L`amore (dis)integrato ai tempi della globalizzazione
Transcript
L`amore (dis)integrato ai tempi della globalizzazione
domenica 25 | settembre 2011 | cinema 1 11 [email protected] Io sono Li Una perla il primo lungometraggio di finzione di Andrea Segre La pelle che abito L’amore (dis)integrato ai tempi della globalizzazione Almodovar, splendido film non riuscito Boris Sollazzo Ti bastano dieci minuti per capire il valore di Io sono Li. E lo si è intuito quando in Sala Darsena, all’ultimo Festival di Venezia, il pubblico delle Giornate degli Autori ha cominciato a partecipare quasi fisicamente al film. Un piccolo miracolo come nelle sale se ne vedono pochissimi, unito a quell’applauso lungo e vibrante alla fine. Dieci minuti, un quarto d’ora, difficile quantificare, ma di sicuro era meritatissimo. Perché Segre porta il suo talento di documentarista - forse il migliore in Italia, attualmente: ricordiamo il meraviglioso Come un uomo sulla terra, Magari le cose cambiano e Il sangue verde - e lo destruttura, ricomponendo l’immagine come già gli era capitato in alcuni scorci dei suoi precedenti lavori. Come direbbe Stanis, della serie tv Boris, «Segre non sembra italiano». Sarà per la fotografia di Luca Bigazzi - diciamocelo, Mourinho senza Eto’o il triplete non lo faceva, Segre e Bigazzi da soli una perla così, forse, non la tiravano fuori -; sarà perché da subito si capisce che il regista, anche se esordiente, farà tutte le scelte necessarie, anche se difficili. Non rinuncia neanche per un minuto al suo sguardo originale e profondo sul mondo, impone un ritmo diverso alla narrazione e ai personaggi, regala scorci che non ci aspettiamo. E, non contento, tira giù una storia, quella del pescatore di Chioggia Rade Serbedzjia e dell’immigrata cinese Zhao Tao (la Shun Li del titolo), che è la traccia sentimentale e allo stesso tempo profondamente politica del film. Come nei suoi documentari, Segre si affida alla parola: non a baci, a facili scorciatoie, a frasi fatte, ma a un incontro di culture ed esperienze, di ricordi e condivisioni. Una storia d’amore ai tempi della (dis)integrazione, all’interno di una comunità normalissima, soprattutto nei suoi pregiudizi. Se il personaggio di Giuseppe Battiston, qui inusualmente cattivo, risponde al rassicurante stereotipo della mela marcia, non vale altrettanto per Marco Paolini ottimo, dopo il talento unico per il teatro civile scopriamo che si trova molto a suo agio di fronte alla macchina da presa - e il resto della comitiva. Persino il “buono” Roberto Citran - un altro che vediamo e apprezziamo spesso e dovrebbe avere molto piú spazio - ci dice molto sui mali della nostra societá. E’ una storia lieve e allo stesso tempo rappresenta un macigno, ti fa sorridere e intimorire e incazzare e commuovere. Non si dovrebbe dire che è un capolavoro, in fondo siamo “solo” all’esordio di un giovane autore che vuole dire la sua sul cinema e sul mondo con umiltà e senza paura. Ma rischia proprio di esserlo; di sicuro è stato uno dei film piú belli dell’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Trenta copie sono poche per dettar legge al botteghino, ma abbastanza per creare un caso, per dimostrare ai “cinematografari” che il pubblico è più intelligente di produttori, distributori ed esercenti. Vale la pena andarse- Il regista racconta l’incontro di culture ed esperienze in una comunità normalissima. Soprattutto nei pregiudizi lo a cercare Io sono Li, per vedere un cinema diverso e possibile, per godere di una splendida storia e di riflessioni emotive e sociali che sono necessarie qui ed ora. Ecco, proprio questo, forse, è il grande segreto di Segre: agire sul presente senza rinunciare a fare grande cinema. > Andrea Segre; sotto una scena da “Io sono Li” San Sebastian Rebordinos, neodirettore del Festival, guarda al futuro «I miei obiettivi: Sud America, Spagna, giovani» Si è chiuso ieri il Festival di San Sebastian numero 59, ma sulla costa basca c’era un esordio importante: dopo gli ottimi dieci anni di Mikel Olaciregui - ora delegato per il Nord America - alla direzione è arrivato Josè Luis Rebordinos. Una scelta di continuità e rottura: > Josè Luis Rebordinos; a destra Banderas in “La pelle che abito” selezionatore da anni, è anche però lo stimato direttore della Settimana del Cinema Fantastico e del Terrore, rassegna cittadina molto alternativa. Chiusa la sua prima edizione con sucesso, di pubblica e critica, si concede anche due 3D: I 3 moschettieri, giocattolone divertente, e 20 minuti de Il gatto con gli stivali, con un Antonio Banderas mattatore. E nella nostra chiacchierata già guarda al futuro. «Sogno una San Sebastian che unisca il mercato sudamericano e quello europeo, culla di coproduzioni e vetrina, naturalmente. Vogliamo star internazionali e scoprire film e registi in giro per il mondo ma senza mai dimenticare che questa è la casa del cinema spagnolo». Una rassegna aperta al pubblico e con importanti nomi sul redcarpet, film d’avanguardia e opere già uscite in altri festival, inevitabile pensare al Festival di Roma. Infinitamente meno ricco nel programma, ma decisamente di più nel portafoglio. «Qui parliamo di un budget di 7.150.000 euro, meno della metà di Venezia, Berlino, Roma». Si è acuita, quest’anno, la varietà delle scelte. Dal melodramma, forse il prediletto in questi lidi, al noir della retrospettiva, c’è stato di tutto e di più. «Crediamo nella diversità. Anche dei nostri selezionatori: abbiamo uomini e donne più anziani, che mettono esperienza e una competenza formata negli anni, abbiamo giovani motivati e preparatissimi. E abbiamo l’intenzione di integrare il gruppo con degli under 30. Non si deve mai perdere l’illusione, la forza propulsiva, la fantasia». Chiudiamo augurandoci con lui che qui a Donostìa si veda presto, almeno entro quel 2016 in cui sarà Capitale europea della Cultura, un film italiano. «C’è Venezia e i registi del vostro paese preferiscono ovviamente la Mostra, ma amo il cinema italiano e spero di riuscirci!». B.S. Assurdo, folle, contorto Almodovar. Solo un regista poteva realmente pensare di prendere quel libro inquietante e un po’ folle che è Tarantola (edito in Italia da Einaudi) e farne La pelle che abito. Solo lui poteva affrontare una sfida in cui si parte battuti in partenza, per cui servirebbe un decalogo e non un solo film. Jonquet qui viene tradito e seguito, Almodovar lo piega al suo cinema per poi dare l’idea di voler cambiare lui stesso pelle. E non c’è espressione migliore per dirlo, visto che tutto giostra attorno alla lucida follia di un chirurgo plastico che cerca di realizzare la pelle sintetica perfetta. E noi osserviamo i suoi esperimenti, scoprendo che gli abissi della sua mente e del suo cuore sono profondi come il suo genio. Di un film come questo è impossibile raccontare la trama senza togliere allo spettatore le numerose sorprese alcune geniali, soprattutto per le contorte implicazioni sessual-familiari -, ma se ne può ammirare il coraggio incosciente. Non quello gioioso e parossistico degli inizi del grande Pedro, né quello nostalgico e maternalistico del suo recente passato. Qui c’è il citazionista esploratore di generi de Gli abbracci spezzati e la rabbia cupa e fredda de La mala educaciòn. C’è il Pedro che rinuncia alla sensualità (e alla sessualità) per un cinema “anatomico”, che usa il corpo come personaggio del racconto: i cambiamenti, la sperimentazione, l’annullamento dello stesso - vedi la scena dei falli utili alla vaginoplastica non hanno nulla di sexy o accogliente, lo fanno piuttosto divenire un’arma, un oggetto, un involucro, mai custode dell’identità o veicolo della sua evoluzione. E se Antonio Banderas prova a tener testa a un personaggio tutto sbagliato che lo costringe a sfidare anche l’umorismo involontario, uscendone sconfitto nonostante abbia anche l’aiuto di Marisa Paredes, la splendida Elena Anaya al suo, eroico e diviso, devastato e allo stesso tempo rimodellato fino alla perfezione, dà una forza straordinaria. Ne viene fuori un film interessantissimo ma per nulla riuscito, una di quelle opere che non puoi esimerti dal vedere ma che rimarranno sempre fuori dalla porta del tuo cuore. Hai l’impressione che non capirai mai del tutto questo lungometraggio, guardandolo, e giureresti che anche il regista, girandolo, abbia pensato la stessa cosa. Era un’impresa titanica e Almodovar non è riuscito a esserne all’altezza: a volte, però, basta provarci, perché negli anni della tirannia e della mercificazione del corpo come modello di bellezza ed efficienza e parametro del proprio valore, una riflessione così è necessaria. Anche se non riesci a trovare la chiave giusta per B.S. piombarci dentro.