Flessibilità, articolo 18 e crescita economica Alfredo Del Monte

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Flessibilità, articolo 18 e crescita economica Alfredo Del Monte
FLESSIBILITÀ, ARTICOLO 18 E CRESCITA ECONOMICA
Alfredo Del Monte
Università di Napoli Federico II
1. Introduzione
Il carattere evolutivo del capitalismo implica una modifica continua del sistema economico
con le strutture vecchie che vengono distrutte mentre ne vengono create di nuove 1. Questo
processo di distruzione creatrice comporta che le risorse devono rapidamente trasferirsi da settori
e aree a minor tasso di crescita a quelle maggiormente dinamiche. La capacità di un sistema
economico di assicurare che le risorse si trasferiscano rapidamente verso le attività ritenute più
produttive è generalmente indicata come flessibilità del sistema2. Si ritiene quindi, che quanto
più flessibile è un sistema economico tanto maggiore sarà la crescita. Il concetto di flessibilità
non deve essere interpretato in modo eccessivamente restrittivo, in un’ottica statica perché, come
dice Shumpeter 3, “un sistema - qualunque sistema economico o altro – che ad ogni momento
dato sfrutti in pieno le sue possibilità può, alla lunga, dimostrarsi inferiore ad un sistema che non
lo fa in nessun momento dato del tempo, poiché appunto questa incapacità di riuscirvi può essere
condizione del grado o della rapidità del successo a lungo termine”.
In realtà, il recente dibattito economico sembra aver dimenticato la lezione di Shumpeter sulla
necessità di valutare la flessibilità di un sistema nella sua complessità, per soffermarsi sulla
flessibilità di un particolare mercato, quello del lavoro. Esso, infatti, viene ritenuto il principale
elemento che determina nei paesi già industrializzati la capacità di reazione del sistema a shock
strutturali. L’accento è stato quindi, posto sui problemi che possono derivare da un’alta
protezione del posto di lavoro, in particolare per quanto riguarda la crescita dell’occupazione.
In realtà, sia letteratura teorica (Bertola, 1990; Blanchard-Katz, 1997)4, sia quella empirica
ottengono risultati che mettono in dubbio l’esistenza di una relazione negativa fra intensità di
protezione del lavoro e occupazione. Molti lavori econometrici non trovano evidenza di tale
effetto negativo (si veda Tabella 1). Dei cinque studi considerati nella Tabella 1, due non trovano
1
Questo è il processo di distruzione creatrice di cui parla J. Schumpeter, 1964., “D’altrocanto”, dice Shumpeter, “trattandosi di
un processo ogni elemento del quale impiega un tempo notevole a svelare i propri caratteri distruttivi ed i propri effetti ultimi,
non ha senso giudicare le realizzazioni ex visu di un momento dato, bisogna giudicarle nel tempo, sull’arco di decenni o di
secoli” p.79.
2
Per quanto riguarda una discussione sul concetto di flessibilità in Economia si veda A. Del Monte, F.M. Esposito, 1992 e A. Del
Monte, F. Dell'Isola, 1995
3
J. Shumpeter, op. cit. pag 79
4
Le rigidità relative al licenziamento inducono le imprese a tenere lavoratori che altrimenti che altrimenti avrebbero licenziato.
Come conseguenza abbiamo meno licenziamenti e meno assunzioni. Tali rigidità obbligano le imprese a mantenere i lavoratori
1
alcuna relazione fra intensità della protezione del lavoro e disoccupazione. Due trovano una
relazione negativa ed uno una relazione molto debole. Lo studio di Nickell trova un effetto
positivo del coordinamento fra imprenditoria e sindacati sul tasso di disoccupazione. Questi
risultati sembrano dar ragione a quanti come Shumpeter, evidenziano la necessità di valutare la
performance di un sistema non in un’ottica statica ma dinamica.
Alcuni esempi relativi agli effetti delle regole sulla protezione del lavoro, sulla produttività e
sui processi innovativi evidenziano la necessità di effettuare l’analisi dei mercati in un’ottica più
generale.
Allorché il processo innovativo è “ skill based”, l’impresa deve passare da un mix di lavoro
ottimale ad un altro per introdurre l’innovazione5. L’impresa ha due strategie davanti a sé, può
addestrare la forza lavoro esistente o può licenziare parte della forza lavoro ed assumere forza
lavoro qualificata. Nei regimi ad elevata protezione del lavoro e ad elevato livello di
centralizzazione e coordinamento fra sindacati e imprenditori nella gestione del mercato del
lavoro, si tende a preferire la prima strategia (Bertola 1990). Fra l’altro, in mercati del lavoro ove
la forza lavoro qualificata scarseggia, questa strategia può essere vincente in quanto evita che le
imprese si facciano concorrenza per il lavoro qualificato stimolando la dinamica salariale.
D’altro canto, nei mercati a bassa protezione del lavoro e relazioni del lavoro decentrate appare
più efficiente la seconda strategia. In tal caso l’effetto sarà un più elevato livello di mobilità e di
turnover del lavoro.
Nei settori a bassa intensità di ricerca, dove l’elasticità della domanda è bassa, l’innovazione è
volta a tagliare i costi piuttosto che ad espandere la capacità. In queste industrie un’elevata
protezione del lavoro potrebbe ostacolare l’innovazione più che nelle industrie high tech (OECD,
2001).
che non sono necessari ed in tal modo diminuisce la produttività media e la domanda di lavoro. Questo non implica però che
debba aumentare il tasso di disoccupazione (Blanchard-Katz, 1997).
5
Un’interessante rassegna del rapporto fra progresso tecnico e distribuzione delle abilità nel mercato del lavoro è
contenuta nella rassegna “Technical change, inequality and the Labour Market”, D. Acemoglu (2002).
2
La Tabella 2 evidenzia come, secondo un recente lavoro dell’OECD effettuato su un panel di
paesi, l’intensità della R&D, presa come misura del grado d’innovazione, è correlata
positivamente con il grado di centralizzazione e coordinamento della dinamica salariale e
negativamente con l’indicatore dell’intensità della protezione del lavoro. Per quanto riguarda la
dimensione delle imprese, essa è influenzata negativamente dal grado di protezione del lavoro
nell’industria manifatturiera, ma non in molti settori dei servizi, ed in particolare nelle industrie a
rete.
3
Tabella 1 – Effetti di alcuni indicatori relativi alle caratteristiche del mercato del lavoro sulle variabili occupazionali. Sintesi della letteratura empirica
Tasso
di
Indicatore
di intensità rimpiazzo
di
protezione
del lavoro
NICKEL Tasso disocPositivo
L
cupazione
Nessuna
(1997)
totale
Nessuno
Positivo
Lungo
Nessuno
Positivo
termine
Breve termine
BERTOL Tasso disoc- Molto
A
cupazione
debole
(1990)
LAZEAR Tasso parteci- Negativo
(1990)
pazione
Tasso disoc- Nessuno
cupazione
Forze
di Negativo
lavoro
Tasso
di Negativo
occupazione
Ore di lavoro Positivo
procapite
ABRAH Occupazione Nessuno
AM
Ore di lavoro Positivo
HOUSE procapite
MAN
(1994)
OECD
Tasso disoc- Negativo
(1994)
cupazione
Variabile
dipendente
Politiche
Grado
di
Durata
attive
del sindacalizza
benefici
zione
disoccupazi lavoro
one
Tassazione
Coordinazio Aliquota
fiscale sul inflazione
ni
imprenditor lavoro
i-sindacati
Nessuno
Positivo
Negativo
Positivo
Negativo
Nessuno
Negativo
Nessuno
Positivo
Positivo
Negativo
Negativo
Positivo
Positivo
Negativo
Negativo
Nessuno
Nessuno
5
Tabella 2 – Innovazione e dimensione delle imprese e rigidità del mercato del lavoro
Variabile dipendente
OECD (2001)
OECD (2001)
Indicatore intensità protezione del Grado di centralizzazione
lavoro (EPL)
coordinamento
della
dinamica salariale
Intensità R&D
Negativo
Positivo
Adozione IT
Negativa (non significativa)
Positivo
(non
significativo)
Brevetti
Negativa
Positiva
Dimensione
media Negativo (Ind. Manifatt.)
imprese con più di 10 Nessun effetto (Public Utilities,
addetti ma meno di 50 Banche, Telecomunicazioni ed
altre industrie di servizi ad alta
intensità di capitale)
L’analisi empirica mostra che vi sono due modelli del lavoro, uno di tipo anglosassone, (USA
e Regno Unito, ove prevale il libero gioco del mercato), ed uno che caratterizza le nazioni
nordiche (Svezia, Norvegia, Olanda) ove vi è una minor flessibilità del lavoro e un maggior
grado di coordinamento centralizzato fra sindacato ed imprenditori e che non è possibile ritenere
il primo modello superiore al secondo.Emerge da questi lavori empirici che la produttività di un
sistema è frutto dell’interrelazione fra i vari elementi che lo compongono e non si può ritenere
che essa sia determinata prevalentemente dalla sola rigidità del lavoro.
Avendo brevemente illustrato i risultati dei lavori empirici effettuati, con riferimento a paesi
dell’OECD, analizzeremo il caso italiano.
2. Il concetto di flessibilità e l’articolo 186
In Italia il discorso sulla flessibilità del sistema economico si è tradotto in sostanza in un
dibattito sulla riforma dei licenziamenti. In particolare è stato posto in discussione l’art.18, che
secondo molti giuristi (Ichino, 2001) ed economisti del lavoro, colloca l’Italia al vertice della
graduatoria internazionale della rigidità. In realtà il problema della facilità di licenziamento è
solo un aspetto e certo non il principale, per quanto riguarda il problema della flessibilità. La
teoria economica (K.T. Marschak, R. Nelson, 1962), definisce la flessibilità a livello d’impresa,
con riferimento alla variazione dei costi totali in presenza di una variazione della quantità
prodotta (A. Del Monte, F.M. Esposito, 1992, A. Del Monte, F. Dell’Isola, 1995.). Maggiore è la
flessibilità minore la variazione dei costi per unità incrementale prodotta. La difficoltà di
licenziamento certamente può influire sulla variazione dei costi, in presenza di una riduzione
della quantità prodotta, ma esso è solo uno degli elementi che influisce su tale valore. La
6
In Italia grazie ai contratti atipici ed ai contratti a tempo determinato il mercato del lavoro negli ultimi anni ha perso gran parte
della propria rigidità. I dati che si riferiscono al 1998 e che evidenziano l’Italia agli ultimi posti fra i paesi dell’OECD per quanto
riguarda la rigidità del mercato del lavoro, sono datati e non tengono conto dell’introduzione da parte del governo di centrosinistra di nuove forme di contratto.
Le prime misure sulla flessibilità sono state introdotte a partire dal 1997 (pacchetto Treu).
6
legislazione italiana in particolare a partire dal 1997 ha previsto una serie di meccanismi che
permettono di ridurre in modo sostanziale i costi per le imprese per far fronte a variazioni
temporanee e cicliche della produzione (lavoro interinale, contratti a tempo determinato ecc.);
d’altro canto altri meccanismi istituzionali, quali la cassa integrazione, permettono di ridurre
sostanzialmente i costi per le imprese in presenza di riduzione strutturale della quantità prodotta.
In modo analogo la flessibilità in entrata, come mostra l’articolo di G. Ferrara in questa rassegna,
è aumentata di molto in Italia, contribuendo a non far crescere rapidamente la curva dei costi in
relazione all’aumento della quantità da produrre 7.
La Tabella 3 mostra che, rispetto al 1995 vi è stato un notevole incremento della quota di
lavoratori dipendenti a tempo determinato sul totale dei dipendenti, ma che a partire dal 2000 vi
è stata un’inversione di tendenza in quanto molti dei contratti a tempo determinato si sono
trasformati in contratti di lavoro a tempo indeterminato (si veda Tabella 4). In tal modo si
evidenzia come il ruolo del contratto a tempo determinato è quello di dare all’impresa un lasso di
tempo sufficientemente lungo per valutare sia la qualità del lavoratore assunto sia la stabilità
degli incrementi di domanda a fronte dei quali il lavoratore è stato assunto. Al termine di tale
periodo, l’impresa effettuerà la propria scelta sulla base di tali valutazioni.
7
A. Del Monte, F.M.Esposito, op. cit.
7
Tabella 3 - Italia: quota di lavoratori dipendenti a tempo determinato sul totale dei
dipendenti (valori percentuali )
Media
1995
Media
Media
2000
2001
Ottobre
Ottobre
2000
2001
Totale
7,3
10,1
9,8
10,5
9,6
Agricoltura
35,9
37,6
38,4
41,5
40,7
Industria
4,3
6,6
6,1
7,1
5,7
Costruzione
11,2
13,1
12,2
13,2
12,1
Servizi
6,7
10,1
9,8
10,2
9,5
Fonte :Istat, Indagine sulle forze di lavoro
L’incremento dell’occupazione per lavoro dipendente a tempo determinato in Italia nel 2001
rispetto al 2000 mostra la funzione strategica del contratto a tempo determinato come momento
per inserire in modo definitivo nell’azienda il lavoratore di cui l’impresa è soddisfatta.(Tabella 5)
Tabella 4- Incremento occupazione gennaio 2002-gennaio 2001
Occupazione totale
371.000 unità
Lavoro atipico
49.000 unità
Occupazione a termine e a tempo
-38.000 unità
parziale
Occupazione dipendente
350.000 unità
Lavoro tipico
49.000 unità
Posti fissi
339.000 unità
Occupazione indipendente
21.000 unità
Fonte : ISTAT
Appare quindi non convincente la tesi che è la rigidità del lavoro ad impedire lo sviluppo
dell’occupazione.Il problema della disoccupazione in Italia è un problema essenzialmente
meridionale e misure di incentivo al lavoro non sono certamente in grado risolvere una siffatta
disoccupazione strutturale.
8
3. Flessibilità del lavoro e occupazione del Mezzogiorno
Uno degli aspetti su cui si sono maggiormente appuntate le critiche alla legislazione italiana
del lavoro è che essa è la causa dell’elevata disoccupazione nel Mezzogiorno. Mentre nelle
regioni del Nord e del Centro vi è una situazione di piena occupazione e molti lavori meno
specializzati o a più alto livello d’usura sono soddisfatti dagli immigrati, nel Sud i livelli di
disoccupazione
sono
estremamente
elevati
8
.
Secondo
molti
commentatori,
questa
configurazione del mercato del lavoro in Italia è il risultato del modello centralizzato di gestione
del mercato del lavoro che caratterizza il nostro paese.
Tabella 5 - gennaio 2002 - tasso di disoccupazione
Italia
9,2%
Nord
3,9%
Centro
7,0%
Mezzogiorno
18,8%
Fonte: Istat
Un semplice modello per analizzare i problemi del mercato del lavoro in Italia è il seguente.
Si consideri un’economia con due regioni, Nord e Sud, e due tipi di imprese, ciascuna delle quali
operi assumendo prezzi e salari come dati. Le imprese del primo tipo costituiscono il “settore
ufficiale” e le imprese del secondo tipo quello “non ufficiale”. Questi due tipi di imprese si
distinguono per tre aspetti:
-
la curva di domanda di lavoro è inclinata negativamente nel settore ufficiale
mentre in quello non ufficiale è perfettamente elastica per un valore del salario uguale
alla produttività marginale (costante) in questo settore. Le imprese del primo settore
8
Il Libro Bianco sul lavoro evidenzia inoltre il minor tasso di occupazione delle forze di lavoro dell’Italia rispetto agli altri paesi
UE. E ciò è il risultato della elevata disoccupazione al Sud e del più basso tasso di partecipazione femminile.
Il Libro Bianco evidenzia anche il ritardo con cui i giovani fra i 15-24 anni riescono ad entrare nel mercato del lavoro ufficiale.
9
utilizzano lavoro qualificato9. Quelle del secondo settore utilizzano lavoro non
qualificato;
-
per ciascun livello di occupazione, il settore ufficiale del Nord è in grado di offrire
salari reali più elevati di quello del Sud, mentre la curva di domanda di lavoro da parte
del settore non ufficiale è la stessa nelle due regioni.
-
vi è una curva del lavoro per l’offerta di lavoro qualificato (assorbibile dal settore
ufficiale) molto più elastica al Nord che al Sud. Tale curva al Sud parte da un livello
salariale più basso, in quanto più basso è il salario di riserva.
In ogni regione vi è un’offerta di lavoro non qualificato nel mercato non ufficiale ad un livello
del salario di riserva pari alla produttività del lavoro nel settore non ufficiale.
Questo modello implica che il mercato del lavoro non ufficiale sarà sempre in equilibrio in
entrambe le regioni, vale a dire, tutti coloro che sono disposti a lavorare al salario corrente nel
settore non ufficiale trovano impiego. Il mercato del lavoro ufficiale sarà anch’esso in equilibrio
con salari diversi a Nord e al Sud.
Nel settore ufficiale vi sono due livelli di salari, uno al Nord ed uno al Sud. In quest’ultimo il
salario sarà probabilmente più basso. Il rapporto fra lavoratori sommersi e non sommersi dipende
quindi dalla domanda e dall’offerta di lavoro nelle due aree per il lavoratore qualificato e non
qualificato.
La critica che viene rivolta al Sindacato è che grazie alla contrattazione centralizzata, il salario
di equilibrio al Nord viene anche imposto al Mezzogiorno, per cui si forma nel mercato ufficiale
del Sud una disoccupazione involontaria particolarmente elevata.
La contrattazione decentrata permetterebbe di ridurre tale disoccupazione con salari diversi
nelle due aree. Un’analisi statica, come anche detto nell’intervento di G. Cella in questo numero
della rivista, non può non portare a questo risultato e quindi giustificare la contrattazione
decentrata.
Il primo problema è che anche se può aumentare l’occupazione, la contrattazione decentrata
non risolve il problema della disoccupazione e del sommerso al Sud.
Alla luce del modello in precedenza esposto, risulta che la presenza di disoccupazione nel
Mezzogiorno è dovuta:
-
ammontare eccessivo di offerta lavoro non qualificato;
-
le caratteristiche della domanda di lavoro al Sud. La domanda di lavoro
qualificato è bassa, mentre è alta, per le caratteristiche dell’industria meridionale, quella
di lavoro non qualificato;
9
Il lavoro qualificato non coincide necessariamente con l’universo dei laureati, anche se una parte sostanziale di questi ultimi ne
fanno parte. Esso comprende inoltre diplomati e lavoratori specializzati che nel Mezzogiorno sono particolarmente carenti.
10
-
contrattazione centralizzata che mantiene eguali i minimi salariali per le varie aree
del paese.
Probabilmente questo terzo fattore è il meno rilevante fra quelli analizzati. In ogni caso, per
poter offrire una risposta sull’efficacia dei differenziali territoriali nel ridurre la disoccupazione
occorrerebbe valutare in modo dinamico il modello di cui sopra. Fra gli effetti positivi di una
differenziazione salariale anche da un punto di vista dinamico vi sarebbero accresciuti
investimenti dall’esterno al Mezzogiorno che farebbero trasporre verso l’alto la curva di
domanda di lavoro nel mercato ufficiale, aumentando l’occupazione. Appare evidente,però, che
se l’offerta di lavoro qualificato al Sud non si traspone anch’essa verso l’alto, l’accresciuta
domanda spingerà il salario di equilibrio verso l’alto vanificando l’incentivo del contratto
decentralizzato. Vi è il rischio, d’altronde, che se la differenza fra i salari di equilibrio del lavoro
qualificato fra Nord e Sud supera il costo di trasferimento, molti lavoratori qualificati andranno
dal Sud verso il Nord, spostando verso l’alto la curva di offerta di lavoro qualificato al Sud,
contribuendo in tal modo ad una crescita del salario del lavoro qualificato in questa regione10.
In un contesto dinamico, più che il differenziale salariale Nord-Sud, appare necessario puntare
a spostare la curva di domanda della produttività del lavoro delle imprese, favorendo gli
investimenti e puntando molto alla formazione di lavoro qualificato11.
Certamente si potranno prevedere provvedimenti per favorire al Sud l’abbassamento della
curva dell’offerta di lavoro qualificato agendo sul salario di riserva al Sud (in parte influenzato
dalle retribuzioni del settore pubblico), sui contributi sociali (ma tale provvedimento deve essere
esteso all’intero territorio e non solo al Mezzogiorno, per non incorrere nei divieti UE). Tuttavia
tali provvedimenti appaiono di limitato impatto.
D’altro canto i fallimenti dei provvedimenti sull’emersione evidenziano che per emergere e
sopportare i costi di emersione, le imprese devono modificare la propria organizzazione
produttiva e aumentare la loro produttività. Per favorire l’emersione occorre, quindi, non tanto
ridurre i costi ma aumentare la produttività, o eventualmente adottare entrambi i correttivi.
4. Effetto della proposta governativa relativa alla modifica dell’art.18
Alla luce di quanto detto non è molto chiaro la ragione dell’accanimento da parte governativa
sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Non vi è dubbio che il licenziamento del singolo
lavoratore o di limitati gruppi è in Italia più difficile che in altri paesi. Come sostiene Ichino
10
La SVIMEZ calcola che oltre il 20% dei laureati meridionali trova lavoro al Centro-Nord o all’estero.
Secondo il Libro Bianco, “In particolare nel Mezzogiorno, flessibilità del mercato del lavoro, fuoruscita dal sommerso ed
azioni di contesto atte ad innescare processi di crescita della produttività globale dell’area, appaiono perciò come strategie
11
11
(2001) quello italiano è l’unico ordinamento nel quale “se il licenziamento è ritenuto dal giudice
ingiustificato, ne consegue automaticamente – a norma dell’art.18 dello Statuto del 1970, la
reintegrazione del lavoratore nel suo posto, con condanna dell’impresa al pagamento di tutte le
retribuzioni maturate fino alla sentenza oltre ai contributi previdenziali ed altre relative
ammende”. Ciò che rende molto costoso questa procedura è che la sentenza avversa al datore di
lavoro può arrivare anche dopo sei sette, otto anni. Ma ciò non ha nulla a che vedere con la
necessità che ha l’impresa di adeguare la propria forza lavoro in relazione alla quantità da
produrre. I problemi relativi alla difficoltà di licenziamento del singolo lavoratore possono anche
porsi anche in un momento in cui l’impresa deve accrescere la produzione, ed il licenziamento è
dovuto ad altri motivi. L’eliminazione dell’articolo 18 non è giustificabile quindi, in base ad
esigenze di flessibilità ma piuttosto è lo scontro fra quale diritto deve essere maggiormente
tutelato, quello del datore di lavoro ad organizzare la produzione nella propria impresa con le
risorse umane che ritiene più appropriate e quello di un lavoratore che se ingiustamente
licenziato, deve avere la possibilità di mantenere il posto di lavoro. Finora la tutela della parte
più debole e cioè il lavoratore, è stato il principio lungo cui si è mosso la magistratura italiana,
accusata di essere eccessivamente protettiva, anche in casi in cui era dubbio che il licenziamento
fosse ingiustificato. Procedere per ridurre il costo del licenziamento può indubbiamente essere
giustificata (si veda l’articolo di T. Treu sul Sole 24 Ore del 15 giugno 2002) ma è chiaro che
non è l’articolo 18 la causa della scarsa crescita dell’occupazione in Italia o della ridotta
dimensione delle imprese.
Analizziamo, anche alla luce di quanto detto in precedenza, gli effetti della proposta
governativa sulla modifica dell’art.18. La proposta prevede 3 casi in cui vi è la sostituzione
dell’obbligo del reintegro con il risarcimento. Esamineremo l’effetto dei singoli casi.
Lavoratori che emergono dal sommerso
Effetto sull’occupazione totale
Nel migliore dei casi vi è trasformazione del lavoro irregolare in lavoro regolare (a
tempo indeterminato). Effetto sull’occupazione regolare + irregolare: nessuno
Effetto sull’emersione
Probabilmente molto limitato. Ad oggi le misure sul sommerso hanno clamorosamente
fallito. Circa 150 sono le domande di emersione presentate in 7 mesi, con meno di 500
interconnesse e non alternative al fine di innescare nell’area un processo di sviluppo economico e di crescita dell’occupazione
regolare”.
12
lavoratori coinvolti, quando le stime dell’ISTAT parlano di 3 milioni di lavoratori
“sommersi” (T. Boeri, Sole 24 Ore, marzo 2002)
Le ragioni della mancata emersione sono da farsi risalire alla bassa produttività del
lavoro delle imprese sommerse specie al Sud. Quindi, la riduzione dei costi di emersione
non risolve il problema in quanto i costi di emersione sono elevati rispetto alla bassa
produttività delle imprese sommerse. I principali fattori che influiscono sui costi di
emersione sono:
a) elevata pressione tributaria
b) maggiore regolamentazione del mercato del lavoro
c) rispetto delle norme in materia ambientale, sicurezza del lavoro, ecc.
Vi è poi da considerare un altro punto: molta della manodopera sommersa è
manodopera immigrata irregolare che con le attuali norme sull’immigrazione non può
essere sanata. Quindi, l’impresa non emerge anche perché non può regolarizzare la
manodopera immigrata.
Trasformazione dei contratti da tempo indeterminato a tempo determinato “solo nel caso del
Mezzogiorno”
Tale norma può avere effetti positivi sull’occupazione solo se questa trasformazione comporta
un aumento di produttività delle imprese
12
. Attualmente, l’imprenditore ha tutto l’interesse a
trasformare il contratto di lavoro a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato se è
soddisfatto del lavoratore. In tal modo l’impresa si garantisce, almeno in parte, che
l’investimento da lui fatto per addestrare il lavoratore non vada a favorire un’altra azienda nel
caso in cui il lavoratore abbandoni l’impresa stessa. Nel caso l’impresa non sia soddisfatta del
lavoratore, non attuerà tale trasformazione e prenderà un altro lavoratore con contratto a tempo
determinato.
Non si comprende, quindi, quale aumento di produttività potrà determinare per l’impresa il
trasformare il contratto di lavoro a tempo determinato in uno a tempo indeterminato, che abbia le
stesse caratteristiche di instabilità del primo.
Anzi il lavoratore, in quest’ultimo caso, non si sentirà coinvolto nell’azienda13 e andrà alla
ricerca di impieghi in altre aziende. In caso di abbandono ciò avrà effetti negativi, proprio sulla
produttività dell’impresa che ha investito in quel lavoratore. Il problema poi, appare
12
In un modello del costo del lavoro, l’aumento di produttività sposta a destra la curva di domanda di lavoro e aumenta
l’occupazione a meno che l’offerta di lavoro non sia rigida.
13
Il coinvolgimento del lavoratore nell’attività aziendale come elemento che può contribuire agli aumenti di produttività è stato
evidenziato in alcune interviste ad imprese meridionali. In queste interviste traspare la preoccupazione che tale coinvolgimento
possa essere ridotto con l’eliminazione dell’art.18 e con conseguente la crescita della conflittualità sindacale che ne può derivare.
13
particolarmente rilevante per manodopera più specializzata. Ad esempio, uno dei vantaggi per le
imprese che operano nel settore della Information Technology (software, telecomunicazioni,
ecc.) nel Mezzogiorno è il più basso turnover di manodopera specializzata rispetto a quanto
accade nelle regioni del Centro-Nord. Specie nel Sud, dove vi è scarsità di manodopera
specializzata, questa misura rischia di essere un boomerang in quanto disincentiva i lavoratori
qualificati a lavorare nel Mezzogiorno. Già oggi sono molti i laureati del Sud (oltre il 23%) che
vanno al Nord attratti dalle migliori condizioni di lavoro. Lo stesso Libro Bianco sul Lavoro
riconosce come non è la rigidità del lavoro che determina la precarietà dell’occupazione
(l’economia sommersa) nel Mezzogiorno
“La più diffusa precarietà dell’occupazione nell’area (Mezzogiorno) che interessa anche il
part time è da correlare al contesto economico generale meno favorevole e non tanto a specifici
problemi di tutela e regolamentazione di questo particolare rapporto di lavoro”.
Imprese che superano la soglia dei 15 addetti
Questo terzo caso è quello su cui la Confindustria sembra puntare di più. Si veda l’articolo di
G. Galli sul Sole 24 Ore del 28 marzo 2002.
Nel migliore dei casi questo provvedimento dovrebbe avere l’effetto di aumentare la
percentuale di imprese che superano i 15 addetti. Non vi è dubbio che il problema delle basse
dimensioni delle imprese italiane è un grosso problema, ma esso riguarda non tanto la quota di
imprese che si addensano nella classe 10-15 rispetto a quelle che si addensano nella classe 16-19
(Nella prima vi sono 865.000 dipendenti mentre nella seconda il numero di dipendenti è pari a
420.000) come sostiene Galli (2002), ma è il peso limitato di imprese di grandi dimensioni, 1000
addetti e oltre, in grado di competere in settori chiave a livello internazionale. Un lavoro di
Barca-Magnani (1989) mostrava come la distribuzione dimensionale delle imprese italiane, negli
anni ‘80, evidenzia divergenze sistematiche rispetto ad una distribuzione teorica alla Pareto. Essa
è sottodimensionata relativamente alle classi da 1 a 5 addetti ed alle classi oltre i 1000 addetti .
Recentemente un lavoro di G. Tattara (1999) relativo al Veneto evidenzia come non risulta
un’evidenza empirica che possa collegare il limite dei 15 dipendenti alla tipologia delle
dimensioni d’impresa. Anche i recenti dati dell’ISTAT confermano che non è la soglia dei 15
addetti il livello discriminante dimensionale delle imprese italiane. Questi lavori sostengono
l’ipotesi che non è l’abolizione dell’articolo 18 il provvedimento in esame in grado di incidere
sulla struttura dimensionale delle imprese italiane.
Si veda, per un approfondimento di questo discorso, P. Hawitt “Looking inside the Labour Market: a Review Article”, (March
2002).
14
Tabella 6 – Distribuzione degli stabilimenti della trasformazione industriale: valori effettivi
e valori teorici (Pareto 1). Valore %
Classi n.addetti
Distribuzioni
Differenza
Effettiva
Teorica
1
42,7
50,71
-8,01
2
16,38
14,01
2,37
3-5
17,8
19,22
-1,42
6-9
8,8
6,53
2,27
10-19
8,03
4,83
3,2
20-49
3,93
2,86
1,07
50-99
1,27
0,93
0,34
100-499
0,33
0,18
0,15
500-999
0,08
0,09
-0,01
>1000
0,05
0,09
-0,04
Fonte: F. Barca, M. Magnani, 1989
Quello che interessa però è vedere attraverso quali canali il provvedimento in esame può
incidere sui livelli di occupazione. Un’impresa arrivata alla soglia dei 15 addetti e che prevede
un aumento della domanda, può o assumere nuovi lavoratori e quindi incorrere nelle “rigidità”
dell’art.18, o ricorrere alla subfornitura di alcune fasi di lavorazione concentrando al proprio
interno solo il “core business”. Nel caso in cui, coeteris paribus, sceglie questa seconda soluzione
dobbiamo valutare gli effetti sull’efficienza dell’impresa. Nel caso in cui tale soluzione comporti
una minor efficienza dell’impresa potremo dire che un provvedimento che conservi per l’impresa
che supera la soglia dei quindici addetti, la flessibilità del lavoro, potrà avere effetti positivi
sull’occupazione. Infatti l’impresa sarà in grado di aumentare la produttività del lavoro e di
essere più competitiva, e quindi potrà assumere più lavoratori.
D’altronde, se l’impresa si attende che la crescita della domanda sia stabile nel tempo, non
sarà preoccupata dalla scelta di superare la soglia dei 15 addetti se la prima strategia è più
efficiente.
Essa ricorrerà alla strategia del decentramento, invece, se è incerta sul grado di stabilità
dell’accresciuta domanda. Ma in tal caso invece di derogare all’articolo 18, sarebbe sufficiente
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pensare ad un regime transitorio, della durata di due o tre anni, per l’impresa che superi la soglia
dei 15 addetti, che permetta alla stessa di avere un numero di addetti superiore a 15 prima di
rientrare nelle condizioni previste dall’art.18.
D’altronde la possibilità di derogare all’art.18 per le imprese che superano i 15 addetti,
determinerebbe che, imprese di eguali dimensioni, sarebbero soggette ad una legislazione diversa
a seconda che questa soglia è stata superata prima o dopo l’approvazione da parte del parlamento
della suddetta norma. Ciò incentiverebbe le imprese che hanno superato tale dimensione prima
dell’approvazione della norma a trasferire parte dei loro addetti ad una nuova imprese che senza
problemi potrebbe superare i quindici addetti. Oppure imprese che sarebbero nate con oltre
quindici addetti sarebbero incentivate a dar vita ad imprese di dimensioni inferiori per poi
superare rapidamente tale soglia. Questi processi non comportano alcun aumento di produttività
ma anzi uno spreco di risorse in quanto le imprese dovrebbero sopportare i costi relativi alla
registrazione di una nuova impresa. Sarebbero poi necessari i controlli, per evitare che certe
trasformazioni aziendali siano solo un modo per aggirare la legge sull’art.18 per le imprese già
esistenti(più e non meno burocrazia) e quindi costi per la società.
In ogni caso il risultato di questa norma sarebbe che, con il passare del tempo, aumenterebbe
la quota di lavoratori a tempo indeterminato non protetti dall’art. 18.
5 Conclusioni
Alla luce delle nostre argomentazioni risulta che le deroghe all’art.18 previste dal Governo
non avranno effetti positivi sull’aumento dell’occupazione e la produttività. D’altronde vi
potranno essere effetti negativi sia dal punto di vista della produttività, sia dal punto di vista
sociale in quanto viene ridotta la tutela dei diritti dei lavoratori e si aprono le porte per
comportamenti arbitrari da parte di imprenditori poco illuminati.
La domanda che si pone è perché, se gli effetti sull’occupazione non vi sono, il Governo non
accede alle richieste sindacali sul mantenimento in toto dell’articolo 18.
L’obiettivo di lungo periodo del Governo e della Confindustria è quello di ridurre il potere del
sindacato in fabbrica. Ovviamente l’indebolimento del potere sindacale, rafforzando i contratti
individuali fra lavoratori e impresa, tende a indebolire le forze più deboli della forza lavoro e ad
accentuare la disuguaglianza dei redditi. Non è un caso che proprio negli Stati Uniti e nel Regno
Unito, la riforma del mercato del lavoro è andata di pari passi con un aumento della
disuguaglianza. In un paese ad elevati squilibri regionali come l’Italia, l’indebolimento del ruolo
del Sindacato andrebbe quindi di pari passo con un’ulteriore accentuazione degli squilibri nei
livelli salariali Nord-Sud che è un altro obiettivo della politica del Governo. In tal modo si
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accentuerebbero gli squilibri regionali. Si spera, forse, in tal modo di rafforzare la competitività
dell’industria italiana indebolita dalla stabilità del cambio con i principali paesi europei. Tale
risultato non può essere raggiunto con l’abolizione dell’art.18,in quanto i problemi dell’industria
italiana hanno più a che fare con la inefficienza della Pubblica Amministrazione e la scarsa
attività di R&D, oltre con la specializzazione in attività tradizionali che con problemi legati alla
rigidità del lavoro.
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Abstract
The paper analysis labour law recently approved by Italian Government and its effects on
employment growth. The main thesis of the paper is that the new labour market law will have no
positive effects on the rate of employment ,on the size of firms ,and on the size of the black
labour market in Italy. On the other hand if workers interpret the new law as an hostile act,
morale in the firms would fall and so would firm’s profit. Our conclusion is that the effect on
productivity growth and employment of the new law will be the opposite of what Italian
government expects.
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JEL Classification: E24, E42, J31, J60
Università degli studi di Napoli “Federico II”
(Testo definitivo pervenuto nel settembre 2002)
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