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FOCUS
INTESTAZIONE DI PARTECIPAZIONI SOCIETARIE TRA CONIUGI TRA SIMULAZIONE,
NEGOZIO FIDUCIARIO E DONAZIONE
Stefano Dindo
Avvocato del Foro di Verona
Con questa nota mi propongo di esaminare le problematiche che sorgono quando, in occasione
della crisi coniugale, ci si trova dinanzi a una situazione di fatto per cui uno dei due coniugi risulti intestatario di una partecipazione sociale, mentre l’altro sostenga di essere il reale proprietario di
tale partecipazione, intestata a suo tempo all’altro coniuge per vari motivi, tra cui spesso quello di
proteggere detta partecipazione dai creditori in caso di dissesto.
La fattispecie è nota e ricorrente e può essere così esemplificata, per renderne più chiara la trattazione: Tizio fa intestare alla moglie Clelia la partecipazione di controllo della società Alfa, impresa
che ha iniziato da poco la sua attività. Tizio, infatti, è un imprenditore e ritiene, in tal modo, di
cautelarsi nei confronti dei creditori in caso di insuccesso delle sue iniziative. Di fatto l’intestazione avviene mediante pagamento direttamente da parte di Tizio della quota di capitale sociale sottoscritta da Clelia. Nel tempo viene effettuato anche un aumento del capitale di Alfa sottoscritto da
Clelia, ma anch’esso pagato da Tizio, mentre l’attività di Alfa si sviluppa sempre di più.
Quando interviene la crisi coniugale, Tizio è l’amministratore unico di Alfa, il cui socio di maggioranza risulta essere Clelia, con suo diritto, pertanto, di esercitare tutti i poteri sociali, inclusi quelli
di nomina o revoca dell’organo amministrativo.
Tizio a quel punto intende ottenere l’accertamento della sua proprietà della quota; Clelia sostiene,
invece, di esserne la legittima proprietaria e si propone di esercitare tutti i diritti che le competono come socia di Alfa.
I coniugi non hanno sottoscritto alcun accordo tra loro, mentre è provato che i versamenti che hanno liberato il capitale sono effettivamente stati fatti da Tizio.
Nell’affrontare il caso si pone subito il quesito relativo all’identificazione del negozio realmente intervenuto tra i coniugi.
In astratto si potrebbe pensare a una donazione indiretta intervenuta tra i coniugi, ovvero a una
intestazione simulata in capo a Clelia che dissimulerebbe l’intestazione effettiva in capo a Tizio oppure, infine, a una intestazione fiduciaria della partecipazione a Clelia nell’interesse di Tizio.
Cerchiamo di fare chiarezza ricordando, anzitutto i tratti essenziali dei negozi sopra indicati.
In primis va ricordato che per negozio fiduciario, in generale, si intende “un accordo tra due soggetti, fiduciante e fiduciario, con cui il primo dichiara al secondo, che accetta, di volergli trasferire o
di voler costruire in testa allo stesso una situazione giuridica soggettiva reale o personale, per il conseguimento di uno scopo pratico ulteriore (rispetto a quello immediatamente risultante dal negozio)”1.
L’essenza del negozio fiduciario, pertanto, è costituita dal fatto che le parti intendono realmente
trasferire o costituire in testa al fiduciario un determinato rapporto; ciò, in vista del conseguimento di un ulteriore scopo pratico, in relazione al quale le parti concludono un ulteriore accordo interno, il pactum fiduciae, che può avere vario contenuto, ma che generalmente riguarda l’obbligo
del fiduciario di ritrasferire la proprietà del bene a lui intestato al fiduciante su sua richiesta o, comunque, al verificarsi di determinate situazioni.
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Ex multis Cass. 21 novembre 1988, n. 6263.
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Si è, invece, in presenza di simulazione relativa soggettiva quando (se si pensa all’esempio sopra formulato inerente l’intestazione di una partecipazione) chi fornisce i mezzi per acquistare la partecipazione ne diventa anche proprietario, essendo questa la volontà delle parti, salvo che nei rapporti esterni, nei quali, invece, figura quale proprietario il soggetto al quale le quote sono intestate.
I due fenomeni (negozio fiduciario e simulazione), dunque apparentemente simili, sono in realtà
profondamente diversi. Con il negozio fiduciario si attua un’interposizione reale di persona, per cui
l’interposto acquista la titolarità delle quote sociali, “pur essendo, in virtù di un rapporto interno [cosiddetto ‘pactum fiduciae’] con l’interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo
comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonché a trasferire i titoli a quest’ultimo ad una scadenza convenuta, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno
del rapporto fiduciario”2. La simulazione relativa soggettiva attua invece un’interposizione di persona solo fittizia, per cui l’interposto non acquista la titolarità delle quote (solo all’esterno appare titolare delle quote) che in concreto viene acquistata dal soggetto interponente.
Da tutto quanto sin qui descritto si discosta radicalmente la donazione che, dispone l’art. 769 c.c.,
è quel contratto col quale una parte, per spirito di liberalità, arricchisce l’altra disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione. Si ha quindi donazione se a favore del donatario si verifica un arricchimento, sempreché sussista l’animus donandi. La
donazione, poi, può essere anche indiretta ogni qualvolta un determinato negozio, pur non avendo la forma della donazione, sia mosso da fini di liberalità e abbia lo scopo e l’effetto di arricchire gratuitamente il beneficiario3.
La distinzione tra i tre negozi è pertanto chiara concettualmente, anche se nella pratica non è certo agevole individuare la fattispecie applicabile, se non vi sono documenti e se ci si deve basare
solo su situazioni di fatto. Del resto un rapporto fiduciario deve trovarsi pur sempre necessariamente insito anche nell’accordo simulatorio, al fine di non disvelare agli occhi di terzi la situazione di apparenza voluta.
Va sin da subito sottolineato un aspetto fondamentale: la configurazione del negozio, in un senso
o nell’altro, ha risvolti pratici di non poco conto con riferimento alla prova che si può dare (o non
si può dare) del negozio che si sostiene essere intervenuto tra i coniugi, ovvero con riferimento a
profili processuali, perché in caso di simulazione si rende necessaria l’integrazione del contraddittorio con la chiamata in giudizio del terzo contraente, che in questo caso sarebbe la stessa società, il cui capitale sia interessato dalla partecipazione, con tutte le problematiche che ciò comporta
(tanto che, come si dirà in seguito, appare preferibile l’opinione di chi sostiene che nell’ipotesi qui
considerata non sia neppure configurabile una simulazione). O ancora di tipo sostanziale perché,
in caso di accertamento della simulazione, gli effetti di tale riconoscimento sono retroattivi ex tunc,
con ogni conseguenza anche di tipo fiscale che ciò comporta (si pensi, ad esempio, ai dividendi
percepiti medio tempore che dovrebbero essere imputati al proprietario reale della partecipazione).
Invece, in caso di accoglimento della domanda di accertamento dell’esistenza di un rapporto fiduciario e del conseguente diritto al ritrasferimento della partecipazione, la sentenza, quanto al ritrasferimento, ha natura costitutiva ex art. 2932 c.c. e ha pertanto effetto ex nunc.
Vediamo più da vicino le problematiche relative alla prova.
Nella simulazione, innanzitutto, è pacifico che la prova della sua esistenza non potrà essere data
per testimoni, se fatta valere da una delle parti, così come dispone l’art. 1417 c.c.
Se Tizio, dunque, impostasse le sue pretese sostenendo che l’intestazione della partecipazione a
Clelia è simulata, si troverebbe immediatamente preclusa la strada, per il semplice fatto che la relativa prova non potrebbe che essere data per iscritto.
Non avrebbe alcun valore né significato, cioè, provare che il pagamento della sottoscrizione del
capitale era stato eseguito da Tizio o che, di fatto, Tizio aveva sempre esercitato i diritti connessi
allo status di socio, ad esempio sostituendo sistematicamente la moglie nelle assemblee sociali o
2
Cass. 6 maggio 2005, n. 9402.
3
Ex multis Cass., Sez. un., n. 928/1992.
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simili, proprio perché l’unica prova ammissibile per prendere in considerazione l’esistenza della simulazione è la prova scritta.
Di più. Si discute addirittura se in ambito societario possa veramente darsi simulazione relativa soggettiva – dovendosi quindi indagare caso per caso se ricorra l’una piuttosto che l’altra figura – o se
piuttosto si debba concludere che ogni intestazione di quote sociali a soggetto diverso da quello
che fornisce i mezzi per procedere all’acquisto sia configurabile, in ogni caso, come negozio fiduciario, se la stessa risulti provata (salvo ovviamente che non si possa configurare un atto diverso,
quale potrebbe essere ad esempio un atto di liberalità).
L’opinione che appare prevalente è incline a non ritenere configurabile la simulazione nell’ipotesi
considerata4, per cui la fattispecie integrerebbe gli estremi di un’interposizione fiduciaria reale (cioè
veramente voluta).
Tale opinione è senz’altro da condividere, perché ammettere che l’intestazione di una certa partecipazione sia simulata, significherebbe obbligatoriamente ammettere e dimostrare che anche la società, il cui capitale sia interessato dalla partecipazione, sia consapevole e parte dell’accordo simulato.
Ciò non è possibile, perché non è concepibile che una società sia partecipe e accetti che uno dei
suoi soci sia in realtà diverso da quello che appare a libro soci.
In conclusione, dunque, è possibile affermare che, in una fattispecie come quella considerata nel
nostro esempio, l’ipotesi che ci si trovi in presenza di un atto simulato vada scartata, sia perché
non appare configurabile una simulazione nell’ipotesi considerata quanto piuttosto un negozio fiduciario, sia perché, oltretutto, tale simulazione non potrebbe essere provata se non con atto scritto, per cui impostare la difesa in quel senso non potrebbe che portare a un insuccesso.
Veniamo ora al negozio fiduciario.
Qui la prova del negozio fiduciario, o meglio del pactum fiduciae (se si ammette che lo stesso non
debba rivestire la forma scritta), che ne è la base, potrà essere fornita, oltre che in base a una dichiarazione scritta, anche, in linea di principio, con qualsiasi mezzo di prova, inclusa quella testimoniale ovvero tramite presunzioni, purché gravi, precise e concordanti nel significato di cui all’articolo 2727 c.c.
Nella fattispecie in esame, che riguarda partecipazioni societarie, non si pone, infatti, neppure la
problematica inerente la possibilità o meno di provare con qualsiasi mezzo anche l’esistenza di atti per i quali sia richiesta la forma scritta ad substantiam.
Per questi ultimi, in effetti, la giurisprudenza prevalente5 ritiene che se il pactum fiduciae riguarda,
ad esempio, beni immobili per la cui cessione è richiesta la forma scritta ad substantiam (art. 1350
c.c.), sia necessario che anche il pactum fiduciae inerente l’obbligo di ritrasferimento debba rivestire la forma scritta, essendo lo stesso assimilabile al contratto preliminare, per il quale è imposta
la stessa forma del contratto definitivo (art. 1351 c.c.).
Non manca anche chi sostiene che, invece, sia ammissibile la prova per testi anche quando la cessione riguardi beni per il cui trasferimento sia richiesta la forma scritta ad substantiam, perché, secondo questa tesi, oggetto della prova sarebbe il pactum fiduciae nel suo complesso in quanto tale e non il negozio ricompreso in tale patto che obbliga al ritrasferimento; ma, ripetiamo, nel caso
delle partecipazioni il problema non dovrebbe sussistere, perché tale forma non è richiesta per la
cessione delle partecipazioni e anche perché, ai sensi dell’art. 219 c.c., ciascun coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro la proprietà esclusiva di un bene.
È pur vero, infatti, che l’art. 2470 c.c., così come modificato dal d.lgs. 6/2003 che disciplina l’efficacia e la pubblicità degli atti di trasferimento delle quote di società a responsabilità limitata, dispone che tale trasferimento ha effetto di fronte alla società dal momento del deposito dell’atto di
trasferimento con sottoscrizione autenticata, ma è anche vero che ciò non toglie che il negozio di
trasferimento di quote sociali sia e resti a forma libera e che, quindi, lo stesso non rientra tra quegli atti che, ai sensi dell’art. 1350 c.c., devono farsi con forma scritta. In caso di controversia, quin4
Cass. 28 settembre 1994, n. 7899; Tribunale di Genova 30 maggio 2005; Tribunale di Roma 18 luglio 1980; contra Tribunale
di Milano 1 febbraio 2001.
5 Da ultima anche Cass. n. 10163/2011.
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di, accadrà semplicemente che la sentenza costitutiva che disponga il trasferimento della proprietà della partecipazione sarà il titolo opponibile alla società, per gli effetti di cui all’art. 2470 c.c. Considerazioni analoghe valgono anche per la cessione di partecipazioni azionarie.
Il patto fiduciario in conclusione potrà essere provato nel caso di specie sia con prova testimoniale, che mediante presunzioni purché gravi, precise e concordanti (art. 2727 c.c.).
Chiariamo allora che non si tratta di provare solo, ad esempio, l’assenza di un corrispettivo o che
il fiduciario non avesse i mezzi per acquistare le quote sociali, ciò non potendo escludere che si sia
trattato di un atto di liberalità (ad esempio una donazione come esamineremo poi). Naturalmente
l’assenza di un corrispettivo è elemento comune anche al negozio fiduciario in quanto, di regola,
questo viene posto in essere per realizzare un interesse del fiduciante, per cui se corrispettivo vi è,
questo dovrebbe essere in favore del fiduciario che si presta all’operazione. Ma la mancanza di corrispettivo sarà uno degli elementi da prendere in considerazione per raggiungere la prova mediante presunzione dell’esistenza del rapporto fiduciario. Non può essere però l’unica. Non è sufficiente nemmeno provare solo che i soggetti abbiano in concreto perseguito un risultato ulteriore rispetto a quello derivante dal negozio che si assume essere fiduciario: non è sufficiente cioè dare una
“giustificazione” al negozio che si assume fiduciario, perché ciò se consente (forse) di escludere
l’ipotesi dell’atto di liberalità (non ci sarebbe cioè l’animus donandi) a ben vedere non sembra poter escludere l’ipotesi della simulazione (per escludere la quale, ricordiamo, si dovrebbe dimostrare che il trasferimento o l’intestazione delle quote non è stato realmente voluto).
È allora interessante esaminare alcuni precedenti (che non sono numerosi) che riguardano il tema
dell’onere della prova del negozio fiduciario inerente partecipazioni.
Ad esempio nel caso esaminato dal Tribunale di Genova 30 maggio 2005 il convenuto eccepiva
che l’intestazione di talune quote sociali dalla madre alla sorella fosse stata posta in essere in base a un negozio fiduciario. Il Tribunale ha accolto la domanda sulla scorta delle prove testimoniali, considerate univoche nell’aver provato l’intestazione fiduciaria.
Ancora, in altro caso esaminato dalla Corte di Cassazione6 l’attore sosteneva che l’intestazione delle quote sociali alla moglie e ai figli era avvenuta fiduciariamente (a titolo di anticipazione sulla futura successione), affermando, a sostegno della sua tesi, di aver fornito la prova di avere la delega sui conti correnti societari e di aver operato per la società. La Cassazione ha però respinto la
domanda, ritenendo non provato il pactum fiduciae perché quanto allegato e provato dall’attore
costituiva mero indizio e non prova del patto fiduciario.
Nel caso esaminato dal Tribunale di Milano (sentenza 1 febbraio 2001), poi, l’attore chiedeva che
venisse accertata l’intestazione solo fiduciaria delle quote sociali (di più società) fatta alla convenuta. Il Tribunale ha accolto la domanda sulla base delle prove testimoniali dalle quali era risultato che la convenuta, dinanzi a terzi, aveva riconosciuto che le quote erano di proprietà dell’attore
e si era dimostrata pronta a ritrasferirgliele a semplice richiesta e a prezzo zero e di documenti scritti inerenti una dichiarazione di vendita firmata dalla convenuta con la quale ella ritrasferiva le quote di una delle società.
Infine si può ricordare il caso deciso da Cass. n. 1926/1999, in cui l’attrice chiedeva (per motivi fiscali) che venisse accertata la titolarità solo fiduciaria delle quote che le aveva trasferito il convivente (in questo caso il ritrasferimento era avvenuto e l’attrice era la fiduciaria che chiedeva l’accertamento del negozio). La Corte, in quel caso, ha ritenuto provato il negozio fiduciario sulla scorta di talune considerazioni (il rapporto di convivenza e l’indisponibilità della capacità economica
da parte dell’attrice), ma soprattutto alla luce di due dichiarazioni scritte: la prima era quella di ritrasferimento che non prevedeva corrispettivo, mentre la seconda riguardava una manleva a favore dell’attrice da tutte le eventuali sopravvenienze passive che fossero maturate, derivante dall’intestazione delle partecipazioni.
Di fatto, quindi, in assenza di documentazione scritta, la prova dell’esistenza del pactum fiduciae
non è agevole.
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Cass. n. 9402/2005.
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Vi sono però fatti che, tra loro concatenati, potrebbero far presumere ex art. 2727 c.c. provata l’esistenza del patto. Ad esempio:
a) i pagamenti dei conferimenti effettuati dal fiduciante (come nella fattispecie qui in esame);
b) il fatto che alle assemblee o, in genere, alla vita sociale abbia in realtà partecipato solo o prevalentemente il fiduciante;
c) eventuali ammissioni del fiduciario dinnanzi a terzi, circa suoi obblighi di ritrasferimento delle
quote;
d) corrispondenza sociale tra società e socio e viceversa, che faccia intendere l’esistenza di un rapporto tra fiduciante e fiduciario;
e) eventuale pagamento di dividendi direttamente al fiduciante.
Come che sia, dunque, per quanto sin qui trattato, si è giunti alla conclusione per cui, se non vi è
documentazione scritta, scartata l’idea, in linea di principio, di percorrere la strada della simulazione relativa, può ipotizzarsi di verificare se vi è possibilità di provare l’esistenza di patto fiduciario
che obblighi, nel nostro caso, Clelia a ritrasferire la partecipazione al marito. L’indagine volta a verificare la possibilità o meno di provare il negozio fiduciario dovrà pertanto esaminare circostanze
quali quelle sopra indicate.
Cosa accade, però, se non si riesce a provare in alcun modo l’esistenza del negozio fiduciario?
Esaminiamo l’esempio che stiamo trattando: Clelia si ritroverebbe a essere proprietaria di una partecipazione di controllo di Alfa senza avere pagato alcun corrispettivo o, comunque, senza avere
provveduto ai conferimenti.
Può dirsi, allora che se non vi è prova che il negozio sia simulato o fiduciario, ci si trovi dinnanzi
a una donazione? E in tal caso sarebbe possibile per Tizio richiedere l’accertamento della nullità
dell’atto di donazione avente a oggetto la partecipazione, onde tornare per questa via in possesso
della quota sociale che assume sua? Vediamo. Innanzitutto va subito chiarito che in caso di donazione indiretta non è necessario che l’atto sia stipulato in forma solenne. Quest’ultima, cioè, è richiesta solamente in caso di donazione diretta, perché così espressamente dispone l’art. 782 c.c.
Per la validità delle donazioni indirette invece è sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per
il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato che l’art. 809 c.c., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli
previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c. che prescrive l’atto pubblico per la donazione7.
Ma nel caso in essere deve ritenersi che oggetto della presunta donazione sia il denaro conferito
da Tizio per liberare il capitale sociale, oppure la partecipazione? Il punto è di grande rilievo: nel
primo caso, infatti, si potrebbe sostenere che la donazione del denaro, in quanto donazione diretta, andava stipulata per atto pubblico, in mancanza del quale l’atto di donazione sarebbe nullo.
Nel secondo caso, invece, l’atto sarebbe comunque valido perché riguarderebbe una donazione indiretta.
La giurisprudenza si è occupata sovente dell’argomento dell’intestazione di beni sotto nome altrui
ed è ormai sostanzialmente univoca nel ritenere che nell’ipotesi di acquisto di un bene mobile o
immobile (quindi anche di partecipazioni sociali) con denaro proprio del disponente e intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intende in tal modo beneficiare, si configura la
donazione indiretta del bene e non del denaro impiegato per l’acquisto8.
Nel caso in esame, pertanto, Tizio non potrebbe ottenere soddisfazione sostenendo la nullità della donazione, perché Clelia potrebbe utilmente eccepire che la donazione è valida in quanto donazione indiretta, essendo state rispettate le forme tipiche dell’atto.
A quel punto Clelia resterebbe senz’altro proprietaria delle quote, fatta salva solamente per Tizio
(ove dovessero ricorrerne i presupposti) la possibilità di chiedere la revocazione della donazione
per ingratitudine ex art. 801 c.c., applicabile anche alle donazioni indirette ai sensi dell’art. 809 c.c.
7
Ex multis Cass. n. 5333/2004.
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Così a partire dalla decisione della Suprema Corte, Sez. un., n. 9282/1992, poi confermate, da varie pronunce, da ultima Cass.
n. 20638/2005.
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Possibilità che, in caso di crisi coniugale, potrebbe essere meno remota di quanto non si possa
pensare, ove si riesca a dimostrare che il donatario si sia reso colpevole di ingiuria grave verso il
donante, intendendosi per ingiuria grave anche quei comportamenti del coniuge che possano ledere l’onorabilità dell’altro coniuge come ad esempio l’inizio di un rapporto amoroso con un altro
partner, ove le modalità di instaurazione del nuovo legame possano ritenersi ingiuriose9.
Questa conclusione, però, presuppone che nella fattispecie considerata sia rinvenibile nell’attribuzione di Tizio a Clelia un animus donandi, in quanto tale requisito è essenziale perché possa ritenersi che l’attribuzione sia intervenuta a titolo di donazione.
Perché ci sia donazione (diretta o indiretta) non è sufficiente che risulti provato che chi ha ricevuto l’attribuzione si sia arricchito senza corrispettivo; è anche necessario che vi sia prova o che comunque si possa ritenere che ciò è avvenuto per volontà da parte di chi attribuisce il bene di beneficiare il donatario.
Ma nel caso in esame Tizio aveva intestato la partecipazione a Clelia per proteggere la partecipazione da possibili pretese dei propri creditori, non per spirito di liberalità. Ne consegue che ove
questo fatto fosse provato, se ne dovrebbe dedurre che l’attribuzione effettuata a favore di Clelia
non potrebbe considerarsi donazione.
Qui si affaccia, allora, un problema rilevante, che riguarda l’onere della prova: incombe alla donataria l’onere di provare lo spirito di liberalità del donante o, viceversa, è la donataria a doverlo provare per poter sostenere il suo buon diritto di essere titolare del bene? Sul punto una decisione risalente della Corte di Cassazione10 ha confermato che è il donante a dover dimostrare che l’attribuzione non aveva la finalità di liberalità, per cui dal punto di vista pratico potrà non essere agevole fornire una simile prova.
Importante, però, è il principio per il quale, in linea di massima, è possibile dimostrare l’insussistenza di animus donandi, il che dovrebbe aprire la strada a una domanda, da parte dell’apparente donante, o di ripetizione dell’indebito (art. 2033 c.c.) o di arricchimento senza causa (2041 c.c.),
perché se non vi è donazione perché non vi è animus donandi, e se non vi è nessun’altra causa
che possa giustificare l’attribuzione, si dovrà concludere (nel nostro caso) che la posizione di Clelia sarà assoggettata alle norme generali, che includono la disciplina della ripetizione dell’indebito
o dell’arricchimento senza causa.
L’oggetto dell’azione di arricchimento senza causa potrebbe essere costituito dalla richiesta proprio
di restituzione della partecipazione, perché ai sensi dell’art. 2041, secondo comma, qualora l’arricchimento abbia per oggetto una cosa determinata, colui che l’ha ricevuta è tenuto a restituirla in
natura, se sussiste al tempo della domanda. L’oggetto dell’azione di ripetizione dell’indebito sarebbe, invece, la restituzione del pagamento effettuato da Tizio, con conseguenze ben diverse, anche
sul piano pratico.
In conclusione, in presenza di partecipazioni sociali intestate a un coniuge, che le abbia acquisite
con denaro messo a disposizione dall’altro coniuge e utilizzato per effettuare i necessari conferimenti di capitale, dovrebbe ragionarsi e procedersi come segue, se non vi sono documenti scritti
idonei a qualificare il negozio realmente intercorso tra i coniugi.
Si deve innanzitutto escludere la strada dell’interposizione fittizia, mentre, invece, va verificata quella del negozio fiduciario, con interposizione reale nell’intestazione della partecipazione e obbligo
di ritrasferimento della stessa, perché la prova dell’esistenza di tale negozio può essere fornita con
qualsiasi mezzo.
Se tale strada non fosse percorribile andrà verificato se sia possibile provare che l’attribuzione è
avvenuta senza spirito di liberalità, con la finalità di azionare la domanda di arricchimento senza
causa o, in subordine, quella di ripetizione dell’indebito.
Altrimenti l’attribuzione dovrà considerarsi come avvenuta per donazione indiretta, cui si applicheranno le norme sulle donazioni, compresa la revoca per indegnità, ove ne sussistono i presupposti.
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Cass. n. 87/2003.
10 Cass. n. 3147/1980, citata in Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, in Il codice civile. Commentario, diretto da Schlesinger, Milano, 2005.
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