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CESARE BECCARIA
“Dei Delitti e delle pene”
L’Uomo
Primogenito di una famiglia patrizia, Cesare Beccaria Bonesana nacque a Milano il 15 marzo 1738.
Dopo una lunga e triste permanenza presso i gesuiti del collegio Farnesiano di Parma (1746 -54), si
laureò ventenne in giurisprudenza a Pavia. Decisivi furono i primi anni sessanta: la passione (invano
ostacolata dalla famiglia) per Teresa Blasco e il matrimonio con lei, dal quale sarebbe nata Giulia,
futura madre di Alessandro Manzoni; l’amicizia con i Verri e gli altri del loro cenacolo; la scoperta
della filosofia attraverso l’opera di Montesquieu ed Helvetiùs, di Bacone, Rousseau, e Hume,
furono premesse di una precoce maturità.
E dopo l’esperimento del “Disordine delle monete” nel 1762, fu subito la volta dell’opera maggiore.
Composto con l’apporto determinante di Pietro Verri, tra la fine del 1763 e l’inizio dell’anno
successivo, “Dei Delitti e delle pene” vide la luce a Livorno, anonimo, nel Luglio del 1764.
L’immediato successo, in Italia e all’estero fu pari alle infuocate polemiche che il libro suscitò.
Nell’ottobre del 1766 un viaggio a Parigi, capitale europea della filosofia, avrebbe dovuto
consacrare la celebrità del suo autore: complice una tormentosa insicurezza, fu invece l’occasione
della rottura con i Verri, e l’esordio della parabola discendente.
Beccaria morì il 28 settembre 1794, ma gli anni seguiti alla fuga precipitosa da Parigi furono avari
di frutti. Dall’insegnamento di scienze camerali (cioè di economia pubblica e scienza
dell’amministrazione) presso le scuole palatine di Milano (1769- 72) nacquero le pagine degli
“Elementi di economia”, pubblicati postumi dal Custodi nel 1804; nel 1770 videro la luce le
“Ricerche intorno la natura dello stile”; solo qualche frammento rimane invece
“Del ripulimento delle Nazioni”, progetto ambizioso di una storia filosofica della civiltà.
L’attività amministrativa, nel supremo consiglio di economia, poi nel consiglio di governo, quindi
nella giunta per la correzione del sistema giudiziario, non lasciava spazio a una riflessione ormai
faticosa. La vecchiaia anticipava il suo avvento.
La morte per accidente apoplettico sorprese una celebrità ormai dimenticata, mentre procedeva
lungo un cammino di gloria il suo giovanile capolavoro.
Gimli per la redazione de “La Gazzetta dentro”
Considerazioni sull’opera
C’è ancora oggi un appello a Beccaria che scatta quando si teme, si intravede, si constata un rischio
d’un imbarbarimento del sistema giuridico. Un appello contro la pena di morte, ovviamente; o
contro la tortura; ma anche contro la lunghezza dei giudizi e della carcerazione preventiva, contro
gli abusi in materia di prove o il ricorso ai delatori (i nostri pentiti).
Poco importa se, periodicamente qualcuno s’incarica di ricordare che, proprio sul tema per il quale
più il suo nome viene ricordato, Cesare Beccaria non fu cosi assoluto nella negazione come
l’abitudine delle citazioni farebbe pensare. Il ricorso alla pena di morte non è sempre e comunque
condannato. In due casi, anzi, viene esplicitamente giustificato e ammesso:
“Quando un cittadino, per le sue relazioni e potenza, interessi la sicurezza della nazione e la sua
esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita” e quando:
“La di morte lui fosse il vero e unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti”.
Ma all’esercito dei non lettori di Beccaria tutto questo non interessa. E giustamente.
Il rifiuto della pena di morte come strumento ordinario di politica criminale segna il suo tempo con
una tale radicalità da trasformarlo in una parola d’ordine e in programma politico destinati a
sopravvivere all’epoca in cui quel rifiuto venne pronunciato, e alle stesse intenzioni dell’autore.
Diventa un punto irrinunciabile di civiltà giuridica, anzi a mio vedere l’avvio stesso per la
costruzione d’un sistema giuridico civile.
Questo punto di scandalo e di forza non esaurisce il libro, non ne costituisce la premessa.
Compare quando già il suo svolgimento si è pienamente delineato.
Se pure rappresenta il punto più alto della polemica, al tempo stesso appare come una conclusione
persino obbligata.
Una trama complessa conduce non solo all’insieme del sistema penale, al di là di questo.
Beccaria, in realtà, guarda alle relazioni sociali nel loro complesso, al ruolo che per esse si deve
assegnare al diritto. Volge il suo sguardo in diverse direzioni e di questo giunge persino a scusarsi:
“Il corso delle mie idee mi ha trasportato fuori dal mio soggetto, al rischiarimento del quale debbo
affrettarmi”. Ma non c’è rischiaramento più efficace di quello di quello che nasce da questi
continui allargamenti dell’orizzonte, da questo incessante mostrare come il discutere dei delitti e
delle pene non sia affare di pura tecnica criminale, bensì tocchi quel più alto e complessivo tema
della “pubblica felicità” che attraversa e ispira ogni pagina del libro.
“Dei Delitti e delle pene”, dunque, può essere letto in vari modi. Come un compiuto programma di
politica criminale, che colpisce i contemporanei e apre al suo autore anche le difficili vie della
progettazione legislativa. Come un felice prodotto dello spirito del tempo, dove il culto dei lumi
s’incarna nella richiesta di regole giuridiche finalmente affidate solo alla loro stessa chiarezza.
Come una esplorazione sociale, ansiosa di dare un senso al reato e alla pena, spogliati d’ogni
valutazione e ragione che non siano quelle di logiche riconoscibili nella dinamica
dell’organizzazione della società, nelle utilità che all’interno di questa devono essere prodotte
(unica misura dei delitti e il danno che essi provocano alla società).
Come una teoria della giustizia o, più ancora, della libertà; e, insieme a questa, dell’eguaglianza.
L’arbitrio è il grande oggetto polemico, nemico della ragione e degli uomini.
Un potere sciolto da vincoli è inaccettabile. Il diritto è lo strumento per sottrarsi a un destino di
negazione dei diritti individuali e per la costruzione di una società nella quale siano netti e rilevanti
gli interessi generali,comuni.
“Dei delitti e delle pene” allora, non può essere, secondo me, solo considerato come un manifesto,
grandissimo, del garantismo. Al di là della difesa della libertà individuale , si delinea la trama delle
relazioni sociali all’interno delle quali questa è destinata a produrre i suoi frutti, a dare l’impronta
alla società nel suo insieme. Il carattere politico di questo scritto esplode.
Ben più che la presentazione sistematica delle diverse argomentazioni, è questa la caratteristica a
conferirgli forza ed assicurargli una straordinaria fortuna.
Questa è un opera tipica d’un tempo di passaggio. E come accade nei grandi tempi di passaggio, c’è
sempre un momento nel quale scatta l’appello alle leggi, in cui si sente prepotente il bisogno di
parlare il linguaggio del diritto. Questo linguaggio serve prima di tutto a dar forma alle ragioni e alle
rivendicazioni dei critici, degli oppositori. Poi diviene un modo per definire l’ambito della contesa
politica. Ed infine la tecnica alla quale si ricorre per cercare di rendere irreversibili le conquiste
realizzate.
Qui il passaggio è chiaro scandito, dalla condizione di suddito a quella di cittadino.
Dal governo degli uomini, al governo delle leggi (al dispotismo delle leggi nel linguaggio e nella
logica di Beccaria). Dalle mille costrizioni d’una metafisica o d’una filosofia alle vie verso la
felicità che, proprio in quegli anni, la costituzione americana proclamava come un diritto.
Qui il diritto è desacralizzato misurato com’è solo sulla storia e sugli uomini. Non appare con i
segni d’una tecnica astratta e ostile, come un privilegio di sacerdoti distanti e temibili, ma come uno
strumento sociale che ognuno dovrebbe maneggiare.
Ho una istintiva diffidenza verso la “attualizzazione” di opere classiche. La reputo una
inammissibile distorsione, una vera iattura.
Ma vivendo anche noi in un epoca di passaggio, possiamo meglio apprezzare senso e portata che in
Beccaria, assume l’appello al diritto. Vediamo i limiti del suo argomentare, sappiamo che è un
ideale in attingibile la chiarezza assoluta delle leggi o l’assenza di interpretazione da parte dei
giudici, conosciamo la debolezza teorica dello schema del sillogismo giudiziario.
E tuttavia vediamo pure riproporsi i mali antichi. La pena di morte non è scomparsa, la tortura ha
addirittura conosciuto un’orribile rinascita, il disordine legislativo ci avvolge, i giudizi sono eterni.
L’arbitrio, di nuovo l’arbitrio di poteri prepotenti e incontrollati, sembra avere il sopravvento.
Il ritorno del diritto non è un rifugio, una mossa disperata: ricompare come la via regia per garantire,
a un tempo, i diritti dei cittadini e l’equilibrio nell’organizzazione sociale.
Ma dove deve condurci il diritto? Per Beccaria, esso non è una mera garanzia procedurale.
È anche questo, ma guardando verso il fine della felicità, dell’eguaglianza. Il gran tema della felicità
possiede questo libro, e l’epoca in cui fu scritto, della quale, dunque, ben può apparire come un
risultato coerente e maturo. C’è, però, un momento nel quale questa attenzione si dilata e si
specifica, Beccaria sembra andare al di là dalle sue abituali fonti, visibili ma non dichiarate, e
respirare un’aria che non c’è più solo quella del mondo in cui pure intensamente vive.
Il raggiungimento della felicità appare inscindibile dall’eguaglianza. Sull’analisi penalistica
s’innesta cosi una riflessione su, condizioni materiali, differenze di fortuna e di possibilità, leggi
volte a soddisfare l’interesse di pochi. E non ci si limita a segnare la via dell’unicità soggettiva del
diritto penale come quella come quella che appunto promuove e produce eguaglianza fra i cittadini.
L’origine e l’impiego delle ricchezze diventano tema ricorrente nel discorso,con accenti netti contro
il parassitismo e indicazione di limiti che appaiono invalicabili: “Le ricchezze comprano piaceri e
non l’autorità” se non si vuole che lo stesso ordine politico risulti stravolto e corrotto.
Ma spingendosi al di là dell’impiego buono e ben regolato dalle ricchezze, Beccaria lascia cadere un
dubbio più radicale. Parlando del furto, lo indica come il delitto della miseria e della disperazione, il
delitto di quella infelice parte di uomini a cui il diritto della proprietà (terribile, e forse non
necessario diritto) non ha lasciato che una nuda esistenza. Con quelle poche parole, Beccaria revoca
in dubbio uno dei presupposti della discussione all’interno della quale pure egli si muove,
abbandona la logica dell’assolutezza della proprietà, alla quale è solo disposto a riconoscere un
carattere strumentale. Scriverà, infatti, più avanti: “Il commercio la proprietà dei beni, non sono un
fine del patto sociale ma possono essere un mezzo per ottenerlo”.
Sottolineo quel “possono”: non c’è dunque, un rapporto di necessità tra realizzazione dei fini del
patto sociale e riconoscimento sociale e giuridico del diritto di proprietà.
Nelle parole del Beccaria, in quel suo insistere su miseria, disperazione e infelicità, c’è un forte
tratto di pietà umana, che incrina per un momento la rigorosa concezione del delitto come danno
sociale, fa emergere appunto una condizione di ineguaglianza e la segnala all’attenzione di chi deve
giudicare con uno spirito non tanto lontano da quello che farà esclamare a Gioacchino Belli
parlando come un povero ladro al giudice :“ Io sò lladro, lo so mme ne vergoggno: ll’obbrigo suo
saria de vede s’ho rrubato pe vvizzio o ppe bbisoggno”
Ma Beccaria non si ferma qui, non si limita a dar prova di comprensione.
Ciò che rende davvero terribile il diritto di proprietà è il suo essere strumento di esclusione dei
cittadini è il suo essere strumento di esclusione di cittadini, di quella infelice parte di uomini a cui
non ha lasciato che una nuda esistenza. La critica, dunque, s’indirizza al modo d’essere
dell’organizzazione sociale, al ruolo che in essa assume il riconoscimento della proprietà come
diritto assoluto. E Beccaria intuisce e anticipa cosi il grande tema del secolo successivo, che non
caratterizza solo il pensiero socialista e comunista, ma fa esclamare ad Alexis di Tocqueville (nei
Souvenirs del 1850- 51 con una non casuale sintonia con il Manifesto dei comunisti) che :
“Le grand champ de bataille sera la propriété”
Non solo per questo, ma sicuramente anche per questo, a Cesare Beccaria toccherà la ventura di
essere uno dei primi destinatari dell’appellativo “socialista”, con assoluta connotazione negativa.
Lo farà il più aspro e rapido dei suoi critici, il monaco Francesco Facchinei, riprendendo un termine
che era stato coniato dodici anni prima da un altro religioso, il benedettino tedesco Anselm Desing,
per criticare Samuel Pufendorf, cosi intendendo denunciare l’abbandono d’ogni trascendenza, il
risolvere tutto nella logica della società e della storia. Più puntualmente, proprio il passaggio sulla
proprietà susciterà lo sconcerto su Jeremy Bentham. Che su un suo saggio scriverà:
“È sorprendente che uno scrittore giudizioso come Beccaria possa aver inserito, in un’opera
dettata dalla più ragionevole filosofia, un dubbio sovversivo dell’ordine sociale”.
E più avanti Cesare Cantù accentuerà i toni dello scandalo, ricordando che quel modo di guardare
alla proprietà era stato rimproverato a Beccaria “Come di sentimento comunista”.
Il corpo di quest’opera s’infittisce cosi di aperture e di scatti nelle più diverse direzioni.
Svolgimenti compiuti ed intuizioni si mescolano, in una sfaccettatura che farà si apparire aporie e
debolezze ma al tempo stesso e il segno di una indiscutibile ricchezza. A tenere insieme il tutto c’è
uno spirito profondo, che forse è espresso nel modo migliore da una esplicita confessione
dell’autore: “ Se sostenendo i diritti degli uomini e dell’invincibile verità contribuissi a strappare
dagli spasimi e dalle angosce della morte qualche vittima sfortunata della tirannia e
dell’ignoranza, ugualmente fatale, le benedizioni e le lagrime anche d’un solo innocente nei
trasporti della gioia mi consolerebbero del disprezzo degli uomini”. In questo tratto fiero e
sdegnoso si scorge una moralità profonda. Come le ricchezze non devono servire a comprare potere,
cosi il lavoro intellettuale non può essere usato per conquistare benevolenza e consenso.
A mio vedere in questa ultima frase è racchiusa l’essenza dell’opera e il messaggio che Beccaria ci
ha lasciato
Gimli per la redazione de “La Gazzetta dentro”