essere difficile distinguere alcuni
segni classici d’ipoglicemia (88) (ansia,
nausea, palpitazioni, tremore, sudorazione, calore, confusione, vertigini, mal di
testa, fame, debolezza) dai sintomi della
gravidanza (91). È necessario un SMBG
frequente per diagnosticare l’ipoglicemia
e minimizzare la gravità delle conseguenze (1).
La ridotta attivazione simpatetica è
responsabile della sindrome clinica della
inavvertenza dell’ipoglicemia, cioè la
mancanza dei sintomi di allerta che normalmente permettono ai pazienti di riconoscere l’ipoglicemia e di agire per correggerla (88,89,97). I difetti della controregolazione glicemica e la disfunzione
autonomica associata a ipoglicemia possono essere esaltati in gravidanza nelle
donne con diabete di tipo 1 e con diabete
di tipo 2 di lunga durata, insulino-trattato (90,91,98,99). Diversi fattori clinici (sostituzione imperfetta dell’insulina, nausea, pasti ritardati o saltati, attività fisica,
sonno, ipoglicemia precedente) esacerbano le ridotte risposte neuro-endocrine all’ipoglicemia (88,100). L’inconsapevolezza dell’ipoglicemia è reversibile almeno
in parte se per molte settimane si evita
l’ipoglicemia (93,101).
I protocolli per minimizzare il verificarsi d’ipoglicemia nella madre comprendono educazione intensiva delle pazienti e degli altri soggetti coinvolti,
SMBG frequente, adeguati pasti e spuntini consumati nel momento giusto, somministrazione corretta delle dosi d’insulina e gestione attenta dell’attività fisica
(102). V’è qualche evidenza che l’impiego di analoghi dell’insulina, specialmente mediante CSII, riduce la frequenza d’ipoglicemia materna (1). Una tazza di latte (14 g. di zuccheri) o 3-5 pastiglie di
glucosio (12-20 g) possono essere usate
per trattare l’ipoglicemia lieve in gravidanza (per prevenire una eccessiva iperglicemia di rimbalzo, dovuta a consumo
eccessivo di glucosio), mentre un bicchiere di succo d’arancia (22 g di zuccheri) è
indicato con glicemia < 50 mg/dl (1). In
presenza d’ipoglicemia grave e con la
paziente incapace di deglutire, un familiare o collega dovrebbe iniettarle 1 mg
di glucagone per via sottocutanea e rivolgersi al pronto soccorso. Non appena
la paziente si riprende ed è in grado di
reagire dovrebbe consumare uno spuntino o un pasto, per prevenire il ripetersi
dell’ipoglicemia.
3. Patologie della tiroide
Raccomandazioni
• Sottoporre a screening per disfunzione tiroidea/auto-immunità con dosaggio di TSH e anticorpi anti-peros-
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sidasi tiroidea (TPOAb) tutte le donne diabetiche prima della gravidanza
o al suo inizio. (B)
Se il TSH è normale ma gli anticorpi
sono elevati misurare il TSH alle settimane 7-8, 14-16 e 26-30 e seguire attentamente la fase post partum. (E)
Nel corso della gravidanza trattare
qualsiasi innalzamento del TSH (>
2.5 µU/ml nella prima metà; > 3.0
µU/ml nella seconda metà). Seguire
attentamente la paziente durante le
prime 20 settimane, quando le richieste di tiroxina sono massime e riaggiustare, se necessario, per mantenere
l’eutiroidismo (TSH < 2.5 µU/ml nella prima metà; < 3.0 µU/ml nella seconda metà). (E)
Valutare i valori della tiroxina in gravidanza misurando la T4 totale aggiustata, poiché le modificazioni delle proteine plasmatiche influiscono
sull’assay per T4 libera
Se i valori di TSH (< 0.03 mU/ml) e
T4 indicano ipertiroidismo, misurare
gli anticorpi anti recettore del TSH
(TRAb). (E)
Trattare l’ipertiroidismo con dosi moderate di propiltiouracile e per mantenere il T4 materno nel range superiore della normalità o appena al di sopra ad esso e minimizzare l’ipertiroidismo fetale indotto dal farmaco. (B)
Allertare il pediatra della nascita di
un neonato di madre con TRAb elevati. (E)
La patologia tiroidea auto-immune è
frequente (35-40%) nelle donne con diabete di tipo 1 e le pazienti senza diagnosi
pregressa dovrebbero essere sottoposte a
screening per disfunzione tiroidea prima
della gravidanza, con un assay sensibile
del TSH e titolo dei TPOAb. La prevalenza d’ipotiroidismo è aumentata nelle
donne con diabete di tipo 2 rispetto alle
popolazioni di riferimento e alcune di
queste donne svilupperanno auto-immunità tiroidea cronica (103,104). Nello
screening anteriore al concepimento, se il
TSH è < 0.1 µU/ml o > 4.0 µU/ml (valori
di riferimento in donne sane, d’età compresa tra 20 e 49 anni) (105-107), si raccomanda di testare la paziente per possibile patologia tiroidea, il cui trattamento
può migliorare l’esito della gravidanza
(1). Se solo il titolo TPOAb è elevato, il
TSH dovrebbe essere misurato di nuovo
a ogni trimestre, poiché le esigenze della
gravidanza possono smascherare un ipotiroidismo (108). Le donne con anticorpi
tiroidei elevati sono anche a rischio di
perdita precoce del feto e toroidite post
partum (1). In uno studio il trattamento
di donne eutiroidee positive agli anticorpi in gravidanza con T4 riduceva il tasso
di aborto e di parto prematuro (109).
29
DIABETES CARE, MAY 2008
I valori del TSH serico sono ridotti
dall’influenza dell’attività tirotropica
della gonadotropina corionica umana
(108,110). Durante la gravidanza un ipotiroidismo clinico (manifesto) è indicato
da TSH serico ≥ 2.5 µU/ml nella prima
metà o ≥ 3.0 µU/ml nella seconda metà,
insieme a T4 serica totale ridotta a < 7.8
µg/dl (< 100 nmol/l) (i valori normali
non in gravidanza devono essere moltiplicati per 1.5, a causa dell’aumento della
globulina legante la T4 in gravidanza). Si
sospetta ipotiroidismo sub-clinico (lieve)
in presenza di valori normali di tiroxina
ma elevati di TSH. I valori del T4 libero
serico sono di ardua interpretazione, a
causa dell’influenza dell’aumento della
globulina legante la tiroxina (TBG) e della riduzione dell’albumina plasmatica
sugli assay (108).
Ipotiroidismo manifesto e sub-clinico
possono avere effetti avversi sul corso
della gravidanza e sullo sviluppo del feto (108). Lo sviluppo cerebrale del feto
(moltiplicazione, migrazione e organizzazione architettonica neurale) dipende
dalla tiroxina materna fino al secondo
trimestre e anche le fasi posteriori di
questo sviluppo (moltiplicazione, migrazione e mielinizzazione delle cellule gliali) possono essere influenzate da ipotiroxinemia materna (1). L’ipotiroidismo
manifesto non trattato in gravidanza è
chiaramente collegato ad alterazioni cognitive maggiori nella prole. L’ipotiroidismo sub-clinico è associato a lievi deficit
cognitivi nella prole (6 studi di popolazione) (111), con dati simili anche nella
prole di donne con valori di TSH da normali a elevati (5 studi) (112). L’ipotiroidismo sub-clinico non trattato è associato a
interruzione della gravidanza, rottura
della placenta e parto prematuro, ma se
adeguatamente trattato anche l’ipotiroidismo manifesto è associato a esiti normali della gravidanza. Entrambe le forme d’ipotiroidismo, se non trattate, possono alterare il controllo glicemico e il
metabolismo lipidico nel diabete (1).
Se l’ipotiroidismo è stato diagnosticato prima della gravidanza un gruppo internazionale di esperti raccomanda l’aggiustamento della dose di T4 di prima
del concepimento, per arrivare a un valore di TSH non superiore a 2.5 µU/ml
(108). La dose di T4 solitamente ha bisogno di essere aumentata alla 4°-6° settimana di gestazione e può richiedere un
aumento del 30-50% del dosaggio
(108,113). Se si diagnostica un ipotiroidismo manifesto in gravidanza il valore
target del TSH non deve superare 2.5
µU/ml nella prima metà della gravidanza e deve essere < 3.0 µU/ml nella seconda metà. I test di funzionalità tiroidea
dovrebbero essere eseguiti ogni 30-40
giorni. In attesa dei risultati di trial clini-
30
ci, gli esperti raccomandano la sostituzione di T4 nelle donne in gravidanza
con ipotiroidismo sub-clinico, poiché i
potenziali benefici superano i rischi
(108). L’ingestione di levotiroxina e solfato ferroso simultaneamente può causare
la formazione di complessi di tiroxina
ferrosa insolubili, con la conseguenza
della riduzione dell’assorbimento della
tiroxina (114).
Si osserva un ipertiroidismo clinico
nell’1.7% delle pazienti con diabete di tipo 1 e nello 0.3% di quelle con diabete di
tipo 2, rispetto allo 0.2% nella popolazione in gravidanza di riferimento (115). Si
definisce ipertiroidismo in gravidanza
un TSH soppresso (< 0.03 µU/ml) e T4
totale elevata (> 18 µg/dl, > 225 nmol/l;
i valori sono 1.5 volte quelli normali più
alti) o valori di T4 libera chiaramente elevati. Il morbo di Graves si differenzia
dall’ipertiroidismo gestazionale per presenza di gozzo e di TRAb nella prima
metà della gravidanza. L’ipertiroidismo
gestazionale (spesso accompagnato da
iperemesi) è generalmente auto-remittente e la maggior parte dei casi non richiede trattamento farmacologico (108).
La gestione accurata dell’ipertiroidismo è importante in quanto la tireotossicosi aumenta il rischio di complicanze
materne e fetali (115-119). La coesistenza
d’ipertiroidismo e diabete inadeguatamente controllato nella gravidanza può
aumentare il rischio di esito perinatale
modesto (115). Il propiltiouracile è il farmaco antitiroideo d’elezione in gravidanza, poiché l’impiego di metimazolo è
stato associato ad aplasia cutanea fetale e
ad atresia esofagea/anale (108,120). Tutti
e due i farmaci attraversano la placenta e
possono causare ipotiroidismo fetale, minimizzato con un trattamento mirato al
T4 materno nel range superiore della
normalità (1,108,115,117). I TRAb osservati nel morbo di Graves della madre attraversano la placenta e possono stimolare o inibire la tiroide del feto. Il gozzo fetale può dipendere da un ipotiroidismo
fetale causato dal trattamento con tiomidi della madre o da ipertiroidismo fetale
causato da trasferimento degli anticorpi
della madre (108). I TRAb possono essere
associati a ipo- o ipertiroidismo fetale
transitorio; il rischio è basso in assenza
di auto-anticorpi materni (1,108,119).
B. Gestione dei fattori di rischio
cardiovascolare
La CVD è la causa maggiore di morte
nelle donne diabetiche. Il diabete di per
sé è un fattore indipendente di rischio
per patologia macrovascolare e le condizioni cliniche che frequentemente si accompagnano ad esso (obesità, ipertensione, dislipidemia, albuminuria) sono anche esse fattori di rischio. I pazienti dia-
betici che sviluppano CHD clinica hanno
una prognosi infausta, e questa circostanza indica quanto è importante riconoscere gli stadi pre-clinici e trattarli
(13). Trial clinici hanno dimostrato l’efficacia della riduzione dei fattori di rischio
cardiovascolare nella prevenzione o nel
rallentamento della CVD (121). L’elevata
consapevolezza del grado di rischio cardiovascolare può consentire questa prevenzione o una migliore gestione della
complicanze arteriosclerotiche acute in
gravidanza. Linee guida recenti sulla
prevenzione primaria di CVD in soggetti
diabetici (14) e nelle donne (122) pongono l’accento su: assunzione di cibi sani,
attività fisica, cessazione del fumo e controllo di peso, glicemia, pressione arteriosa e lipidi. La maggior parte di questi
approcci, oltre alle modificazioni necessarie nel trattamento farmacologico, può
essere impiegata in gravidanza, che è
una condizione che offre la motivazione
per apprendere modificazioni comportamentali atte a produrre benefici prolungati per la salute.
1. Screening per CVD
Raccomandazioni
• Se possibile, effettuare la valutazione
del rischio per CVD prima della gravidanza. (E)
• Sottoporre a screening per fattori
standard di rischio cardiovascolare
(ipertensione, dislipidemia, albuminuria, fumo, storia familiare di CHD
prematura) tutte le donne diabetiche.
(A)
• Sottoporre a screening per evidenza
di CVD mediante un semplice esame
obiettivo dei polsi arteriosi e dei soffi
d’eiezione aortica. (E)
• Ottenere informazioni su sintomi di
CVD e neuropatia autonomica cardiaca (CAN). Nelle pazienti ad alto
rischio prendere in considerazione la
valutazione con ultrasuoni della carotide, l’indice caviglia/braccio, la variabilità della frequenza cardiaca con
la respirazione profonda, la pressione
arteriosa ortostatica. (E)
• Eseguire un ECG a riposo prima e
durante la gravidanza nelle pazienti
diabetiche d’età ≥ 35 anni. (E)
• Le pazienti che presentano dolore atipico, possibile angina o equivalente
di angina o altre condizioni che fanno
sospettare CHD attiva, comprese dispnea significativa o anomalie all’ECG a riposo, dovrebbero essere
sottoposte a consulto cardiologico
per eventuali ECG, eco-cardiografia o
altri test da sforzo. (E)
• Le pazienti d’età ≥ 35 anni e con durata del diabete di tipo 1 ≥ 15 anni o
di tipo 2 ≥ 10 anni, con rischio cardiovascolare in eccesso, specialmente
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, MAY 2008
•
•
•
•
con segni di CAN o di vascolopatia
carotidea/arti inferiori, dovrebbero
essere prese in considerazione per
ECG o eco-cardiogramma da sforzo.
(E)
Prendere in considerazione il dosaggio del peptide cerebrale natriuretico
(BNP), associato ad esame eco-cardiografico, per individuare una disfunzione ventricolare sistolica o diastolica, in presenza di dispnea o di
dati anomali dell’esame fisico. Richiedere consulto cardiologico in presenza di evidenza di cardiomiopatia.
(E)
Trattare i fattori di rischio di CVD,
come iperglicemia, ipertensione, dislipidemia e fumo con interventi
adattati alla gravidanza. (A)
Ridurre il rischio di CVD nelle donne
diabetiche mediante il consumo di 2
pasti a settimana a base di pesce
grasso (ma a basso rischio per contenuto in eccesso di mercurio; si può
sostituire con 1 g/giorno di olio di
pesce). (A)
Prendere in considerazione l’anestesia e il tipo di parto in presenza di
CVD. (E)
I rischi assoluti e relativi per CVD aumentano in maniera esponenziale nelle
giovani donne con diabete di tipo 1 (123125) e in quelle con diabete di tipo 2
(126,127), rispetto alla popolazione non
diabetica /1,13,14). Le donne diabetiche
sono ritenute ad alto rischio di CHD (>
2% all’anno), specialmente in presenza di
altri fattori di rischio per CVD
(126,128,129). Il rischio per CVD nelle
donne diabetiche è rappresentato da:
pregresse CHD, neuropatia cardioautonomica (130,131), cardiomiopatia/scompenso cardiaco (132,133), stroke ischemico (134) e arteriopatia periferica (PAD)
(135). La tendenza all’aumento del diabete di tipo 2 nelle giovani può aumentare
la prevalenza di CVD in questo gruppo
al momento della gravidanza, soprattutto nelle donne con bio-marcatori d’insulino-resistenza o infiammazione cronica
(1). La valutazione del rischio di CVD e
la gestione dei fattori di rischio dovrebbero essere rigorosamente applicate nelle
donne diabetiche in età riproduttiva
(136,137). Il trattamento intensivo del
diabete riduce la frequenza di CVD (1).
L’aspirina è raccomandata come strategia
preventiva primaria nelle donne diabetiche di oltre 40 anni con rischio cardiovascolare aumentato (2); tuttavia l’uso di
aspirina all’inizio della gravidanza è stato associato ad aumento del rischio di difetti alla nascita (gastroscisi e atresia dell’intestino tenue) (1).
La coronaropatia spesso è più diffusa,
calcificata ed estesa nel diabete; tuttavia
l’ischemia può essere silente e la CHD
può essere associata a disfunzione ventricolare sinistra (1). Un documento di consenso dell’ADA del 1999 su CHD e diabete proponeva che le pazienti asintomatiche di 35 anni o più, con 2 o più fattori
standard di rischio o che desideravano
svolgere attività fisica d’intensità elevata,
fossero sottoposte a test di screening coronarico (128). Tuttavia, poiché l’onere
dei fattori convenzionali di rischio cardiaco non è predittivo della presenza d’ischemia all’ecografia perfusionale, perlomeno nelle pazienti più anziane, e che la
gestione clinica (comunque indicata nei
soggetti diabetici a rischio moderato o alto di CVD) può produrre esiti simili rispetto agli interventi chirurgici, un documento di consenso dell’ADA del 2007 si è
pronunciato contro lo screening di routine per CHD nei soggetti diabetici (138).
L’idea di sottoporre a screening le donne
diabetiche asintomatiche in età riproduttiva rimane controversa e non è oggetto
di studi adeguati (1).
Una CHD attiva o trattata precedentemente è riportata in 1 su 10.000 gravidanze, ma in 1 su 350 gravidanze diabetiche (139). Non è nota la frequenza dell’ischemia silente. In ampi dataset amministrativi il diabete e l’ipertensione erano
importanti fattori di rischio per infarto
del miocardio in gravidanza o entro 6
settimane dal parto (1). È ben noto che la
CHD si presenta in maniera diversa nelle
donne rispetto agli uomini e questo può
avere un impatto sulla diagnosi precoce
e sul trattamento (122). I sintomi insidiosi, se ve ne sono, possono comprendere
dolore atipico al petto (o al collo, mandibola o spalla), affaticamento, dispnea e
nausea, che possono essere facilmente
scambiati per sintomi correlati alla gravidanza (compreso il reflusso gastroesofageo). Onde Q anomale, inversioni
profonde delle onde T, blocco del fascio
sinistro di branca o modificazioni non
specifiche dell’onda ST-T all’ECG a riposo, di solito avviano la valutazione per
ischemia indotta (138). In caso di sospetto di CHD su base storica o clinica nelle
donne diabetiche in gravidanza si raccomandano un consulto cardiologico e l’adozione di modalità adeguate per la diagnosi dell’ischemia, evitando l’esposizione a radiazioni (140).
La prevalenza di CAN è dell’11-33%
negli adulti giovani con diabete, e dipende dalla qualità del controllo della glicemia; può essere accompagnata da ipertrofia ventricolare sinistra e disfunzione
ventricolare diastolica (1,130). La riduzione della variabilità della frequenza
cardiaca (misurata dall’intervallo R-R) è
il primo indicatore di CAN (1). L’impatto
clinico della CAN negli adulti diabetici è
rappresentato da intolleranza all’attività
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
fisica, ipotensione ortostatica, aritmie
cardiache, ischemia silente del miocardio
e infarto indolore, labilità cardiovascolare intra-operatoria ed aumento degli
eventi cardiaci (131). Nel libro sono citati
i pochi studi su CAN nelle gravidanze
complicate da diabete, ed è presentata
una tabella di semplici test ambulatoriali
per CAN, che possono essere praticati in
gravidanza (1).
Lo scompenso cardiaco colpisce con
maggiore frequenza le donne diabetiche
in età riproduttiva, rispetto alle donne di
controllo della stessa età, specialmente le
donne con cardiomiopatia diabetica o arteriosclerosi diffusa e ischemia del miocardio (132,13) La cardiomiopatia diabetica può essere associata a disfunzione
ventricolare sistolica o diastolica o a entrambe (141). Il libro offre discussioni su
sovraccarico del volume fisiologico, dilatazione atriale, pattern alterato del rilasciamento diastolico e modificazioni delle dinamiche ventricolari associate alla
gravidanza normale e ulteriori discussioni su valutazione e gestione della cardiomiopatia diabetica (1). Sono indispensabili altre indagini in quest’area, prima di
potere formulare raccomandazioni basate su evidenze.
Il rischio di stroke ischemico aumenta da 4 a 8 volte nelle donne adulte relativamente giovani con diabete di tipo 1
(134) o 2 (126,142,143), rispetto alle donne non diabetiche d’età simile, sebbene il
rischio assoluto sia basso (4% nell’arco di
un follow-up di 20 anni in donne con
diabete di tipo 1) (144). In ampi dataset
amministrativi la frequenza dello stroke
ischemico era di 9-25 per 100.000 gravidanze, con maggiore probabilità di rischio di stroke di qualsiasi tipo correlato
alla gravidanza in madri diabetiche (OR
1.7-2.5 nell’analisi univarita) (1). L’arteriosclerosi carotidea, contrassegnata da
ispessimento medio intimale o presenza
di placche agli ultrasuoni B-mode ad alta
prestazione, è un predittore di stroke
ischemico e di CHD nelle donne diabetiche in età riproduttiva (145,146). Non disponiamo di studi sull’ispessimento medio intimale della carotide nelle gravidanze diabetiche.
La PAD delle arterie femorale-poplitea e tibiale contribuisce a morbilità grave e mortalità in eccesso in tutti e due i
tipi di diabete, anche a casusa dell’associazione di PAD e CHD e stroke ischemico (135,147). Alcuni dimostrano la frequenza di segni di PAD nel 2-12% nelle
donne diabetiche in età riproduttiva
(126,148), e lo status di fumatrice e la
presenza di diabete da lunga data costituiscono importanti fattori di rischio Oltre la metà delle pazienti anomali e delle
arterie degli arti inferiori non riporta
claudicatio, possibilmente per l’associa-
31
DIABETES CARE, MAY 2008
zione di PAD e neuropatia periferica
(135,147). L’assenza di pulsazioni periferiche non segnala PAD; se i sospetti sono
elevati l’esame dovrebbe comprendere la
misura dell’indice caviglia-braccio (ABI)
(135,149,150). L’ABI è stato validato vs.
angiografia ed è stato osservato che un
rapporto < 0.9 è sensibile al 95% e specifico quasi al 100% (148,151). Non disponiamo di studi su PAD associata a diabete e gravidanza.
2. Ipertensione
Raccomandazioni
• La pressione arteriosa dovrebbe essere misurata nel corso di ciascuna visita clinica. Le pazienti con pressione
arteriosa sistolica ≥ 130 mmHg o diastolica ≥ 80 mmHg dovrebbero avere
la conferma della pressione in un
giorno successivo. Una pressione arteriosa sistolica > 130 mmHg o diastolica > 80 mmHg conferma la diagnosi d’ipertensione nelle donne diabetiche. ©
• Le donne affette da diabete nel periodo anteriore al concepimento dovrebbero essere sottoposte a trattamento
atto a garantire una pressione arteriosa sistolica < 130 mmHg e diastolica
< 80 mmHg. (B)
• Le pazienti con pressione arteriosa sistolica > 140 mmHg o diastolica > 90
mmHg dovrebbero essere sottoposte a
trattamento farmacologico in previsione di gravidanza, in aggiunta al trattamento comportamentale e dello stile
di vita. Generalmente per raggiungere
gli obiettivi desiderati della pressione
arteriosa si richiede un trattamento
farmacologico multiplo (2 o più farmaci al dosaggio massimo). (A)
• Le donne diabetiche con pressione
arteriosa sistolica di 130-139 mmHg o
diastolica di 80-89 mmHg possono
essere sottoposte solamente al trattamento relativo allo stile di vita per un
massimo di 3 mesi o all’aggiunta concomitante di farmaci sicuri in gravidanza, per ottenere gli obiettivi desiderati prima del concepimento. (E)
• In gravidanza le donne diabetiche
con ipertensione cronica dovrebbero
essere sottoposte a trattamento farmacologico mirato all’ottenimento di
una pressione arteriosa sistolica di
110-129 mmHg e diastolica di 65-79
mmHg, nell’interesse della salute della madre e per minimizzare una crescita fetale alterata. (E)
• ACE-inibitori e ARB sono controindicati in gestazione e dovrebbero essere
sospesi in previsione di gravidanza.
Le donne trattate con questi farmaci
dovrebbero usare contraccettivi efficaci. (A)
• Farmaci per la pressione, sicuri in
32
gravidanza, dovrebbero essere aggiunti in maniera sequenziale fino a
quando non si raggiungono i valori
desiderati della pressione arteriosa.
Questi farmaci comprendono: metildopa, calcio-antagonisti ad azione
prolungata e beta-bloccanti adrenergici selettivi. (E)
• Le donne diabetiche ipertese in gravidanza possono essere istruite a evitare assunzione in eccesso di sale, ma
non a ridurlo in maniera drastica.
L’assunzione adeguata di potassio
dovrebbe essere incoraggiata. (E)
• Tutte le donne diabetiche in stato interessante, specialmente quelle ipertese, dovrebbero essere strettamente
monitorate per lo sviluppo di preeclampsia. (A)
L’ipertensione è un fattore maggiore
di rischio per CVD, nefropatia e retinopatia nelle donne diabetiche (122, 152). A
causa dei rischi strettamente sinergici
d’ipertensione e diabete, il valore soglia
nella diagnosi d’ipertensione è più basso
nei soggetti diabetici (pressione arteriosa
sistolica ≥ 130 mmHg o diastolica ≥ 80
mmHg), rispetto ai non diabetici (2). Evidenze epidemiologiche supportate da
trial clinici randomizzati in donne diabetiche non in gravidanza dimostrano l’effetto positivo del mantenimento della
pressione arteriosa a < 130/80 mmHg, se
può essere ottenuto in sicurezza
(11,153,154). Accanto ai trattamenti sullo
stile di vita e comportamentali, solitamente sono necessarie combinazioni di 2
o più farmaci per raggiungere l’obiettivo
desiderato della pressione arteriosa (2,
11, 155).
Tutte le categorie dei disordini ipertensivi in gravidanza sono più frequenti
nelle donne diabetiche. L’ipertensione
cronica può essere associata a gravi complicanze perinatali (156). La prevalenza
d’ipertensione cronica è del 10-17% nelle
gravidanze diabetiche, aumenta con l’età
e la durata del diabete e predice un aumento di prematurità e morbilità neo-natale, specialmente quando è associata a
preeclampsia (1). Nelle donne con diabete preesistente l’incidenza di preeclampsia aumenta da ~18% nelle donne senza
ipertensione cronica o proteinuria preesistente a quasi il 30% in presenza di una o
entrambe queste condizioni (157). Gli
studi sull’ipertensione gestazionale senza albuminuria non sono sufficienti per
valutare gli esiti perinatali o per fornire
raccomandazioni di consenso per il trattamento.
Non disponiamo di RCT sul trattamento antiipertensivo in donne diabetiche in gravidanza, affette da ipertensione
cronica, ma trial clinici con metildopa,
condotti su donne in gravidanza affette
da ipertensione cronica, hanno dimostrato che il trattamento riduceva la perdita
fetale e la riduzione della crescita fetale e
che v’era minore accelerazione dell’ipertensione (1,158). La forte evidenza a favore del trattamento aggressivo nella popolazione diabetica ipertesa, non in gravidanza (152-154) supporta la raccomandazione di mantenere la pressione arteriosa < 130/80 anche nei 9 mesi della
gravidanza. I dati sulla pressione arteriosa normale dimostrano che il 50% percentile della pressione arteriosa è di
105/63 mmHg alle settimane 12-20 di gestazione e il 97.5° percentile è di 128/81
mmHg. V’è una correlazione a U tra
pressione arteriosa ed esito della gravidanza, con ridotta crescita fetale quando
la pressione diastolica è < 60-65 o > 85-90
mmHg o con pressione arteriosa media
(MAP) < 75 o ≥ 90 mmHg. Parti di feti
morti, preeclampsia e mortalità perinatale aumentano con MAP di metà trimestre
≥ 90 mmHg (1). Il trattamento in gravidanza dell’ipertensione cronica mirato a
valori < 110/65 mmHg può essere associato ad aumento della restrizione della
crescita fetale (1,158).
Non si devono somministrare ACE
inibitori e ARB in qualsiasi stadio della
gravidanza, a causa della loro associazione con embriopatia e fetopatia (1,159). I
farmaci antiipertensivi d’elezione in gravidanza sono: metildopa, calcio-antagonisti ad azione prolungata e beta-bloccanti adrenergici. Clonidina e prazosina
possono essere usati come farmaci di
quarta linea (160, 161). La metildopa è un
debole antiipertensivo, ma molti clinici
la preferiscono come farmaco di prima linea per il rassicurante follow-up prolungato di bambini esposti in utero. I calcioantagonisti nondiidropiridinici come il
diltiazem possono essere preferiti ai diidropiridinici nelle donne diabetiche a
causa della loro tendenza a dilatare le arteriole glomerulari e a ridurre l’escrezione renale dell’albumina, sebbene questo
ultimo effetto in gravidanza sia solamente aneddotico. I beta-bloccanti con parziale attività beta-agonista (acebutololo,
carvedilolo, labetalolo, pindololo) riducono direttamente le resistenze periferiche, senza effetto significativo su frequenza o funzione cardiaca e possono essere preferiti in gravidanza. L’impiego di
atenololo è stato associato a restrizione
della crescita fetale (1). Un trial clinico su
trattamento continuato con diuretici tiazidici nelle donne in gravidanza con
ipertensione cronica ha dimostrato una
riduzione del volume plasmatico (162).
3. Dislipidemia
Raccomandazioni
• Misurare il profilo lipidico a digiuno
almeno una volta all’anno nelle don-
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DIABETES CARE, MAY 2008
Tabella 2 – Stadi evolutivi della nefropatia diabetica ed effetti sulla gravidanza
Stadio del danno renale*
Iperfiltrazione (a)
Microalbuminuria 1
Macroalbuminuria 1
Nefropatia precoce 2
CKD moderata 3
CKD grave 4
Scompenso renale 5
GFR
Albuminuria
> 150
> 90
> 90
60-89
30-59
15-29
< 15
< 30 mg/giorno
30-299 mg/giorno
≥ 300 mg/giorno
TPE ≥ 500 mg/giorno
Massiccia proteinuria
Meno proteinuria
Effetto sulla gravidanza
Sconosciuto
Aumento di preeclampsia
Aumento di preeclampsia
Rischio aumentato di riduzione della crescita fetale
Probabilità di complicanze perinatali
Ritardare la gravidanza a dopo il trapianto
Dialisi
*Vi può essere sovrapposizione tra i raggruppamenti di GFR e albuminuria. Al secondo livello e oltre il danno renale è definito come anomalie nei test urinario, ematico o ecografico (rif. 2 e 190). Tabella modificata da riferimenti 2 e 188-190. GFR: clearance della
creatinina quantificata in ml/min. per 1.73 m2. CKD: insufficienza renale cronica; TPE: escrezione urinaria totale di proteine.
•
•
•
•
•
ne diabetiche e con maggiore frequenza se necessario per raggiungere
gli obiettivi. Nelle donne con valori
lipidici a basso rischio (colesterolo
LDL < 100 mg/dl; colesterolo HDL >
50 mg/dl e trigliceridi < 150 mg/dl)
le valutazioni lipidiche possono essere ripetute ogni 2 anni. (E)
Prima della gravidanza, nelle donne
diabetiche con dislipidemia seguire le
linee guida correnti relative a nutrizione e trattamento farmacologico, insieme ad attività fisica e controllo del peso. L’obiettivo primario del trattamento è un colesterolo LDL < 100 mg/dl
(2.6 mmol/l) nelle donne senza CVD
manifesta e < 70 mg/dl (1.8 mmol/l)
in quelle con CVD manifesta. (A)
È stato dimostrato che le modificazioni dello stile di vita mirate alla riduzione di grassi saturi (< 7% di calorie), grassi trans (il meno possibile) e
dell’assunzione di colesterolo (< 200
mg/giorno), al controllo del peso e
all’aumento dell’attività fisica migliorano il profilo lipidico nelle donne
diabetiche. (A) È possibile mantenere
questi principi di trattamento in gravidanza, anche se il profilo lipidico
evidenzierà modificazioni fisiologiche. (E)
Il trattamento con statine è controindicato in qualsiasi fase della gestazione e dovrebbe essere sospeso se si
prevede una gravidanza. (E)
Al momento della visita eseguire il
profilo lipidico di tutte le donne diabetiche in gravidanza, se non è stato
eseguito prima della gravidanza. Lo
scopo è la valutazione del rischio, la
correlazione con gli indici di patologia cardiovascolare, renale e tiroidea
e l’educazione delle pazienti con dislipidemia relativamente alle modificazioni dello stile di vita e al successivo trattamento farmacologico, per il
sostegno prolungato dello stato di salute. (E)
L’impiego dei farmaci ipolipemizzanti, tranne le resine leganti gli acidi bi-
liari, non è approvato in gravidanza.
L’MNT può essere utile nella riduzione dell’ipercolesterolemia in gravidanza. Le margarine a contenuto di
steroli vegetali potrebbero essere utili
nell’approccio alimentare per l’abbassamento del colesterolo. (E)
• Nelle donne diabetiche in gravidanza
con valori dei trigliceridi ≥ 1,000
mg/dl, il trattamento è indicato per
ridurre il rischio di pancreatine. Aggiungere capsule di olio di pesce a un
regime alimentare a basso contenuto
di grassi, per assicurare l’assunzione
di 3-9 g/giorni di grassi n-3. Strategie
secondarie comprendono trigliceridi
a catena media, nutrizione parenterale totale, fibrati e niacina. (E)
Al diabete sono associati disordini lipidici. Prima della gravidanza le donne
diabetiche possono evidenziare ipertriglicridemia, ipercolesterolemia e aumento di colesterolo LDL, lipoprotein(a) o
apolipoproteina B (163,164). Nel diabete
di tipo 2 la dislipidemia è caratterizzata
da trigliceridi totali elevati (> 150
mg/dl), valori bassi del colesterolo HDL
cardioprotettivo (< 50 mg/dl) e aumento
delle particelle piccole e dense di LDL,
senza un aumento conseguente del colesterolo LDL > 130 mg/dl. I risultati di
trial clinici supportano il colesterolo LDL
come target primario del trattamento
nella dislipidemia diabetica, con l’obiettivo di < 100 mg/dl. Quando i valori dei
trigliceridi sono ≥ 200 mg/dl il colesterolo non HDL diventa un target secondario
(> 130 mg/dl) del trattamento per la riduzione del colesterolo (12-14).
Nelle gravidanze normali il valore
dei trigliceridi può raddoppiarsi alla 20°
settimana di gestazione e il colesterolo
totale, il colesterolo LDL e il colesterolo
HDL possono aumentare del 10-20%, con
ulteriore progressione di tutti i valori lipidici fino al termine della gravidanza
(165). I valori dei trigliceridi possono aumentare in misura maggiore nella gravidanza complicata da diabete di tipo 2 e
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
l’ipertrigliceridemia elevata (> 2,000
mg/dl) comporta un rischio grave di
pancreatite. La prevenzione della pancreatite richiede screening e monitoraggio dei lipidi. Poiché il valore dei trigliceridi può aumentare rapidamente da
1,000 a 2000 mg/dl, il trattamento è iniziato al valore di 1,000 mg/dl. La gestione dell’ipertrigliceridemia in gravidanza
si basa su: intensificazione del controllo
della glicemia, integrazione con olio di
pesce, uso di emulsioni di trigliceridi a
catena media e trattamento farmacologico con fibrati (categoria C) o niacina a rilascio prolungato (1).
Il colesterolo è assorbito dai trofoblasti
placentari nella forma di lipoproteine attraverso un trasporto mediato da recettori
e anche indipendente da recettori e v’è efflusso, dipendente dalla concentrazione
del colesterolo, al sangue del feto dalla superficie basolaterale del trofoblasto (166).
L’ipercolesterolemia materna (250-450
mg/dl) è associata ad aumento dell’accumulo intimale di LDL ossidate e a deposito di grassi nell’aorta del feto, che persiste
nei bambini di 2-15 anni (167).
L’MNT è importante nella riduzione
della dislipidemia in gravidanza. Gli
obiettivi principali del programma alimentare dovrebbero essere di limitare l’assunzione di grassi saturi a < 7% delle calorie e del colesterolo a < 200 mg/giorno e
di sostituire i grassi trans insaturi con grassi mono-insaturi o polinsaturi (12, 14, 69).
L’uso di regimi alimentari anti-aterogenici
nelle donne non diabetiche in gravidanza
è efficace nella riduzione dell’aumento del
colesterolo totale e LDL (168). Le statine
sono controindicate in gravidanza, a causa
di effetti teratogenici. Nell’ipercolesterolemia le resine leganti gli acidi biliari sono i
soli farmaci ipolipemizzanti non assorbiti
(categoria B in gravidanza). Il loro effetto è
limitato se sono usati da soli e producono
una riduzione del 10-20% nel colesterolo
LDL (1).
Le donne diabetiche sono incoraggiate a mangiare almeno 2 pasti alla settimana a base di pesce azzurro, per au-
33
DIABETES CARE, MAY 2008
mentare gli acidi grassi n-3, ma le donne
in gravidanza dovrebbero evitare di
mangiare pesce ad alto contenuto potenziale di metilmercurio (ad es., pescespada, merluzzo reale) (1).
C. Nefropatia diabetica
Raccomandazioni
• Determinare il livello dell’albuminuria
e stimare il tasso di filtrazione glomerulare (GFR) mediante la creatinina serica prima della gravidanza in tutte le
donne diabetiche. (E)
• All’inizio della gravidanza valutare l’escrezione urinaria di albumina con una
valutazione random del rapporto albumina/creatinina. (E)
• Nelle pazienti in gravidanza con micro- o macroalbuminuria misurare adeguatamente CrCl delle 24 h, poiché il
GFR stimato mediante l’equazione dello studio Modification of Diet in Renal
Disease (MDRD) non è accurata nella
gestazione. (E)
• Per ridurre il rischio e/o rallentare la
progressione della nefropatia (A) e per
migliorare l’esito perinatale (E), ottimizzare il controllo della glicemia e
della pressione arteriosa.
• Sospendere ACE inibitori e ARB se si
prevede una gravidanza e usare i farmaci discussi nella sezione sull’ipertensione in gravidanza. (E)
• Le donne con nefropatia manifesta devono consultare un dietista accreditato
e limitare l’assunzione di proteine a
~1.1 g · kg di peso corporeo-1 · giorno-1
(~10% delle calorie giornaliere, la
quantità corrente di proteine raccomandata negli adulti), ma non < 60
g/giorno. (E)
• Prendere in considerazione l’invio della paziente presso un centro specializzato nel trattamento della patologia renale diabetica e della gravidanza quando il GFR è sceso a < 60 ml/min. per
1.73 m2 o si sono manifestate difficoltà
nella gestione dell’ipertensione. (E)
La nefropatia diabetica è la causa principale di insufficienza renale terminale ed
è un forte predittore di mortalità da CVD
nelle donne diabetiche. La classificazione
dei valori di albuminuria e GFR stimato
nella nefropatia diabetica e nella insufficienza renale cronica e i loro effetti sulla
gravidanza sono elencati nella tabella 2
(2,153,169-171). Durante una gravidanza
normale l’escrezione urinaria di albumina
(UAE) evidenzia un aumento modesto,
che va fino a 30 mg/giorno o ACR urinario random fino a 22 mg/g, ma l’escrezione totale della proteina aumenta fino a 300
mg/giorno (1). La diagnosi di microalbuminuria in gravidanza si basa su misure
ripetute di UAE tra 30-299 mg/giorno o
ACR tra 30-299 mg/g in assenza di batte34
riuria (1,2). Le donne diabetiche con microalbuminuria al basale possono avere
notevoli aumenti di UAE ed escrezione totale delle proteine entro il terzo trimestre,
ma l’albuminuria solitamente regredisce
dopo il parto. Alcuni casi di aumento della
proteinuria sono dovuti a preeclampsia (e
parto prima del termine), che è predetta
dalla microalbuminuria al basale in numerosi studi osservazionali su donne con diabete di tipo 1 (1). Si presume una diagnosi
di nefropatia diabetica manifesta in gravidanza in presenza di albuminuria persistente (≥ 300 mg/giorno) o di proteinuria
(≥ 500 mg/giorno) prima della 20° settimana di gestazione, in assenza di batteriuria o evidenza di altre patologie del tratto
renale o urinario. La proteinuria nella seconda metà della gravidanza può dipendere da preeclampsia. I metodi dipstick o il
rapporto proteina/creatinina urinaria random non sono metodi accurati per predire
o quantificare la proteinuria in gravidanza. Le pazienti con nefropatia manifesta
possono raggiungere valori nefrosici di
proteinuria nel terzo trimestre (3-20
g/giorno), ma di solito la proteinuria regredisce dopo il parto (1). La nefropatia
diabetica in corso di gravidanza è un forte
fattore di rischio per restrizione delle crescita fetale, preeclampsia, parto prematuro
e parto di feto morto, tutti eventi che possono essere minimizzati mediante controllo ottimale della glicemia e della pressione
arteriosa (172).
Il GFR stimato, basato su creatinina serica, età, sesso e razza (formula MDRD)
non è accurato in gravidanza (173); pertanto si raccomanda la misura della CrCl urinaria delle 24 h nella valutazione della nefropatia in gravidanza. Durante una gravidanza normale il GFR aumenta fino al 50%
in più, in associazione con l’aumento fisiologico della eiezione cardiaca e del flusso
ematico renale nella prima metà della gravidanza. Le pazienti diabetiche ben controllate, senza CrCl alterata al basale, possono avere l’innalzamento della CrCl osservato nella gravidanza normale (1).
Durante la gravidanza la CrCl rimane
stabile nei 3/4 delle pazienti con nefropatia e GFR iniziale preservato, ma si riduce
nei 2/3 delle pazienti con GFR significativamente ridotto all’inizio della gravidanza. Nelle donne con nefropatia non è frequente la progressione verso la insufficienza renale in gravidanza, ma le esperienze pubblicate di donne con insufficienza renale grave all’inizio della gravidanza
sono limitate. È interessante capire se la
gravidanza esacerba la successiva progressione della nefropatia. Nel complesso delle pubblicazioni il 45% delle donne con
GFR lievemente ridotto (livello 2) all’inizio
della gravidanza progrediva verso la insufficienza renale entro il 12° anno successivo al parto. Tuttavia studi caso-controllo
su donne affette da nefropatia che erano
già state in gravidanza, rispetto a donne
che non lo erano mai state, non hanno dimostrato aumento del rischio di insufficienza renale nel primo gruppo nei 10 anni successivi al parto e il tasso di riduzione
del GFR dopo la gravidanza era simile a
quello previsto nelle donne nefropatiche
del secondo gruppo (1).
La gestione dell’ipertensione in corso
di gravidanza diabetica è riassunta nella
sezione B.2 e discussa più avanti nel libro
(1). Studi osservazionali supportano il
controllo della pressione arteriosa a 110129/65-79 mmHg nelle donne nefropatiche in gravidanza (172,174,175). ACE inibitori e ARB non devono essere impiegati
in gravidanza. Esiste solamente evidenza
aneddotica che il calcio-antagonista nondiidropiridinico diltiazem riduce l’albuminuria nel corso della gravidanza. Nel libro sono discussi l’impiego di eritropoietina nell’anemia grave e nell’emodialisi e
la gestione delle donne che hanno subito
trapianto del rene in gravidanza (1).
D. Retinopatia diabetica
Raccomandazioni
• Le cure precedenti al concepimento in
tutte le donne diabetiche dovrebbero
includere un esame completo della vista con pupilla dilatata da parte di un
oftalmologo o optometrista. Le donne
dovrebbero ricevere consulenza sul rischio di sviluppo e/o progressione
della retinopatia diabetica. (B)
• Per ridurre il rischio o rallentare la
progressione di retinopatia, ottimizzare il controllo della glicemia e della
pressione arteriosa. (A)
• Inviare prontamente da un oftalmologo esperto nella gestione e nel trattamento della retinopatia diabetica le
pazienti che presentano qualsiasi livello di edema maculare, retinopatia
diabetica non proliferativa grave (NPDR) o di retinopatia diabetica proliferativa (PDR). (A)
• I valori della glicemia dovrebbero essere portati lentamente alla quasi normalità nell’arco di un periodo di 6 mesi nelle pazienti in stato di pre-concepimento con NPDR grave o PDR, prima di affrontare una gravidanza. (A)
• L’esame con pupilla dilatata dovrebbe
essere effettuato nel primo trimestre,
con follow-up attento per tutta la durata della gravidanza e per 1 anno dopo il parto. (B)
• Le pazienti con retinopatia minima o
assente dovrebbero essere esaminate
nel primo e nel terzo trimestre, quelle
con retinopatia lieve ogni trimestre e
quelle con retinopatia da moderata a
NPDR grave o a PDR ogni mese, a discrezione del professionista che ha in
cura la paziente. (E)
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• Il trattamento con fotocoagulazione
laser è indicato nella riduzione del rischio di perdita della vista nelle pazienti in fase di pre-concepimento e in
quelle in gravidanza con rischio elevato di PDR, edema maculare clinicamente significativo e in alcuni casi di
NPDR grave. (A)
• Nelle donne con PDR non trattata il
parto vaginale è stato associato a emorragia della retina e del vitreo. In queste
donne si dovrebbe prendere in considerazione il parto cesareo, dopo consulto con ostetrico e oftalmologo. (E)
La retinopatia diabetica è responsabile
della maggior parte di nuovi casi di cecità
negli adulti. Glaucoma, cataratta e altri disordini della vista possono colpire precocemente le donne diabetiche e dovrebbero
anche essere presi in esame. È stato dimostrato che la gestione intensiva del diabete
con l’obiettivo di ottenere una glicemia
quasi normale previene e/o ritarda l’insorgenza della retinopatia diabetica. Anche il controllo della pressione arteriosa ridurrà la progressione della retinopatia (2).
Il rischio a breve termine della progressione della retinopatia in gravidanza
è quasi doppio, rispetto al rischio nello
stato di non gravidanza. Pertanto si raccomanda di eseguire con maggiore frequenza gli esami della retina in gravidanza, e
di determinare gli intervalli tra gli esami
sulla base dello status della retinopatia. Il
rischio in gravidanza di sviluppo di PDR
in assenza di retinopatia apparente al basale è raro, ma se la retinopatia è presente
il suo livello di gravità all’inizio della gravidanza predice il rischio di progressione
nel corso della gravidanza nelle donne
con diabete di tipo 1. Altri fattori che aumentano il rischio di progressione in gravidanza della retinopatia conclamata
comprendono: durata prolungata/insorgenza precoce del diabete, A1C elevata
nel primo trimestre e persistente controllo
modesto della glicemia o sua normalizzazione rapida, ipertensione cronica, nefropatia e sviluppo di preeclampsia nel corso
della stessa gravidanza. I migliori risultati
dovrebbero essere conseguiti quando la
glicemia è ottimizzata prima del concepimento. L’edema maculare sembra aggiungersi a PDR, nefropatia diabetica e preeclampsia in gravidanza. Le informazioni
sulla retinopatia diabetica in gravidanze
complicate da diabete di tipo 2 sono frammentarie (1)
Il rischio di progressione in gravidanza di PDR non trattata è molto elevato e
supporta la necessità di valutazione e gestione attenta della retinopatia pre-concepimento. Si dovrebbe prendere in considerazione la foto-coagulazione laser
quando in gravidanza sono diagnosticati
di neo-vascolarizzazione della retina, ede-
ma maculare clinicamente significativo o
NPDR molto grave. Le pazienti con neovascolarizzazione dovrebbero evitare la
manovra di Valsalva, per ridurre il rischio
di emorragia grave. Sebbene non vi siano
studi controllati sull’impatto del tipo di
parto sul rischio di emorragia grave nelle
donne con PDR in atto, è ragionevole evitare le spinte nella seconda fase del travaglio mediante anestesia epidurale e mediante parto assistito o taglio cesareo. Nel
caso di emorragia o distacco del vitreo in
gravidanza si dovrebbero seguire le raccomandazioni per il trattamento dei soggetti non in gravidanza (1).
Dopo la gravidanza è possibile che la
retinopatia progredisca nel 6-20% delle pazienti con diabete di tipo 1 e alcune di queste pazienti richiedono foto-coagulazione
laser dopo il parto (34). Gli studi di cui sopra supportano l’esigenza di attento follow-up oftalmologico nell’anno successivo
alla gestazione. Studi caso-controllo dimostrano tassi simili o inferiori di progressione a lungo termine della retinopatia nelle
donne che hanno partorito, rispetto alle
nullipare e il tasso non aumenta nelle donne con più di una gravidanza (1).
E. Neuropatie diabetiche
Raccomandazioni
• Tutte le pazienti dovrebbero essere
sottoposte a screening per polineuropatia distale simmetrica (DPN) e neuropatia autonomica almeno 1 volta all’anno, mediante semplici test clinici.
(B)
• Educare tutte le pazienti all’auto-cura
dei piedi. In quelle con DPN agevolare il miglioramento dell’educazione
alla cura del piede e indicare calzature
speciali. (A)
• Informare le donne diabetiche del fatto che la gravidanza non sembra aumentare il rischio di sviluppo o progressione di DPN o di neuropatie diabetiche autonomiche, fatta eccezione
per gli effetti transitori, ma possibilmente gravi sulla gastroparesi. (B)
• Informare le donne affette da gastroparesi che questa complicanza è associata a rischio elevato di morbilità e a
rischio di esito perinatale negativo. Se
necessario usare i farmaci standard per
iperemesi e supporto nutrizionale. ©
• Informare le donne colpite da DPN
senso-motoria simmetrica cronica o da
neuropatia cardiovascolare autonomica che queste condizioni possono essere associate a rischio aumentato di
complicanze perinatali e richiederanno trattamento precauzionale. (B)
• Valutare la presenza di risposte contro-regolatorie clinicamente ridotte all’ipoglicemia ed educare le pazienti a
minimizzare la loro ricorrenza. (E)
• Trattare le donne con diabete sintoma-
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tico e DPN o neuropatie cardiovascolari o gastro-intestinali in maniera
adeguata. (E)
Le neuropatie diabetiche possono essere eterogenee, con manifestazioni cliniche focali o diffuse nelle donne in età riproduttiva, con danno delle fibre di tutti i
nervi periferici – motori, sensoriali e autonomici (176,177). Fra le più frequenti vi
sono la DPN senso-motoria simmetrica
cronica (176) e la neuropatia autonomica
(130). La neuropatia cardiaca autonomica
è presa in considerazione nella sezione
sulla CVD.
I test di screening della DPN comprendono: sensibilità alla puntura di spillo, percezione della temperatura e delle vibrazioni (con diapason di 128 Hz), sensazione
pressoria con monofilamento di 10-g sul
lato plantare distale di tutti e due gli alluci
e valutazione dei riflessi alla caviglia (176179). Le combinazioni di più di 1 test hanno > 87% di sensibilità nella diagnosi di
DPN (2). La mancanza di percezione del
tocco del filamento e della vibrazione predice il rischio di ulcere del piede. Abbiamo
bisogno di altri dati sui valori predittivi di
questi test in gravidanza.
Disponiamo di informazioni limitate,
in gran parte derivate da articoli su casi
isolati, in riferimento all’eventuale peggioramento in gravidanza dei sintomi della neuropatia senso-motoria o autonomica. È difficile separare l’effetto della neuropatia diabetica sull’esito della gravidanza dai fattori noti di rischio per risultati
avversi della gravidanza, come il controllo metabolico modesto, iperemesi, nutrizione inadeguata e patologia microvascolare concomitante. Particolarmente importante in gravidanza è l’associazione
della neuropatia autonomica con l’aumento del rischio d’ipoglicemia grave. La
presenza di gastroparesi è particolarmente pericolosa perché, associata a iperemesi
della gravidanza, esacerba nausea e vomito. Ne può derivare assorbimento irregolare degli elementi nutritivi, nutrizione
inadeguata e controllo anomalo della glicemia (1). Molte pazienti affette da gastroparesi traggono benefici dal trattamento
con farmaci pro-cinetici, come la metoclopramide, un farmaco di categoria B ritenuto di impiego sicuro per tutto il corso
della gravidanza. Anche l’eritromicina, un
altro farmaco di categoria B (tranne che
nella forma di estolato), può essere utile
nel trattamento della gastroparesi (176).
Casi gravi di gastroparesi diabetica appaiata a iperemesi possono richiedere nutrizione parenterale completa (1).
Esistono pochi dati sul trattamento
del dolore da DPN in gravidanza. Il dolore delle fibre C, caratterizzato da iperestesia e bruciore, può essere trattato con applicazioni topiche di Capsaicina (ritenuta
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sicura in gravidanza) o Clonidina, un farmaco di categoria C che notoriamente
non causa danni in gravidanza. Il dolore
delle fibre A, un dolore più profondo che
solitamente non risponde ai trattamenti
summenzionati, può rispondere al trattamento con antidepressivi triciclici come
amitriptilina o nortriptilina, che sono farmaci di categoria D, per il possibile rischio di teragenicità, ma sembrano d’impiego relativamente sicuro dopo il primo
trimestre, con qualche evidenza di effetti
minimali sul neonato. Anche i farmaci antiepilettici, come carbamazepina e gabapentina, sono stati impiegati con risultati
positivi nella gestione del dolore neuropatico diabetico (176) ma, come per qualsiasi
farmaco antiepilettico, il loro impiego in
gravidanza deve tenere conto del loro potenziale teratogenico. In casi gravi di dolore da DPN può essere utile il metadone.
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Editoriale
Un passo indietro – o avanti?
SAUL GENUTH, MD1
RICHARD KAHN, PHD2
orse è giunto il momento – o almeno
sta per arrivare, di riprendere in considerazione le categorie diagnostiche
correlate al diabete e ai suoi parenti stretti, ridotta tolleranza al glucosio (IGT) e
alterata glicemia a digiuno. IGT, IFG e la
loro combinazione oggi sono considerate
pre-diabete perché, rispetto alla normale
tolleranza al glucosio, segnalano un aumento del rischio di sviluppo di diabete
(1). Prima del 1979, quando il National
Diabetes Data Group definì l’IGT (2) e la
dichiarò una categoria diagnostica ufficiale, si aveva o non si aveva il diabete e i
valori non diagnostici della glicemia erano de facto “normali”. Alcuni clinici riconoscevano una via di mezzo, ma essa
non era inclusa in tutti gli studi epidemiologici o nella pratica.
L’aggiunta della IFG nel 1997, allo
scopo di creare una condizione equivalente alla IGT, arricchì la via di mezzo e
aumentò la consapevolezza e il riconoscimento di livelli intermedi d’intolleranza glucidica (3). Adesso esisteva un
gruppo distinto di soggetti con glicemia
plasmatica a digiuno compresa tra la
normalità (< 110 mg/dl) e la nuova soglia minima del diabete del 1997 di 126
mg/dl, che poteva non incontrare il criterio dell’IGT di 140-199 mg/dl 2 h dopo
un carico standard con 75 g di glucosio
orale (3). Un ulteriore rifinitura dell’IFG
nel 2003 ha modificato il valore soglia
minimo da 110 a 100 mg/dl, modificazione raccomandata per rendere equivalenti entrambi gli stati intermedi e per
definire in maniera più realistica il limite
superiore della normalità (4).
Recentemente, tuttavia, un numero
sempre maggiore di studi ha dimostrato
che con valori glicemici superiori alla
normalità, ma nel range di IFG o IGT, v’è
un aumento del rischio di superare il
confine del diabete (FPG 126 mg/dl o un
valore 2 h dopo carico 200 mg/dl) in pochi anni (1). Queste ultime cifre si basano
sull’associazione di IFG e IGT con lo sviluppo successivo di retinopatia diabetica
(3); tuttavia anche questa linea divisoria
tra diabete e pre-diabete può essere messa in discussione dello studio Diabetes
F
Prevention Program, che ha osservato
una prevalenza aumentata di microaneurismi della retina nei soggetti con IGT
(5). Inoltre, uno studio recente condotto
su giovani uomini israeliani riferisce che
anche con valori della glicemia a digiuno
attualmente considerati normali v’è un
aumento significativo del rischio di sviluppo di diabete nell’arco di pochi anni
(6). Quando la FPG è nel range tra 81 e
99 mg/dl, l’incidenza del diabete a 6 anni progressivamente si triplica (6). Allo
stesso modo nel range dei valori della
glicemia plasmatica a 2 h tra < 85 e 125139 mg/dl dopo carico di glucosio orale,
il rischio di diabete incidente nell’arco di
7-8 anni aumenta dal 3.0 al 10.7% (7).
Inoltre nell’ambito di questi range correntemente definiti normali di FPG e glicemia plasmatica a 2 h, si osserva una riduzione della secrezione d’insulina rispetto all’insulino-resistenza, cioè una riduzione nella funzione fisiologica delle
β-cellule man mano che aumenta la glicemia plasmatica (8), e ciò offre un continuum fisiopatologico con la più marcata
disfunzione β-cellulare che caratterizza
IGT, IFG e infine il diabete. V’è da aggiungere che si ritiene che la FPG e in
special modo i valori della glicemia plasmatica a 2 h al di sotto dei valori soglia
del diabete (9-14), e anche i valori dell’A1C che li accompagnano (15), predicono patologia cardiovascolare e mortalità.
In breve, la situazione diagnostica è molto più fluida di quanto non vorrebbero
far pensare le categorie pubblicate e i loro valori soglia.
Inoltre l’uso specifico dell’IGT come
soglia assoluta per l’aumento del rischio
di diabete, cioè il pre-diabete, è reso impraticabile da un grado elevato di non riproducibilità (3). Sia nel breve termine
che nel lungo termine i pazienti possono
passare ripetutamente da IGT a glicemia
normale e viceversa. Ad esempio, in un
recente studio di popolazione il 39% dei
soggetti con IGT a un test iniziale di tolleranza al glucosio orale è stato classificato normale (e il 13% diabetico) a un secondo test, effettuato 2-6 settimane più
tardi (16). Non sempre sono identificabili
Da: the 1Division of Clinical and Molecular Endocrinology, Department of Medicine, Case Western Riserve University, Ohio e the 2American Diabetes Association, Alexandria, Virginia.
42
le ragioni cliniche di questo fenomeno,
come le modificazioni di peso, le modalità dell’attività fisica, l’assunzione pregressa di carboidrati, l’uso di farmaci e le
comorbilità, ma l’alterazione della funzione β-cellulare (come osservato sopra)
appare come un probabile candidato fisiopatologico.
È anche stata riportata l’inversione
da diabete a non diabete nel 12% di una
popolazione controllata per 7-8 anni;
90% di coloro che sono rientrati nella
condizione non diabetica erano stati neodiagnosticati nel corso della visita basale
(17). In un altro studio (18), 30 mesi dopo
una diagnosi iniziale di diabete il 42%
dei soggetti cui il diabete era stato diagnosticato per FPG ≥ 126 mg/dl e il 72%
di quelli con glicemia plasmatica a 2 h ≥
200 mg/dl non erano più diabetici.
È stato stabilito che il termine “disglicemia” descrive la condizione in cui i valori della glicemia plasmatica superano
quelli nei quali non è probabile che si verifichino eventi avversi (19). Il glucosio,
una molecola ritenuta un tempo una vera e propria benedizione, essenziale alla
vita, oggi sembra gettare un’ombra oscura sulla vita, anche se è nel range ritenuto normale. È del tutto possibile che tutti
stiamo percorrendo la strada che ci porterà al diabete e/o alla patologia cardiovascolare (CVD), a velocità diverse, sulla
base del nostro genoma, ambiente, cultura e stile di vita. L’unica cosa che ci impedisce di svilupparlo può essere l’interposizione di qualche altra malattia fatale o
l’adozione di uno stile di vita rigoroso,
che sconfigge l’obesità e gli effetti negativi del comportamento sedentario.
Sulla base di questa nuova considerazione che il valore della glicemia, come
quello del colesterolo LDL, può non avere un vero livello soglia che separa il range di non rischio da quello del rischio,
può essere del tutto arbitrario e biologicamente scorretto definire lo stato di prediabete se tutti, in misura maggiore o minore, siamo pre-diabetici. Anche la sicurezza con cui definiamo i valori normali
della glicemia sembra essere messa regolarmente in dubbio (20).
Pertanto sembrerebbe giunta l’ora di
prendere in considerazione la riorganizzazione delle nostre categorie diagnostiche. Potremmo abbandonare del tutto
IFG e IGT e ritornare alla sola categoria
patologica etichettata con la parola “diabete”, con i valori soglia correnti di 126
mg/dl e 200 mg/dl. I risultati nel lungo
termine del follow-up della coorte del
Diabetes Prevention Program (21) un
giorno potranno persino convincerci ad
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abbassare questi valori se i soggetti che
rimangano nelle categorie attuali di IFG
e IGT evidenziano un numero sempre
maggiore di complicanze nel corso di attento follow-up.
Nell’ambito della categoria del non
diabete i medici dovrebbero, tuttavia, riconoscere un gradiente di rischio per sviluppo di diabete e/o CVD, correlato all’innalzamento dei valori glicemici e dire, come si fa nel caso del colesterolo
LDL, “più bassi sono meglio è”. I medici
potrebbero indicare ai loro pazienti che
v’è un gradiente di rischio che inizia con
FPG di ~80 mg/dl, mostrare loro in quale posizione si trovano, rispetto a questo
gradiente, e incoraggiarli a modificare il
loro stile di vita molto prima di quanto
non si faccia attualmente.
Per aiutare i medici, potremmo creare
nomo-grammi con odds ratio per il rischio di sviluppo di diabete ad ogni aumento di 10 mg/dl per la FPG al di sopra
di 80 mg/dl come riferimento 1.0. Un nomo-gramma simile, con basale e incrementi adeguati, oggi può essere costruito
per l’A1C (15), poiché la standardizzazione dell’assay è andata avanti bene
(22) e abbiamo stime accurate e precise
dell’equivalenza tra A1C e valori glicemici medi (23). Inoltre oggi sembra possibile potere stabilire un valore dell’A1C
per la diagnosi di diabete (24-27). Ancora
più adeguati e importanti sono gli algoritmi della valutazione globale di rischio,
che hanno come direttivo il rischio di
diabete e di CVD mediante l’integrazione di tutti i maggiori fattori di rischio per
entrambe
le
condizioni
(vedi
htpp://www.diabetes.org/diabetesphd/default.jsp?WTLPromo=Home_fla
sh_030408PHD per PHD del diabete).
Naturalmente medici, infermieri e altri professionisti dovrebbero fare del loro
meglio per avviare il trattamento di modificazione dello stile di vita in tutti i
soggetti che hanno in cura, poiché un numero veramente elevato di adulti (e sempre maggiore di bambini) è a rischio. La
presenza di altri fattori di rischio per diabete ed eventi avversi associati, come
storia familiare, età, sovrappeso/obesità,
storia di diabete mellito gestazionale, dislipidemia e pressione arteriosa elevata,
dovrebbe far intensificare gli sforzi per la
modificazione dello stile di vita. Si dovrebbe misurare periodicamente la FPG
(o A1C), per determinare come sta andando la disglicemia di ciascun paziente,
così come facciamo attualmente, per ragioni analoghe, con la misura dei valori
dei lipidi e della pressione arteriosa.
Un argomento importante è se si devono usare farmaci nel trattamento della
disglicemia, per ottenere valori più bassi
possibile della glicemia. Alcuni trial clinici disponibili dimostrano una qualche
efficacia nella prevenzione o nel ritardo
della progressione da IGT e/o FPG a diabete di metformina (28), acarbose (29),
rosiglitazone (30), orlistat (31) e glipizide
(32), per almeno 2-4 anni. I rapporti rischi/benefici e costi/benefici, in riferimento all’uso indefinito di trattamento
farmacologico in presenza di valori inferiori ai valori soglia correnti per il diabete, non sono chiari, anche se linee guida
recenti indicano uno spazio per il trattamento farmacologico in soggetti a rischio
altamente selezionati (33). Allo stesso
modo in cui si sta studiando l’impiego
più aggressivo di farmaci antiipertensivi
in popolazioni con valori della pressione
arteriosa ritenuti in precedenza non a rischio (34), dovremmo determinare l’effetto positivo, prolungato dell’abbassamento della glicemia quando i valori della glicemia non hanno raggiunto quelli
diagnostici del diabete.
Le modificazioni di cui sopra richiedono che si prendano in considerazione
molte problematiche. Ad esempio, poiché tutti i trial sulla prevenzione sono
stati di breve durata e la tolleranza al
glucosio tende al peggioramento progressivo, anche in presenza di una significativa riduzione del rischio di sviluppo
di diabete durante il trial, nella maggior
parte dei casi la maggioranza dei partecipanti è rimasta a rischio. Saremo in grado di identificare con certezza, sulla base
di studi fisiopatologici, quale paziente
beneficerà di quale farmaco o se è necessario un trattamento farmacologico multiplo, con aumento di rischi e costi?
Quali potrebbero essere le conseguenze negative del ritorno alla semplice
categorizzazione diagnostica del diabete? Oggi che medici, infermieri, nutrizionisti, dottorandi e studenti in medicina
sono stato incoraggiati a prendere in considerazione IGT e IFG, abbandonare queste condizioni definite richiederebbe un
programma di rieducazione e comunque
il cambiamento di per sè incontra problemi e opposizione (35). In misura minore
potrebbe anche essere necessaria una
qualche rieducazione del pubblico, anche se i termini IFG e IGT non sembrano
ancora entrati nell’uso comune. L’evidenza che i termini IFG e IGT partano da
processi fisiopatologici in qualche modo
differenti (36,37) impedisce di eliminarli,
per ottenere un paradigma clinicamente
semplificato? Inoltre, poiché IGT e IFG
sono stati frequentemente usati come fattori di rischio nella ricerca epidemiologica e l’IGT è stata una condizione basale
nella ricerca terapeutica, in studi futuri
potrebbero mantenere per qualche tempo la loro significatività.
Un altro problema è che a tutt’oggi
tutti i trial importanti di prevenzione del
diabete, che comprendono test di modifi-
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
cazione dello stile di vita, sono stati eseguiti su coorti che avevano IGT (28,38);
indubbiamente molti soggetti avevano
anche IFG (28). Il diabete sarebbe stato
altrettanto prevenibile (o ritardato con la
stessa facilità) se questi metodi fossero
stati usati nella popolazione generale con
valori glicemici più bassi, anche se applicati a gruppi con rischio maggiore, come
quelli con storia familiare di diabete?
Avrebbero funzionato altrettanto bene
nei segmenti più giovani, rispetto a quelli più vecchi, delle popolazioni o nei soggetti che incontrano, e in quelli che non
incontrano, le definizioni correnti di sovrappeso e obesità? Le complicanze microvascolari e CVD non si svilupperebbero? Dovremmo aspettare a cambiare lo
schema di classificazione fino a quando
non arriveranno le risposte a queste domande, con la possibilità che non arrivino ancora per molti anni, se mai arriveranno?
Un’altra considerazione importante è
se è possibile aspettarsi che le assicurazioni sanitarie paghino il tempo e gli
sforzi dei professionisti che insegnano e
supportano le modificazioni preventive
dello stile di vita, se non è possibile fornire ai pazienti una diagnosi formale di
pre-diabete in base ai valori della glicemia plasmatica. Le preoccupazioni che
oggi affliggono il pubblico e i politici relativamente agli aumenti inesorabili dei
costi della sanità potrebbero opporsi a
una ampia diffusione di misure preventive, potenzialmente molto costose, nella
popolazione generale fino a quando i loro effetti positivi non siano pienamente
dimostrati. Siamo pronti ad affrontare
questa complessa problematica? Dobbiamo ancora assimilare le lezioni di IGT e
IFG e continuare a farlo per determinare
la relazione che intercorre tra loro e un
elenco di variabili biologiche e demografiche? Forse si può usare un punteggio
numerico di valutazione del rischio globale per diabete e CVD, che impiega tutti
i fattori di rischio misurabili nell’ambulatorio medico, per fare scattare la copertura assicurativa per il trattamento delle
modificazione dello stile di vita (28).
Secondo noi non è importante continuare a discutere i livelli soglia corretti.
Nonostante l’infinita lista di studi che si
potrebbero avviare per migliorare la definizione di IFG e IGT, è chiaro che i giorni di IFG e IGT come entità cliniche sono
agli sgoccioli ed è possibile prevedere
che l’accumulo di conoscenza li accorcerà, piuttosto che allungarli. Noi prevediamo che sarà effettivamente un passo
avanti e non indietro – scientificamente,
ma anche storicamente – quando IGT e
IFG diventeranno fuori-moda. Forse è
giunta l’ora di riesaminare le classificazioni categoriche correnti dei valori della
43
DIABETES CARE, JUNE 2008
glicemia plasmatica. È possibile che il
nostro futuro si riveli essere il nostro passato.
Bibliografia
44
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, JUNE 2008
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
45
DIABETES CARE, JULY 2008
Aggiustamento al target nel diabete
di tipo 2
Confronto tra un semplice algoritmo e il conteggio dei carboidrati
nell’aggiustamento dell’insulina glulisina ai pasti
RICHARD M. BERGENSTAL, MD1
ALEKSANDRA VLAJNIC, MD3
MARY JOHNSON, RN, CDE2
PRISCILLA HOLLANDER, MD4
MARGARET A. POWERS, PHD, RD, CDE1 MARC RENDELL, MD5
ALAN WYNNE, MD2
OBIETTIVO – Il conteggio dei carboidrati è un approccio efficace per
l’aggiustamento dell’insulina dei pasti nel diabete di tipo 1, ma non è stato
rigorosamente valutato nel diabete di tipo 2. Abbiamo confrontato il rapporto
insulina/carboidrati con un semplice algoritmo per l’aggiustamento della dose
dell’insulina glulisina al pasto.
DISEGNO DELLA RICERCA E METODI – Questo studio controllato,
multicentrico, randomizzato, di 24 settimane ha confrontato 2 algoritmi per
l’aggiustamento dell’insulina (glulisina) all’ora dei pasti, insieme a un algoritmo standard
per l’aggiustamento dell’insulina basale (glargine) in 273 pazienti con diabete di tipo 2.
Glulisina e glargine sono state aggiustate settimanalmente in tutti e due i gruppi, sulla
base dei risultati dell’auto-monitoraggio della glicemia (SMBG) della settimana
precedente. Al gruppo del semplice algoritmo sono state indicate dosi stabilite di glulisina
da somministrare prima di ogni pasto. Al gruppo del conteggio dei carboidrati è stato
fornito un rapporto insulina/carboidrati da usare a ogni pasto e il dosaggio di glulisina è
stato aggiustato sulla base della quantità di carboidrati consumata.
RISULTATI – I valori dell’A1C alla 24ª settimana erano 6.70% (semplice algoritmo) e
5.54% (conteggio carboidrati). Le modificazione medie rispettive dell’A1C dal basale alla
24ª settimana erano –1.46 e –1.59% (P = 0.24). Il 73.2% (semplice algoritmo) e il 69.2%
(conteggio carboidrati) (P = 0.70) dei soggetti aveva A1C < 7.0%; i valori rispettivi di A1C
< 6.5% erano del 44.3 e 49.5% (P = 0.28). La dose totale giornaliera d’insulina era minore e
v’era un trend verso minore aumento di peso nei pazienti del gruppo del conteggio
carboidrati. I tassi d’ipoglicemia grave erano bassi ed uguali nei due gruppi.
CONCLUSIONI – Gli aggiustamenti settimanali dell’insulina negli schemi basalebolo, basati sui pattern della glicemia prima dei pasti e all’ora di andare a letto
producevano riduzioni significative nell’A1C. La disponibilità di 2 approcci efficaci
per la somministrazione e l’aggiustamento dell’insulina ad azione rapida all’ora dei
pasti può aumentare la disponibilità di medici e pazienti a fare avanzare il
trattamento nella direzione della somministrazione d’insulina con schemi basale-bolo.
Diabetes Care 31: 1305-1310, 2008
alori elevati di A1C e di glicemia postprandiale sono stati correlati al rischio di complicanze a lungo termine
del diabete (1.3). Per raggiungere i valori
target dell’A1C e della glicemia postprandiale nel diabete di tipo 2 spesso è necessario il trattamento insulinico (4). Sebbene
disponiamo di numerosi trattamenti insu-
V
linici, in questo studio abbiamo esaminato
l’impiego di un regime fisiologico che
comprende un’insulina ad azione prolungata, che fornisce un livello d’insulina basale valido per tutto il giorno e un’insulina
ad azione rapida per la somministrazione
in bolo all’ora dei pasti (5,6).
Fissare il dosaggio ottimale dell’insuli-
Da: 1International Diabetes Center at Park Nicollet, Minneapolis, Minnesota; the 2Cotton-O’Neil
Clinic, Topeka, Kansas; 3sanofi-aventis US, Bridgewater, New Jersey; the 4Baylor Endocrine Center, Dallas, Texas e 5Creighton Diabetes Center, Omaha, Nebraska.
46
na al pasto può essere difficile perché spesso implica calcoli di fattori multipli, come
glicemia corrente, target della glicemia,
rapporti insulina/carboidrati, contenuto
totale di carboidrati dei pasti e livelli dell’attività fisica (7). La somministrazione
d’insulina basata sul conteggio dei carboidrati è il metodo d’elezione per il miglioramento del controllo della glicemia nel diabete di tipo 1 (8,9), ma risulta di difficile
realizzazione in alcuni pazienti (10,11).
Non sono stati condotti né studi ampi, randomizzati sul trattamento intensivo con
analoghi dell’insulina in schemi basale-bolo in pazienti con diabete di tipo 2, né studi
di valutazione dell’efficacia del conteggio
dei carboidrati in questi pazienti. In questo
studio di 24 settimane abbiamo confrontato l’uso del rapporto insulina/carboidrati
con un semplice algoritmo basato sul controllo glicemico, per l’aggiustamento della
dose dell’insulina glulisina al pasto.
DISEGNO DELLA RICERCA E
METODI
Questo studio multicentrico, controllato, in aperto, randomizzato, per gruppi
paralleli comprendeva 2 settimane di
screening seguite da 24 settimane di trattamento. La randomizzazione (1:1) è stata
bilanciata per somministrazione di
metformina, numero d’iniezioni d’insulina al basale, iniezione con penna vs. siringa e fiala e centro dello studio. Lo studio
era conforme alle linee guida del International Council on Harmonization E6 di
maggio 1996 e ai principi della Dichiarazione di Helsinki. Il protocollo e i documenti dello studio sono stati approvati dai
comitati di revisione istituzionali e tutti i
pazienti hanno fornito il consenso informato scritto.
I partecipanti erano d’età compresa tra
18 e 70 anni, avevano diabete di tipo 2 da
≥ 6 mesi, A1C 7-10% allo screening e da
≥ 3 mesi prima dell’inizio dello studio erano trattati con ≥ 2 iniezioni d’insulina /giorno (il 36% 2 iniezioni e il 64% > 2
iniezioni) con o senza metformina. All’inizio dello studio il 37% usava glargine e almeno 1 iniezione di un analogo dell’insulina ad azione rapida, il 36% usava un’insulina pre-miscelata e il resto altri trattamen-
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, JULY 2008
Tabella 1 – Aggiustamento delle dosi d’insulina glargine e insulina glulisina, sulla base del pattern dei valori della glicemia all’ora dei pasti nella settimana precedente
Aggiustamenti dell’insulina glargine: tutti e due i gruppi
Media del SMBG a digiuno degli ultimi 3 giorni
> 180 mg/dl
140-180 mg/dl
120-139 mg/dl
95-119 mg/dl
70-94 mg/dl
< 70 mg/dl
Aggiustamento
Aumentare di 8 unità
Aumentare di 6 unità
Aumentare di 4 unità
Aumentare di 2 unità
Nessuna modificazione
Diminuire dello stesso numero di unità dell’aumento dell’insulina glulisina di quella
settimana o fino al 10% della dose totale d’insulina glargine
Aggiustamenti dell’insulina glulisina: gruppo del semplice algoritmo
Dose al pasto
≤ 10 unità
> 11-19 unità
≥ 20 unità
Pattern dei valori della glicemia
al pasto al di sotto del target*
Pattern dei valori della glicemia
al pasto al di sopra del target†
Ridurre di 1 unità
Ridurre di 2 unità
Ridurre di 3 unità
Aumentare di 1 unità
Aumentare di 2 unità
Aumentare di 3 unità
Aggiustamenti dell’insulina glulisina: gruppo del conteggio dei carboidrati (rapporto insulina/carboidrati)‡
Dose al pasto
1 unità/20 g
1 unità/15 g
1 unità/10 g
1 unità/15 g
1 unità/15 g§
Pattern dei valori della glicemia
al pasto al di sotto del target*
Pattern dei valori della glicemia
al pasto al di sopra del target†
Ridurre a 1 unità/25 g
Ridurre a 1 unità/20 g
Ridurre a 1 unità/15 g
Ridurre a 1 unità/10 g
Ridurre a 1 unità/15 g
Aumentare a 1 unità/15 g
Aumentare a 1 unità/10 g
Aumentare a 1 unità/15 g
Aumentare a 1 unità/15 g
Aumentare a 1 unità/15 g
*Se oltre 1/2 dei valori della glicemia al pasto della settimana erano al di sotto del target. †Se oltre 1/2 dei valori della glicemia al
pasto della settimana erano al disopra del target. ‡A ciascun paziente nel gruppo del conteggio carboidrati è stato anche dato un
programma per la correzione della dose d’insulina glulisina al pasto, per aggiungere qualche unità se elevata o toglierne se bassa.
§Aumentare l’insulina al pasto se necessario seguendo questo pattern.
ti. I motivi d’esclusione erano: trattamento
con farmaci antidiabetici orali (tranne
metformina) fino a 3 mesi prima dell’inizio dello studio; previsione di gravidanza,
gravidanza o allattamento; creatinina serica ≥ 1.5 mg/dl negli uomini (≥ 1.4 mg/dl
nelle donne) che assumevano metformina
e > 3.0 mg/dl in qualsiasi soggetto; patologia renale clinicamente significativa
(tranne proteinuria); epatopatia; scompenso cardiaco classe III-IV della New York
Heart Association o qualsiasi malattia o
condizione che avrebbe potuto interferire
con il completamento dello studio.
Trattamenti
I target erano una glicemia a digiuno <
95 mg/dl, < 100 mg/dl prima del pasto
(prima del pranzo e della cena) e < 130
mg/dl all’ora di andare a letto.
Dosaggio dell’insulina glargine. La
dose iniziale d’insulina glargine è stata
calcolata come il 50% della dose totale,
giornaliera d’insulina di prima della randomizzazione. Successivamente il dosaggio è stato titolato settimanalmente in
conformità con la media degli ultimi 3
giorni di glicemia a digiuno auto-monitorata (SMBG) (tabella 1). L’aumento della
dose poteva essere diviso in ≥ 2 incrementi
nell’arco della settimana.
Dosaggio dell’insulina glulisina. Il
restante 50% della dose totale, giornaliera
d’insulina è stato impiegato per l’insulina
glulisina all’ora dei pasti, suddivisa in 3
pasti: il 50% al pasto più abbondante (soprattutto carboidrati), il 33% al pasto medio e il 17% in quello più leggero. L’aggiustamento della dose di glulisina in entrambi i gruppi è stato basato sui pattern della
glicemia prima di pranzo/cena e all’ora di
andare a letto (a questi tre momenti ci si riferisce come ora dei pasti) della settimana
precedente, come illustrato nella tabella 1.
Lo staff dello studio ha insegnato al gruppo come contare i carboidrati (conteggio
carboidrati) e come usare il rapporto insulina/carboidrati. I rapporti insulina/carboidrati di ciascun pasto sono stati determinati sulla base dell’algoritmo della tabella 1. Il rapporto insulina/carboidrati
permette ai pazienti di aggiustare l’insuli-
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
na sulla base della quantità di carboidrati
che decidono di consumare in un pasto.
Farmaci antidiabetici aggiuntivi
I pazienti che alla randomizzazione assumevano metformina hanno continuato
a farlo, allo stesso dosaggio. Non sono stati permessi altri farmaci orali o insulina.
Raccomandazioni relative al regime alimentare e allo stile di vita
Del materiale educativo è stato disegnato specificatamente per questo studio
sulla base del libro del Type 2 Diabetes BASICS del International Diabetes Center
(12). Il materiale destinato al gruppo del
semplice algoritmo ha omesso tutti i riferimenti all’assunzione di carboidrati, tranne
che nel contesto del trattamento dell’ipoglicemia e del consumo di alcol.
Diari dei pazienti e visite dello studio
Diari. Tutti i pazienti hanno registrato
l’SMBG prima dei pasti e prima di andare
a dormire, le dosi d’insulina, l’assunzione
di cibo e di carboidrati stimati a pasto
47
DIABETES CARE, JULY 2008
(gruppo del conteggio carboidrati), le
informazioni correlate a ipoglicemia e a livello di attività fisica e a un profilo della
glicemia in 7 punti alle settimane 0, 12, 18
e 24.
Visite. Le visite dello studio sono state
effettuate allo screening, al basale e alle
settimane 2, 6, 12, 18 e 24 (end point). Le
valutazioni hanno incluso: esami fisici, segni vitali, elettrocardiogramma, A1C, test
di laboratorio ematologici e chimici e lettura del diario. Sono stati registrati eventi
avversi, episodi d’ipoglicemia e farmaci
concomitanti. Vi sono stati contatti settimanali, attraverso visite o telefonate, per
controllare i diari e aggiustare le dosi d’insulina.
Variabili d’efficacia e sicurezza
Efficacia. L’end point primario era la
modificazione dell’A1C dal basale alla 24ª
settimana. Le variabili secondarie erano:
modificazione dell’A1C dal basale a specifici momenti dello studio; modificazioni
dal basale alla 24ªsettimana della glicemia
plasmatica a digiuno (FPG); glicemia prima del pasto e postprandiale; profilo della
glicemia in 7 punti; dosi medie d’insulina
basale, in bolo e totale; lipidi; percentuali
di pazienti che raggiungevano A1C < 7.0 e
< 6.5% alla 24ª settimana e aumento di peso.
Sicurezza. Sono stati registrati tutti gli
eventi avversi. Sono stati documentati i
dati clinico-chimici ed ematologici e i risultati degli esami fisici, compresi peso e
segni vitali.
Ipoglicemia
È stata definita ipoglicemia grave
quella che richiedeva assistenza e implicava SMBG <36 mg/dl o trattamento, con
immediati risultati positivi, con carboidrati orali, glucosio endovenoso o glucagone.
È stata anche documentata l’ipoglicemia
sintomatica.
Analisi dei dati
Popolazioni. La popolazione della sicurezza comprendeva i pazienti che assumevano ≥ 1 dose del farmaco dello studio
e disponevano di documentazione relativa
al follow-up. La popolazione dell’intenzione di trattamento (ITT) comprendeva pazienti valutati per la sicurezza, che disponevano di una valutazione basale e di una
in corso di trattamento di ≥ 1 variabile dell’efficacia, ma escludeva i pazienti che non
erano mai stati sottoposti a trattamento o
che erano trattati, ma non avevano avuto
valutazioni dell’efficacia successivamente
all’esame basale.
Dimensione del campione. Si doveva
testare l’ipotesi di non inferiorità; uno studio con 86 soggetti valutabili in ciascun
braccio del trattamento avrebbe avuto il
90% di potenza nell’individuazione differenze di trattamento dello 0.5%. L’SD di σ
= 1.0 impiegato nei computi della potenza
corrisponde al 95% del limite superiore
della confidenza del SD della modificazione dell’A1C di un trial precedente sull’insulina glulisina.
Metodologia statistica. Un’analisi a
misure ripetute e con modello misto, che
comprendeva A1C basale, numero di iniezioni giornaliere prima dello studio (2 o >
2), uso di metformina alla randomizzazione, metodo d’iniezione (penna o fiala) e sito dello studio ha fornito stime aggiustate
e modificazioni, rispetto al basale, per visita, alle settimane 2, 6, 12, 18 e 24, relativamente ad A1C, FPG, profilo della glicemia
in 7 punti, dosi d’insulina basale e in bolo,
lipidi, peso e BMI. Le percentuali di pazienti che ottenevano A1C < 7.0 e < 6.5%
sono state analizzate mediante regressione
logistica, che comprendeva braccio del
trattamento, A1C basale e altri fattori alla
randomizzazione. È stato usato un modello di regressione di Poisson, che incorporava dispersione in eccesso, per analizzare
il tasso d’ipoglicemia e un modello di re-
Popolazione della sicurezza (n = 277)
Semplice algoritmo dell’ITT
n. (%) (n = 136)
Abbandoni
AE
Violazione del protocollo
Assente al follow-up
Morte
Scelta di non proseguire
da parte del paziente
Altro
Completato
Conteggio carboidrati dell’ITT
n. (%) (n = 137)
12 (8.8)
3 (2.2)
3 (2.2)
1 (0.7)
0 (0)
5 (3.7)
0 (0)
124 (91.2)
Abbandoni
AE
Violazione del protocollo
Assente al follow-up
Morte
Scelta di non proseguire
da parte del paziente
Altro
Completato
Figura 1 – Disposizione dei pazienti. AE, eventi avversi.
48
28 (20.4)
6 (4.4)
6 (4.4)
5 (3.6)
1 (0.7)
9 (6.6)
3 (2.2)
109 (79.6)
gressione logistica per analizzare l’incidenza d’ipoglicemia.
RISULTATI
Su 281 pazienti randomizzati 273 componevano la popolazione ITT (tabella 2)
(136 del semplice algoritmo e 137 del conteggio carboidrati) (figura 1). 40 pazienti
ITT sospendevano il trattamento (12 nel
gruppo del semplice algoritmo e 28 in
quello del conteggio carboidrati).
Analisi primaria dell’efficacia
Nell’analisi primaria dell’efficacia si
impiegava ANCOVA per confrontare la
modificazione, rispetto al basale, dell’A1C
alla 24ª settimana dopo aggiustamento per
A1C basale. Si osservava una non inferiorità del semplice algoritmo, rispetto al
conteggio dei carboidrati, perché l’A1C
media migliorava in tutte e due le braccia
del trattamento in misura simile (riduzione del 1.46% con semplice algoritmo e del
1.59% con conteggio carboidrati) e i limiti
di confidenza al 95% sulla differenza media rientravano nel margine della non inferiorità dello 0.5%, specificato nel protocollo dello studio (settimana 24; conteggio
carboidrati – semplice algoritmo = -0.13%
con limiti di confidenza al 95% (.0.35 a
0.09%).
Analisi secondaria dell’efficacia
I valori dell’A1C alla 24ª settimana
erano di 6.70% (semplice algoritmo) e di
6.54% (conteggio carboidrati) (figura 2A);
in ciascun punto del tempo le modificazioni, rispetto al basale, erano statisticamente
significative con tutti e due i trattamenti (P
< 0.0001). Alla 12ª settimana entrambi i
gruppi ottenevano una A1C media < 7.0%.
All’end point il 73.0% (semplice algoritmo) e il 69.2% (conteggio carboidrati) dei
pazienti avevano un’A1C < 7.0% (P =
0.70); i valori rispettivi con A1C <6.5% erano del 44.3 e 49.5% (p = 0.28).
Alla 24ª settimana in tutte e due le
braccia del trattamento si registravano significativi miglioramenti medi, aggiustati,
della FPG rispetto al basale (semplice algoritmo 112.0 mg/dl; conteggio carboidrati 101.8 mg/dl; P <0.0001 in entrambi). La
modificazione dal basale era di –40.4
mg/dl nei pazienti del gruppo del semplice algoritmo e di -50.6 mg/dl in quelli del
gruppo del conteggio carboidrati (P =
0.059) (figura 2B). Alla 12ª settimana la
FPG media era di 108 mg/dl (semplice algoritmo) e di 112 mg/dl (conteggio carboidrati). A ogni visita i valori della glicemia
si riducevano in entrambe le braccia del
trattamento e la modificazione nell’ambito
dello stesso gruppo, rispetto al basale, era
statisticamente significativa in tutti i punti
del tempo dell’intera giornata e in tutte le
visite dello studio (figura 2C).
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, JULY 2008
Tabella 2 – Caratteristiche demografiche e cliniche e trattamento precedente con insulina nella popolazione ITT
(entrambi P < 0.0001 vs. basale; P = 0.073
nei gruppi).
Caratteristica
Sicurezza
Eventi avversi. La popolazione impiegata nella determinazione degli eventi avversi e delle ipoglicemie proveniva dalla
popolazione della sicurezza. Complessivamente 102 (73.9%) pazienti nel gruppo del
semplice algoritmo e 98 (70.5%) in quello
del conteggio carboidrati riportavano ≥ 1
evento avverso dovuto al trattamento. In
tutti e due i gruppi gli eventi avversi più
frequenti erano: infezione del tratto respiratorio superiore (semplice algoritmo
17.4%; conteggio carboidrati 10.8%), rinofaringite (8.7% vs. 5.8%, rispettivamente),
sinusite (8.0% vs. 6.5%) e influenza (5.1%
vs. 6.5%). Su 42 eventi avversi gravi, 41
erano non fatali: 22 (15.9%) nel gruppo del
semplice algoritmo e 19 (13.7%) nel gruppo del conteggio carboidrati. Nel gruppo
del conteggio carboidrati si verificava un
decesso per infarto del miocardio. Gli
eventi avversi facevano sospendere il trattamento in 6 (4.3%) pazienti nel gruppo
del conteggio carboidrati e in 3 (2.2%) in
quello del semplice algoritmo.
Ipoglicemia. Nel gruppo del semplice
algoritmo si registravano 53 episodi d’ipoglicemia grave in 19 pazienti e in quello
del conteggio carboidrati 37 episodi in 19
pazienti; ne conseguiva la stima di 0.89 e
0.67 eventi/pazienti-anno nei due gruppi
(P = 0.58). SMBG < 70 mg/dl, con sintomi,
non era statisticamente significativo nei 2
gruppi (P = 0.08). Tuttavia l’SMBG < 50
mg/dl, con sintomi, era lievemente più
frequente, ma in maniera statisticamente
significativa, nel gruppo del conteggio
carboidrati, rispetto al gruppo del semplice algoritmo (8.0 vs. 4.9 eventi/pazientianno, P = 0.02).
Esami clinici e di laboratorio. Le modificazioni rispetto al basale erano minori
e prive di significatività clinica.
Semplice
algoritmo
n
136
Età (anni)
55.1 ± 8.8 (29-70)
Sesso
Maschile
53 (39.0)
Femminile
83 (61.0)
Razza
Bianca
111 (81.6)
Di colore
15 (11.0)
Asiatica/orientale
2 (1.5)
Multirazziale
0 (0.0)
Altro
8 (5.9)
Altezza (cm)
169 ± 10.6 (146-198)
Peso (kg)
107 ± 24.2 (61-187)
37.7 ± 8.1 (21-63)
BMI (kg/m2)
A1C (%)
8.1 ± 0.9 (7-10)
FPG (mg/dl)
162 ± 58.2 (49-306)
Età all’insorgenza (anni)
42.8 ± 10.6 (13-66)
Durata del diabete (anni)
12.9 ± 7.7 (0-40)
Il soggetto usava una penna
per somministrare l’insulina?
No
66 (48.5)
Sì
69 (50.7)
Numero d’iniezioni alla
randomizzazione
2 al giorno
43 (31.6)
> 2 al giorno
93 (68.4)
Uso di metformina alla randomizzazione
No
90 (66.2)
Sì
46 (33.8)
Conteggio
carboidrati
Valore
di P
137
5.0 ± 9.5 (28-71)
0.8026
67 (48.9)
70 (51.1)
0.2468
109 (79.6)
15 (10.9)
0 (0.0)
1 (0.7)
12 (8.8)
170 ± 9.8 (150-193)
103 ± 21.7 (52-171)
35.6 ± 7.2 (17.60)
8.3 ± 0.9 (6-11)
163 ± 54.2 (52-341)
42.4 ± 9.6 (14-63)
13.0 ± 7.8 (0-36)
0.2776
0.4560
0.1217
0.0416
0.0825
0.8112
0.8594
0.9055
62 (45.3)
75 (54.7)
0.7788
57 (41.6)
80 (58.4)
0.0211
89 (65.0)
48 (35.0)
0.5793
I dati sono medie ± SD (range) o n (%).
Modificazioni delle dosi d’insulina
Al basale le dosi medie d’insulina
glulisina e glargine e la dose totale di insulina erano di 53.9, 53.9 e 107.8 unità
(semplice algoritmo) e di 50.5, 50.5 e
100.9 unità (conteggio carboidrati), rispettivamente. Alla 24ª settimana le dosi
medie aggiustate di insulina glulisina (P
= 0.0011), insulina glargine (P < 0.0001) e
le dosi totali d’insulina (P = 0.0002) erano
significativamente più elevate nei pazienti del gruppo del semplice algoritmo,
rispetto a quelli del conteggio carboidrati
(108.7, 102.5 e 207.4 unità vs. 88.9, 86.4 e
175.5 unità, rispettivamente). Alla 24ª
settimana la dose totale d’insulina era di
1.9 unità/kg (gruppo del semplice algoritmo) e di 1.7 unità/kg (gruppo del conteggio carboidrati) (vedi tabella 3 dell’appendice on-line, disponibile al sito
http://dx.doi.org/10.2337/dc07-2137).
Lipidi
Il colesterolo totale medio aggiustato si
riduceva lievemente in entrambi i gruppi,
dal basale alla 24ª settimana. Si osservava
una riduzione significativa solamente alla
12ª settimana nei pazienti del gruppo del
conteggio carboidrati: da 175.0 a 168.5
mg/dl (-8.35 mg/dl; P < 0.01). Né il cole-
sterolo HDL né quello LDL subivano modificazioni significative dal basale alla 24ª
settimana in entrambi i gruppi; non si osservavano differenze nei gruppi alla 12ª o
24ª settimana. I trigliceridi si riducevano
significativamente dal basale alla 12ª settimana nel gruppo del conteggio carboidrati (144.0 a 128.5 mg/dl) e in quello del
semplice algoritmo (164.7 a 148.3 mg/dl)
(-18.27 mg/dl, P < 0.0001 e -15.14 mg/dl,
P < 0.004, rispettivamente). Si osservava
anche una riduzione significativa dei trigliceridi dal basale alla 24ª settimana nel
gruppo del conteggio carboidrati (144.0 a
133.0 mg/dl), ma non in quello del semplice algoritmo (164.7 a 153.4 mg/dl) (13.19 mg/dl, P = 0.008 e –8.19 mg/dl, P =
0.170, rispettivamente).
Peso e BMI
Tutti e due i gruppi aumentavano di
peso alla 24ª settimana: quello del semplice algoritmo di 3.6 kg (3.4%) e quello del
conteggio carboidrati di 2.4 kg (2.3%) (P =
0.06 nella differenza nei gruppi alla 24ª
settimana). Entrambi i gruppi evidenziavano un aumento modesto, ma significativo del BMI alla 24ª settimana: quello del
semplice algoritmo di 1.28 kg/m2 e quello
del conteggio carboidrati di 0.83 kg/m2
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
CONCLUSIONI
Il nostro è uno dei pochi trial randomizzati e controllati che valuta il trattamento con analogo dell’insulina nello
schema basale-bolo in pazienti obesi con
diabete di tipo 2 e uno dei primi a valutare
l’impiego del conteggio dei carboidrati nei
pazienti con diabete di tipo 2. L’impiego di
un semplice algoritmo per aggiustare settimanalmente l’insulina glulisina al pasto,
in base ai pattern del SMBG, ha avuto la
stessa efficacia dell’impiego dei rapporti
insulina/carboidrati. Entrambi gli approcci hanno prodotto una riduzione di circa
1.5% nell’A1C senza differenze significative nella modificazione media dell’A1C rispetto al basale o nella percentuale di pazienti che raggiungevano gli obiettivi dell’A1C < 6.5% (13) o < 7.0% (14). Tutti e due
i trattamenti sono stati ben tollerati. Il ri49
DIABETES CARE, JULY 2008
A digiuno Dopo
Prima
colazione di pranzo
Dopo
pranzo
Prima
di cena
Dopo
cena
All’ora di
andare a letto
Figura 2 – A: A1C: modificazione rispetto al basale nei gruppi del semplice algoritmo e del conteggio carboidrati alle settimane 2, 6, 12, 18 e 24
(popolazione ITT). B: FPG: modificazione rispetto al basale nei gruppi del semplice algoritmo e del conteggio carboidrati alle settimane 2, 6, 12,
18 e 24 (popolazione ITT). C: Profili glicemici con SMBG in 7 punti al basale e alla 24ª settimana nei gruppi del semplice algoritmo e del conteggio carboidrati (popolazione ITT).
schio d’ipoglicemia grave era basso e non
significativamente differente nei gruppi.
Altri studi (15,16) hanno dimostrato
che i pazienti con diabete ben controllato
con l’insulina spesso hanno un rapporto
insulina basale:insulina in bolo vicino a
50% : 50%. Alla 24ª settimana, dopo titolazioni settimanali multiple dell’insulina sulla base dei pattern degli SMBG, entrambi i
gruppi del semplice algoritmo e del conteggio carboidrati avevano rapporti insulina basale-bolo di ~49%:51%. Inoltre, alla fine dello studio la dose d’insulina in bolo
era divisa tra colazione, pranzo e cena:
~27, 35 e 38% nel gruppo del semplice algoritmo e 25, 34 e 41% in quello del conteggio carboidrati, rispettivamente. Alla 24ª
settimana tutti e due i gruppi richiedevano
dosi totali giornaliere consistenti d’insulina
(semplice algoritmo 1.9 unità/kg e conteggio carboidrati 1.7 unità/kg). Il dosaggio
minore d’insulina nei pazienti del gruppo
del conteggio carboidrati può riflettere un
migliore abbinamento tra dosi d’insulina
ad assunzione di carboidrati al pasto, in
50
contrapposizione con le dosi fisse al pasto
nel gruppo del semplice algoritmo.
In uno studio recente che confrontava 3
approcci per iniziare il trattamento con un
analogo dell’insulina in pazienti con diabete di tipo 2 (basale, pre-miscelato bifasico e
ai pasti), Holman e al. (17) hanno concluso
che, sebbene ciascun regime migliorava il
controllo della glicemia, era probabile che
la maggior parte dei pazienti avesse bisogno di più di un tipo d’insulina per raggiungere gli obiettivi della glicemia. Le
percentuali di pazienti che raggiungevano
il target dello studio dell’A1C (< 6.5%) erano 8.1% con la basale, 17.0% con la bifasica
e 23.9% con le prandiali. Sebbene non si
possono confrontare direttamente i trattamenti insulinici di popolazioni di studio
dicerse, probabilmente era più difficile
controllare il diabete nella nostra popolazione, perché i pazienti lo avevano da più
tempo ed erano più obesi, rispetto ai soggetti del trial di Holman e al. Nello studio
che qui riportiamo, tuttavia, i pazienti con
diabete di tipo 2 trattati con insulina basa-
le-bolo ottenevano A1C <6.5% per quasi
metà del tempo dello studio (44.3% con
semplice algoritmo e 49.5% con conteggio
carboidrati).
Sebbene il trattamento con insulina basale-bolo possa migliorare il controllo della
glicemia nel diabete di tipo 1 (6,18) e di tipo 2 (19,20), non è stato chiaramente definito l’impiego più efficace del SMBG per
aggiustare le dosi d’insulina basale-bolo
(21-24). Alcuni ritengono che il monitoraggio postprandiale sia fondamentale per
stabilire un buon controllo della glicemia,
mentre altri non sono convinti dell’essenzialità del test postprandiale (25). In questo
studio abbiamo dimostrato che i pazienti
con diabete di tipo 2 che adoperavano l’SMBG solo a digiuno e prima dei pasti per
monitorare e aggiustare gli analoghi dell’insulina ad azione rapida e prolungata ottenevano un ottimo controllo della glicemia, misurata dall’A1C, con ipoglicemia
grave minima.
Gli elementi chiavi del trattamento insulinico di successo sono l’ottimizzazione
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, JULY 2008
del controllo della glicemia simultaneamente alla minimizzazione dell’ipoglicemia. I pazienti possono imparare ad aggiustare l’insulina ai pasti con l’impiego di un
semplice algoritmo o dei rapporti insulina/carboidrati, che permettono flessibilità
nella scelta dei cibi e abbinamenti relativamente precisi dell’insulina richiesta ai pasti,
ma che possono apparire complessi ed essere di difficile implementazione in alcuni
pazienti (10,11). Abbiamo dimostrato che
una dose standard d’insulina glulisina al
pasto, aggiustata settimanalmente sulla base dei pattern della glicemia prima dei pasti, può far raggiungere gli stessi obiettivi
di un trattamento che aggiusta l’insulina al
pasto sulla base dei rapporti insulina/carboidrati. È possibile che i nostri pazienti del
gruppo del semplice algoritmo consumassero quantità abbastanza consistenti di carboidrati, minimizzando pertanto le modificazioni necessarie nel dosaggio dell’insulina, o che avessero imparato a modificare la
loro assunzione di carboidrati sulla base
delle misure del SMBG.
Per riassumere, la disponibilità di 2 approcci efficaci per la somministrazione e
l’aggiustamento dell’insulina ad azione rapida al pasto (un semplice algoritmo e il
rapporto insulina/carboidrati) può aumentare la disponibilità di pazienti e clinici
a dare l’avvio al trattamento con insulina
basale-bolo, un passo spesso necessario
per ottenere il controllo ottimale della glicemia nel diabete di tipo 2.
Bibliografia
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
51
DIABETES CARE, JULY 2008
Meta-analisi
Efficacia, sicurezza e tollerabilità del
trattamento con pregabalin nella
neuropatia periferica diabetica dolorosa
Dati di 7 trial randomizzati controllati
ROY FREEMAN, MD1
EDITH DURSO-DECRUZ, PHD2
BIROL EMIR, PHD2
OBIETTIVO – Valutare efficacia, sicurezza e tollerabilità di pregabalin in un
ampio range di dosaggi efficaci, determinare le differenze d’efficacia degli schemi di
somministrazione tre volte al giorno (TID) vs. due volte al giorno (BID) e usare
l’analisi del tempo trascorso prima dell’evento per determinare il tempo necessario
alla comparsa di un effetto terapeutico sostenuto, con l’impiego dei dati di 7 trial su
pregabalin nella neuropatia periferica diabetica dolorosa (DPN).
DISEGNO DELLA RICERCA E METODI – Sono stati messi insieme i dati di
7 trial in doppio cieco, randomizzati, placebo-controllati, che impiegavano pregabalin
nel trattamento di DPN dolorosa con dosaggi di 150, 300 e 600 mg/giorno,
somministrati BID o TID. Solamente 1 trial comprendeva tutti e 3 questi dosaggi e il
dosaggio TID è stato usato in 4. Tutti gli studi condividevano i criteri fondamentali di
selezione e le durate dei trattamenti andavano da 5 a 13 settimane.
RISULTATI – L’analisi riunita dimostrava che il pregabalin riduceva
significativamente il dolore e le interferenze con il sonno ad esso correlato, associati a
DPN (150, 300 e 600 mg/giorno somministrati TID vs. placebo, tutti i valori di P ≤
0.007). Solamente il dosaggio di 600 mg/giorno era efficace se somministrato BID (P ≤
0.001). Le riduzioni di dolore e d’interferenza con il sonno associate a pregabalin
sembravano correlate al dosaggio; l’effetto massimo si osservava nei pazienti trattati
con 600 mg/giorno. L’analisi di Kaplan-Meier rivelava che il tempo medio prima
della comparsa del miglioramento sostenuto di 1 punto (≥ 30% all’end point) era di 4
giorni nei pazienti trattati con 600 mg/giorno, di 5 giorni in quelli trattati con 300
mg/giorno, di 13 giorni in quelli trattati con 150 mg/giorno di pregabalin e di 60
giorni nei pazienti placebo-trattati. I più frequenti eventi avversi emergenti dal
trattamento erano vertigini, sonnolenza ed edema periferico.
CONCLUSIONI – Il trattamento con pregabalin nel range dei dosaggi efficaci è
associato a miglioramento significativo, correlato al dosaggio, del dolore nei pazienti
con DPN.
Diabetes Care 31: 1448-1454, 2008
a prevalenza di neuropatia diabetica
è del 50% nei pazienti che hanno il
diabete da 25 anni (1) e la neuropatia
periferica, diabetica (DPN) dolorosa colpisce fino al 26% di tutti i pazienti diabetici (2). I sintomi vanno da disestesia lieve a dolore forte e ininterrotto, che può
avere un impatto profondo sulla qualità
di vita dei pazienti (3,4).
Farmaci di classi diverse sono impie-
L
gati nel trattamento della DPN dolorosa,
con vari gradi d’efficacia, sicurezza e tollerabilità. I farmaci antiepilettici, gabapentin
e pregabalin, sono diventati di uso diffuso
nel trattamento della DPN dolorosa. Questi farmaci si legano alla sotto-unità ausiliaria α2-δδ del canale del calcio sensibile al
voltaggio e pertanto riducono l’influsso
Ca2+ nei terminali nervosi e modulano il
rilascio di neuro-trasmettitori (5).
Da: the 1Department of Neurology, Beth Israel Deaconess Medical Center, Harvard Medical
School, Boston, Massachusetts e 2Pfizer Global Pharmaceuticals, New York, New York.
52
Esistono 7 trial in doppio cieco, randomizzati, placebo-controllati su DPN
dolorosa trattata con pregabalin (6-12), 5
dei quali sono interamente pubblicati (711). Il range di dosaggio efficace nel trattamento del dolore neuropatico è di 150600 mg/giorno, somministrati 3 volte
(TID) o 2 volte (BID) al giorno. Nei 7 trial
sono stati usati i dosaggi di 150, 300 e 600
mg/giorno, ma solamente 1 trial li comprendeva tutti e tre. Pertanto, considerati
singolarmente, i 7 trial presentano un
quadro incompleto del range di dosaggi
efficaci. Inoltre il dosaggio TID è stato
usato nei primi 4 trial, mentre nei 3 più
recenti è stato usato il dosaggio BID.
L’obiettivo di quest’articolo è di usare
i dati riuniti di questi 7 trial per valutare
efficacia, sicurezza e tollerabilità di pregabalin nel range dei dosaggi efficaci.
Questi dati sono stati utilizzati anche per
determinare le differenze d’efficacia dei
programmi di somministrazione TID e
BID. Infine è stata efettuata un’analisi dei
dati riuniti in riferimento al tempo prima
del verificarsi dell’evento, per determinare il tempo trascorso prima della comparsa di un effetto terapeutico sostenuto
con i diversi dosaggi del farmaco.
DISEGNO DELLA RICERCA E
METODI
Le durate dei trattamenti negli studi
andavano da 5 a 13 settimane (figura
1A). 4 trial hanno impiegato il dosaggio
TID, 3 quello BID e tutti tranne 1 (pregabalin 300 mg/giorno vs. placebo) hanno
intensificato il dosaggio, per raggiungere
quello fisso assegnato nell’arco di 1-2 settimane. I pazienti sono stati randomizzati a placebo o a dosaggio fisso di pregabalin di 150, 300 o 600 mg/giorno. 1 trial
comprendeva un braccio con dosaggio di
75 mg/giorno (8); non presentiamo qui i
risultati di questo dosaggio di pregabalin
perché non è ritenuto terapeutico nella
DPN dolorosa. 1 trial (10) ha studiato pazienti con DPN e nevralgia post-erpetica,
cui era somministrato pregabalin a dosaggio flessibile (150-600 mg/giorno),
pregabalin a dosaggio fisso (600
mg/giorno) o placebo. Per coerenza con
gli obiettivi di quest’analisi solamente i
pazienti con DPN cui era somministrato
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, JULY 2008
Durata dello studio (settimane)
Pazienti (ITT)
Basale
Intensificazione della dose
Dose fissa
Pregabalin (mg/dl)
Lesser e al. 2004 (8)
Richter e al. 2005 (9)
Dati in archivio (6)
Rosenstock e al 2004 (7)
Tolle e al. 2007* (11)
Freynhagen e al. 2005 (10)
Rosenstock e al. 2007† (12)
Tutti i trial
Analisi totale riunita della popolazione ITT
Abbandoni, n (%)
AE
Non compliant
30 (5.4)
7 (1.3)
AE
7 (4.0)
Non compliant
0
AE
Non compliant
26 (9.8)
2 (0.8)
AE
Non compliant
75(14.6)
10 (1.9
Mancanza d’efficacia 45 (8.0)
Mancanza d’efficacia 8 (4.5)
Mancanza d’efficacia 7 (2.6)
Mancanza d’efficacia 21 (4.1)
Assente al follow-up
Assente al follow-up
Assente al follow-up
Assente al follow-up
Altro
4 (0.7)
22 (3.9)
Altro
0
4 (2.3)
Altro
0
4 (1.5)
Altro
1 (0.2)
17 (3.3)
Completamenti, n (%)
Elementi demografici e caratteristiche basali
n (%)
Uomini
Bianchi
Di colore
Ispanici
Altro
Media ±SD
Età, anni
Peso, kg
Punteggio dolore
Punteggio sonno
A1C
n (%)
Uomini
Bianchi
Di colore
Ispanici
Altro
Media ±SD
Età, anni
Peso, kg
Punteggio dolore
Punteggio sonno
A1C
n (%)
Uomini
Bianchi
Di colore
Ispanici
Altro
Media ±SD
Età, anni
Peso, kg
Punteggio dolore
Punteggio sonno
A1C
n (%)
Uomini
Bianchi
Di colore
Ispanici
Altro
Media ±SD
Età, anni
Peso, kg
Punteggio dolore
Punteggio sonno
A1C
Figura 1 – A: Braccia del dosaggio dei 7 trial che hanno contribuito a quest’analisi, popolazioni ITT. *Il trial ha impiegato una popolazione ITT
modificata: 11 pazienti sono stati ritirati dal Ministero della Salute/Commissione europea durante una sospensione clinica parziale. AE, eventi
avversi; PBO, placebo; PGB, pregabalin. †Il trial comprendeva 338 pazienti, 96 dei quali avevano DPN dolorosa e sono stati assegnati a dosaggio fisso di 600 mg/giorno di pregabalin. I pazienti con nevralgia post-erpetica di questo trial non sono stati inclusi nella presente analisi e non
lo sono stati neanche i pazienti con DPN assegnati a dosaggio flessibile di pregabalin. ‡Nessuna intensificazione del dosaggio. PBO, placebo. B:
Studi riuniti sulla disposizione del paziente con elementi demografici e caratteristiche basali.
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
53
DIABETES CARE, JULY 2008
Modificazione media least square
% di rispondenti
Modificazione media least square
Settimane
Distribuzione della sopravvivenza
≥ 50% di miglioramento rispetto al basale ≥ 30% di miglioramento rispetto al basale
0% dei
pazienti
25% dei
pazienti
50% dei
pazienti
75% dei
pazienti
Giorno
Figura 2- A: Modificazione dal basale all’end point nel punteggio medio del dolore least-squares in base all’analisi dell’ultima osservazione condotta. La popolazione dei pazienti era composta da pazienti che avevano valutazioni basali e all’end point (pertanto in alcuni gruppi le cifre sono inferiori a quelle della popolazione ITT). Si sono osservate riduzioni significative nel punteggio medio del dolore least square, relativamente a tutti e tre
i dosaggi indagati: -2.05, -2.36 e –2.75 punti nei pazienti trattati con 150, 300 e 600 mg/giorno vs. –1.49 nei pazienti placebo-trattati (*P = 0.007
con 150 mg/giorno e †P <0.0001 con 300 e 600 mg/giorno vs. placebo). B: Modificazione dal basale alla 5° settimana nel punteggio medio del dolore
54
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, JULY 2008
pregabalin a dosaggio fisso (28% della
coorte) sono stati inclusi in quest’analisi.
Ciascuno studio condivideva i criteri
fondamentali d’inclusione, compresi età
≥18 anni, punteggio medio del dolore ≥ 4
(su una scala numerica di classificazione
simil-Likert [NRS] di 11 punti: 0 = “nessun dolore” a 10 = “dolore più forte possibile”) nell’arco di un periodo basale di 7
giorni e un punteggio ≥ 40 mm sulla scala
analogica visiva da 0 a 100 mm dello
Short-Form McGill Pain Questionnaire allo screening e alla randomizzazione (basale e randomizzazione in 1 studio). In
ciascun trial tutti i pazienti dovevano avere valori dell’A1C ≤ 11%. In 3 studi il precedente fallimento del trattamento con
gabapentin era criterio d’esclusione (6-8).
Prima della partecipazione tutti i pazienti
hanno fornito il consenso informato e tutti
gli studi sono stati condotti in accordo con
i principi etici della Dichiarazione di Helsinki, con i requisiti imposti dal comitato
interno di revisione o con le linee guida
della buona pratica clinica.
La misura primaria dell’efficacia in
ciascuno studio era il punteggio medio
del dolore all’end point (sul NRS in 11
punti), derivato dalle osservazioni registrate quotidianamente dai pazienti nei
loro diari. È stata anche effettuata un’analisi supplementare dei rispondenti che
usava due definizioni di risposte – pazienti con riduzioni di ≥ 50% e ≥3 0% nei
punteggi medi del dolore, rispetto al basale. Gli studi comprendevano numerose
misure secondarie di efficacia. Il punteggio medio dell’interferenza col sonno all’end point è stato desunto dai diari giornalieri dei pazienti, che vi registravano la
misura in cui il dolore aveva interferito
con il loro sonno (effettuato anche con
NRS in 11 punti, da 0 = “il dolore non interferisce con il sonno” a 10 = “il dolore
interferisce pesantemente con il sonno”).
Ogni studio comprendeva la Patient Global Impression of Change, nel quale i pazienti graduavano il loro miglioramento
su una scala in 7 punti, che andava da
“molto peggio” a “molto meglio”(6-12).
Anche queste misure sono state analizzate
per determinare se v’erano differenze significative, rispetto al placebo, tra i regimi
di dosaggio BID e TID.
Infine abbiamo indagato in tutti e 7
gli studi quanto tempo passava prima
che subentrasse sollievo dal dolore sostenuto e clinicamente significativo, che è
stato definito come il primo giorno in cui
il paziente dimostrava una riduzione ≥ 1
punto nel punteggio medio del dolore,
con riduzione ≥ 30% e ≥ 50% nel punteggio medio del dolore all’end point. Questi 2 criteri sono stati imposti per assicurare sollievo dal dolore clinicamente significativo e duraturo, sulla base dell’evidenza di studi con disegni simili nei
quali un miglioramento ≥ 30%, rispetto
al basale, corrisponde all’impressione
globale del paziente di una modificazione in “molto meglio” o “veramente meglio” all’end point dello studio (13). I
punteggi basali del dolore in un trial clinico tipico su pazienti con DPN sono tra
6 e 6.5 sulla scala da 0 a 10 punti; pertanto un miglioramento del 30% rappresenta ~2 punti. Abbiamo definito “evento”
d’interesse, in quest’analisi del tempo
trascorso prima del verificarsi dell’evento, il tempo necessario per la riduzione ≥
1 punto nel punteggio giornaliero del
dolore, pur riconoscendo che qualsiasi
criterio di questo genere poteva essere ritenuto arbitrario. Il tempo trascorso prima della comparsa del sollievo sostenuto
dal dolore è stato valutato mediante l’applicazione della procedura di KaplanMeier e i confronti con il placebo sono
stati fatti con il test log rank.
Le misure di sicurezza comprendevano incidenza di eventi avversi, esami fisici e neurologici, elettrocardiogramma, segni vitali, modificazione del peso e test
clinici di laboratorio, compresa l’A1C.
Nell’analisi riunita tutti i test statistici
delle misure di efficacia sono stati effettuati sulla popolazione dell’intenzione al
trattamento (ITT). All’end point i punteggi medi del dolore, che impiegavano
l’ultima osservazione condotta e l’inter-
ferenza con il sonno, sono stati analizzati
mediante ANCOVA (con un termine per
i valori basali e uno per il trattamento),
mentre altre misure secondarie di efficacia (rispondenti) sono state analizzate
mediante un modello di regressione logistica (con un termine per i valori basali e
uno per il trattamento).
RISULTATI
1.510 pazienti rappresentavano la popolazione ITT nei 7 studi: 557 placebotrattati e 953 trattati con pregabalin. Il
90% dei pazienti erano bianchi e il 58%
uomini. L’età media era di 59 anni, il peso medio di 93 kg e il punteggio medio
basale del dolore era di 6.5 (figura 1B).
Efficacia
Si osservavano riduzioni significative
nei punteggi medi del dolore least-squares all’end point con tutti e tre i dosaggi
indagati (P = 0.007 con 150 mg/giorno e
P <0.0001 con 300 e 600 mg/giorno vs.
placebo) (figure 2A e B). Le riduzioni del
dolore associate a pregabalin sembravano positivamente correlate al dosaggio e
si osservava l’effetto massimo nei pazienti trattati con 600 mg/giorno. Le proporzioni di pazienti che avevano riduzioni ≥ 50 o ≥ 30% dei livelli di dolore (rispondenti) erano significativamente superiori nei gruppi pregabalin, rispetto al
gruppo placebo (figura 2C) ed erano correlate al dosaggio.
I numeri necessari da trattare per
questi dati sono i seguenti: 600 mg/giorno di pregabalin 4.04 (95% CI 3.3-5.3),
300 mg/giorno di pregabalin 5.99 (4.210.4) e 150 mg/giorno di pregabalin
19.06 (Il CI per la riduzione del rischio
assoluto contiene lo 0 e ciò rende il CI
per il numero necessario da trattare di
difficile interpretazione).
Un numero crescente di pazienti trattati con pregabalin riportava miglioramenti delle condizioni generali di salute,
rispetto ai pazienti placebo-trattati, sulla
base delle misure della Patient Global Im-
least-squares. Si sono osservate riduzioni con tutti e tre i dosaggi indagati: -1.98, -2.44 e –2.75 punti nei pazienti trattati con 150, 300 3 600
mg/giorno di pregabalin vs. –1.47 nei pazienti placebo-trattati (*P < 0.0001 vs. placebo; †P <0.01 vs. placebo). C: Proporzione di pazienti che avevano miglioramento ≥ 50% e ≥ 30%, rispetto al basale, nel punteggio medio del dolore all’end point, in base all’analisi dell’ultima osservazione condotta. La popolazione dei pazienti era composta da pazienti che avevano valutazioni basali e all’end point (pertanto le cifre in alcuni gruppi sono inferiori a quelle della popolazione ITT). Dei pazienti trattati con 150, 300 e 600 mg/giorno di pregabalin 27, 39 e 47%, rispettivamente, riportavano
riduzioni del dolore ≥ 50% dal basale all’end point, mentre il 22% dei pazienti placebo-trattati riportava riduzioni simili (300 e 600 mg/giorno di
pregabalin, †P< 0.0001 vs. placebo). Con l’impiego del criterio del miglioramento ≥ 30%, un livello di miglioramento ritenuto clinicamente significativo (31), 43, 55 e 62% dei pazienti trattati con 150, 300 e 600 mg/giorno di pregabalin, rispettivamente, erano rispondenti vs. il 37% dei pazienti
placebo-trattati (*P = 0.0455 con 150 mg/giorno, †P =0.0001 con 300 e ‡P < 0.0001 con 600 mg/giorno vs.placebo). D: Analisi con la curva di sopravvivenza del tempo che trascorreva prima della comparsa del sollievo significativo dal dolore, definito come il primo giorno nel quale il paziente
evidenziava un punteggio medio, sostenuto del dolore ≥ 1 punto, dove sostenuto è definito come una riduzione ≥ 30% nel punteggio medio del dolore all’end point. Il tempio medio prima dell’inizio del miglioramento sostenuto (≥ 30% all’end point) di 1 punto era di 4 giorni nei pazienti trattati
con 600 mg/giorno di pregabalin, di 5 giorni in quelli trattati con 300 mg/giorno, di 13 giorni in quelli trattati con 150 mg/giorno e di 60 giorni nei
pazienti placebo-trattati. Gli hazard proporzionali erano di 1.44 con 150 mg/giorno di pregabalin, (P = 0.013), 1.84 con 300 mg/giorno di pregabalin (P < 0.0001) e 2.26 con 600 mg/giorno di pregabalin (P < 0.0001). PGB = pregabalin.
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
55
DIABETES CARE, JULY 2008
Tabella 1 – TEAE frequenti e sospensioni che si verificavano in ≥ 5% di ciascun gruppo di trattamento (in ordine decrescente a partire dalla percentuale maggiore di eventi avversi nel gruppo di 600 mg/giorno di pregabalin)
Pregabalin
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Placebo
150 mg/giorno
300 mg/giorno
600 mg/giorno
––––––––––––––––––––––
–––––––––––––––––––––––– ––––––––––––––––––––– ––––––––––––––––––––––
n (%)
Sospensione
n (%)
sospensione
n (%)
sospensione
n (%)
sospensione
n
Evento avverso
Vertigini
Edema periferico*
Sonnolenza
Aumento di peso
Astenia
Mal di testa
Secchezza delle fauci
Incidente
Capogiro
Nausea
Dolore
Infezione
Edema
557
26 (4.7)
40 (7.2)
16 (2.9)
5 (0.9)
12 (2.2)
38 (6.8)
7 (13)
16 (2.9)
5 (0.9)
29 (5.2)
18 (3.2)
35 (6.3)
0
176
0.7
0.5
0.4
0
0.2
1.1
0
0
0.4
0.9
0.4
0
0
12 (6.8)
10 (5.7)
9 (5.1)
8 (4.5)
4 (2.3)
12 (6.8)
3 (1.7)
4 (2.3)
3 (1.7)
4 (2.3)
9 (5.1)
14 (8.0)
4 (2.3)
266
1.1
1.1
0.6
0
0.6
0.6
0.6
0
0
0.6
0.6
0
0
62 (23.3)
26 (9.8)
38 (14.3)
10 (3.8)
13 (4.9)
16 (6.0)
13 (4.9)
7 (2.6)
8 (3.0)
8 (3.0)
8 (3.0)
23 (8.6)
13 (4.9)
511
3.4
1.5
3.0
0.4
2.3
0.8
0.8
0.4
1.5
1.1
0.4
0.8
0.4
142 (27.8)
82 (16.0)
38 (13.3)
45 (8.8)
44 (8.6)
35 (6.8)
30 (5.9)
26 (5.1)
25 (4.9)
23 (4.5)
20 (3.9)
17 (3.3)
10 (2.0)
6.8
2.7
4.3
1.0
2.0
2.5
1.8
0.6
1.4
2.0
0
0.4
0
I dati sono % se non indicato diversamente. *1 paziente nel gruppo di 600 mg aveva edema ed edema periferico.
pression of Change. L’80, 74 e 65% dei pazienti trattati con 600, 300 e 150 mg/giorno di pregabalin, rispettivamente, miglioravano, rispetto al 54% dei pazienti placebo-trattati (300 e 600 mg/giorno P <
0.0001).
In ciascuna delle analisi summenzionate tutti e due i regimi BID e TID di pregabalin al dosaggio di 600 mg/giorno erano significativamente superiori al placebo
(P < 0.0001 in tutti i confronti dei dosaggi
BID e TID, rispetto a placebo). Con il dosaggio di 300 mg/giorno solamente il regime TID era significativamente superiore al
placebo (P < 0.0001 in tutti i confronti); tuttavia il gruppo del dosaggio di 300
mg/giorno BID era incluso solamente in 1
dei 7 trial.
L’analisi di Kaplan-Meier rivelava che
il tempo medio per la comparsa di sollievo
sostenuto (miglioramento ≥ 30%, rispetto
al basale) dal dolore era di 4 giorni nei pazienti trattati con 600 mg/giorno di pregabalin, 5 e 13 giorni in quelli trattati con 300
e 150 mg/giorno, rispettivamente e di 60
giorni nei pazienti placebo-trattati (figura
2D). Il confronto tra i gruppi trattati con
pregabalin e quelli placebo-trattati mediante test log rank confermava che il tempo per la comparsa di sollievo clinicamente significativo dal dolore era più breve in
maniera statisticamente significativa nei
primi, rispetto a quelli placebo-trattati (P <
0.0001 con dosi di pregabalin di 300 e 600
mg/giorno e p = 0.01 con dose di 150
mg/giorno). Il tempo medio per la comparsa del sollievo sostenuto (miglioramento ≥ 50%, rispetto al basale) del dolore era
di 6 giorni nei pazienti trattati con 600
56
mg/giorno di pregabalin e di 12 giorni in
quelli trattati con 300 mg/giorno di pregabalin. Il confronto tra i gruppi trattati con
pregabalin e con placebo mediante test log
rank confermava che il tempo per la comparsa del sollievo clinicamente significativo dal dolore era più breve in maniera statisticamente significativa, rispetto al placebo (P <0.0001 con dosi di pregabalin di 300
e 600 mg/giorno e P = NS con dose di 150
mg/giorno).
I punteggi medi dell’interferenza con il
sonno all’end point erano anche significativamente migliorati in tutti e tre i gruppi
pregabalin, con i dosaggi di 150, 300 e 600
mg/giorno, che evidenziavano riduzioni
di –1.92, -2.32 e –2.62, rispettivamente, rispetto a –1.32 con placebo (P = 0.003 con
150 mg/giorno e P <0.0001 con 300 e 600
mg/giorno vs. placebo). Come succedeva
nella modificazione del punteggio medio
del dolore, il miglioramento nell’interferenza con il sonno sembrava positivamente correlato al dosaggio.
Sicurezza e tollerabilità
L’incidenza di eventi avversi emergenti
dal trattamento (TEAE) sembrava correlata
al dosaggio e la maggior parte dei TEAE
frequenti aveva incidenza massima nei pazienti trattati con 600 mg/giorno (tabella
1). Non v’era un pattern coerente nei tassi
d’incidenza dei TEAE per regime di dosaggio e alcuni TEAE, come l’edema periferico e l’aumento di peso, avevano maggiore incidenza nei gruppi con dosaggio
BID, rispetto ai gruppi con dosaggio TID,
mentre altri TEAE, come vertigini e sonnolenza, colpivano con maggiore frequenza i
gruppi TID, rispetto ai BID. In tutti i gruppi di trattamento i TEAE erano generalmente da lievi a moderati. Il tasso di sospensione del trattamento dipendente dagli eventi avversi era massimo nel gruppo
di 600 mg/giorno (figura 1B). TEAE gravi
colpivano il 3.4, 2.3 e 4.9% dei pazienti trattati con 150, 300 e 600 mg/giorno di pregabalin e il 3.4% dei pazienti placebo-trattati.
I più frequenti TEAE gravi riportati dai pazienti trattati con pregabalin e con placebo
erano di natura cardiovascolare e non si riteneva che fossero associati al trattamento.
Nell’arco della 5-13 settimane di trattamento l’incidenza dell’aumento clinicamente significativo di peso (definito sulla
base del criterio della Food and Drug Administration di aumento del peso ≥ 7% dal
basale all’end point) con pregabalin vs.
placebo era correlata al dosaggio: 2.01%
nel gruppo di 150 mg/giorno di pregabalin (P = 0.14 [95% CI –0.47 a 3.03%]), 2.12%
nel gruppo di 300 mg/giorno di pregabalin (P = 0.04 [-0.09 a 2.86%]) e 3.88% nel
gruppo di 600 mg/giorno di pregabalin (P
< 0.0001 [1.76-4.54%]), rispetto allo 0.73%
nel gruppo del placebo. Gli odds dell’aumento di peso, rispetto al placebo, erano di
2.3 volte con 150 mg/giorno (P = 0.14
[0.77-6.60%]), 2.8 volte con 300 mg/giorno
(P = 0.04 [1.06-7.47%]) e 6.2 volte con 600
mg/giorno di pregabalin (P < 0.0001 [2.8213.67%]). Le modificazioni medie del peso
dal basale all’end point nei pazienti trattati
con pregabalin vs. quelli placebo-trattati
erano di 0.76 kg con 150 mg/giorno (P =
0.02 [0.08-1.11 kg]), 1.86 kg con 300
mg/giorno (P < 0.0001 [1.26-2.14 kg]) e
2.04 kg con 600 mg/giorno di pregabalin
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, JULY 2008
(P < 0.0001 [1.54-2.22 kg]); la modificazione
media era di 0.16 kg con placebo. L’incidenza dell’aumento di peso ≥ 7% per durata dello studio con tutti i dosaggi di pregabalin era la seguente: 5 settimane, 2.8%; 8
settimane, 6.8% e 12-13 settimane, 7.9%.
V’era un aumento correlato al dosaggio nell’edema e nell’edema periferico (tabella 1). La presenza di edema per gravità,
con tutti i dosaggi, era la seguente: con 150
mg/giorno di pregabalin: lieve 64.3%, moderato 28.6% e grave 7.1%; con 300
mg/giorno di pregabalin: lieve 56.4%, moderato 41% e grave 2.6%; con 600
mg/giorno di pregabalin: lieve 63.4%, moderato 33% e grave 1.1%; con placebo: lieve 81%, moderato 19% e grave 0%.
In tutti i gruppi trattati con pregabalin
il 15.2% dei pazienti aveva edema o edema periferico, il 6.0% aveva un aumento
di peso ≥ 7% e il 2.3% aveva aumento di
peso ed edema. Nel confronto, nel gruppo
placebo-trattato il 7.3% aveva edema o
edema periferico, l’1.5% aveva aumento di
peso ≥ 7% e lo 0.2% aveva tutti e due.
Negli studi non erano riportate modificazioni clinicamente significative dei valori di laboratorio dal basale all’end point.
Non v’erano modificazioni statisticamente
e clinicamente significative dal basale all’end point dei valori dell’A1C (% di Hb
totale) nei pazienti trattati con pregabalin
e nei soggetti di controllo, nell’arco delle 513 settimane del trattamento: 0.07% (95%
CI –0.07 a 0.24) con 150 mg/giorno di pregabalin; 0.01% (-0.01 a 0.26) con 300
mg/giorno di pregabalin; 0.08% (-0.09 a
0.13) con 600 mg/giorno di pregabalin e
0.03% (-0.05 a 0.11) con placebo.
CONCLUSIONI
In quest’analisi riunita di 7 trial controllati e randomizzati su pazienti con
DPN dolorosa è stato dimostrato che
pregabalin, somministrato con dosaggi
differenti, riduceva significativamente il
dolore associato a DPN. L’analisi riunita,
diversamente dai singoli trial, dimostrava l’efficacia anche della dose di 150 mg;
invece la somministrazione BID era efficace solamente con il dosaggio di 600
mg. Inoltre l’analisi del tempo prima del
verificarsi dell’effetto rivelava che pregabalin era associato a una rapida comparsa del sollievo sostenuto dal dolore in
maniera correlata al dosaggio.
Numerosi anticonvulsivanti con meccanismi diversi d’azione sono stati oggetto
di trial randomizzati e controllati su larga
scala, che ne valutavano l’efficacia terapeutica nel trattamento della DPN dolorosa. Questi farmaci, tra cui topiramato (1416), lamotrigina (17), ossicarbazepina
(18,19) e gabapentin (20-22), hanno dimostrato efficacia variabile nei trial clinici.
Al contrario pregabalin ha dimostrato
efficacia in 6 su 7 trial clinici, 1 dei quali
comprendeva braccia di trattamento con
150, 300 e 600 mg/giorno, 2 comprendevano 2 di questi dosaggi e 4 solamente 1 (figura 1A). L’elaborazione riunita dei dati di
tutte le braccia di trattamento in quest’analisi arricchisce la conoscenza che abbiamo di efficacia, sicurezza e tollerabilità di
pregabalin nel trattamento di DPN dolorosa. In termini d’efficacia v’è stata un evidente risposta al dosaggio, con efficacia
massima nei pazienti trattati con 600
mg/giorno. Ugualmente evidente da questa analisi riunita – ma non dall’esame individuale dei singoli trial, poiché la dose
di 150 mg/giorno non era efficace in nessuno dei singoli trial – è risultata l’osservazione che anche i pazienti trattati con il
dosaggio più basso di pregabalin previsto
per il dolore neuropatico cronico, 150
mg/giorno, hanno vuto miglioramenti
statisticamente significativi del dolore e
della correlata interferenza con il sonno e
hanno risposto al pregabalin (miglioramento ≥ 30%) in proporzioni significativamente maggiori, rispetto al placebo.
L’analisi dei dati riuniti, relativa al
tempo necessario per la comparsa dell’effetto, rivelava una comparsa rapida, correlata al dosaggio, del sollievo sostenuto dal
dolore. Al 4° giorno il 50% dei soggetti che
assumevano 600 mg/giorno avevano un
miglioramento sostenuto (≥ 30% all’end
point) di 1 punto nel punteggio del dolore,
mentre si otteneva una risposta di questa
consistenza dopo 5 giorni nel gruppo che
assumeva 300 mg/giorno. Tutti e 7 gli studi hanno dimostrato differenze statisticamente significative tra pregabalin e placebo alla 1° (6-10,12) o 2° (11) settimana; tuttavia queste analisi non implicano necessariamente che la risposta sia clinicamente
significativa. Inoltre quest’approccio non
fornisce un’idea della possibile durata della risposta nei singoli pazienti. Sebbene
non sia impiegata di frequente nei trial
sulla terapia del dolore (23), l’analisi del
tempo necessario per la comparsa dell’effetto che abbiamo usato qui fornisce informazioni numeriche e grafiche (figura 2D)
clinicamente rilevanti per pazienti e clinici, in particolare la probabilità di una risposta clinica pre-determinata (l’hazard
proporzionale) e il tempo per ottenere detta risposta. In quest’articolo l’analisi è stata complicata dai differenti programmi di
intensificazione del dosaggio nei singoli
trial. Poiché il tempo necessario per la
comparsa dell’effetto era determinato dalle modalità di intensificazione del dosaggio e non dal momento nel tempo in cui si
otteneva una dose terapeutica efficace, è
possibile che l’analisi abbia sopravvalutato il tempo necessario per ottenere l’efficacia sostenuta. Gli studi futuri dovrebbero
incorporare questa tecnica analitica in maniera prospettica.
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
La nostra analisi ha rivelato che il programma di dosaggio (BID vs.TID) apparentemente non ha comportato differenze
significative nei pazienti trattati con 600
mg/giorno, poiché tutti e due i regimi sono stati altamente significativi dal punto
di vista statistico, rispetto a placebo. Questo dato non concorda con studi sulla nevralgia post-erpetica, nella quale è stata
dimostrata l’efficacia BID in vari dosaggi,
da 150 a 600 mg/giorno (24). Non si sa su
cosa si basi questa diversa efficacia nei diversi stati della patologia, sebbene possa
essere correlata, in parte, all’uso concomitante di farmaci antidolorifici in tutti i trial
clinici su pregabalin nelle nevralgie posterpetiche (24-26). Tuttavia le dosi di 150 e
300 mg/giorno sono state usate BID solamente in 1 studio incluso in quest’analisi
(15) e sono necessari studi ulteriori per dare una risposta definitiva a questo problema.
L’aumento d’efficacia correlato al dosaggio è stato accompagnato da un simile
aumento, d’incidenza della maggior parte
degli eventi avversi. Allo stesso modo il
tasso di abbandoni, dovuto a evento avverso, era correlato alla dose. Vertigini,
sonnolenza ed edema periferico erano gli
eventi avversi più frequenti. Mentre v’era
un aumento consistente dell’incidenza di
vertigini con i diversi dosaggi, l’incidenza
della sonnolenza era simile con i dosaggi
di 300 e 600 mg/giorno. L’esame degli
eventi avversi per regime di dosaggio,
cioè BID vs. TID, in riferimento a ciascun
dosaggio giornaliero di pregabalin, non rivelava pattern consistenti a favore di un
regime, rispetto a un altro. V’era un aumento correlato al dosaggio dell’edema
periferico (tabella 1). L’edema non è stato
un criterio d’esclusione in nessuno studio;
tuttavia è indispensabile il parere clinico
ogniqualvolta pregabalin è somministrato
a pazienti con edema preesistente. Pregabalin non era associato a complicanze cardiovascolari e a modificazioni di laboratorio indicative di sofferenza renale o epatica e raramente causava abbandoni. L’incidenza dell’aumento di peso non era solamente correlata al dosaggio, ma dipendeva anche dalla durata dell’esposizione.
Non si conosce la causa sottesa all’aumento di peso e non sembra essere correlata alla presenza di edema periferico. Non v’erano evidenze che l’aumento di peso compromettesse il controllo della glicemia; l’analisi riunita non ha evidenziato alcuna
modificazione significativa dei valori dell’A1C in nessuna coorte di studi nei quali i
trattamenti duravano da 5 a 13 settimane.
Sono necessari studi prolungati per affrontare questo problema.
In conclusione, la nostra analisi di 7
trial clinici randomizzati, controllati, condotti su pazienti con DPN dolorosa ha dimostrato che nel range dei dosaggi effica-
57
DIABETES CARE, JULY 2008
ci, pregabalin non solo riduceva in maniera significativa il dolore associato a DPN,
ma era anche associato a rapida comparsa
del sollievo sostenuto dal dolore, il cui miglioramento era accompagnato però da
maggiore incidenza di eventi avversi correlati al dosaggio.
Bibliografia
58
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, JULY 2008
Meta-analisi
Rosiglitazone e rischio di tumori
Una meta-analisi di trial clinici randomizzati
MATTEO MONAMI, MD, PHD
CATERINA LAMANNA, MD
NICCOLÒ MARCHIONNI, MD
EDOARDO MANNUCCI, MD
OBIETTIVO – Nonostante dati sperimentali indichino l’effetto protettivo degli
agonisti dei recettori perossisomiali proliferatore-attivati, rispetto alle neoplasie
maligne, i risultati degli studi epidemiologici disponibili sull’incidenza dei tumori nei
pazienti trattati con rosiglitazone non sono univoci. L’obiettivo di questa meta-analisi
di trial clinici randomizzati è di valutare l’effetto di rosiglitazone sull’incidenza di
tumori.
DISEGNO DELLA RICERCA E METODI – Sono stati rintracciati i trial
clinici randomizzati con rosiglitazone, con durata > 24 settimane, attraverso Medline
e il sito web della GlaxoSmithKline, che riporta i risultati principali di tutti i trial
sponsorizzati dallo GlaxoSmithKline; i tumori maligni sono stati desunti dal riepilogo
degli eventi avversi gravi. Le proporzioni delle misure degli esiti nei gruppi di
trattamento sono state confrontate per odds proporzionali (OR) e 95% CI. In
considerazione delle differenze della durata del follow-up nelle braccia di trattamento
in alcuni trial, abbiamo anche calcolato l’incidenza del tumore nei gruppi
rosiglitazone e di controllo.
RISULTATI – Si reperivano 80 trial, che arruolavano 16.332 e 12.522 pazienti nei
gruppi rosiglitazone e di confronto, rispettivamente. Il rosiglitazone non era associato
a modificazione significativa del rischio di tumori (OR 0.91 [95% CI 0.71-1.16], P =
0.44). L’incidenza di tumori maligni era significativamente minore nei pazienti trattati
con rosiglitazone, rispetto ai gruppi di controllo (0.23 [0.19-0.26] vs. 0.44 [0.34-0.58]
casi/pazienti-anno; P < 0.05).
CONCLUSIONI – L’impiego di rosiglitazone sembra sicuro in termini d’incidenza
di tumori, mentre il possibile effetto protettivo di questo farmaco necessità di ulteriori
indagini.
Diabetes Care 31: 1455-1460, 2008
ue studi epidemiologici hanno fornito risultati discordanti sugli effetti di
rosiglitazone sull’incidenza di tumori maligni. Uno studio ha riportato una
riduzione specifica dell’incidenza del tumore del polmone (1), mentre un altro ha
indicato un rischio aumentato di tumori
maligni, senza fornire informazioni sui
tipi di tumore (2).
È stato suggerito un ipotetico effetto
antitumorale dei tiazolidinedioni, sulla
base del loro profilo farmacologico d’azione. Gli effetti anti-mitotici e pro-differenziazione degli agonisti dei recettori
perossissomiale proliferatore-attivati
(PPAR), che sono stati descritti in modelli in vitro e animali (3-5), hanno suggerito la possibilità di usare questi farmaci
D
nel trattamento antitumorale, sebbene i
risultati di trial preliminari siano stati
contraddittori (6-10). D’altra parte fino
ad ora non sono stati identificati meccanismi che sottendono un possibile effetto
mitogenico degli attivatori di PPAR. L’obiettivo di questa meta-analisi è di valutare il rischio di tumori associato al trattamento con rosiglitazone, rispetto a placebo o a farmaci ipoglicemizzanti.
DISEGNO DELLA RICERCA E
METODI
I trial sono stati identificati attraverso
una ricerca nel sito web della GlaxoSmithKline (GSK) (11), produttrice del
rosiglitazone, che contiene i risultati di
Da: the Department of Cardiovascular Medicine, Sction of Geriatric Cardiology, Azienda Ospedaliera Careggi, Firenze, Italia.
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
tutti i trial completati sponsorizzati da
GSK, con la descrizione di tutti gli eventi
avversi gravi (compresi quelli ritenuti
non correlati al farmaco dello studio), come i tumori maligni incidenti. I trial pubblicati, sponsorizzati da altre società o da
istituzioni accademiche sono stati rintracciati attraverso una ricerca su Medline, relativa a tutti i trial randomizzati e
controllati su rosiglitazone, condotti su
soggetti umani, con i risultati pubblicati
in inglese entro il 5 febbraio 2008. Di ciascun trial sono elencati, con una breve
descrizione, tutti gli eventi avversi gravi,
fatali e non fatali in ciascun braccio di
trattamento. In quest’analisi sono stati
inclusi tutti gli studi che confrontavano
rosiglitazone con placebo o altri farmaci
attivi, con durata > 24 settimane. Sono
stati esclusi gli studi di durata inferiore,
in considerazione del fatto che è improbabile che l’esposizione breve a un farmaco abbia un qualsiasi impatto sull’incidenza di tumore. Il verificarsi di eventi
fatali o non fatali è stato desunto dagli
eventi avversi gravi.
Dopo l’esclusioni di trial con 0 eventi,
sono stati calcolati gli odds proporzionali
(OR) e i 95% CI con la procedura ponderata degli OR di Mantel-Haenszel (MH),
con l’impiego di un modello di effetto a
random. È stata scelta questa procedura
per superare le limitazioni del metodo
Peto (12-14), che era stato usato in una
precedente meta-analisi sugli effetti cardiovascolari di rosiglitazone (15). Infatti
il metodo Peto sopravvaluta le differenze
nei trattamenti quando si include in una
meta-analisi un numero considerevole di
trial di piccole dimensioni, nei quali si
verificano pochi eventi (12-14. Ogniqualvolta è stato possibile sono state effettuate analisi separate dei trial con comparatori differenti o in quelli condotti su pazienti con diabete di tipo 2 o non diabetici, come pure dei trial di durata ≥ 52 settimane. Sono anche state eseguite analisi
separate relativamente ai tipi più frequenti di tumore.
In considerazione del fatto che nel
trial più ampio incluso nell’analisi (16) la
durata del follow-up nel braccio del rosiglitazone è maggiore, rispetto ai comparatori (17), abbiamo anche calcolato l’effettiva entità d’incidenza di tumori nei
diversi gruppi di trattamento, con l’impiego di un modello con effetto a random, ipotizzando che i tassi di assenza al
follow-up, mortalità e incidenza di tumo-
59
DIABETES CARE, JULY 2008
(ricerca su Medline)
Rintracciati
n = 208
Rintracciati
n = 229
Esclusi per:
differenti, a causa del numero insufficiente di eventi registrati in ciascun
gruppo.
L’entità dell’incidenza cumulativa dei
tumori nel gruppo rosiglitazone era significativamente (P < 0.05) inferiore, rispetto a quella con i comparatori (0.23
[95% CI 0.19-0.26] vs. 0.44 [0.34-0.58] casi/100 pazienti-anno; P < 0.05). Il rapporto proporzionale riunito con rosiglitazone (vs. comparatori) era di 1.02 (95% CI
0.67-1.57).
Trial pubblicati
Trial su
Sito web di GSK
Esclusi per:
Durata < 4 settimane
n = 68
Durata < 4 settimane
n = 48
Interruzione
n=2
Pubblicazioni doppie
n = 77
No gruppo di controllo
n = 82
No gruppo di controllo
n = 24
Analisi interim
n=1
No trattamento
con rosiglitazone
n=2
CONCLUSIONI
Sul sito web GSK
n = 31
SAE non riportati
n =26
INCLUSI
n = 55
INCLUSI
n = 25
TOTALE
n = 80
Figura 1 – Diagramma di flusso dei trial valutati per l’inclusione nella meta-analisi. SAE =
eventi avversi gravi.
ri maligni siano stati costanti per tutta la
durata di ciascun trial; quest’analisi ha
anche incluso trial con 0 eventi. Inoltre,
successivamente alla determinazione delle dimensioni degli effetti nei trial individuali, i rapporti tra entità dell’incidenza
sono stati calcolati in ciascun trial e combinati, per ottenere un rapporto di tasso
riunito. Tutte le analisi sono state condotte
mediante Comprehensive Meta Analysis
(versione 2.2.046; Englewood, NJ).
RISULTATI
Il diagramma dei trial è illustrato nella
figura 1. Gli 80 trial inclusi nell’analisi arruolavano 16.332 e 12.522 pazienti, trattati
con rosiglitazone e comparatori (15.700 e
18.050 pazienti-anno), rispettivamente,
con età media ponderata di 55.3 anni. 63 e
17 dei trial rintracciati erano condotti su
pazienti con diabete di tipo 2 (A1C media
8.1%) o su soggetti affetti da differenti
condizioni, rispettivamente (tabella 1). La
maggior parte (25 su 51) dei trial pubblicati che non erano presenti nel sito web
GSK (11) non riportava la descrizione dettagliata di eventi avversi gravi, compresi i
tumori maligni; solamente 2 tumori maligni erano stati osservati nei trial che disponevano di queste informazioni. Un
elenco completo dei trial non pubblicati
sul sito web GSK, inclusi o non inclusi
nella meta-analisi, è riportato nell’appen-
60
dice on-line (disponibile al sito
http://dx.doi.org/10.2337/dc07-2308).
Il numero di tumori maligni incidenti
riportato in ciascun trial è riassunto nella
tabella 1. Su 302 casi di tumore, 42
(13.9%) erano gastrointestinali, 13 (4.3%)
pancreatici, 26 (8.6%) polmonari, 35
(11.6%) di ghiandola mammaria/tratto
genitale femminile, 36 (11.9%) del tratto
urogenitale maschile e 105 (34.8%) di altra origine nota; il tipo di tumore non era
specificato in 45 (14.9%) casi. Non si osservava alcuna differenza nella proporzione di casi di pazienti assegnati a rosiglitazone o ai comparatori. L’MH-OR
(95% CI) complessivo con rosiglitazone,
rispetto ai gruppi di controllo, era di 0.91
([0.71-1.16]; P = 0.44). Oltre la metà dei
tumori maligni era osservata in un ampio trial, A Diabetes Outcome Progression Trial (ADOPT); l’MH-OR dopo l’esclusione di questo studio era di 0.92
(0.61-1.39). Quando si analizzavano separatamente i trial di durata ≥ 52 settimane, l’MH-OR con rosiglitazone era di
0.86 (0.66-1.14). Si ottenevano risultati simili nei pazienti non diabetici e nei pazienti con diabete di tipo 2 (0.93 [0.332.65] e 0.91 [0.71-1.17], rispettivamente),
con comparatori differenti e nei tipi più
frequenti di tumore , quando erano analizzati separatamente (figura 2). Non erano effettuate analisi separate su singoli
tumori maligni in trial con comparatori
I dati del trial clinici randomizzati di
cui disponiamo, riepilogati in questa meta-analisi, non supportano l’ipotesi recente di un aumento di rischio di tumori
associato a rosiglitazone (2). Al contrario
l’incidenza di tumori maligni nei pazienti trattati con rosiglitazone non è maggiore, rispetto a quella osservata con comparatori, anche se questi dati non confermano un possibile effetto protettivo del
farmaco, suggerito da osservazioni precedenti (1). In considerazione del fatto
che il trattamento con metformina è associato a riduzione del rischio di tumore in
studi epidemiologici (18), si dovrebbe
prendere in considerazione l’ipotesi di
un effetto protettivo attribuibile al miglioramento della sensibilità all’insulina
e/o a riduzione dei livelli circolanti d’insulina, insieme ad altri effetti più diretti
del farmaco, dipendenti o non dipendenti dai PPAR-γγ (4,5,19). Tuttavia il rapporto proporzionale riunito non ha messo in
luce un qualsiasi effetto di rosiglitazone
sul rischio di tumore. Questa discrepanza potrebbe dipendere dal fatto che la
proporzione di soggetti trattata con rosiglitazone e con trattamenti di controllo
varia nei trial che arruolavano pazienti
con caratteristiche differenti, che potevano influire sull’incidenza di tumori. Si
dovrebbe anche tenere conto del fatto
che le entità dell’incidenza e i rapporti
proporzionali riportati in quest’analisi
sono stati ottenuti sulla base di differenti
ipotesi problematiche (cioè tassi di assenze al follow-up, mortalità, e incidenza di
tumori maligni sono stati costanti per
tutta la durata del trial); pertanto la cautela è d’obbligo quando si considerano
questi risultati. Per raccogliere informazioni più affidabili su quest’argomento si
dovrebbe condurre una meta-analisi dei
trial su rosiglitazone, basata sui dati dei
pazienti.
Il metodo d’elezione nella valutazione degli effetti dei trattamenti farmacologici su esiti maggiori è rappresentato da
trial clinici randomizzati, specificatamente disegnati e di dimensioni adeguate.
Sfortunatamente non disponiamo di trial
di questo tipo sui farmaci ipoglicemiz-
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, JULY 2008
Tabella 1 – Caratteristiche principali dei trial clinici inclusi nella meta-analisi
Studio (11)*
Caratteristiche
Comparatore
Durata
(settimane)
Numero
R/C
Età
media
(anni)
A1C
media
(%)
Casi
incidenti di
tumore R/C
Soggetti non diabetici
Trial sul sito web GSK
100684
49653/330
49653/331
49653/334
49653/392
49653/131
49653/452
ARA102198
AVA100193
Altri trial pubblicati
Car
Sidhu
Silic
van Wijk
Coll
Cavalcanti
Baillargeon
Lemay
Pazienti con diabete
di tipo 2
Trial sul sito web GSK
49653/048 (ADOPT)†
49653/048 (ADOPT)†
49653/080
49653/097
49653/135
49653/211
49653/020
AVM100264
712753/008
49653/137
BRL49653/185
SB-712753/003
SB-712753/007†
SB-712753/007†
49653/128
49653/134
SB-797620/004
49653/024
49653/044
49653/079
49653/079
49653/082
49653/085
49653/093†
49653/093†
49653/094
49653/095
49653/096
49653/109
49653/125
Sindrome
metabolica
Psoriasi a placche
Psoriasi a placche
Insulino-resistenza
Insulino-resistenza
Insulino-resistenza
Sclerosi multipla
Artrite
reumatoide
Malattia di Alzheimer
Placebo
52
43/47
45
–
0/0
Placebo
Placebo
Placebo
Metformina
Placebo
Placebo
Placebo
52
52
52
52
26
26
26
1,181/382
706/325
178/177
16/15
39,427
26/25
49/49
44
45
68
56
48
42
56
–
–
–
–
–
–
–
3/1
0/1
4/3
0/0
0/0
0/1
0/0
Placebo
24
394/124
71
–
0/0
Infezione da HIV
Coronaropatia
Infezione da HIV
Infezione da HIV
Infezione da HIV
Infezione da HIV
PCOS
PCOS
Placebo
Placebo
Metformina
Metformina
Metformina
Placebo
Placebo
Nessuno
48
48
48
26
26
24
24
24
53/55
46/46
30/30
19/20
15/16
48/48
42/30
15/13
45
62
42
47
48
47
27
24
–
–
–
–
–
–
–
–
1/0
0/0
0/0
0/0
0/0
0/0
0/0
0/0
Monoterapia
Monoterapia
Monoterapia
Monoterapia
Terapia combinata
NYHA-II
mono-combinata
Monoterapia
Terapia combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
Mono-combinata
Terapia combinata
Monoterapia, OL
Terapia combinata
OL
Terapia combinata
Terapia combinata
Monoterapia
Monoterapia
Terapia combinata
Monoterapia
Terapia combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
Monoterapia
Terapia combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
Monoterapia
Terapia combinata
OL
Gliburide
Metformina
Gliburide
Gliburide
Placebo
Placebo
208
208
156
148
104
52
1,456/1,441
1,456/1,454
104/99
122/120
116/111
110/114
56
57
56
56
68
64
7.3
7.3
9,1
8.9
7.4
NR
63/71
63/67
1/3
1/4
4/7
2/3
Gliburide
Sulfoniluree
Nessuno
Gliburide
Nessuno
Placebo
Metformina
Nessuno
52
52
48
32
32
32
32
32
384/203
394/302
284/135
204//185
563/142
254/272
159/154
155/154
60
59
55
59
59
59
59
59
8.2
8.0
NR
8.4
7.4
7.2
7.2
7.2
3/0
2/1
3/0
2/4
4/2
0/1
0/0
0/0
Placebo
Placebo
Glimepiride
Placebo
Placebo
Gliburide
Placebo
Placebo
Placebo
Metformina
Placebo
Placebo
Placebo
Placebo
Glipizide
Nessuno
28
28
28
26
26
26
26
26
26
26
26
26
26
26
26
26
39/38
561/276
232/225
774/185
71/34
104/106
99/106
212/107
138/139
107/109
106/109
232/116
196/96
232/115
52/25
175/173
58
55
53
57
54
58
58
56
61
59
59
58
58
60
53
56
9.6
8,7
9.0
8.9
9.6
9.2
9.2
9.1
NR
8.7
8.7
8.8
9.0
9,1
8.0
8.9
0/0
0/2
1/0
5/1
0/0
1/0
2/0
0/0
1/0
0/0
0/0
0/0
1/0
2/0
0/0
0/0
Continua alla pagina successiva
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
61
DIABETES CARE, JULY 2008
Tabella 1 – Continua
Studio (11)*
49653/127
49653/136
49653/145
49653/147
49653/162
49653/234
49653/390
49653/369
49653/132
49653/347
49653/015
49653/284
SB-712753/002
49653/090
49653/325
SB-712753/009
AVD102209
49653/143
49653/207
49653/282
Altri trial pubblicati
Ko
Derosa (a)
Derosa (b)
Derosa (c)
Rahman
Kelly
Reynolds
Osman
Zhou
Goldberg
Weisslan
Agrawal
Dailey
Garber
Wang
Wong
Jung
Totale
Numero
R/C
Età
media
(anni)
A1C
Casi
media incidenti di
(%)
tumore R/C
Caratteristiche
Comparatore
Durata
(settimane)
Terapia combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
Monoterapia
Terapia combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
Monoterapia
Terapia combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
Monoterapia in
bambini
Terapia combinata
Placebo
Placebo
Nessuno
Placebo
Placebo
Placebo
Nessuno
Gliburide
Placebo
Placebo
Placebo
Placebo
Placebo
Placebo
Placebo
Placebo
Placebo
Placebo
Metformina
26
26
26
26
26
26
26
26
24
24
24
24
24
24
24
24
24
24
24
56/58
148/143
231/242
89/88
168/172
116/61
33/30
25/24
442/112
418/212
395/198
382/384
288/280
22/75
196/195
162/160
132/131
121/124
99/101
60
65
61
54
60
63
NR
52
59
53
61
55
58
59
53
57
56
52
14
9.0
8.2
8.6
9.1
8.0
8.1
NR
6.8
9.8
9.0
9.2
8.0
7.5
8.8
8.0
8.7
9.6
9.2
8.0
0/2
2/0
1/0
0/0
2/0
1/0
1/0
0/0
1/1
0/1
4/0
1/0
1/0
1/0
0/1
2/0
0/0
1/0
0/0
Gliburide
24
69/72
60
7.6
0/0
Terapia combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
Monoterapia
Monoterapia
Terapia combinata
Monoterapia
Monoterapia
PTCA
Terapia combinata
Monoterapia
Terapia combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
Mono-combinata
Terapia combinata
Terapia combinata
–
Insulina
Glimepiride
Pioglitazone
Pioglitazone
Placebo
Gliburide
Placebo
Placebo
52
52
52
52
52
26
26
26
56/56
49/50
48/48
45/42
11/11
20/16
8/8
8/8
58
53
55
54
47
60
55
55
9.6
8.0
9.0
8.1
7.5
7.6
9.6
9.6
0/0
0/0
0/0
0/0
0/0
0/0
0/0
0/0
Placebo
Pioglitazone
Placebo
Nessuno
Placebo
Gliburide
Nessuno
Nessuno
Metformina
–
24
24
24
24
24
24
24
24
24
39.2
442/112
369/366
358/351
288/280
181/184
158/160
35/35
26/26
15/15
16,332/12,522
56
56
55
58
57
56
61
62
57
55.3
9.8
7.5
8.0
7.5
8.1
8.5
7.3
7.2
9.1
8.1
0/0
0/0
0/0
0/0
0/1
0/0
0/0
0/0
0/0
124/178
*Vedi APPENDICE per riferimenti. †Trial con comparatori multipli. ADOPT: A Diabetes Outcome Progression Trial; mono-combinata, monoterapia o terapia combinata; NR: non riportato; NYHA-II: New York Heart Association, classe II; OL: in aperto; PCOS:
sindrome dell’ovaio policistico; PTCA: angioplastica coronarica percutanea transluminale; R/C: rosiglitazone vs. comparatore.
zanti. Pertanto sono state usate come
fonti surrogate d’informazioni meta-analisi di eventi verificatesi in trial randomizzati, disegnati per end point diversi
(15). Dovrebbe essere semplice riconoscere i limiti di questa procedura; in particolare può essere problematica la classificazione degli esiti riportati come eventi
avversi e non come end point pre-definiti. È importante notare che la maggior
parte dei trial pubblicati non riporta
informazioni su tumori maligni inciden62
ti; questi casi sono di facile identificazione solamente nei trial riportati nel sito
web GSK (11), che contiene una descrizione dettagliata di tutti gli eventi avversi gravi. Inoltre l’inclusione in una metaanalisi di molti trial di dimensioni ridotte, con un numero modesto di eventi,
rappresenta un problema relativamente
alle analisi statistiche (12-14). Si dovrebbe anche prendere in considerazione il
fatto che i trial clinici di solito arruolano
pazienti relativamente giovani, con po-
che comorbilità e compliance elevata e
pertanto presumibilmente a basso rischio
di tumore.
D’altra parte, un trial che valuta l’effetto di un farmaco ipoglicemizzante sull’incidenza di tumori maligni è di difficile realizzazione, a causa della dimensione del
campione e della durata del follow-up richieste. Per questo motivo le informazioni
su questo end point possono essere ottenute solamente attraverso studi epidemiologici o meta-analisi di trial disegnati per
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, JULY 2008
Placebo
Metformina
Sulfoniluree
Complessivamente
Tumori maligni
Gastrointestinali
Polmonari
Mammario/FGT
Prostata
Meglio con
Rosiglitazone
Meglio con
comparatore
Figura 2 - Effetti di rosiglitazone sui tumori maligni incidenti. La dimensione dei marker dei
dati rappresenta il peso relativo del trial in base al numero dei tumori incidenti. FGT: tratto
genitale femminile.
altri scopi. L’approccio epidemiologico
fornisce il vantaggio della possibilità di
raccogliere campioni di ampie dimensioni
e di follow-up di lunga durata; tuttavia in
studi osservazionali gli aggiustamenti
multipli per confondenti non possono mai
eliminare del tutto le interferenze delle
prescrizioni (cioè gli effetti delle differenti
caratteristiche dei pazienti sulle diverse
scelte terapeutiche). Quest’interferenza
potrebbe essere responsabile della discrepanza tra i nostri risultati e quelli di recenti studi cross-sezionali (2).
Il numero di eventi inclusi nella presente meta-analisi non le conferisce affidabilità relativamente a tipi specifici di
tumore. Tuttavia i nostri dati confermano
la possibilità di protezione specifica nei
confronti del tumore polmonare, che è
stata precedentemente riportata in uno
studio epidemiologico (1). Considerando
il fatto che la patogenesi delle differenti
forme di tumore è molto eterogenea, il
farmaco potrebbe avere effetti divergenti
su differenti tumori maligni. È interessante notare che non è stata individuata
alcuna riduzione del rischio di tumore
del tratto genitale femminile nelle pazienti trattate con rosiglitazone, sebbene
il farmaco sia stato usato nel trattamento
della sindrome dell’ovaio policistico (20),
che è un fattore noto di rischio per questi
tumori maligni (21). Sono necessari ampi
database per chiarire il profilo di rischio
nelle forme individuali di tumore nei pazienti trattati con rosiglitazone.
Per riassumere, l’impiego di rosiglitazone sembra sicuro, rispetto al rischio di
tumori maligni incidenti, mentre ulteriori studi sono necessari per confermarne il
possibile effetto protettivo di questo farmaco. L’incidenza di tumori, che può essere modificata con i farmaci ipoglicemizzanti, merita di essere presa in considerazione come esito rilevante nella scelta del trattamento del diabete di tipo 2.
Bibliografia
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
63
DIABETES CARE, JULY 2008
64
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, JULY 2008
Morte al conteggio dei carboidrati?
l trattamento insulinico è una strategia
efficace nel controllo della glicemia nei
pazienti con diabete di tipo 2. Anche se
spesso ce ne dimentichiamo, è importante adottare un regime alimentare appropriato come coadiuvante dell’insulina.
Inoltre un principio base di questo trattamento è che la dose d’insulina e la sua
somministrazione dovrebbero essere idonee a bilanciare regime alimentare e attività fisica, al fine di mantenere normale
la glicemia.
In questo numero di Diabetes Care,
Bergenstal e al. (1) hanno valutato 2 strategie per la determinazione del dosaggio
appropriato d’insulina in bolo ai pasti.
Un semplice algoritmo che aggiustava la
dose d’insulina in bolo, sulla base della
media settimanale della glicemia prima
dei pasti, è stato confrontato con un algoritmo basato sul conteggio dei carboidrati ai pasti. Gli autori hanno dimostrato
l’equivalenza della strategia più semplice e di quella più elaborata del conteggio
dei carboidrati nel raggiungimento del
controllo della glicemia; quasi la metà
dei partecipanti in entrambi i gruppi otteneva A1C < 6.5%. I pazienti affetti da
diabete di tipo 2 trattati con insulina basale: bolo possono riuscire a controllare
la glicemia senza dovere eseguire il complesso conteggio dei carboidrati?
Il conteggio dei carboidrati esiste dagli anni ‘20 del novecento ed è diventato
parte integrante della gestione dei pazienti con diabete di tipo 1 dopo la pubblicazione dei dati del Diabetes Control
and Complications Trial (2). Tuttavia l’efficacia del conteggio dei carboidrati nel
diabete di tipo 2 è poco conosciuta. Le
barriere potenziali a questo conteggio
comprendono il tempo e lo sforzo che il
paziente deve dedicare al conteggio del
contenuto di carboidrati di ciascun pasto, le difficoltà del paziente nel capire
questa strategia e la reperibilità di dietisti e di personale sanitario adeguatamente addestrati per spiegarla. Gli autori non
hanno valutato gli esiti relativi alla qualità della vita e ben poco si sa dell’impatto del conteggio dei carboidrati sulla
qualità della vita. Studi precedenti hanno
dimostrato che, quando ne hanno la possibilità, i pazienti scelgono di sospendere
il conteggio dei carboidrati, rispetto ad
altre strategie (3). Certamente è necessario proseguire la ricerca sull’ottimizzazione del conteggio dei carboidrati nel
diabete di tipo 2 e anche sulla valutazione dell’accuratezza del conteggio eseguito dai pazienti nella vita reale.
Sembrerebbe però che, se si possono
I
ottenere valori simili del controllo della
glicemia, con pochi eventi avversi, utilizzando un semplice algoritmo, allora il
semplice algoritmo può essere una strategia migliore nell’aggiustamento dell’insulina. Inoltre il semplice algoritmo può
essere più indicato per l’istruzione dei
pazienti in centri poco serviti, dove può
non esservi disponibilità di dietisti. Ma il
conteggio dei carboidrati presenta effetti
positivi, che esulano dal controllo della
glicemia?
Esaminando gli esiti secondari dello
studio si evidenzia un trend nella direzione di minore aumento di peso alla fine delle 24 settimane nel gruppo del conteggio dei carboidrati, che registrava un
aumento di peso del 2.3%, rispetto all’aumento del 3.4% nel gruppo del semplice algoritmo. L’1% di differenza nell’aumento di peso nell’arco di 6 mesi non
raggiungeva significatività statistica, ma
lo studio non era adeguatamente potenziato per testare la significatività di questa differenza. Quali sarebbero gli effetti
del peso in un periodo di tempo più prolungato? Il dosaggio maggiore d’insulina
usato nel gruppo del semplice algoritmo
potrebbe causare maggiore aumento di
peso? L’aumento di peso è un ben noto
effetto collaterale del trattamento insulinico e studi precedenti dimostrano aumenti di peso ≤ 20% in 1 anno con alcuni
trattamenti insulinici (4). La gestione del
peso costituisce un aspetto cruciale nel
diabete di tipo 2 e sarà importante valutare strategie atte a minimizzare l’aumento di peso in corso di trattamento insulinico. La riduzione dei carboidrati
può essere una strategia importante nel
miglioramento del controllo della glicemia e della perdita di peso. Il gruppo del
conteggio dei carboidrati assumeva meno carboidrati o calorie, rispetto al gruppo del semplice algoritmo? Nel Look
AHEAD (Action for Health in Diabetes)
Trial, che valuta i potenziali benefici del
controllo del peso nel diabete di tipo 2, è
stato riscontrato che le 3 strategie più frequentemente usate dai partecipanti per
tenere il peso sotto controllo erano: maggior consumo di frutta e verdura, eliminazione dei dolci e minor consumo di cibi ad alto contenuto di carboidrati (5). Il
conteggio dei carboidrati può aumentare
la consapevolezza della quantità di carboidrati consumata e ridurla di conseguenza.
Un numero maggiore di pazienti nel
gruppo del semplice algoritmo ha completato lo studio, rispetto ai gruppi del
conteggio carboidrati (91.2 vs. 79.6%) e
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
questa circostanza può far pensare a
maggiore compliance con il semplice algoritmo. Il tasso complessivo di eventi
avversi era simile nei gruppi di trattamento, ma valore dell’auto-monitoraggio
della glicemia < 50% mg/dl con sintomi
era lievemente più frequenti nel gruppo
del conteggio dei carboidrati, rispetto a
quello del semplice algoritmo. Sebbene
non vi fosse alcuna differenza statisticamente significativa nei tassi d’ipoglicemia con tutti i dosaggi dell’algoritmo,
nel gruppo del semplice algoritmo si registravano 53 episodi d’ipoglicemia in 19
pazienti, mentre ne avvenivano 37 in 19
pazienti del gruppo del conteggio dei
carboidrati. Sebbene non siano chiari i
motivi di questa differenza, ci chiediamo
se essa non rifletta l’aggiustamento in
tempo reale della dose di insulina in bolo
nel gruppo del conteggio dei carboidrati,
rispetto all’aggiustamento settimanale
della dose nel gruppo del semplice algoritmo.
La gestione dell’insulina continua ad
essere complessa e richiede monitoraggio attento da parte dei pazienti e dei loro medici. Bergenstal e al. (1) hanno sviluppato un algoritmo che semplifica la
gestione dei trattamenti insulinici, che
contengono insulina basale e all’ora dei
pasti. I pazienti con diabete di tipo 2 possono raggiungere gli obiettivi del controllo della glicemia con un semplice algoritmo per l’insulina basale: bolo, senza
l’aggiunta dell’onere del conteggio del
contenuto di carboidrati di ciascun pasto. Tuttavia il controllo della glicemia è
uno dei tanti aspetti della gestione del
diabete e non dobbiamo dimenticare altri
aspetti importanti, come il controllo del
peso e il rischio d’ipoglicemia. Bergenstal
e al. ci hanno sicuramente fornito la spinta propulsiva per cominciare a esaminare
la rilevanza del conteggio dei carboidrati
sul dosaggio dell’insulina nel diabete di
tipo 2, ma il conteggio dei carboidrati
può avere altre motivazioni per essre fatto, oltre a quella del semplice aggiustamento dei farmaci.
NICHELA J. DAVIS, MD, MS1
JUDITH WYLIE-ROSETT, EDD, RD2
Da: the 1Department of Medicine, Albert Einstein College of Medicine/Montefiore Medicale Center, Bronx, New York e the 2Department of Epidemiology and Population Health,
Albert Einstein College of Medicine, Bronx,
New York.
65
DIABETES CARE, JULY 2008
Bibliografia
66
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, AUGUST 2008
Come tradurre i livelli di A1C in valori
glicemici medi
DAVID M. NATHAN, MD1
JUDITH KUENEN, MD2
RIKKE BORG, MD3
HUI ZHENG, PHD1,4
DAVID SCHOENFELD, PHD1,4
ROBERT J. HEINE, MD2
FOR THE A1C-DERIVED AVERAGE GLUCOSE
(ADAG) STUDY GROUP*
OBIETTIVO – Il dosaggio dell’A1C, espresso come la percentuale di emoglobina
che è glicata, misura la glicemia cronica ed è ampiamente usato per giudicare
l’adeguatezza del trattamento del diabete e per aggiustarlo. La gestione quotidiana è
guidata dall’auto-monitoraggio delle concentrazioni capillari della glicemia
(milligrammi per decilitro o millimoli per litro). Abbiamo voluto determinare la
relazione matematica che intercorre tra A1C e valori della glicemia media (AG) e se si
poteva esprimere e riportare l’A1C come AG nelle stesse unità usate nell’automonitoraggio.
DISEGNO DELLA RICERCA E METODI – 507 soggetti, che
comprendevano 268 pazienti con diabete di tipo 1, 159 con diabete di tipo 2 e 80
soggetti non diabetici, di 10 centri internazionali sono stati inclusi nell’analisi. I valori
dell’A1C ottenuti alla fine di 3 mesi e misurati in un laboratorio centrale sono stati
confrontati con i valori AG dei 3 mesi precedenti. L’AG è stata calcolata mediante
combinazione dei risultati ponderati di almeno 2 giorni di monitoraggio continuato
della glicemia effettuato 4 volte, con l’auto-monitoraggio quotidiano in 7 punti della
glicemia capillare (puntura del dito), effettuato almeno 3 giorni alla settimana.
RISULTATI – Ogni soggetto otteneva approssimativamente 2.700 valori della
glicemia nell’arco di 3 mesi. L’analisi della regressione lineare tra valori dell’A1C e
dell’AG forniva la correlazione più rigorosa (AGmg/dl = 28.7 X A1C – 46.7, R2 = 0.84, P
< 0.0001) e permetteva il calcolo della stima della glicemia media (eAG) dai valori
dell’A1C. Le equazioni della regressione lineare non differivano significativamente
nei sottogruppi, sulla base di età, sesso, tipo di diabete, razza/etnia o status del fumo.
CONCLUSIONI – I valori dell’A1C possono essere espressi come eAG nella
maggior parte dei pazienti con diabete di tipo 1 e di tipo 2.
Diabetes Care 31: 1473-1478, 2008
l dosaggio dell’A1C è accettato ovunque ed impiegato come mezzo affidabile per la valutazione della glicemia
cronica (1-3). La sua stretta associazione
con il rischio di complicanze a lungo termine, stabilita in studi epidemiologici e
trial clinici (4-6), ha indotto a fissare
obiettivi specifici dell’A1C nel trattamento del diabete, allo scopo di prevenire o
ritardare lo sviluppo delle complicanze
(2,7-9). Il trattamento del diabete viene
aggiustato sulla base dei risultati dell’A1C, espressi come la percentuale d’e-
I
moglobina glicata. In tutto il mondo la
gran maggioranza degli assay è stata
standardizzata, mediante il National
Glyco-hemoglobin Standardization Program (10), con il dosaggio utilizzato nel
Diabetes Control and Complications
Trial (DCCT), che ha stabilito la relazione
che intercorre tra i valori dell’A1C e il rischio di complicanze diabetiche a lungo
termine (4,5).
È stato sviluppato e proposto per l’uso nella standardizzazione globale, da
parte dell’International Federation of Cli-
nical Chemists, un metodo nuovo, più
stabile e specifico, di standardizzazione
dell’assay dell’A1C, che non è indicato
per l’uso di routine (11,12). Tuttavia i risultati del nuovo metodo, con valori che
sono 1.5-2.0 punti percentuali inferiori a
quelli dell’attuale National Glyco-hemoglobin Standardization Program (13), potenzialmente causano confusione nei pazienti e nel personale sanitario che li ha
in cura. Inoltre i risultati dell’International Federation of Clinical Chemists dovrebbero essere espressi in nuove unità
(millimoli per mole) e questo aumenterebbe la confusione. La glicemia cronica
(A1C) è usualmente espressa come percentuale di emoglobina che è glicata,
mentre il monitoraggio e il trattamento
quotidiani del diabete si basano sui valori acuti della glicemia, espressi in milligrammi per decilitro o millimoli per litro. Questa discrepanza ha sempre creato
problemi. Se potessimo riportare, in maniera affidabile, il controllo metabolico
cronico e gli obiettivi della gestione nel
lungo termine come glicemia media
(AG), cioè nelle stesse unità di misura
della glicemia acuta, queste potenziali
fonti di confusione sarebbero eliminate.
La relazione che intercorre tra A1C e
glicemia cronica è stata indagata in numerosi studi, che hanno supportato l’associazione tra A1C e valori dell’AG nelle
5-12 settimane precedenti (14-21). Tuttavia gli studi meno recenti erano limitati e
comprendevano coorti omogenee, di dimensioni relativamente ridotte, di pazienti solitamente affetti da diabete di tipo 1 (14-19). Inoltre quasi tutti gli studi
pregressi hanno contato su misure non
frequenti dei valori della glicemia capillare, mettendo in dubbio la validità della
loro valutazione della glicemia cronica.
Abbiamo eseguito uno studio internazionale, multicentrico, per esaminare la relazione che intercorre tra i valori della glicemia media, valutata nella maniera più
completa possibile attraverso la combinazione del monitoraggio continuo della
glicemia e di test frequenti della glicemia
capillare con puntura del dito, e quelli
dell’A1C nel tempo.
DISEGNO DELLA RICERCA E
METODI
Da: the 1Diabetes Center, Massachusetts General Hospital and Harvard Medical School, Boston,
MA; the 2Department of Endocrinology/Diabetes Center, VU University Medical Center, Amsterdam, the Netherlands; 3Steno Hospital, Copenhagen, Denmark e the 4Department of Biostatistics, Massachusetts General Hospital, Boston, MA.
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
I soggetti dello studio sono stati arruolati in 11 centri in U.S.A., Europa,
Africa e Asia, sulla base del protocollo
concordato. I volontari con diabete di ti67
DIABETES CARE, AUGUST 2008
po 1, tipo 2 e non diabetici avevano tra
18 e 70 anni e si riteneva probabile che
riuscissero a completare il protocollo, che
comprendeva l’auto-monitoraggio con
puntura del dito e il monitoraggio continuo della glicemia. Per essere eleggibili i
soggetti non diabetici dovevano non avere storia familiare di diabete, valori della
glicemia plasmatica < 97 mg/dl (5.4
mmol/l) successivamente a digiuno notturno e valore dell’A1C < 6.5%. I soggetti
diabetici dovevano avere controllo stabile della glicemia, evidenziato da 2 valori
dell’A1C entro 1 punto percentuale di
oscillazione nei 6 mesi antecedenti all’arruolamento. Qualsiasi condizione che
potesse causare modificazioni maggiori
della glicemia, come patologie che richiedono l’uso di steroidi o la previsione di
gravidanza durante il periodo dello studio, era motivo di esclusione. Allo stesso
modo qualsiasi condizione o trattamento
che potevano interferire con le misure
dell’A1C eseguite con uno qualsiasi dei
metodi dello studio, come le emoglobinopatie (22), o con la correlazione tra valori dell’A1C e dell’AG, come l’anemia
(ematocrito < 39% negli uomini e < 36%
nelle donne), ricambio elevato degli eritrociti evidenziato da reticolocitosi, perdite ematiche e/o trasfusioni, patologia
renale o epatica cronica, o uso di vitamina C a dosaggio elevato o trattamento
con eritropoetina erano motivi d’esclusione. Lo studio è stato approvato dai comitati etici delle istituzioni partecipanti e
tutti i partecipanti hanno fornito il consenso informato scritto.
Misure della glicemia
Le misure della glicemia comprendevano il monitoraggio continuo della glicemia interstiziale (CGM) (CGMS; Medtronic Minimed, Northridge, CA), che
misura i valori della glicemia ogni 5 min.
ed era effettuato per almeno 2 giorni al
basale e successivamente ogni 4 settimane per 12 settimane. A scopo di calibratura e come misura indipendente della glicemia i soggetti hanno effettuato automonitoraggio in otto punti (prima dei
pasti, 90 min. dopo i pasti, prima di andare a dormire e alle 3:00 del mattino)
della glicemia capillare mediante glucometro HemoCue (Hemocue Glucose 201
Plus; Hemocue, Angelholm, Sweden)
durante i 2 giorni del CGM. Come terza
misura, indipendente, della glicemia ai
soggetti è stato chiesto di eseguire il monitoraggio in 7 punti della glicemia capillare con puntura del dito (come il profilo
in otto punti summenzionato, senza la
misura delle 3:00 del mattino) (One Touch Ultra; Lifescan, Milipitas, CA) per almeno 3 giorni alla settimana, non nei
momenti in cui eseguivano il CGM, per
tutta la durata dello studio. I risultati del
68
CGM e del monitoraggio con puntura
del dito sono stati scaricati dai loro rispettivi misuratori e inviati ai centri che
coordinavano i dati. Per essere accettabili
ai fini dell’analisi i dati del CGM dovevano includere almeno un profilo ben
riuscito delle 24 h su 2-3 giorni di monitoraggio, senza intervalli > 120 min. e
una differenza media assoluta, rispetto ai
risultati della calibratura Hemocue, <
18%, come raccomanda il produttore.
I campioni ematici per la misura dell’A1C sono stati raccolti al basale e ogni
mese per 3 mesi. Detti campioni sono
stati congelati a –80° C e inviati in ghiaccio secco al laboratorio centrale. I campioni sono stati analizzati mediante 4 diversi assay allineati al DCCT, che comprendevano cromatografia liquida ad alta prestazione (Tosoh G7; Tosoh Bioscience, Tokyo, Japan), 2 immunoassay (Roche
A1C e Roche Tina-quant; Roche Diagnostics) e un assay di affinità (Primus Ultra2; Primus Diagnostics, Kansas City, MO).
E’ stato usato il valore medio dell’A1C.
Gli assay di laboratorio sono stati approvati dal National Glycohemoglobin
Study Program (10) e hanno coefficienti
di variazione intra- e interassay < 2.5%
con valori bassi e alti. Gli assay era altamente correlati tra di loro, con valori R2
di 0.99, inclinazioni di ~1.0 e intercettazioni tra 0.01 e 0.18. I campioni che dimostravano “picchi d’invecchiamento”
alla cromatografia liquida ad alta prestazione ed evidenza di degradazione in attesa di e/o durante la spedizione non sono stati ritenuti accettabili per l’analisi.
Un centro in Asia non è stato in grado di
conservare i campioni in maniera accettabile e pertanto i campioni non hanno
potuto essere analizzati per A1C. Il centro è stato eliminato dallo studio.
Gestione del diabete
Il disegno dello studio era osservazionale. La gestione del diabete è stata
affidata ai pazienti e al personale sanitario che li aveva abitualmente in cura ed è
stata aggiustata sulla base dei risultati
dell’auto-monitoraggio con puntura del
dito. I risultati del CGM sono stati esaminati dallo staff dello studio quando venivano scaricati. I partecipanti di regola
erano all’oscuro dei risultati del CGM; ne
venivano informati se si osservavano frequenti e prolungati periodi d’ipoglicemia, non individuati in altro modo; in
questi casi il personale sanitario veniva
allertato in modo da potere aggiustare il
trattamento.
Analisi statistica
Abbiamo calcolato una media aritmetica della glicemia (AG) in ciascun soggetto, mediante combinazione della misura
CGM dei valori della glicemia interstizia-
le, corretta dal fattore 1.05 per essere equivalente ai valori della glicemia capillare
del nostro studio, con le misure Lifescan
con puntura del dito della glicemia capillare. Poiché i valori della glicemia sono
stati misurati con maggiore frequenza nei
giorni di CGM (n ~ 288 al giorno), rispetto
ai giorni del Lifescan (n~7), i risultati sono
stati ponderati in maniera che ciascuna
misura fosse proporzionale all’inverso del
totale delle misure effettuate nello stesso
giorno. Pertanto a ciascun giorno in cui si
misuravano i valori della glicemia è stato
conferito lo stesso peso. I soggetti che avevano meno di 7 giorni di CGM nel corso
dello studio sono stati esclusi dall’analisi.
Abbiamo applicato modelli di regressione
lineare e quadratica per la stima della relazione che intercorreva tra A1C e AG. Il
modello quadratico non ha fornito miglioramento significativo, rispetto al modello
della regressione lineare (P = 0.82). Un modello esponenziale è stato preso in considerazione ma non è stato usato, poiché l’esiguità dei dati nel range di A1C elevata
ha prodotto stime altamente variabili. Sono stati calcolati gli intervalli per rappresentare il range di predizione dell’AG per
i valori dell’A1C (23). Per la correzione per
la eteroschedasticità abbiamo adattato un
modello nel quale la varianza dell’AG è
una funzione incrementale dell’A1C. Ne
consegue che gli intervalli di predizione
del 90% dell’A1C per i dati AG si ottengono con
a + b x A1C ± tn-1.1-α/2
√
X 1+1
n
√β (A1C)
1
β/2
dove n = 507 e α = 0.1, che significa
√
tn-1.1-α/2 = 1.648 e 1+1 ≈ 1.
m
I dettagli matematici del metodo
Bayesiano sono forniti nell’appendice 1
on-line, disponibile al sito web
http://dx.doi.org/10.2337/dc08-0545.
Per ritenere accettabile i risultati
complessivi dello studio è stato deciso a
priori che ≥ 90% dell’AG calcolata dei
singoli pazienti doveva rientrare nel ±
15% dell’AG calcolata in tutto lo studio.
Abbiamo esaminato l’influenza di
fattori come età, sesso, razza (caucasica,
africana o afro-americana o ispanica) e la
storia di fumo sulla correlazione tra A1C
e AG con un modello di regressione multivariata. Abbiamo confrontato le inclinazioni e le intercettazioni delle equazioni
di regressione nei sottogruppi individuali e abbiamo calcolato l’SD dell’errore di
predizione di ciascuno. L’età è stata divisa per terzili, separatamente per il diabete di tipo 1 (< 40, 40-50, > 50 anni) e di tipo 2 (< 50, 50-60, > 60 anni).
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, AUGUST 2008
Tabella 1 – Caratteristiche basali
Coorte sottoposta a screening
Soggetti analizzati
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Tipo 1
Tipo 2 Non diabetici
Tutti
Tipo 1
Tipo 2 Non diabetici
Tutti
n
Età
Sesso (% femminile)
Razza/etnia
Bianchi non ispanici
Africana/Afro-americana
Ispanica
Altro
Status del fumo
A1C (%)
Trattamento
Pompa esterna
3 o più iniezioni
al giorno
Solo regime alimentare
Solo farmaci orali
Solo insulina
Insulina + farmaci orali
335
42 ± 13.1
171 (51)
236
54 ± 9.4
119 (50)
90
38 ± 13.1
60 (67)
661
46.1 ± 13.5
350 (53)
268
43 ± 13
140 (52)
159
56 ± 9
81 (51)
80
40 ± 14
55 (69)
507
46 ± 14
276 (54)
282 (84)
23 (7)
18 (5)
12 (4)
40 (12)
7.3 ± 1.1
145 (61)
59 (25)
23 (10)
6 (4)
29 (12)
6.7 ± 0.9
60 (67)
15 (17)
15 (17)
0
7 (8)
5.3 ± 0.3
487 (74)
97 (15)
56 (8)
21 (3)
46 (12)
6.8 ± 1.2
248 (93)
5 (2)
15 (6)
0
32 (12)
7.3 ± 1.1
118 (73)
21 (13)
12 (8)
8 (5)
14 (9)
6.8 ± 1.1
56 (71)
12 (15)
12 (15)
0
7 (9)
5.2 ± 0.3
422 (83)
38 (8)
39 (8)
8 (2)
53 (11)
6.8 ± 1.3
42%
58%
47%
53%
12%
54%
17%
17%
10%
52%
19%
19%
I dati sono medie ± SD o n (%) se non indicato diversamente.
RISULTATI
Tra aprile 2006 e agosto 2007, 661 pazienti erano arruolati in 10 centri clinici :
6 negli Stati Uniti, 3 in Europa e 1 in Cameron. 335 partecipanti avevano diabete
di tipo 1, 236 di tipo 2 e 90 non erano diabetici (tabella 1). I partecipanti venivano
distribuiti per A1C basale in 3 gruppi:
18% con A1C > 8.5%, 44% tra 6.6 e 8.5% e
38% tra 4 e 6.5%. Il gruppo con A1C più
bassa consisteva per il 63% di pazienti
diabetici e per il 37% di partecipanti non
diabetici.
Su 661 soggetti che completavano le
visite di screening, 154 (23%) non venivano inclusi nelle analisi finali per i seguenti motivi: 91 (15%) non completavano lo studio o erano esclusi prima della
fine dello studio per condizioni pre-definite, identificate durante lo screening o
sviluppate nel corso dello studio; 11 (2%)
non avevano CGM adeguato e 52 (8%)
non avevano campioni valutabili per
A1C per ragioni tecniche, come degradazione del campione per problemi di conservazione o spedizione.
507 soggetti completavano lo studio e
avevano monitoraggio della glicemia e
campioni A1C adeguati per l’inclusione
nell’analisi (tabella 1). I dati CGM e quelli del monitoraggio capillare Lifescan con
puntura del dito comprendevano ~2.500
e 230 misure per soggetto, rispettivamente, per complessivi 2.700 test della glicemia nell’arco di 3 mesi. Il numero medio
di giorni di CGM era di 13 e del monitoraggio capillare di 39; il 36% dei profili in
7 punti era completo, con un numero
medio di test di 5.1 al giorno. La correlazione tra CGM e misure Hemocue simultanee non usate nella calibratura del
CGM era eccellente, con il limite del 95%
dei CGMS medi complessivi meno Hemocue medio che andavano da–30.6 a
30.6 mg/dl (-1.7 a 1.7 mmol/l). Per misurare la correlazione in stato stazionario
tra AG e A1C lo studio è stato disegnato
in maniera tale da includere i soggetti
con glicemia relativamente stabile. I valori dell’A1C erano generalmente stabili,
e il 96% dei soggetti che nel corso dello
studio manteneva l’A1C entro 1 punto
percentuale, rispetto al valore basale.
Nella figura 1 è illustrata la correlazione tra valore dell’A1C alla fine dei 3
mesi di studio e l’AG calcolata nei 3 mesi
precedenti, espressa come semplice regressione lineare AGmg/dl = 28.7 X A1C –
46.7 (AGmmol/l = 1.59 X A1C – 2.59), R2 =
0.84, P < 0.0001. La correlazione ha SD di
errore di predizione di 15.7 mg/dl (0.87
mmol/l). Sulla base del modello descritto nella sezione dell’analisi statistica, i
valori stimati sono i seguenti: α = -41.4,
95% CI –48.8 a –35.5; β = 27.9, 26.7 – 29.0;
β1 = 4.81, 2.18-15.33; β2 = 2.03, 1.42-2.59.
Questo produce SD di errore stimato di
13.4, 15.7 e 18.0 mg/dl quando l’A1C è
del 6, 7 e 8%, rispettivamente. La linea di
regressione suggerita dal modello Bayesiano differisce < 2 mg/dl da una semplice linea di regressione lineare nel range di A1C del 4-10%, che comprende il
98.5% dei nostri campioni; gli intervalli
di predizione si allargano (P < 0.05) con
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
l’aumentare dei valori dell’A1C al 12%,
ma la differenza tra la regressione lineare
Bayesiana e quella semplice rimane <5
mg/dl. L’analisi di Bland-Altman, che
esamina la differenza tra glicemia stimata e osservata nel range dei valori della
glicemia, è illustrata nell’appendice 2 online. I limiti di predizione del 90% dell’AG, basati sul modello di SD variabile,
erano molto vicini ai limiti presenti di ±
15% della media predetta nel pieno range dell’A1C; l’89.95% dei campioni rientravano nel 15% dell’AG calcolata.
La traduzione dell’A1C in AG stimata (eAG), sulla base della regressione lineare, è illustrata nella tabella 2, per
unità convenzionali e SI e con limiti della
predizione del 95%. E’ importante notare
che l’equazione di regressione di A1C e
AG, che usa solamente i risultati del
CGM nel calcolo dell’AG, era: AGCGM =
28.0 X A1C – 36.9 (R2 = 0.82, P < 0.0001);
la regressione che usava solamente i profili in 7 punti con puntura del dito per il
calcolo dell’AG era: AG 7PUNTI = 29.1 X
A1C –50.7 (R2 = 0.82, P < 0.0001). La differenza nelle regressioni non era statisticamente significativa con inclinazione e
intercettazione combinate (P = 0.11).
La relazione che intercorreva tra A1C
e AG era la stessa, quando solamente i
soggetti diabetici erano inclusi (eAG della regressione lineare = 28.3 X A1C – 43.9
[R2 = 0.79, P < 0.0001). Un confronto tra
le equazioni di regressione nell’ambito di
sottogruppi specificati è illustrato nella
tabella 3. Non v’erano differenza significative in inclinazione o intercettazione
69
DIABETES CARE, AUGUST 2008
Figura 1 - Regressione lineare tra A1C alla fine del 3° mese e AG calcolata nei 3 mesi precedenti. AGmg/dl calcolata = 28.7 X A1C – 46.7 (AGmmol
= 1.59 X A1C –2.59) (R2 = 0.84, P < 0.0001).
nelle equazioni di regressione in nessuno
dei confronti tra sottogruppi e gli SD dell’errore di predizione erano tutti vicini al
valore di 15.7 mg/dl (0.87 mmol/l) in
tutta la coorte dello studio.
CONCLUSIONI
I risultati dello studio A1c-Derived
Average Glucose (ADAG) supportano il
concetto di una stretta correlazione tra
valori dell’A1C e AG nel diabete di tipo 1
e di tipo 2. Il dosaggio dell’A1C ha un
ruolo centrale nella gestione clinica del
Tabella 2 – Glicemia media stimata
mg/dl*
A1C (%)
5
97 (76-120)
6
126 (100-152)
7
154 (123-185)
8
183 (147-217)
9
212 (170-249)
10
240 (193-282)
11
269 (217-314)
12
298 (240-347)
mmol/l†
5.4 (4.2-6.7)
7.0 (5.5-8.5)
8.6 (6.8-10.3)
10.2 (8.1-12.1)
11.8 (9.4-13.9)
13.4 (10.7-15.7)
14.9 (12.0-17.5)
16.5 (13.3-19.3)
I dati in parentesi sono 95% CI. *eAG
(mg/dl) con regressione lineare = 28.7 X
A1C – 46.7. †eAG (mmol/l) con regressione lineare = 1.59 X A1C – 2.59.
70
diabete. Obiettivi di trattamento disegnati per ridurre lo sviluppo di complicanze
a lungo termine sono stati adottati sulla
scia del DCCT (4) e i metodi per il dosaggio dell’A1C sono stati standardizzati
sulla base dei valori del DCCT in gran
parte del mondo (10). Lo sviluppo di un
metodo nuovo di calibratura dell’assay,
che lo rende più stabile e specifico, dovrebbe migliorare ulteriormente la comparabilità degli assay in tutto il mondo
(11,12). Poiché questo metodo misura un
analita ben definito di una sola specie
molecolare di emoglobina glicata, i valori
di riferimento sono più bassi rispetto ai
precedenti assay allineati al DCCT. Onde
evitare confusione e potenziale deterioramento del controllo della glicemia, in
conseguenza del riferimento a valori più
bassi dell’A1C (24), il nostro studio ha
voluto determinare la relazione che intercorre tra A1C e AG. Lo scopo ultimo è
stato quello di determinare se il valore di
A1C della glicemia cronica poteva essere
riportato nelle stesse unità usate nel monitoraggio quotidiano (12,25).
Studi precedenti sulla correlazione
tra A1C e glicemia media sono stati generalmente ostacolati da misure limitate
dei valori glicemici, che hanno fatto dubitare dell’affidabilità delle stime dell’AG. Il CGM fornisce la possibilità di
misurare tutti i valori della glicemia. Uno
studio recente che includeva 3 mesi di
CGM otteneva una correlazione tra A1C
e AG molto simile a quella presentata nel
nostro studio e forniva pertanto una validazione esterna, ma era condotto solamente su 25 soggetti, la maggior parte
dei quali affetti da diabete di tipo 1 (21).
Il nostro studio fornisce una valutazione
relativamente completa della glicemia
quotidiana e stabilisce una forte correlazione tra valori di A1C e AG, che giustifica una diretta traduzione da A1C misurata a un valore di più facile comprensione, espresso nelle stesse unità del monitoraggio con puntura del dito. E’ importante notare che l’equazione di regressione di questo studio fornisce valori più
bassi di eAG, rispetto all’equazione di
ampio uso derivata dal DCCT e la dispersione attorno alla linea di regressione è meno ampia (18). La spiegazione
più ovvia della differenza tra AG calcolata in base al DCCT e quella calcolata nel
nostro studio è data dalla differenza nella frequenza delle misure della glicemia
usata per calcolare l’AG (un solo profilo
in 7 punti senza misura notturna nell’arco di 3 mesi nel DCCT, rispetto a numerosi CGM e misure di profili in 7 punti,
che includevano una media di 52 giorni
nell’ADAG), che fornisce una misura più
completa e rappresentativa della glicemia media nell’ADAG.
I nostri risultati supportano con forza
una semplice correlazione lineare tra va-
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, AUGUST 2008
Tabella 3 – Confronto delle equazioni di regressione tra A1C e AG per sottogruppi
Confronto
Sesso
Tipo di diabete
Età, diabete di tipo 1
Età, diabete di tipo 2
Etnia
Fumo
Uomini vs. donne
Tipo 1 vs. tipo 2
1° terzile vs. 2°
1° terzile vs. 3°
2° terzile vs. 3°
1° terzile vs. 2°
1° terzile vs. 3°
2° terzile vs. 3°
Caucasica vs. africana/afro-americana
Caucasica vs. ispanica
Ispanica vs. africana/afro-americana
Mai vs. attualmente
Differenza
d’inclinazione
Differenza
d’intercettazione
P*
0.17 ± 1.14
–1.46 ± 1.61
–1.03 ± 2.27
1.53 ± 2.37
0.50 ± 2.47
–7.40 ± 3.67
–1.57 ± 3.36
5.83 ± 3.07
3.87 ± 1.85
–1.80 ± 3.12
–2.06 ± 3.49
2.62 ± 1.48
0.57 ± 7.94
9.35 ± 11.21
–5.61 ± 16.56
–6.99 ± 17.59
–1.38 ± 18.29
52.0 ± 24.43
11.59 ± 22.31
–40.41 ± 21.45
23.35 ± 12.48
5.89 ± 20.51
17.46 ± 22.94
–16.76 ± 10.93
0.91
0.41
0.71
0.18
0.69
0.08
0.84
0.17
0.07
0.81
0.43
0.14
I dati sono medie ± SE. *test χ2 con 2 d.f. che confrontano simultaneamente inclinazione e intercettazione.
lori medi della glicemia e dell’A1C in un
range clinicamente rilevante della glicemia. I nostri dati soddisfacevano il criterio a priori della qualità; cioè il 90% delle
stime ricadeva nel range di ± 15% della
linea di regressione. Questo criterio è stato ritenuto realistico, tenendo conto dell’imprecisione dell’assay dell’A1C, del
CGM e dei test di auto-monitoraggio
della glicemia.
La nostra ampia popolazione ci ha
permesso di dimostrare che la correlazione tra A1C e AG era consistente in tutti i
sottogruppi pre-specificati. La correlazione rigorosa e consistente in tutti i sottogruppi indica che in molti pazienti diabetici, se non nella maggior parte di loro,
non vi sono fattori importanti che influiscono sulla correlazione tra valori medi
della glicemia e A1C. V’era un’indicazione (P = 0.07) che la linea di regressione
era differente negli afro-americani, in misura tale che a un dato valore dell’a1C gli
afro-americani potevano avere un valore
medio lievemente inferiore della glicemia. Questo risultato borderline richiede
ulteriore indagine, per assicurarsi che
non intercorre alcuna relazione tra etnia
e la correlazione tra glicemia media e
A1C. V’era anche l’idea che l’età potesse
influire sulla correlazione tra AG e A1C;
tuttavia l’effetto non era monotonico. Le
linee di regressione in ciascun gruppo
d’età s’intersecavano per A1C del 7%,
con il primo e il terzo terzili simili e il
terzile di mezzo diverso. Sospettiamo
che si tratti di un dato spurio. Vi sono altri fattori clinici conclamati, come anemia
e alterato ricambio degli eritrociti, che
possono influire sui risultati dell’A1C
misurata con tutte le metodiche, ed emoglobinopatie, che interferiscono con la
misura dell’A1C eseguita con metodiche
specifiche (22). I soggetti che potevano
essere affetti da queste condizioni sono
stati esclusi dallo studio.
Lo studio ADAG ha qualche limite.
Contrariamente alle nostre intenzioni ed
aspettative alcuni gruppi etnici/razziali
non erano rappresentati in misura adeguata, soprattutto a causa dell’esclusione
di uno dei centri, che comprendeva una
popolazione asiatica molto ampia e del
numero limitato di soggetti di discendenza africana. Inoltre la stima della glicemia media si basava prevalentemente
su 2 metodiche: CGM e auto-monitoraggio intermittente della glicemia capillare.
(Le misure Hemocue, che sono ritenute
idonee a fornire valori equivalenti alle
misure di laboratorio, sono state usate
principalmente per calibrare il CGM
[26]). Per combinare queste misure in un
unico calcolo dell’AG il CGM e le misure
capillari con puntura del dito hanno dovuto essere ponderati, per tenere conto
del numero diverso di misure in un giorno; tuttavia in analisi separate, che confrontavano le correlazioni tra A1C e AG
misurata con CGM o misure capillari con
puntura del dito, non risultava alcuna
differenza specifica nelle correlazioni. Infine, poiché solamente i pazienti diabetici con controllo stabile e senza alcuna indicazione di patologie degli eritrociti sono stati inclusi nello studio, i risultati
correnti sono direttamente applicabili solamente a questa popolazione. Sono stati
esclusi anche i bambini e le donne in gravidanza; in questi gruppi sono necessari
dati aggiuntivi per confermare la correlazione stabilita. E’ importante notare che
uno studio pubblicato di recente ha confrontato la glicemia media calcolata di 47
bambini con diabete di tipo 1, d’età compresa tra 4 e 18 anni, che avevano almeno 1 CGM di 24 h in 6 su 13 settimane
con l’A1C alla fine delle 13 settimane
(27). Sebbene anche questi autori abbiano
concluso che “l’A1C riflette direttamente
la glicemia media nel tempo”, essi hanno
osservato una variazione tra individui
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
sostanzialmente maggiore nella correlazione tra AG e A1C, rispetto a quella del
nostro studio. Le fonti potenziali di questa variabilità possono essere identificate
confrontando lo studio DirectNet, condotto su bambini (27) con lo studio
ADAG e con quello recente su adulti
(21), che erano selezionati per controllo
stabile della glicemia ed eseguivano
CGM per il 97% delle 12 settimane dello
studio. Lo studio DirectNet ha impiegato
un metodo non centralizzato dell’A1C,
con correlazione relativamente modesta
con il metodo della cromatografia liquida ad alta prestazione. Inoltre i bambini
avevano glicemie altamente variabili ed
eseguivano il CGM solamente per il 67%
del periodo dello studio; questa circostanza può avere impedito la misura accurata della glicemia media.
I risultati correnti permettono di riportare la misura dell’A1C come eAG.
L’interpretazione dell’A1C, analoga all’interpretazione della creatinina serica
quando è riportata come tasso calcolato
della filtrazione glomerulare, dovrebbe
fornire al personale sanitario un indice
più utile di glicemia cronica. Linee guida
di consenso recentemente pubblicate
hanno avallato la scelta di riportare i valori dell’A1C insieme al valore calcolato
dell’eAG, indicando quindi che i risultati
dell’ADAG sono accettabili (25).
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DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, AUGUST 2008
La combinazione di sulfoniluree e
metformina è associata ad aumento del
rischio di patologia cardiovascolare o di
mortalità per qualsiasi causa?
Una meta-analisi di studi osservazionali
AJAY D. RAO, MD1
NITESH KUHADIYA, MBBS2
KRISTI REYNOLDS, PHD, MPH2,3
VIVIAN A. FONSECA, MD1
OBIETTIVO – Gli studi osservazionali che valutavano l’associazione tra
trattamento combinato con metformina e sulfoniluree e mortalità per qualsiasi causa
e/o mortalità cardiovascolare nel diabete di tipo 2 hanno evidenziato risultati
conflittuali. Abbiamo pertanto valutato gli effetti del trattamento combinato con
sulfoniluree e metformina sul rischio di mortalità per qualsiasi causa e patologia
cardiovascolare (CVD) in soggetti con diabete di tipo 2.
DISEGNO DELLA RICERCA E METODI – È stata condotta una ricerca in
MEDLINE (gennaio 1966- luglio 2007) per identificare gli studi osservazionali che
esaminavano l’associazione tra trattamento combinato con sulfoniluree e metformina
e il rischio di CVD o mortalità per qualsiasi causa. Su 299 articoli rilevanti 9 sono stati
inclusi nella meta-analisi. In questi studi è stato valutato il trattamento combinato con
sulfonilurea e metformina e sono stati riportati il rischio di CVD e/o mortalità e il
rischio relativo, aggiustato (RR) o equivalente (hazard proporzionale o odds
proporzionali) e varianza corrispondente o equivalente.
RISULTATI –Gli RR riuniti (95% CI) degli esiti nei soggetti con diabete di tipo 2 cui
era prescritto trattamento combinato con sulfoniluree e metformina erano di 1.19
(0.88-1.62) nella mortalità per qualsiasi causa, 1.29 (0.73-2.27) nella mortalità per CVD
e 1.43 (1.10-1.85) nell’end point composito di ospedalizzazioni per CVD o mortalità
(eventi fatali e non fatali).
CONCLUSIONI – Il trattamento combinato con metformina e sulfoniluree
aumentava in maniera significativa gli RR dell’end point composito di
ospedalizzazioni cardiovascolari o mortalità (eventi fatali e non), indipendentemente
dal gruppo di riferimento (trattamento con regime alimentare, monoterapia con
metformina o monoterapia con sulfonilurea); tuttavia non v’erano effetti significativi
di questo trattamento combinato sulla mortalità per CVD o per qualsiasi causa,
considerate separatamente.
Diabetes Care 31: 1672-1678, 2008
l diabete di tipo 2 è associato ad aumento del rischio di mortalità per qualsiasi
causa e patologia cardiovascolare
(CVD). Tuttavia a tutt’oggi i trial clinici
non hanno dimostrato che il raggiungimento di valori normali della glicemia
I
può ridurre il rischio di eventi cardiovascolari.
Nel UK Prospective Diabetes Study
(UKPDS) si otteneva una riduzione della
glicemia con il trattamento con metformina nei pazienti sovrappeso che seguivano
Da: the 1Department of Medicine, Tulane University School of Medicine, New Orleans, Louisiana; the 2Department of Epidemiology, Tulane University School of Public Health and Tropical
Medicine, New Orleans, Louisiana e the 3Southern California Kaiser Permanente Medical Group,
Pasadena, California.
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
un regime alimentare, e conseguente riduzione del rischio d’infarto del miocardio e
di mortalità per qualsiasi causa. Tuttavia
quando nello stesso trial veniva prescritta
una combinazione di metformina e sulfonilurea per il controllo della glicemia, si
registrava un aumento significativo del rischio di morte correlata al diabete e di
mortalità per qualsiasi causa e non un effetto positivo, un dato attribuito dai ricercatori al caso (1). Nel UKPDS le sulfoniluree non erano associate al rischio di morte
correlata al diabete o di infarto del miocardio (2), ma in studi precedenti come
l’University Group Diabetes Program
(UGDP) si era osservato un aumento del
rischio (3) e un avvertenza sull’aumento
del rischio di CVD è inserito nelle indicazioni approvate dalla Food and Drug Administration per questa classe di farmaci.
Una recente rassegna sistematica di
studi clinici sui trattamenti del diabete ha
notato che nella maggior parte dei trial
non erano disponibili i dati sugli esiti a
lungo termine (4). Studi osservazionali
d’indagine sull’associazione tra trattamento combinato con metformina e sulfoniluree e rischio di CVD e mortalità hanno riportato risultati conflittuali. Alcuni
studi hanno riportato che l’impiego del
trattamento combinato aumenta il rischio
di mortalità per qualsiasi causa e per
CVD (5), mentre altri non hanno osservato alcuna associazione (6,7) o hanno riportato riduzione del rischio (8). Poiché con
ogni probabilità questi sono i farmaci
maggiormente prescritti nel diabete di tipo 2, il possibile aumento di rischio di
mortalità per qualsiasi causa e di eventi
cardiovascolare crea preoccupazione.
In considerazione di queste discordanze in letteratura e della mancanza di
trial clinici che valutino gli effetti a lungo
termine del trattamento combinato con
sulfoniluree e metformina, abbiamo condotto una meta-analisi di studi osservazionali per esaminare l’associazione tra
trattamento combinato con sulfoniluree e
metformina e rischio di CVD e mortalità
per qualsiasi causa.
73
DIABETES CARE, AUGUST 2008
DISEGNO DELLA RICERCA E
METODI
talità per qualsiasi causa e mortalità/morbilità cardiovascolare.
È stata condotta una ricerca bibliografica nel database di MEDLINE (da gennaio 1966 a tutto luglio 2007) con l’utilizzo
delle intestazioni cliniche “diabete mellito, di tipo 2”; “trattamento farmacologico,
combinazione”; “combinazioni di farmaci”; “composti di sulfoniluree”; “acetoesamide”; “clorpropamide”; “tolbutamide”;
“tolazamide”; “gliburide”; “glipizide”;
“biguanidi” e “metformina” e della parola chiave “glimepiride”. La ricerca è stata
ristretta agli studi condotti sull’uomo,
identificati anche attraverso una ricerca
nei riferimenti citati negli studi originali e
negli articoli rilevanti pubblicati in riviste.
I contenuti di 299 abistract o manoscritti completi, identificati nel corso della
ricerca bibliografica sono stati passati in
rassegna, separatamente e in duplicato,
da 2 ricercatori, per determinare se incontravano i criteri d’inclusione. Quando i 2
ricercatori non erano d’accordo su inclusione o esclusione un terzo ricercatore
conduceva ulteriori valutazioni dello studio e i disaccordi venivano risolti con la
discussione. Nella selezione degli studi
sono stati adottati i seguenti criteri d’inclusione: 1) studi osservazionali che indagavano la relazione che intercorre tra trattamento combinato con metformina (biguanidi) più sulfoniluree e rischio di CVD
e/o mortalità, 2) rischio relativo aggiustato (RR) o equivalente (cioè hazard proporzionale, odds proporzionali) e varianza
corrispondente o equivalente riportata e
3) diagnosi di diabete di tipo 2 sulla base
dei criteri standard al tempo dello studio.
Tutti i dati sono stati estratti indipendentemente e in duplicato. Le differenze
nell’estrazione dei dati sono state risolte
di comune accordo, e facendo riferimento
alla pubblicazione originale. Non è stato
contattato alcun autore con richieste di ulteriori informazioni. È stato usato un modulo standardizzato di estrazione, sul
quale sono state registrate le seguenti
informazioni: titolo dello studio, nome
del primo autore, anno di pubblicazione,
paese dello studio, anni dello studio, denominazione della coorte, disegno dello
studio (studio prospettico o retrospettivo
di coorte o studio caso-controllo), durata
del follow-up, caratteristiche della popolazione dello studio (dimensione del campione, distribuzione di età, razza e sesso,
durata media del diabete, A1C media), tipo di gruppo di riferimento e fattori
confondenti. Sono stati estratti gli RR di
mortalità/morbilità cardiovascolare e/o
mortalità per qualsiasi causa o per causa
specifica, associati al trattamento combinato e i loro CI ed SE corrispondenti. È
stato estratto il numero di eventi di mor-
Analisi Statistica
Gli RR sono stati usati come misura
dell’associazione tra trattamento combinato con metformina e sulfonilurea e
mortalità per CVD e per qualsiasi causa.
Gli RR di ciascuno studio sono stati ponderati con l’inverso della loro varianza.
Per stabilizzare le varianze e normalizzare
le distribuzioni gli RR e i corrispondenti
SE di ciascuno studio sono stati trasformati nei loro logaritmi naturali. Quando è
stato necessario gli SE sono stati derivati
dai CI forniti in ciascuno studio originale.
Nella coorte del trattamento combinato non erano disponibili i dati principali
delle analisi del tempo trascorso prima
dell’evento. Pertanto, nell’analisi complessiva, le stime degli RR e i 95% CI della
mortalità per qualsiasi causa e della CVD
associata al trattamento combinato sono
state riunite, senza tenere conto del gruppo di riferimento usato. Le analisi dei sottogruppi sono state condotte per gruppo
di riferimento (regime alimentare, sulfonilurea in monoterapia o metformina in
monoterapia).
I modelli degli effetti fissi e di quelli a
random di DerSimonian e Laird sono stati
usati nel calcolo degli RR riuniti di CVD e
mortalità per qualsiasi causa associate al
trattamento combinato (9). Sebbene tutti e
due i modelli fornissero dati simili, qui
sono presentati i risultati del modello degli effetti a random, a causa della significativa eterogeneità degli studi.
La CVD era definita in ciascun singolo
studio. Negli esiti del nostro studio abbiamo usato la mortalità cardiovascolare e
per qualsiasi causa, così come un end
point composito di ospedalizzazione o
mortalità per CVD (il primo evento cardiovascolare, fatale o non fatale). Il nostro
studio ha riportato separatamente gli RR
per coronaropatia e per stroke (10). Abbiamo dapprima ponderato tutti e due gli
RR per l’inverso della loro varianza e poi
li abbiamo riuniti, con l’impiego di un
modello a effetti fissi, per ottenere una stima complessiva per lo studio.
Per esaminare l’associazione tra stime
dell’effetto e le loro varianze è stato usato
il test di Begg della correlazione rank e
per individuare gli errori di pubblicazione
è stato usato il test di regressione lineare
di Egger, che regredisce le statistiche Z al
reciproco di SE in ciascuno studio (11,12).
Inoltre, uno alla volta ciascuno studio è
stato omesso, per valutare l’influenza di
quello studio sulla stima riunita. Tutte le
analisi sono state effettuate mediante
STATA, versione 8.2 (STATA, College Station, TX).
74
RISULTATI
La figura A1 dell’appendice on-line
(disponibile
nel
sito
web
http://dx.dpi.org/102337/dc08-0167) illustra gli studi inclusi nella meta-analisi.
Sui 25 studi che incontravano i criteri
d’inclusione 16 venivano esclusi dalla
meta-analisi. 11 studi non riportavano
CVD o mortalità come esito, 3 erano duplicati e 2 comprendevano combinazioni
multiple di farmaci. 2 studi esaminavano
l’associazione tra trattamento combinato
con metformina e sulfonilurea in gruppi
differenti di soggetti, tenendo conto di
quale farmaco era somministrato per primo e questi gruppi venivano trattati come studi separati nella meta-analisi.
Le caratteristiche dei partecipanti dello studio e il disegno dei 9 studi osservazionali inclusi nella meta-analisi sono illustrati nella tabella 1 (5-8,10,13-16). 6 erano
studi retrospettici di coorte, 2 erano prospettici di coorte e 1 era caso-controllo.
Sui 9 studi, 1 era condotto negli Stati Uniti, 2 in Canada, 1 a Israele e 5 in paesi europei. Il numero di partecipanti andava
da 910 nello studio di Olsson e al. (10) a
39.721 in quello di Kahler e al. (7). L’età
media andava da 58.9 a 71.3 anni. Il tempo medio di follow-up andava da 2.1 a 7.7
anni. Sui 9 studi, 7 riportavano mortalità
per qualsiasi causa, 4 mortalità cardiovascolare e 3 ospedalizzazioni cardiovascolari. Sui 101.733 partecipanti inclusi in
questi studi 25.091 erano trattati con combinazione di metformina e sulfonilurea.
Bruno e al. (13) e Koro e al. (16) non specificavano il numero di partecipanti sottoposti a trattamento combinato.
La figura 1 illustra i risultati dei modelli con effetti a random che riunivano
gli RR aggiustati per mortalità per qualsiasi causa, mortalità per CVD e ospedalizzazioni o mortalità per CVD, rispettivamente, associati a trattamento combinato
con metformina e sulfonilurea ed evidenzia anche il numero di eventi associati al
trattamento combinato, rispetto al gruppo
di controllo, nella mortalità per qualsiasi
causa, mortalità per CVD e ospedalizzazioni o mortalità per CVD. Le stime riunite degli RR non erano statisticamente significative relativamente alla mortalità
per qualsiasi causa o per CVD, mentre
l’uso del trattamento combinato era significativamente associato ad aumento del rischio di ospedalizzazioni o mortalità cardiovascolari.
Nelle analisi della sensibilità era presente eterogeneità significativa negli studi
che riportavano mortalità per qualsiasi
causa (P < 0.001). Tuttavia l’esclusione di
uno studio qualsiasi non modificava la
stima riunita. Negli studi che riportavano
mortalità per CVD era presente eterogeneità significativa (P < 0.001) e l’esclusio-
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, AUGUST 2008
Paese,
periodo
dello studio
Dimensione
del campione
Età
(anni)
Durata del
diabete
(anni)
A1C
(%)
Uomini
(%)
Variabili
controllate per
7.7*
6.1. registro svedese della
mortalità*
7, archivi demografici locali,
certificati di morte
Durata del follow-up
(anni) e modalità
del follow-up
Sulfonilurea +
metformina vs. regime
alimentare
Sulfonilurea +
metformina
vs. sulfonilurea in
monoterapia
Sulfonilurea + biguanidi
vs. regime alimentare
Trattamento combinato
vs. gruppo di controllo
Stroke, IHD e
mortalità per qualsiasi
causa; IHD; ICD-8
(410-414); Stroke: ICD-8
(430-438)
Mortalità per qualsiasi
causa
Stroke, IHD, CVD
e mortalità per
qualsiasi causa; IHD;
ICD-9 (410-414);
Stroke;
ICD-9 (430-438)
Esito e criteri
diagnostici
Metformina + sulfonilurea
vs. sulfonilurea in monoterapia
Mortalità per qualsiasi
casua
Ospedalizzazione per
CVD e CVD e mortalità
per qualsiasi causa;
CVD,ICD-9 e ICD-10
Ospedalizzazione per
CVD e mortalità per
CVD, ICD-9
CHF incidente
(mortalità o
ospedalizzazione)
definita come codice
del Oxford Medical
Information
System o codice medico
CVD e mortalità per
qualsiasi causa; CVD:
ICD-9 (390-459)
Mortalità per qualsiasi
causa
5.1, statistiche vitali computerizzate del servizio sanitario di Saskatchewan*
2.1, database della ricerca
della medicina di base†
9, statistiche vitali com
puterizzate del servizio
sanitario di Saskatchewan*
3.4, database della medicina
di base*
8, certificati di morte del
Registro Generale‡
3, database della mortalità della Veterans
Health Administration‡
di Read
A. Prima sulfonilurea,
aggiunta di metformina
vs. metformina in monoterapia. B. Prima metformina, aggiunta di sulfonilurea vs. metformina in
monoterapia. C. Sulfonilurea + meteformina vs.
metformina in monoterapia
Sulfonilurea + metformina
vs. sulfonilurea in
monoterapia
A. Prima sulfonilurea,
aggiunta di metformina
vs. sulfonilurea in monoterapia. B. Prima metformina,
aggiunta di sulfonilurea vs.
metformina in monoterapia
Sulfonilurea+metformina
vs. sulfonilurea in
monoterapia
Sulfonilurea + metformina
vs. sulfonilurea in
monoterapia
Tabella 1 – Caratteristiche degli studi osservazionali su trattamento combinato con metformina e sulfoniluree e rischio di CVD e di morte
Autore,
anno della
pubblicazione (rif.)
Età, sesso,
FBG, fumo
BMI, ipertensione,
durata del diabete,
periodo dell’anno,
medico curante
42.6
–
–
7.5
8.5
–
58.9
–
1,967
910
Italia, 1988-1995
Svezia, 1984-1996
Età, sesso, FBG, durata
del diabete, area di studio,
anno d’inclusione
Bruno, 1999 (13
Olsson, 2000 (10)
74.5
55.9
–
–
–
–
60.1
64.1
2,275
8,866
Israele
Canada, 1991-1996
52.6
Fisman, 2001 (14)
Johnson, 2002 (8)
–
56.0
–
–
64.2
–
11,587
65.6
Regno Unito, 1992-1998
4,142
Gulliford, 2004 (6)
Canada, 1991-1999
Età, sesso, fumo, durata
del diabete, pressione
arteriosa, colesterolo,
ospedalizzazione pregressa, trattamento
con farmaci cardiovascolari
Età, sesso, uso di nitrati,
punteggio di patologia
cronica
Età, sesso, ipertensione,
durata del diabete,CHF,
angina, MI, IHD, PVD,
retinopatia, nefropatia,
neuropatia, ulcere del
piede e cancrena, ESRD
patologia valvolare
Età, sesso, FBG, fumo,
BMI, ipertensione, uso
di betabloccanti e farmaci
antipiastrinici, PVD, CVA
pregressa, sindrome
anginale, CHF
Età, sesso, uso di nitrati,
punteggio modificato di
di patologia cronica
Età, sesso, anno del
trattamento, CHD, farmaci cardiovascolari
Johnson, 2005 (15)
52.3
98
54.1
–
7.4
–
–
–
3.9
71.3
66.9
63.6
9,089
39,721
5,730
Regno Unito, 1987-2001
U.S.A., 1998-2001
Scozia, 1994-2001
Koro, 2005 (16)
Evans, 2006 (5)
Kahler, 2007 (7)
Età, durata del diabete, punteggio di propensione di
A1C, creatinina, visite
mediche correlate al diabete,
uso di farmaci ipolipemizzanti e antiipertensivi
CAD = coronaropatia; CHF = scompenso cardiaco congestizio; CVA = incidente cerebrovascolare; ESRD = patologia renale terminale; FBG = glicemia a digiuno; IHD = cardiopatia ischemica; MI = infarto del miocardio; PVD =
vascolopatia periferica. *Durata media del follow-up. †Durata mediana del follow-up. ‡Durata massima del follow-up.
75
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, AUGUST 2008
Rischio Relativo (95% CI)
N° di Eventi/Totale
Trattamento combinato
Gruppo di controllo
Non specificato Non specificato
Non specificato Non specificato
Complessivamente
Rischio Relativo (95% CI)
N° di Eventi/Totale
Trattamento combinato
Gruppo di controllo
Non specificato Non specificato
Non specificato Non specificato
Complessivamente
Rischio Relativo (95% CI)
N° di Eventi/Totale
Trattamento combinato
Gruppo di controllo
Non specificato Non specificato
Non specificato Non specificato
Non specificato Non specificato
Complessivamente
Figura 1 – Stime degli RR e 95% CI per mortalità per qualsiasi causa (A), mortalità per CVD (B) ed end point composito di ospedalizzazione
per CVD o mortalità per CVD (C), associati al trattamento combinato con metformina e sulfonilurea per singolo studio e riuniti, insieme alle
proporzioni di eventi relativamente a ciascun esito.
ne dello studio di Johnson e al. (15) comportava un aumento significativo del rischio di mortalità per CVD, associato al
trattamento combinato con metformina e
76
sulfoniluree (RR 1.63 [95% CI 1.11-2.39]).
Era anche presente eterogeneità significativa negli studi che riportavano ospedalizzazioni cardiovascolari o mortalità (P =
0.001), e l’esclusione di uno studio qualsiasi non alterava la stima riunita. Non
v’era alcuna evidenza di errori di pubblicazione per test di correlazione rank o di
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
DIABETES CARE, AUGUST 2008
Tabella 2 – RR riuniti (95% CI) di mortalità per qualsiasi causa, mortalità per CVD ed end point composito di ospedalizzazioni o
mortalità per CVD, in conformità con i diversi criteri d’esclusione
Ospedalizzazioni per CVD
Mortalità per qualsiasi causa
Mortalità per CVD
o mortalità per CVD
––––––––––––––––––––––––––––––– ––––––––––––––––––––––– ––––––––––––––––––––––––––––––
N° di studi
RR (95% CI)
N° di studi
RR (95% CI) N° degli studi RR (95% CI)
Tutti gli studi
Studi che controllavano
importanti fattori confondenti*
Studi che controllavano
importanti fattori confondenti†
10
6
1.19 (0.88-1.62)
1.36 (0.93-2.04)
6
5
1.29 (0.73-2.27)
1.63 (1.11-2.39)
7
6
1.43 (1.10-1.85)
1.55 (1.28-1.87)
4
1.34 (0.73-2.47)
3
1.72 (0.93-3.20)
4
1.50 (1.25-1.78)
*Gli studi che non controllavano per la durata del diabete sono stati esclusi. Relativamente alla mortalità per qualsiasi causa, esclusione degli studi di Gulliford (12), Johnson (14) e Fisman (21). Relativamente alla mortalità per CVD e all’end point composito di
ospedalizzazioni o mortalità per CVD, esclusione dello studio di Johnson (23). †Gli studi che non controllavano la durata del diabete o CVD pregressa sono stati esclusi. Relativamente a mortalità per qualsiasi causa, esclusione degli studi di Gulliford (12),
Johnson (14), Olsson (16), Bruno (20) e Fisman (21). Relativamente alla mortalità per CVD e all’end point composito di ospedalizzazioni o mortalità per CVD, esclusione degli studi di Olsson (16), Johnson (23) e Bruno (20).
regressione (P > 0.10 in tutti). Nello studio
di Evans e al. (5) i partecipanti nel gruppo
di riferimento erano impiegati più di una
volta nel calcolo della stima riunita. Le
analisi venivano ripetute, omettendo varie combinazioni di questo studio, e non
si osservava alcuna modificazione sostanziale nei risultati. Inoltre conducevamo
un’analisi della sensibilità, nella quale gli
studi che non effettuavano aggiustamenti
per durate del diabete o CVD pregressa
erano esclusi (6,8,13,14,17). Queste informazioni sono incluse nella tabella 2.
Analisi dei sottogruppi
Le stime degli RR per la mortalità per
qualsiasi causa e per CVD e per le ospedalizzazioni o mortalità per CVD associate al trattamento combinato con metformina e sulfonilurea nei sottogruppi definiti in conformità con il trattamento comparatore, sono illustrate nella tabella A1
dell’appendice on-line. Gli RR stimati erano > 1.0 in tutti i sottogruppi, tranne che
nell’associazione tra mortalità per qualsiasi causa e trattamento combinato, rispetto alla sulfonilurea.
Rispetto al trattamento con regime alimentare, quello combinato aumentava in
maniera significativa gli RR di mortalità
per qualsiasi causa e il trattamento combinato, rispetto alla metformina in monoterapia, aumentava significativamente gli
RR di ospedalizzazioni o mortalità per
CVD.
CONCLUSIONI
In questa meta-analisi il trattamento
combinato con metformina e sulfonilurea
aumentava significativamente l’RR di
ospedalizzazione o mortalità cardiovascolare (eventi fatali e non fatali), indipendentemente dal gruppo di riferimento (regime alimentare, metformina in monote-
rapia o sulfonilurea in monoterapia) usato. Tuttavia non v’erano effetti statisticamente significativi del trattamento combinato con sulfonilurea e metformina sulla
mortalità per CVD o per qualsiasi causa.
Questi risultati possono contribuire a
chiarire i dati conflittuali di numerosi,
ampi studi osservazionali, che hanno esaminato l’effetto del trattamento combinato con metformina e sulfonilurea sul rischio di eventi di CVD nei pazienti con
diabete di tipo 2, mentre l’associazione di
questa combinazione con mortalità per
qualsiasi causa e cardiovascolare rimane
oscura.
A causa della natura progressiva del
diabete di tipo 2 molti pazienti sono trattati con combinazioni di farmaci ipoglicemizzanti orali, per raggiungere gli obiettivi della glicemia. Ad esempio, nell’algoritmo più raccomandato la combinazione
di sulfonilurea e metformina è il secondo
passo nella gestione dei pazienti con diabete di tipo 2 (18). È probabile che i pazienti sottoposti a trattamento combinato
abbiano una forma della patologia che
progredisce con maggiore rapidità o abbiano il diabete da più tempo, o entrambi.
Nel UKPDS la riduzione della glicemia
nei pazienti con diabete di tipo 2, obesi e
ad alto rischio, trattati con metformina in
monoterapia era associata a riduzione degli eventi cardiovascolare avversi (2). Tuttavia, quando è stata prescritta la combinazione di metformina e sulfonilurea, si è
osservato un aumento del rischio, contrariamente a quanto si notava in alcuni studi osservazionali. Questa discrepanza può
essere dovuta a differenze nelle popolazioni di questi studi.
Può essere importante non solo ridurre la glicemia, ma anche prendere in considerazione la scelta del farmaco usato
per ottenere questa riduzione. Una metaanalisi recente ha dato luogo a discussioni
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 32 - DICEMBRE 2008
su alcuni nuovi farmaci impiegati nella riduzione della glicemia, perché ha indicato
che il rosiglitazone può essere associato
ad aumento del rischio d’infarto del miocardio e possibilmente di morte (19). È
importante sottolineare che gran parte di
questo aumento di rischio con rosiglitazone è stato osservato nei trattamenti combinati (20). Tuttavia l’analisi ad interim
del trial Rosiglitazone Evaluated for Cardiac Outcomes and Regulation of Glycaemia in Diabetes (RECORD) ha dato risultati inconcludenti (21). La nostra metaanalisi è importante nel contesto di quello
studio, poiché la combinazione di metformina e sulfonilurea è il gruppo comparatore, rispetto alle combinazioni con rosiglitazone.
Numerosi studi osservazionali hanno
esaminato l’associazione tra trattamento
combinato e rischio di CVD e di mortalità
per qualsiasi causa. Evans e al. (5) hanno
condotto un’analisi del database di
400.000 soggetti scozzesi e hanno identificato 5.730 pazienti cui erano stati prescritti farmaci ipoglicemizzanti orali tra il 1994
e il 2001. I pazienti trattati solamente con
sulfoniluree o in combinazione con
metformina apparentemente avevano RR
aumentato di esiti cardiovascolari avversi,
rispetto ai pazienti trattati con metformina solamente. Era preoccupante notare
che la combinazione di sulfonilurea e
metformina sembrava annullare il potenziale effetto positivo della metformina
sulla CVD osservato nel UKPDS (2). Uno
studio di Fisman e al. (14) è stato condotto
su 2.275 pazienti affetti da diabete di tipo
2 e coronaropatia, che partecipavano al
Bezafibrate Infarction Prevention Study. I
pazienti sono stati seguiti per 7 anni e gli
autori hanno dimostrato che gli eventi
cardiovascolari e la mortalità erano gli
stessi se erano trattati con una sulfonilurea o con metformina. Tuttavia v’era un
77
DIABETES CARE, AUGUST 2008
aumento significativo, correlato al tempo,
della mortalità quando si usava il trattamento combinato. Olsson e al. (10) hanno
analizzato la mortalità in una coorte di
modeste dimensioni di pazienti che assumevano sulfoniluree da sole o in combinazione con metformina e hanno osservato
una mortalità cardiovascolare più elevata
nei pazienti che assumevano la combinazione, rispetto alla sulfonilurea da sola.
Nella nostra meta-analisi l’esclusione
dello studio di Johnson e al. (15) produceva un aumento significativo del rischio di
mortalità per CVD, associato al trattamento combinato con metformina e sulfonilurea. Lo studio di Johnson e al. (15) riportava la riduzione del rischio di mortalità per
CVD, associata al trattamento combinato
con metformina e sulfonilurea, rispetto alla sulfonilurea in monoterapia, ma lo studio aveva molti limiti. Un numero notevole di pazienti erano stati esclusi per uso
d’insulina a breve termine. I pazienti cui
era stato prescritto il trattamento combinato erano di 2.3 anni più giovani, rispetto a quelli che avevano avuto prescritta
metformina in monoterapia e di 5.8 anni,
rispetto ai pazienti che avevano avuto
prescritta sulfonilurea in monoterapia,
una discrepanza che è difficile spiegare. I
pazienti affetti da malattia più grave o da
malattie intercorrenti, compresa ospedalizzazione per eventi cardiovascolari, possono avere richiesto l’uso d’insulina e pertanto sono stati esclusi dallo studio.
Nella nostra analisi abbiamo osservato una associazione relativamente maggiore con eventi di CVD fatale e non fatale, rispetto a eventi solamente fatali, e ciò
indica che l’incidenza di eventi di CVD
può essere incrementata dal trattamento
combinato, ma può esservi stato un tasso
inferiore caso-fatalità. Questo è in disaccordo con i dati recenti dello studio Action to Control Cardiovascular Risk in
Diabetes (ACCORD) (22), nel quale il trattamento intensivo con combinazioni multiple di trattamenti per il diabete era associato a riduzione di eventi di CVD non fatale, ma aumento di eventi fatali. Non è
possibile determinare il motivo di questa
discrepanza, sebbene è possibile che i pazienti degli studi osservazionali inclusi
nella nostra analisi non avessero valori
della glicemia tanto bassi come quelli del
trial ACCORD.
Vi possono essere numerose spiegazioni dell’aumento di rischio associato a
questa combinazione. Primo, è possibile
che i pazienti che necessitano di questa
combinazione abbiano una forma più aggressiva della malattia e pertanto un deterioramento più rapido del controllo della
glicemia nel tempo. Secondo, le sulfoniluree sono associate ad aumento di peso,
mentre la metformina è associata a perdita di peso, e anche a qualche migliora-
78
mento di numerosi fattori di rischio cardiovascolare. Qualsiasi aumento di peso
indotto dalla combinazione può annullare
alcuni di questi effetti positivi ed aumentare i rischi.
Altre spiegazioni possibili comprendono la nota propensione delle sulfoniluree a causare ipoglicemia. Quando sono
impiegate in combinazione con un farmaco come la metformina, che può ridurre la
produzione di glucosio epatico, il recupero dall’ipoglicemia può subire alterazioni.
L’ipoglicemia può aumentare il rischio di
anomalie cardiovascolari, come l’ischemia
e le aritmie (23,24). V’è notevole controversia anche circa l’impatto delle sulfoniluree sul pre-condizionamento ischemico
(25), ma nulla si sa degli effetti del trattamento combinato.
Sebbene una meta-analisi non sia il
modo migliore per testare l’efficacia e la
sicurezza di questa combinazione di trattamenti, è altamente improbabile che per
testare quest’ipotesi venga condotto un
trial clinico su larga scala. Pertanto, per
arrivare a delle conclusioni, dobbiamo affidarci ai dati di studi osservazionali ed
emanare raccomandazioni appropriate. È
anche poco chiaro in quale misura certi
errori e limiti metodologici, come confondenti residui, possano esistere negli studi
compresi nella nostra meta-analisi, poiché
la maggioranza di essi erano analisi retrospettiche di database. Inoltre il gruppo di
riferimento variava negli studi. Ad esempio, alcuni studi usavano il gruppo trattato con regime alimentare come gruppo di
riferimento, mentre altri usavano i gruppi
trattati con sulfoniluree o metformina in
monoterapie. Infine, abbiamo osservato
eterogeneità quantitativa sostanziale negli
studi, ma l’esiguità del loro numero ha limitato la nostra capacità di indagare le
possibili fonti di questa variabilità. Inoltre
i dati delle analisi dei sottogruppi dovrebbero essere interpretati con cautela, poiché il numero di studi esaminati era ridotto.
Complessivamente i nostri risultati
rassicurano e preoccupano contemporaneamente coloro che prescrivono i farmaci antidiabetici in trattamenti combinati,
per ottenere un buon controllo della glicemia. Poiché con ogni probabilità sulfoniluree e metformina sono i farmaci di più
ampio uso in combinazione è possibile
che questo uso causi un miglioramento
iniziale del controllo della glicemia che, di
per sé, può migliorare gli eventi microvascolari. Sebbene il regime alimentare da
solo sia associato a minor rischio di mortalità, nel UKPDS il solo regime alimentare era associato ad aumento delle complicanza microvascolari (2). Pertanto si devono bilanciare i rischi e i benefici dei farmaci usati quando si prendono decisioni
relative al trattamento.
Vogliamo sottolineare che questa meta-analisi ha dei limiti e serve a esaminare
i dati pubblicati per dare luogo a nuove
ipotesi. Questo tipo di analisi non dovrebbe essere impiegato come base di decisioni cliniche. Noi speriamo che essa suggerisca la programmazione di trial clinici futuri, per la valutazione non solo di un
buon controllo della glicemia, ma anche
del modo più sicuro ed efficace per raggiungere gli obiettivi glicemici. Chiaramente abbiamo bisogno di ulteriori studi
per valutare l’associazione tra trattamento
combinato con metformina e sulfonilurea
e mortalità per qualsiasi causa e/o cardiovascolare e per capire il potenziale meccanismo dei suoi effetti deleteri.
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DIABETES CARE, AUGUST 2008
Editoriale
Come impiegare il dosaggio dell’A1C
ella gestione clinica del diabete il
dosaggio dell’A1C è diventato indispensabile. Usato in tutto il mondo
nel monitoraggio della glicemia cronica,
esso è uno strumento essenziale per determinare se un paziente ha raggiunto
l’obiettivo alla base del trattamento del
diabete: la riduzione netta e sostenuta
della glicemia plasmatica per ottenere un
valore il più vicino possibile alla normalità, sostenibile in sicurezza. Con la pubblicazione dello studio A1c-Derived Average Glucose (ADAG) in questo numero
di Diabetes Care (1), l’evoluzione del dosaggio dell’A1C continua e si raggiunge
un punto fermo importante. Per apprezzare al meglio questo studio può essere
utile una breve prospettiva storica, sicuramente incompleta.
60 anni fa Allen e al. (2) dimostravano che l’emoglobina A (che costituisce
circa il 97% dell’emoglobina totale) contiene 3 componenti minori, denominati
HbA1a, HbA1b e HbA1c (A1C). Nei decenni successivi abbiamo appreso che a queste componenti è attaccata una molecola
di esoso (3) e che l’emoglobina A ha in
effetti altri 2 derivati glicati minori. Tutti
e 5 insieme essi compongono ~5.7% della
molecola di HbA (4).
Nella fase iniziale della separazione
dell’emoglobina Huisman e Dozy (5)
hanno notato, del tutto incidentalmente,
che il valore delle componenti di emoglobina glicata aumentava in alcuni soggetti che stavano studiando e che erano
diabetici. Ci sono voluti altri 4 anni, tuttavia, prima che Rahbar e colleghi (6,7)
documentassero che il diabete è chiaramente associato ad aumento dell’emoglobina glicata. Gli studi di Rahbar hanno indotto altri ricercatori a confermare
questi dati iniziali e a cercare la spiegazione di come il glucosio si lega all’emoglobina. Alcuni anni dopo, nel 1972,
Bunn e al. (8) dimostravano che la causa
dell’aumento dell’emoglobina glicata nel
diabete, che interessava prevalentemente
la componente A1C, era la glicazione enzimatica in eccesso durante l’intero arco
di vita dei globuli rossi, in maniera essenzialmente irreversibile.
Di conseguenza l’intreccio A1C- diabete è passato dalla chimica clinica alla
medicina clinica. Koenig e al. (9) sono
stati i primi a dimostrare che i valori dell’A1C ben si correlavano con la glicemia
a digiuno e hanno concluso che “proba-
N
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bilmente riflettono… la concentrazione
media giornaliera della glicemia … e
possono fornire un indice migliore del
controllo della glicemia del paziente.” Infatti subito dopo il loro studio molti altri
ricercatori hanno confermato una forte
associazione tra A1C e controllo della glicemia e la rilevanza clinica della misura
(10-15), che superava per utilità la valutazione convenzionale che si faceva allora del controllo metabolico nel tempo
(cioè segni, sintomi, urine e valore della
glicemia).
Gli accurati esperimenti biochimici
effettuati negli anni ‘70 e ‘80 del secolo
scorso, i più importanti quelli di Mortensen e Christophersen (16), hanno dimostrato che la frazione di A1C in un campione dipende dai valori della glicemia
in un periodo di tempo precedente, come
anche dal ricambio dei globuli rossi e
raggiunge lo stato stazionario tra la 4° e
la 12° settimana. Questa cinetica è stata
supportata da numerosi studi clinici su
pazienti con diabete di tipo 1 e di tipo 2,
nei quali si osservava che il valore dell’A1C si correlava bene con la regolazione della glicemia (17) o con la glicemia
media misurata nel tempo con punture
multiple del dito (9,15,18-24).
Con il maggiore impiego del test dell’A1C, dozzine di differenti metodiche
analitiche, basate su diversi principi di
assay (come la cromatografia con scambio di ioni, l’immunoassay e l’elettroforesi) sono state usate per la misurazione
dell’emoglobina glicata. Senza un metodo di riferimento comune e assay standardizzati, i risultati variavano considerevolmente quando lo stesso campione
era testato in laboratori o con metodi diversi, e anche quando era testato ripetutamente con la stessa metodologia. Era
del tutto frequente, ad esempio, avere
valori che andavano dal 4.0 all’8.1% nello
stesso campione ematico (25). Inoltre gli
assay usati allora (e anche oggi) nella
medicina clinica non misuravano solo
l’A1C, ma anche altri componenti dell’emoglobina glicata e i risultati erano riportati come A1C, HbA1 o emoglobina
glicata totale. I risultati erano influenzati
anche da altre sostanze interferenti.
Il Diabetes Control and Complications Trial (DCCT) Study Group ha riconosciuto questi problemi e ha centralizzato la misura dell’A1C sin dall’inizio
dello studio, in maniera da evitare risul-
tati confondenti se questo analita chiave
fosse stato misurato in siti diversi dello
studio (26). E inoltre, anticipando i risultati del DCCT, l’American Association
for Clinical Chemistry (AACC) ha dato
vita nel 1993 un gruppo di lavoro per la
standardizzazione dell’A1C, per dare
consistenza alla misura dell’A1C e fare
risalire i risultati del DCCT, in maniera
tale che questi risultati potessero essere
direttamente correlati al rischio di progressione della complicanze diabetiche.
Successivamente all’elaborazione del
protocollo di standardizzazione, il gruppo dell’American Association for Clinical
Chemistry è stato sciolto e nel 1996 è nato il National Glycohemoglobin Standardization Program (NGSP) (27). In breve,
nel NGSP il metodo di riferimento è la
misura dell’A1C ottenuta mediante cromatografia liquida ad alta prestazione
con scambio di ioni, come nel DCCT. I
produttori di equipaggiamento per test
possono ottenere la certificazione del
NGSP se i loro strumenti sono calibrati in
maniera tale da ottenere risultati sovrapponibili a quelli del NGSP. Anche i laboratori possono ottenere questa certificazione, grazie allo stesso protocollo e fornire conseguentemente servizi ottimali.
Tutto questo ha prodotto una drastica
riduzione della variabilità tra laboratorio
e laboratorio e un deciso miglioramento
in quanto a precisione e comparabilità
dei valori (28). Nel 2007 ~99% di tutti i risultati dei test dell’A1C negli Stati Uniti
erano riconducibili a quelli ottenuti nel
DCCT, con percentuali simili nei risultati
dei test in tutto il Regno Unito e in Canada (D. Sacks, comunicazione personale).
Sebbene non siano disponibili dati comparabili di altri paesi, gran parte dei test
dell’A1C in tutto il mondo e riconducibile alle cifre del DCCT.
Ma rimangono dei problemi. Primo,
il metodo di riferimento della cromatografia liquida ad alta prestazione impiegato nel NGSP è in qualche modo non
specifico, in quanto quella metodologia,
come tante altre, non misura solamente
l’A1C. Sebbene questo problema sia risolto dall’uso di un solo metodo di riferimento, nel mondo della chimica clinica
questa situazione è “incerta dal punto di
vista metrologico”. Secondo, sebbene la
maggior parte dei metodi usati in tutto il
mondo siano certificati dal NGSP, esistono altri programmi di standardizzazione,
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DIABETES CARE, AUGUST 2008
i più importanti in Giappone (29) e in
Svezia (30). Pertanto non esiste un vero e
proprio programma internazionale di
standardizzazione.
Questi due problemi hanno fatto sì
che nel 1995 l’International Federation of
Clinical Chemistry and Laboratory Medicine (IFCC) intraprendesse lo sviluppo
di un metodo di riferimento veramente
specifico, che misurasse solamente l’A1C
e che comportasse una standardizzazione globale, sulla base di un sistema internazionale di misurazione, valido dal
punto di vista metrologico (31). L’IFCC
non solo è riuscita (32,33) a sviluppare
un assay siffatto, ma il metodo di riferimento è stato approvato da parte di tutte
le società che la compongono ed è stato
organizzato un network globale di laboratori di riferimento (33).
Ma spesso il progresso comporta altri
problemi e difficoltà. Primo, il metodo
IFCC è molto complicato, richiede un
equipaggiamento costoso (uno spettrometro di massa) ed è complessivamente
molto caro. Pertanto, così come succede
con altri metodi di riferimento, non può
essere usato in un laboratorio clinico per
test di routine dell’A1C. Questo significa
che può essere usato solamente per calibrare gli strumenti di laboratorio che misurano l’A1C nella maniera tradizionale,
cioè con uno qualsiasi dei tanti metodi
disponibili. Per quanto deludente questo
fatto non diminuisce l’importanza dell’odierna disponibilità di un programma
più solido di standardizzazione.
Secondo, e molto più importante,
poiché il nuovo metodo di riferimento
misura l’A1C stessa, e pertanto non si individuano più i componenti non-A1C, si
riduce il range normale dell’A1C – di circa 2 punti percentuali rispetto a quelli riportati correntemente. Inoltre l’IFCC ha
raccomandato (per essere corretti dal
punto di vista metrologico) di esprimere
l’A1C in millimoli di A1C per mole d’emoglobina totale; questo produrrebbe un
range normale di circa 29-43 mmol di
A1C/mole di emoglobina (34).
Un passaggio a percentuali inferiori
d’A1C sarebbe indubbiamente e intollerabilmente confondente e probabilmente
provocherebbe deterioramento del controllo della glicemia (35), ma un passaggio di massa alle unità dell’IFCC creerebbe sicuramente confusione. Sebbene si
possa programmare uno strumento per
la conversione dei nuovi valori IFCC a
quelli derivati dal DCCT, l’IFCC ha sostenuto che l’espressione di un analita
come percentuale non è corretta dal punto di vista metrologico e pertanto non
dovrebbe essere usata. In risposta alle di-
rettive proposte dall’IFCC è stato creato
un gruppo di lavoro American Diabetes
Association/International Diabetes Federation (che incorporava rappresentanti
dell’IFCC) per formulare raccomandazioni su come evitare questo problema
(36).
Ne è emerso non solamente la raccomandazione che le cifre derivate da
DCCT dovrebbero essere possibilmente
mantenute, ma anche che dovrebbe essere avviato uno studio internazionale che
indaghi con maggiore attenzione la relazione che intercorre tra A1C e glicemia
media. In caso di “successo” dello studio
potremmo almeno adottare un’unità derivata da A1C (ad es., “glicemia media
stimata” in milligrammi per decilitro o
millimoli per litro), che risolverebbe l’obiezione dell’IFCC ad avere risultati di
laboratorio espressi come percentuali.
Questa proposta è stata successivamente
ratificata in un documento ufficiale di
consenso, emanato da tutte e 4 le organizzazioni (37).
La logica di un ulteriore studio che
esamini la correlazione tra glicemia media e A1C è partita dalla osservazione
che gli studi già pubblicati usavano molteplici misure della concentrazione glicemica, arruolavano pochi soggetti (soprattutto soggetti con diabete di tipo 1), eseguivano le misure per periodi limitati di
tempo e, quel che più conta, raccoglievano campioni della glicemia con frequenza inadeguata (prevalentemente durante
il giorno). Ad esempio, la tabella di conversione citata frequentemente negli
American Diabetes Association Standards of Medical Care in Diabetes – 2007
(38) si basava sulla campionatura limitata della glicemia capillare nel DCCT e in
effetti l’intenzione dello studio non era
di determinare la correlazione tra glicemia media e A1C. Pertanto era necessario avere maggiori evidenze che l’A1C
rappresenti veramente la glicemia media.
Adesso abbiamo i risultati dello studio internazionale (1), che confermano
ed estendono dati precedenti. I punti di
forza dello studio sono il fatto che esso
esamina la correlazione tra A1C e glicemia media in un ampio spettro di valori
dell’A1C – da ~5% al 13% - e in un numero di soggetti maggiore di quanto non
fosse mai stato fatto. Inoltre esso ha arruolato soggetti normali e soggetti con
diabete di tipo 1 e di tipo 2, in numeri
sufficienti a far concludere che la correlazione tra le 2 variabili era consistente in
questi sottogruppi e anche relativamente
ad altre variabili importanti (età, appartenenza etnica, fumo). Infine lo studio ha
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effettuato ~2.700 misure della glicemia in
ciascun partecipante, cifra che supera di
gran lunga quella di quasi tutti gli studi
precedenti. I risultati supportano chiaramente l’ipotesi che v’è una forte correlazione lineare tra glicemia media e A1C,
con un coefficiente di correlazione (R2) di
0.84.
I dati dell’ADAG indicano che ad
ogni valore medio della glicemia o dell’A1C, v’è qualche dispersione (si veda la
figura 1 nello studio ADAG) e questo
comporta una correlazione non proprio
perfetta. Ciò dipende da un errore di misurazione o indica che il valore dell’A1C
riflette processi che vanno oltre la semplice glicazione dell’emoglobina dipendente dal tempo e dalla concentrazione
della glicemia? Per risolvere questo dubbio sarebbe necessario uno studio ancora
più esteso, condotto idealmente in un solo centro, su soggetti più diversificati,
mesi di monitoraggio continuo della glicemia senza interruzioni e, quel che più
conta, un errore di misurazione di gran
lunga inferiore di quanto non si osserva
attualmente. Lo studio di Nathan e al.
(39), nel quale sono state effettuate 24.000
misure in ciascun partecipante ha prodotto un R2 (0.81) e un’equazione di regressione molto simili a quelli riportati
nello studio ADAG, e ciò indica che la
correlazione non migliora se si effettuano
più misurazioni.
Pertanto non ci spieghiamo ~16-19%
della variazione, ma dato per scontato
che v’è un modesto errore di misurazione nella determinazione dell’A1C (forse
il 2-5%), le limitazioni imposte dalla metodologia possono spiegare la variazione
residua.
Naturalmente questo studio non ci
permette di concludere che la correlazione è valida in tutte le popolazioni. Questo significa che molte popolazioni (ad
es. asiatiche, delle isole del Pacifico,
bambini) non sono state studiate ed è
concepibile che la fisiologia della glicazione differisca in questi gruppi, sebbene
non ve ne sia una ragione ovvia. Uno
studio recente (40), che ha dimostrato
una correlazione relativamente modesta
tra glicemia media e A1C nei bambini,
non dovrebbe sollevare dubbi sulla traslazione dello studio ADAG ad altre popolazioni. In quello studio (40) non risulta chiaro se i valori dell’A1C erano stabili
per tutta la durata dello studio e quante
misure della glicemia sono state effettuate in ciascun partecipante ed esistono
dubbi su precisione e accuratezza dell’apparecchiatura usata nel monitoraggio
continuo della glicemia e su altre problematiche (1).
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DIABETES CARE, AUGUST 2008
Nello studio ADAG le differenze nei
vari gruppi etnici non erano statisticamente significative. Tuttavia lo studio
non era adeguatamente potenziato per
individuare queste differenze e, in un
gruppo, le differenza si avvicinavano alla
significatività. Sebbene altri studi abbiano dimostrato un’associazione tra appartenenza etnica e A1C quando i valori della glicemia sono simili (41,42), in tutti gli
studi le misure della glicemia erano abbastanza infrequenti, le popolazioni dello studio non erano controllate per emoglobinopatia e non v’erano misure del
tasso di glicazione, relativamente all’etnia. Chiaramente siamo in un campo che
ha bisogno di ulteriori indagini.
È importante sottolineare che i ricercatori ADAG hanno voluto studiare i pazienti con glicemia “stabile” – pre-definita come una modificazione dell’A1C <
1% nel corso dello studio – e tutti, tranne
il 4%, erano stabili in base a questa definizione. Non sorprende che vi fosse
qualche modificazione, soprattutto perchè i pazienti eseguivano un numero
considerevolmente maggiore di automonitoraggi, rispetto alla vita reale. Tuttavia una modificazione dell’1% con un
valore basale di 11% ha implicazioni differenti da quelle associate a una modificazione simile con 7%. I ricercatori hanno scelto a ragione di correlare l’A1C
della fine dello studio con la glicemia
media stimata (eAG) e questo consente
di affermare che la glicemia media riflette la glicemia dei 3 mesi precedenti.
Che cosa significa tutto questo nella
pratica clinica? A un livello di base,
quando i clinici spiegano ai pazienti che
cosa “significa” A1C, questi oggi sanno
che la spiegazione fornita da decenni –
“è la sua glicemia media negli ultimi mesi” – è vera. Inoltre, sapere qual’è la propria glicemia media dovrebbe essere utile a clinici e pazienti, nella misura in cui
il valore del controllo prolungato della
glicemia (A1C) può essere credibilmente
reso nelle stesse unità comunicate al paziente al momento della diagnosi e dei
valori ottenuti con l’auto-monitoraggio.
Infine abbiamo una nuova opportunità di (ri)educazione per quanto attiene
all’importanza del controllo glicemico e
della gravità del diabete. Poiché i risultati dello studio soddisfacevano i criteri a
priori, l’accordo redatto nel documento
di consenso da parte di European Association for the Study of Diabetes, International Diabetes Federation e IFCC (37)
entrerà in vigore. Pertanto è auspicabile
che i clinici che richiedono il test dell’A1C ricevano dal laboratorio una documentazione che contiene il valore solito
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dell’A1C, l’eAG derivata da quella misura e una unità IFCC, che sarà probabilmente ignorata (in millimoli per mole).
L’American Diabetes Association e l’European Association for the Study of Diabetes hanno intenzione di avviare un
programma educativo comprensivo, centrato sulla conoscenza della propria glicemia media e stanno pubblicando una
nuova tabella di conversione basata sull’equazione derivata dallo studio ADAG.
È possibile che i pazienti si confondano vedendo che la glicemia “media” nei
loro glucometri non collima con l’eAG.
Tuttavia anche questo fornisce l’opportunità di educare i pazienti alle fluttuazioni
della glicemia, che possono verificarsi in
momenti diversi da quelli previsti nei loro programmi di monitoraggio. Inoltre, il
95% CI del eAG per qualsiasi valore dell’A1C implica incertezza sulla “vera”
media – a maggior ragione quando i valori dell’A1C sono molto elevati. Ma dovremmo ricordarci che ogni punto di stima in medicina comporta incertezza in
quanto a imprecisione del laboratorio e
che questa variazione viene quasi sempre ignorata. Se necessario, tuttavia questi CI danno ai clinici l’opportunità di
fornire ai pazienti il range della loro glicemia media.
Un altro limite potenziale dello studio è l’esclusione specifica di soggetti affetti da condizioni che potevano influire
sull’A1C, ad es. emoglobinopatie. L’inadeguato riconoscimento di quest’ultima
nella pratica clinica limita l’interpretazione dell’A1C e limiterà l’utilità della discussione sull’eAG in questi pazienti.
Nonostante i limiti di cui abbiamo
appena parlato, lo studio di Nathan e
colleghi (1) con ogni probabilità rimarrà
un riferimento chiave relativamente alla
correlazione tra A1C e glicemia media.
Sicuramente il termine A1C, insieme alle
sue unità correnti e al range normale,
non scomparirà né si modificherà. Inoltre, qualunque sia lo strumento e l’assay
utilizzato in un laboratorio clinico, essa
continuerà a rimanere lo stesso, anche se
il metodo di riferimento usato nella calibratura diventerà più preciso. Un operatore sanitario che desidera comunicare ai
suoi pazienti l’A1C potrà certamente
continuare a farlo. Ma coloro che sono
interessati ad aggiungere una nuova
strategia per il miglioramento delle cure
oggi hanno a disposizione un nuovo termine che probabilmente sarà più semplice spiegare ai pazienti e che conferirà più
significato e importanza al controllo della glicemia.
Da: the 1 American Diabetes Association,
Alexandria, Virginia e the 2Tulane University
School of Medicine, New Orleans, Louisiana.
Bibliogragia
RICHARD KAHN, PHD1
VIVIAN FONSECA, MD2
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