IN RICORDO DI MONS. ANTONIO PIOLANTI. NOVITA` E

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IN RICORDO DI MONS. ANTONIO PIOLANTI. NOVITA` E
IN RICORDO DI MONS. ANTONIO PIOLANTI.
NOVITA’ E TRADIZIONE NEL CONCILIO VATICANO II
Forlì, Istituto Superiore di Scienze Religiose Apollinaris, 29 settembre 2011
+ Enrico dal Covolo
Eccellenza Reverendissima Mons. Lino Pizzi,
Signor Preside della Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna,
Signor Direttore dell’Istituto,
Autorità religiose, accademiche, civili e militari,
Professori, Studenti e Amici tutti.
Vi ringrazio per l’invito cortese che mi avete rivolto, mentre vi auguro un buon
Anno Accademico 2011-2012, ricco di grazia e di bene.
Devo riconoscere onestamente che solo in parte potrò corrispondere al titolo
che mi è stato assegnato per questa Prolusione.
Il titolo è il seguente: In ricordo di Mons. Antonio Piolanti. Novità e tradizione
nel Concilio Vaticano II.
Ebbene, cercherò di svolgere al meglio la commemorazione di Mons. Piolanti,
illustre cittadino della vostra terra, che fu mio predecessore nella guida della
Pontificia Università Lateranense dal 1957 al 1969. Questa commemorazione, poi,
mi coinvolge in prima persona anche per un altro motivo, che vi spiegherò tra breve.
Non affronterò invece la seconda parte del titolo: Novità e tradizione nel
Concilio Vaticano II.
1. A quest’ultimo riguardo, cioè a proposito di Novità e tradizione nel Concilio
Vaticano II, mi limito semplicemente a spiegare la ragione della mia riserva.
E’ ormai noto a tutti che esistono oggi due linee nettamente divaricate
nell’interpretazione del Concilio Vaticano II, o – per dirla in maniera più tecnica –
due posizioni ermeneutiche ben distinte, e fra loro in buona parte contrapposte.
In proposito, assumo due interventi del Papa Benedetto XVI come punto di
riferimento autorevole e sicuro.
Il primo intervento del Papa, a cui alludo, è il celebre Discorso alla Curia
Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, il 22 dicembre 2005.
Nella seconda parte del Discorso il Papa, appena eletto da qualche mese, fa
memoria della conclusione del Concilio, avvenuta quarant’anni prima, e riflette sulla
difficile recezione di esso.
Al riguardo, Benedetto XVI distingue con chiarezza “due ermeneutiche
contrarie”, che “si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro”.
C’è quella che il Papa chiama l’“ermeneutica della discontinuità e della
rottura”, che legge il Concilio non alla luce del Magistero precedente, ma in
contrapposizione a esso. Tale ermeneutica “non di rado si è potuta avvalere della
simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna”; ma certo,
continua Benedetto, “ha causato confusione”.
L’altra linea interpretativa, invece, “silenziosamente ma sempre più
visibilmente, ha portato frutti”. E’ questa la cosiddetta “’ermeneutica della riforma’,
del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa… E’ un soggetto che
cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del
Popolo di Dio in cammino”. Essa non nega gli elementi di novità del Concilio (senza
questi elementi di novità, il Concilio Vaticano II sarebbe stato inutile!), ma legge gli
Atti e i Documenti conciliari in continuità, non in contraddizione, con gli
insegnamenti precedenti della Chiesa.
Il secondo intervento del Papa, a cui mi riferisco, è contenuto nella sua ultima
risposta del dialogo con i sacerdoti delle Diocesi di Belluno-Feltre e di Treviso, il 24
luglio 2007, a Auronzo di Cadore.
Questo secondo intervento introduce una distinzione ulteriore nella prima linea
ermeneutica di cui si parlava, cioè quella “della discontinuità e della rottura”.
Secondo il pensiero del Papa, tale ermeneutica è proposta nella Chiesa da due
versanti diversi: da un “progressismo sbagliato”, che considera la presunta rottura con
la tradizione precedente come una vera e propria benedizione per la Chiesa; e poi da
un “anticonciliarismo”, per cui la medesima rottura è valutata, al contrario, come una
catastrofe.
Così le due posizioni convergono nell’ermeneutica “della rottura”, ma
differiscono sostanzialmente nelle loro conclusioni.
Ora – nonostante le indicazioni del Papa, che orientano chiaramente i fedeli ad
accogliere l’“ermeneutica della riforma nella continuità” – le diverse letture del
Concilio Vaticano II sono giunte a un tale punto di radicalizzazione, che, volendo
evitare prese di posizione prevenute o ideologiche, si rende necessario un lavoro
paziente e sistematico di indagine nei vari archivi storici del Concilio.
Si tratta, in particolare, di accedere al più grande numero possibile di archivi
personali dei padri e dei periti conciliari, in modo da raggiungere conclusioni
plausibili con metodo scientifico e contenuti oggettivi.
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Esattamente in questa direzione si sta muovendo l’attività del “Centro studi e
ricerche sul Concilio Vaticano II”, creato nel 1998 dal Rettore del tempo, mons.
Angelo Scola, dentro la Facoltà di Teologia dell’Università Lateranense.
Dopo un certo periodo di quiescenza, il Centro ha ripreso quest’anno le sue
attività, in vista del cinquantesimo anniversario del Concilio.
In ispecie, il Centro ha avviato un’operosa sinergia con il Pontificio Comitato
di Scienze Storiche.
L’iniziativa più importante, che segna la collaborazione tra le due istituzioni,
consiste nell’organizzazione di un Convegno internazionale di studio, che sarà
celebrato a Roma l’anno prossimo, fra il 3 e il 6 ottobre 2012. Questo Convegno
avvierà con criteri precisi la ricerca archivistica sistematica, di cui si parlava, in ogni
parte del mondo.
Un secondo Convegno è poi previsto verso la fine del 2015, nel cinquantesimo
anniversario della chiusura del Concilio, per illustrare le conclusioni della
quadriennale ricerca.
Ed ecco spiegato, finalmente, il motivo per cui non ritengo di affrontare ora la
seconda parte del titolo che mi è stato assegnato.
Dopo aver fornito per sommi capi il quadro generale della ricerca, ovvero lo
status quaestionis, non mi pare proprio il caso di addentrarmi adesso in “pre-letture”
o “pre-interpretazioni”, che potrebbero essere tacciate di “pre-giudizio”.
Preferisco attendere il vaglio paziente e sistematico degli storici e degli
archivisti, secondo il programma che ci siamo dati con il Pontificio Comitato di
Scienze Storiche e con il Centro studi e ricerche della mia Università.
2. Trascorro dunque alla commemorazione di Mons. Antonio Piolanti,
indimenticato maestro di ricchezza umana, di competenza scientifica e di zelo
sacerdotale.
Tra i promotori più illustri dell’Alma Mater Lateranensis, egli merita davvero
che si faccia memoria di lui, nel decennale della morte e nel centenario della nascita.
Piolanti nasce a Predappio il 7 agosto 1911, e muore a Roma, nella Clinica Pio
XI, il 28 settembre 2001, a novant’anni d’età.
Dopo gli studi ginnasiali a Bertinoro, il corso filosofico a Bologna e quello di
teologia nel Pontificio Seminario Romano, viene ordinato presbitero nel 1934. Si
laurea in Sacra Teologia e si licenzia in Utroque Iure nell’allora “Ateneo”
Lateranense, presso il quale nel 1945 gli viene affidata la nuova cattedra di
Introduzione alla Teologia, e successivamente quella di Teologia Sacramentaria. Di
questa seconda cattedra egli sarà titolare per molti anni anche nell’Università
Urbaniana di Propaganda Fide.
E’ Rettore Magnifico del Laterano dal 1957 al 1969.
Il 27 novembre 1958 Mons. Piolanti accoglie il Beato Giovanni XXIII in visita
all'Ateneo Lateranense, e pochi mesi dopo, il 17 maggio 1959, ha la gioia di vedere
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l'Ateneo elevato dallo stesso Papa Giovanni al rango di Università, con il Motu
Proprio Cum Inde.
A rigor di termini, dunque, Piolanti fu il primo Rettore Magnifico, non già
dell’Ateneo, ma della Pontificia Università Lateranense.
Nei medesimi anni partecipa attivamente alla preparazione del Sinodo Romano
e del Concilio Vaticano II. Successivamente segue i lavori del Concilio in veste di
perito ufficiale.
Egli “ha avuto il merito di unire alle doti di studioso insigne e maestro di
teologia autorevole” – come gli scrisse Paolo VI nel 1969, a conclusione del mandato
di Rettore – “anche quella di organizzatore sagace ed instancabile”. Di fatto, egli
arricchì l’Università di Istituti, di cattedre, di corsi, ne quadruplicò il numero di
docenti (che passarono da 60 a 200 circa), invitando anche dall’estero professori di
caratura mondiale.
Tra i nuovi insegnanti (è questo l’argomento che mi coinvolge in prima
persona, e il motivo per cui, fin da piccolo, ho sentito parlare molte volte di Mons.
Piolanti) c’era anche il mio zio paterno, Mons. Antonio dal Covolo, quasi coetaneo
del Rettore (mio zio era del 1912, come il suo compagno e amico don Albino
Luciani, il Servo di Dio Giovanni Paolo I), e suo grande estimatore e amico. Piolanti
invitò Mons. dal Covolo dal Seminario Gregoriano di Belluno per ricoprire alcuni
incarichi nella docenza della Teologia morale, e in particolare un insegnamento, che
dice la fine sensibilità del Rettore Piolanti di fronte ai segni dei tempi: questo
insegnamento riguardava la Psicologia dell’incredulo. Lo zio, infatti, si era laureato
nell’Università Gregoriana difendendo una tesi così intitolata: La psicologia
dell’incredulo alla luce del Quarto Vangelo.
E’ ancora vivo nella memoria l’inconfondibile modus operandi di Mons.
Piolanti: molti tra i docenti e gli ex-alunni del Laterano ne ricordano il carattere
energico e austero, e insieme gioviale e generoso, ricco di umanità, talvolta caloroso
e impetuoso, “da buon romagnolo”, come lui stesso diceva scherzando.
Lavorò con entusiasmo per migliorare la qualità della vita accademica,
promuovendo numerose iniziative. Ne possiamo ricordare solo alcune, fra le tante:
fondò l'Istituto Pastorale, l'Istituto Patristico-Medievale, le Cattedre di San Tommaso,
di Storia della teologia, di Diritto Pubblico Orientale, di Diritto del Lavoro; ampliò la
Biblioteca, ricostituì l'Istituto Leoniano di Alta Letteratura, collegò alla Facoltà di
Teologia l'Accademia Alfonsiana; creò nuove riviste, quali Divinitas, nel 1956, e
Aquinas, oltre a molte prestigiose collane di volumi: Communio, Scrinium
Patristicum Lateranense, Studi Pastorali, Collectio Philosophica Lateranensis,
Cursus Philosophicus Lateranensis, Spiritualitas, Corona Lateranensis (per le
migliori tesi di Dottorato), Cathedra S. Thomae, Studi e Ricerche sulla rinascita del
Tomismo.
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Fu, inoltre, apprezzato Consultore delle Congregazioni De Propaganda Fide,
del Santo Uffizio, della Congregazione dei Seminari, e Prelato Referendario della
Segnatura Apostolica.
Fu, ancora, Postulatore intelligente e appassionato del processo di
beatificazione e di canonizzazione del Papa Pio IX, che, a un anno dalla morte, poté
finalmente venerare come beato. Aveva assunto la postulazione nel 1972, quando
ormai, a distanza di quasi un secolo dalla scomparsa del grande Pontefice
marchigiano, tutto appariva compromesso. L’accorta intraprendenza del Postulatore,
dispiegatasi in iniziative di vario genere – in scritti, conferenze, convegni; ma
soprattutto in ricerche serie, e in un’importante rivista, Pio IX, che subito si diffuse
nel mondo intero –, in breve tempo risvegliò l’interesse al Pontefice dell’Immacolata,
del Vaticano I e della devozione al Sacro Cuore di Gesù. E la causa riprese a correre.
Fu un tomista convinto e convincente. Se l’Aquinate fu il suo faro, i tomisti,
soprattutto del periodo successivo all’Aeterni Patris di Leone XIII, furono l’oggetto
della sua ricerca storico-teologica.
Dietro il suo intelligente impulso, le Pontificie Accademie Teologica Romana e
di San Tommaso d’Aquino conquistarono uno straordinario prestigio.
Fu l’instancabile organizzatore dei Congressi Tomistici Internazionali, ognuno
dei quali superava i precedenti per le tematiche trattate, per gli insigni maestri
provenienti da Roma, dall’Europa, dalle Americhe. Rara e lodevole fu la puntualità
con cui, di ogni congresso, pubblicava gli Atti, distribuiti ogni volta in numerosi e
poderosi volumi.
Per lui, san Tommaso fu la pietra di paragone dell’autentico “rinnovamento
nella continuità”, per valutare cioè in modo corretto le novità teologiche che
interessarono particolarmente gli anni a ridosso del Concilio Vaticano II.
Per questo motivo rifiutò inizialmente Odo Casel e la teologia del culto e del
mistero, a cui opponeva il realismo tomasiano, e con esso la fattualità storicamente e
localmente circoscritta della Passione di Cristo, nonché l’impossibilità metafisica di
un Cristo simultaneamente vivo e morto, paziente e glorioso.
Fu ancora il pensiero tomasiano a offrirgli le ragioni risolutive della non facile
questione sulla causalità dei sacramenti, che Piolanti riconduceva a Tommaso stesso.
Sempre operando in area rigorosamente tomista, fu anche uno dei pilastri della
cosiddetta “Scuola Romana”, “Sostantivo e aggettivo”, Scuola e Romana, scrive al
riguardo Mons. Brunero Gherardini, uno dei più affezionati e devoti discepoli di
Piolanti, “vengono usati in riferimento a una corrente di pensiero filosofico e
teologico, che ebbe in Roma il suo principale centro di irradiazione e di
amplificazione”.
Così Piolanti si fece emulo dei grandi, in particolare di Mons. Salvatore
Talamo (1854-1932), che studiò attentamente, e del quale imitò l’amore e
l’incondizionata dedizione alla causa dell’Accademia Teologica Romana e
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all’attuazione fedele e costante dell’Aeterni Patris, che sollecitava la riproposizione
autorevole del metodo e della dottrina tomasiana.
Colonne ed epigoni della “Scuola Romana” furono anche Cornelio Fabro,
coetaneo di Piolanti, e il card. Pietro Parente, entrambi legati al Nostro e alle vicende
della Pontificia Università Lateranense.
Un capitolo a parte meriterebbe quello di Piolanti scrittore.
Di fatto, egli scrisse moltissimo. Per non dilungarmi in un’arida lista
bibliografica, cito solo alcuni titoli delle opere più apprezzate dalla critica, come Il
Corpo Mistico e le sue relazioni con l'Eucaristia in sant’Alberto Magno, Il Mistero
Eucaristico, I Sacramenti, Dio nel mondo e nell'uomo, Dio Uomo, La Comunione dei
Santi e la vita eterna.
Fu, come già accennato, un educatore fuori dal comune, sia per l’amore che
portava ai giovani alunni, entusiasmandoli a coniugare insieme verità e libertà, sia
per l’esemplarità ecclesiale della sua docenza – egli, che non lesinava di accogliere
anche nella sua casa chiunque avesse avuto difficoltà da risolvere o lumi da chiedere
–.
Fu animatore appassionato delle iniziative che provvidamente assumeva: una
delle ultime – ancora nell’ambito dell’educazione e dell’insegnamento – fu la
Societas Veritatis, attorno alla quale, ormai vecchio, ma ancora lucido, raccoglieva
diversi giovani seminaristi dei vari centri universitari romani, per innamorarli di san
Tommaso, nel momento in cui sembrava tramontare la stella dell’Angelico.
Egli fu, infine, un uomo capace di amicizie sincere e profonde. In questo
rapporto amicale legava a sé nuovi e vecchi discepoli, tutti orientando nella direzione
di un illuminato e indiscusso attaccamento alla Chiesa, alla verità rivelata, al servizio
che si è chiamati a renderle.
C’era in lui – come testimonia chi lo ha conosciuto – qualcosa di portentoso:
tale era non soltanto la dimensione eccezionale della sua personalità, ma soprattutto il
suo modesto sentire di sé, e la semplicità del suo vivere quotidiano.
***
“A seconda della varia espressione degli ascoltatori”, scriveva sant’Agostino
nel De catechizandis rudibus, “il mio discorso prende avvio, procede e termina”
(15,23).
E noi terminiamo qui le nostre riflessioni.
Ma l’insegnamento e la testimonianza di chi ci ha preceduto interpella ciascuno
di noi, e ci invita a ridisegnare in maniera sempre più efficace non certo la regula
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fidei, ma la figura e il metodo di chi intende trasmettere la fede nell’oggi della
Chiesa.
+Enrico dal Covolo
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