Psicologia e regime carcerario. La pena, il reato e il problema della

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Psicologia e regime carcerario. La pena, il reato e il problema della
QUADERNI DI PSICOLOGIA GIURIDICA
PUBBLICAZIONE DELLO
STUDIO DI PSICOLOGIA FORENSE E ASSISTENZA GIUDIZIARIA DI MILANO
Via Prina 10, Milano – tel. 02 312926 – fax 02 3451378
DIRETTORE RESPONSABILE: RENATO VOLTOLIN
AUT. TRIB. MILANO N. 74 DEL 27/1/1999
QUADERNO N. 6
PSICOLOGIA E REGIME CARCERARIO.
LA PENA, IL REATO, IL REO E IL PROBLEMA
DELLA RIABILITAZIONE-RIEDUCAZIONE
di Grazia Arena
Questo lavoro, nelle due parti distinte di cui si compone, intende proporre
una riflessione sul contesto teorico e operativo in cui si muove lo psicologo
penitenziario e sui vissuti che caratterizzano la sua professionalità e, al tempo
stesso, fornire un contributo metodologico sul problema centrale dell’Istituzione
carceraria, quello della riabilitazione-rieducazione del detenuto.
Parte prima
Il punto di partenza dal quale non si può prescindere verte essenzialmente
su tre insiemi concettuali. Il primo, costituito dal sistema di credenze, fa
riferimento alla filosofia della pena; il secondo si riferisce al sistema legislativo
vigente; il terzo è costituito dal sistema penitenziario (le caratteristiche del carcere
in quanto istituzione).
Il sistema di credenze: la filosofia della pena
In ogni epoca e in ogni società si è cercato di combattere, di contenere, di
reprimere il fenomeno della delinquenza, cioè i comportamenti e le condotte lesivi
dell’integrità personale e dei principi fondamentali delle singole culture, in quanto
è fine precipuo di ogni sistema sociale assicurare, attraverso l’osservanza delle
leggi, il mantenimento della sicurezza dei singoli individui nonché dei valori
portanti della società stessa.
Lo scopo di assicurare l’osservanza delle leggi che regolano il vivere sociale
è stato ed è ancor oggi perseguito utilizzando differenti strumenti e sistemi di
controllo. Il principale tra gli strumenti di controllo sociale anticriminoso è
sempre stato e continua ad essere quello delle sanzioni penali. In ogni caso “tra
sistema penale e sistema extra-penale di controllo sociale esiste un rapporto di
proporzione inversa: quanto più si attenuano i meccanismi di controllo extrapenali tanto più si è costretti ad affidare la difesa contro il crimine
all’inasprimento del sistema penale” (Mantovani F. 1984).
La pena, è comunque intesa come un “irrinunciabile strumento di controllo
sociale, non essendo possibile, senza il ricorso ad essa, organizzare, gestire, far
funzionare qualsiasi tipo di società. Questa affermazione, che può suonare ostica
alle orecchie di alcuni, è solo frutto di concreto realismo, che nulla concede a
tentazioni di eccessiva repressività” (Ponti G.1991). Si è assistito, nel succedersi
storico delle varie culture, a un continuo mutare delle concrete modalità secondo
le quali la pena viene esercitata, oltre che della indicazione di quali sono le
condotte meritevoli di sanzioni penali.
Può ritenersi che nella cultura europea pre-illuministica i fini della pena
fossero quelli antichi della legge del taglione e della vendetta. L’intento vendicativo
era dunque primario e, per quanto attiene i mezzi, il principio basilare fu quello di
reprimere, di vendicare, attraverso la sofferenza fisica del reo in proporzione al
male commesso e di dar pubblica testimonianza della sua sofferenza, affinché
servisse di esempio intimidativo per tutti. La morte del colpevole era impiegata in
modo massiccio e si adottavano svariate modalità di supplizio, graduate nella
durata e nella crudeltà in funzione dei delitti e della posizione sociale del reo. La
cerimonia del supplizio poteva durare diversi giorni e sempre costituiva spettacolo
e pubblica ammonizione. Secondo una gerarchia di gravità dei delitti, reati
ritenuti meno gravi prevedevano sofferenze corporali non mortali: mutilazioni o
amputazioni (classico era il taglio della mano ai ladri), accecamento, fustigazione.
Venivano però usate anche pene patrimoniali, era in uso anche la carcerazione,
seppur con modalità estremamente variabili spesso con durata indeterminata.
Non fu ignota nel passato la detenzione domiciliare (si pensi all’imposizione
subita da Galileo, da parte della Santa Inquisizione, di risiedere negli ultimi anni
della sua vita ad Arcetri, senza potersene allontanare) e furono frequenti la
riduzione in schiavitù, i lavori forzati o la deportazione in luoghi lontani.
Nel secolo XIX si verifica un rapido mutare degli strumenti punitivi. In
primo luogo, per l’influenza delle idee illuministiche, si generalizza in Europa la
redazione di codici penali e di procedura penale la cui osservanza è imposta come
principio fondamentale e la cui validità è universale. La politica criminale trova in
Cesare Beccaria il traduttore di quei principi illuministici in materia penale che
saranno il vanto dell’illuminismo e della tradizione liberale italiana “......perché
ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, deve
essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle
date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi.” (Beccaria C., 1764 ).
Questo passo che conclude il trattato “Dei delitti e delle pene” scritto da Cesare
Beccaria nel 1746, esprime in modo chiaro il movimento di pensiero, nel quale
confluisce tutta la filosofia politica dell’illuminismo europeo, e segna l'inizio di
quello che già può considerarsi un nuovo approccio ai problemi della pena,
anticipatorio dei futuri interessi criminologici. I principi dell'illuminismo
andarono poi strutturandosi e articolandosi nella Scuola Classica del diritto
penale, che per quasi un secolo caratterizzò il pensiero penalistico. Tale scuola
ferma la propria attenzione sui presupposti razionali della punibilità contro
l’arbitrio e la crudeltà dell’epoca. Muovendo dal presupposto del libero arbitrio,
cioè dell’uomo assolutamente libero nella scelta delle proprie azioni, essa pone a
fondamento del diritto penale la responsabilità morale del soggetto quale movente
del male commesso e conseguentemente la funzione etico-retributiva della pena.
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L’espressione più coerente fu il codice Zanardelli del 1889 che, in un certo senso,
succedette al codice napoleonico nella funzione ispiratrice della legislazione
penale.
La concezione del reato quale astratta entità di diritto, tipica della Scuola
Classica, incominciò ad essere messa in crisi, verso la metà del XIX secolo, dai
primi studi statistici utilizzati per l’analisi dei fenomeni criminosi: questi studi,
che già possiamo chiamare sociologici, prestarono attenzione anche all’ambiente
sociale in cui l’individuo agisce, mentre prima l’azione delittuosa veniva
considerata come compiuta da un individuo isolato dal contesto. Il reato venne
così, per la prima volta, ad assumere anche il significato di espressione della
società, e non più solo attribuibile alla volontà del singolo. Il reato venne visto
come “fatto sociale” secondo la concezione di E. Durkheim ( 1858-1917 )
“rappresentava qualunque sistema o fenomeno che fosse generale in tutte le
società di un tipo particolare, a un particolare stadio del loro sviluppo”. Anche il
delitto costituiva parte integrante della società e non più solo una occasionale
aberrazione di certi individui; pertanto il delitto non poteva essere eliminato,
anche se era modificabile, nella qualità e nell’espressione, con il mutare del
contesto sociale. Nello stesso secolo che vide l'inizio del filone sociologico della
criminologia, Cesare Lombroso (1835-1909 ) può a ben diritto considerarsi come
il pioniere di un indirizzo di studi basato sulla persona, sino ad allora trascurata.
Scriveva Lombroso: “Ho voluto accumulare tutte queste prove di un fatto, che è
pur tuttavia, così evidente, perché in esso sta proprio il nucleo di tutta la mia
teoria: senza tipo criminale, infatti non v’ha criminale-nato: senza criminale-nato
non v’è antropologia criminale. Perciò gli è strano vedere alcuni darsi aria di
cultori di antropologia criminale mentre ne negano poi il tipo! Si potrebbe
paragonarli ad un fisiologo che non credesse all’anatomia, o ad un pittore che
non ammettesse il disegno!” (1897 ).
Saldamente ancorato ai principi e alla filosofia delle scienze naturali
dominanti nella sua epoca (evoluzionismo di Darwin, positivismo scientifico,
aspettative fideistiche nella scienza e nel progresso come destinati a risolvere ogni
problema dell'umanità), Lombroso focalizzò i suoi studi sulla persona del
delinquente e sulle componenti ritenute morbose nella sua condotta: ciò
rappresentò una svolta importante nei confronti di una concezione meramente
legale, morale o sociale del delitto. Valutata con criteri strettamente critici e
misurata con metodi più moderni, la maggior parte delle sue indagini è ora priva
di valore scientifico; ciò nonostante a Lombroso va l’indiscusso merito di avere
per primo impiegato i metodi della ricerca biologica per lo studio dell’uomo autore
di reato; di aver fatto convergere l'interesse delle scienze penalistiche, sulla
personalità del reo; ...di avere infine per primo dato avvio a un indirizzo di
indagine organica e sistematica nello studio della delinquenza (la Scuola di
Antropologia Criminale). Le teorie lombrosiane costituirono la base di un nuovo
orientamento giuridico-crimimologico che prese il nome di Scuola Positiva, a
sottolineare la fedeltà al metodo scientifico in contrapposizione a quello del
pensiero giuridico-deduttivo a cui conferì la Scuola Classica: i dati
dell'osservazione empirica dovevano costituire l’unico punto di partenza per
interpretare i fatti delittuosi e proporne i rimedi.
Sinteticamente, la Scuola Positiva considerava il delitto come determinato
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da predisposizione individuale e favorito da fattori sociali. La pena, quindi, aveva
come fine quello di ottenere il controllo delle tendenze antisociali considerando
più la tipologia personologica che il genere di reato commesso. Cardine di ogni
misura penale era la “pericolosità” del soggetto sia attuale che pregressa o
potenziale insita nel comportamento. Così si espresse Enrico Ferri: “Le sanzioni
difensive adottate nei riguardi del criminale devono essere dettate non dalla
natura e gravità dell’atto compiuto, ma dal di lui potenziale aggressivo
individuale”. Conseguentemente le pene, essendo correlate al delitto, erano
prefissate nella loro gravità e durata, le misure di difesa sociale non potevano che
essere indeterminate e destinate a durare fintanto che non venisse meno la
pericolosità.
Molto importanti furono le influenze della Scuola Positiva sul diritto penale
e sulla criminologia, anche se codici totalmente ispirati ai principi sovra esposti
non furono mai applicati nei paesi occidentali, tuttavia, la concezione positivista
portò comunque all'introduzione, in molti sistemi giuridici, del principio secondo
il quale andava tenuto conto, nell’irrogare condanne penali, anche le potenzialità
del reo. Ciò si è realizzato secondo due principi:
- Il “sistema del doppio binario” ( usato in Germania e in Italia dopo gli anni 30 ),
secondo il quale, accanto alla pena, proporzionata alla gravità del reato, venivano
imposte le “misure di sicurezza” per i soggetti pericolosi socialmente, che si
aggiungevano alla pena impartita.
- in altri paesi ( USA e paesi Scandinavi ) fu introdotta, negli anni 50 la pena
indeterminata, la cui durata effettiva non era preventivamente stabilita, ma
dipendeva dalle prospettive di successo legate al reinserimento sociale in virtù del
trattamento: in sostanza anziché affiancare la pena e misura di sicurezza, così
come accade nel sistema a doppio binario, era la pena ad assumere
caratteristiche simili a quelle della misura di sicurezza.
Il pensiero della Scuola Positiva ha inoltre, seppur in parte, contribuito ad
ispirare l'attuale problema di politica penale, consistente nel tentativo di far
coesistere la valutazione dei delitti, l’approccio all’individuo, la diversificazione
delle sanzioni, la rieducazione, con la salvaguardia dei diritti della difesa, del
principio di legalità e della certezza del diritto. In sintesi, una fusione tra i
principi maggiormente validi della Scuola Classica e della Scuola Positiva.
Seguendo lo sviluppo delle linee di tendenza della filosofia della pena e del
pensiero criminologico, l’elemento di autentica innovazione verificatosi all’inizio
del nostro secolo è rappresentato dal superamento della concezione classica della
pena, e dall’introduzione del principio del “trattamento rieducativo e
risocializzativo del reo”.
Nel campo penalistico, il decreto del 19 ottobre 1930 n.1398 approva il
codice penale Rocco che, sfruttando un discutibile compromesso fra scuola
positiva e quella classica, crea un sistema penale di maggiore severità. In questo
indirizzo vengono imposte le “norme di vita carceraria” che devono essere idonee a
emendare il condannato mantenendo tuttavia alla pena il suo carattere afflittivo
ed intimidatorio. Il codice Rocco introduce anche il sistema del “doppio binario”,
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ancora presente nell’ordinamento penale italiano; oltre alle vere e proprie pene,
sanzioni detentive e pecuniarie, collegate ad un fatto costituente reato, sono
previste le misure di sicurezza comminate dal giudice in base alla pericolosità del
soggetto. Nascono così, sotto il profilo penitenziario, oltre le vere e proprie carceri,
gli istituti per l’esecuzione delle misure di sicurezza (case di lavoro, colonia
agricola e gli ospedali psichiatrici giudiziari). Il movimento per la riforma
dell’ordinamento penitenziario iniziò ufficialmente, in sede governativa, con la
nomina di una commissione ministeriale avvenuta nel 1947.
Si moltiplicavano intanto le iniziative di studio, fra i quali ricordiamo quelli
condotti da una commissione creata nell’ambito del Centro nazionale di
prevenzione e di difesa sociale di Milano. Dopo una lunga fase di lavori, il
Parlamento fu finalmente investito dell’esame di un disegno di legge
sull’ordinamento penitenziario. Questo disegno di legge conglobava anche la
materia concernente la prevenzione della delinquenza minorile, nella prospettiva
di riforma della legge istitutiva del Tribunale per i minorenni del 1934. In questa
lunga evoluzione storica la legge del 1975 segna un fatto assolutamente nuovo.
Per la prima volta, infatti, la materia che attiene agli aspetti applicativi delle
misure penali viene regolata con legge. Nell’Italia post-unitaria il settore
penitenziario era stato regolato da una serie di disposizioni particolari e dal
regolamento generale per le case di pena del 1891.
Il sistema legislativo
Le fondamentali linee di tendenza della politica penale quali descritte
finora, hanno trovato eco anche in Italia. Il momento più significativo nel recepire
il principio del trattamento carcerario deve essere considerato quello dell’entrata
in vigore della Legge del 26 luglio 1975, n° 354, “Norme sull’ordinamento
penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”.
L’ideologia e i principi della riforma non sono mai stati smentiti, ma estesi nelle
concrete realizzazioni dalle successive modifiche alla citata legge, in particolare
con la Legge del 10 ottobre 1986 : “Modifiche alla legge sull’ordinamento
penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”. E’
da precisare che l’ordinamento penitenziario ha in sé tre differenti contenuti:
- le disposizioni sulla organizzazione carceraria, in armonia con le regole minime
per il trattamento dei detenuti, sottoscritte nell’ambito delle organizzazioni
internazionali (ONU e Consiglio d’Europa);
- l’identificazione di strumenti inframurari per tradurre in atto le finalità
trattamentali e rieducative;
- l’introduzione di nuovi strumenti sanzionatori penali, extramurali, che la legge
definisce “Misure alternative alla detenzione” e di altri benefici premiali ispirati al
riduttivismo carcerario.
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La nuova organizzazione carceraria, in sostanza, dovrebbe rispondere al
principio di umanizzazione della pena, garantire il rispetto della personalità del
detenuto, e tutelarne i diritti. Prevede, inoltre, le norme relative al vestiario,
all’igiene personale, garantisce il servizio sanitario e l’assistenza psichiatrica.
Sancisce inoltre le modalità di colloquio con congiunti ed altre persone,
garantisce la segretezza della corrispondenza regolamenta il lavoro ed il
pagamento dello stesso. Incentiva l’azione rieducativa e risocializzativa attraverso
la possibilità di aderire a differenti iniziative e corsi (attività sportive, laboratori
artigianali, corsi differenziati, iniziative scolastiche, artistiche ed umaniste). E’ poi
regolamentato il sistema disciplinare con ricompense (encomio, visite premio) e
con sanzioni (richiami, ammonizioni, esclusione dalle attività, isolamento). Contro
queste ultime è previsto anche il diritto di reclamo agli organi amministrativi del
Ministero di Grazia e Giustizia, al magistrato di sorveglianza e ad altre autorità.
Le finalità trattamentali si focalizzano sul principio della individualizzazione
del trattamento sancite dagli articoli contenuti nell’ordinamento stesso:
art.1: di carattere generale, sottolinea sia il genere “rieducativo del trattamento
che tenda al reinserimento sociale”, sia la “individualizzazione del trattamento in
rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”.
art.13: in esso viene “predisposta la osservazione scientifica della personalità per
rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale”.….
“in base ai risultati della osservazione, sono formulate indicazioni in merito al
trattamento rieducativo da effettuare ed è compilato il relativo programma”.
art.15: circa gli elementi del trattamento la legge è generica: “…è svolto
avvalendosi principalmente dell'istruzione, del lavoro, della religione, delle attività
culturali, ricreative e sportive ed agevolando opportuni contatti con il mondo
esterno ed i rapporti con la famiglia”. Si può cogliere che non ci sono accenni
diretti all'opera dello psicologo, al quale poi però viene chiesto ( artt. 71 e 80 ) di
svolgere una specifica attività e di fornire delle relazioni in merito.
art.16: le modalità del trattamento da seguire, in ciascun istituto, sono
disciplinate dal regolamento interno, che è predisposto e modificato da una
commissione composta dal magistrato di sorveglianza, dal direttore,
dall'educatore, dall'assistente sociale. L’art.16, inoltre, precisa che la équipe per il
trattamento dei detenuti può avvalersi degli esperti indicati nel 4° comma
dell'art.80, in cui si parla tra l’altro, come vedremo di “professionisti esperti in
psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica.”
L’ordinamento penitenziario, così come riformato dalla legge 10 ottobre
1986 n. 663, al riguardo così prevede circa le misure alternative alla detenzione:
art. 47: “il provvedimento di affidamento in prova al servizio sociale è adottato
sulla base dei risultati della osservazione della personalità, condotta per almeno
un mese in Istituto” e qualora non sussista pericolo che il soggetto compia altri
reati.
art.50: “l’ammissione al regime di semilibertà è disposta in relazione ai progressi
compiuti nel trattamento
quando vi sono le condizioni per un graduale
reinserimento del soggetto nella società”.
art.80: “per lo svolgimento delle attività di osservazione e trattamento,
l’amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in
psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica”.
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La circolare istitutiva del servizio Nuovi Giunti (N° 3233/5683 del 30/12/87)
istituisce, nel quadro della prassi d’accoglimento dei detenuti “nuovi giunti”, un
servizio quotidiano destinato a prevenire i casi di suicidio e di altri casi di
violenza, autodiretti e eterodiretti. Tale incarico viene attribuito ai cosiddetti
“esperti” in criminologia e psicologia (previsti dalla L.354), con l’obiettivo di
conoscere e controllare quei fenomeni di violenza, soprattutto autodiretta che
sono sempre esistiti in ambito detentivo, ma il più delle volte ignorati o taciuti:
prevenirli attraverso l'accertamento di situazioni personali di fragilità fisica e
psichica e la collocazione di questi casi in un reparto “a rischio”, con particolare
sorveglianza e protezione.
Da quanto esposto risulta evidente la posizione del tutto consultiva e
facoltativa dello psicologo, al quale poi però verrà chiesto di occuparsi del
trattamento e di esprimersi in merito. Ma di questo tratteremo nella seconda
parte di questo lavoro.
Il regolamento di esecuzione contiene, del resto, elementi interessanti circa
l’attività e l’impiego degli psicologi:
art.1: “il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà
consiste nell’offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani,
culturali e professionali. Il trattamento rieducativo... è diretto, inoltre, a
promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo
ad una costruttiva partecipazione sociale”.
art.4: “gli interventi di ciascun operatore professionale o volontario devono
contribuire alla realizzazione di una positiva atmosfera di relazioni umane e
svolgersi in una prospettiva di interazione e di collaborazione. A tal fine, gli
istituti penitenziari e i Centri di servizio sociale, dislocati in ciascun ambito
regionale, costituiscono un complesso operativo unitario, i cui programmi sono
organizzati e svolti con riferimento alle risorse della comunità locale”.
art.27: “l’osservazione scientifica della personalità è diretta all'accertamento dei
bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisio-psichiche,
affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio alla instaurazione di
una normale vita di relazione. Ai fini dell’osservazione si provvede all'acquisizione
di dati biologici, psicologici e sociali e alla loro valutazione con riferimento al
modo in cui il soggetto ha vissuto le sue esperienze e alla sua attuale disponibilità
ad usufruire degli interventi del trattamento. All’inizio della esecuzione
l’osservazione è specificamente rivolta, con la collaborazione del condannato o
dell’internato, a desumerne elementi per la formulazione del programma
individualizzato di trattamento. Nel corso del trattamento l’osservazione è rivolta
ad accertare, attraverso l’esame del comportamento del soggetto e delle
modificazioni intervenute nella sua vita di relazione, le eventuali nuove esigenze
che richiedono una variazione del programma di trattamento”:
art.28: “la osservazione scientifica della personalità è espletata, di regola, presso
gli stessi istituti dove si eseguono le pene e le misure di sicurezza. Quando si
ravvisa la necessità di procedere a particolari approfondimenti, i soggetti da
osservare sono assegnati, su motivata proposta della direzione, ai centri di
osservazione.
L’osservazione
è
condotta
da
personale
dipendente
dall'amministrazione, e secondo le occorrenze, anche dai professionisti indicati
...omissis ... Le attività di osservazione si svolgono sotto la responsabilità del
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direttore dell’istituto e sono dal medesimo coordinate”.
art.29: “la compilazione del programma di trattamento è effettuata da un gruppo
presieduto dal direttore e composto dal personale e dagli esperti che hanno svolto
le attività di osservazione indicate”.
In questi ultimi articoli,28 e 29, l’osservazione della personalità viene
implicitamente demandata agli esperti che collaborano poi al programma di
trattamento del detenuto. La più evidente ed immediata osservazione è pertanto
quella che riguarda la natura facoltativa ed accessoria dell’inserimento degli
psicologi, confermata dal fatto che questi ultimi operatori non hanno ruoli e
funzioni precise, come invece le hanno tutti gli altri operatori penitenziari. Prova
ne é che non ne sono previste attribuzioni, come lo sono invece, per gli assistenti
sociali (art.81) e per gli educatori (art.82), i quali sono regolarmente inquadrati
nei ruoli del Ministero di Grazia e Giustizia.
Il sistema penitenziario
A questo punto possiamo chiederci: ma cos’è un istituto penitenziario?
La domanda, in questo contesto, può sembrare provocatoria e quasi irritante, ma
molte volte, credo che agli stessi operatori penitenziari non siano chiari i termini
della realtà di riferimento, se intesa nel suo insieme di un sistema organizzato di
norme ideologicamente orientate.
Il carcere, costituisce a tutt’oggi, nella maggior parte dei sistemi penitenziari
contemporanei, la struttura centrale all’interno del sistema delle pene.
Nonostante vi siano spinte per diminuirne la portata, l’intensità e la centralità,
sussiste pur sempre con tenace persistenza nelle sue varie e differenziate forme.
Pur essendo, ormai in vigore, in molti paesi occidentali, misure alternative alla
pena detentiva, il fatto che si preveda l’alternativa al carcere, significa che
quest'ultimo rimane il termine di paragone, l’istanza decisiva a cui fare ricorso in
caso di fallimento di altre vie. “La parola carcere evoca immagini di un ambiente
chiuso, controllato, oscuro, di un gruppo separato, isolato, da ignorare” (Bertelli
B. 1988). Carcere significa essenzialmente istituzione totale “la vita quotidiana, il
lavoro, il tempo libero, sono appiattiti dall’unidimensionalità spaziale e gestionale:
luoghi, regole, imposizioni, poteri, sono in questi diversi ambiti vitali sempre gli
stessi, uguali, uniformi”. (Bertelli B. 1988).
Carcere come istituzione, dunque, e come tale presenta sostanzialmente
due aspetti essenziali:
- Il primo livello riguarda gli elementi ormai tipici e tradizionali, quali l’edificio
chiuso, gli orari di vita e del lavoro, le regole comuni, lo staff dirigente e di
custodia.
- Il secondo livello riguarda invece le modalità, la qualità ed il tipo con i quali
opera l’istituzione stessa: la formazione e la custodia.
Attraverso ogni tipo di istituzione “formativa” si persegue innanzi tutto un
obiettivo di trasmissione socio-culturale di valori e di moduli di comportamento,
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che produrranno come effetto un inserimento e una partecipazione reale degli
individui, nell’ambito del piano predisposto a tal fine.
In istituzioni di tipo particolare quale è quella penitenziaria invece, e che proprio
per questo si definisce “totalizzante” , l’obiettivo e la finalità esplicita ed
immediata è quella di escludere ed isolare gli individui e di ottenere un livello
ottimale di custodia attraverso l’adeguamento dei detenuti a precise norme
istituzionali interne, e pertanto “diverse” da ogni altra.
Il principio-ipotesi su cui si fonda una tale istituzione è che sia la
dimensione organizzativa che quella istituzionale, di fatto possono coprire tutti i
principali bisogni degli ospiti: la rassicurazione che ne deriva vale per la realtà
esterna, poiché di fatto assicura una custodia perfetta; e vale per la realtà interna
perché assicura una vita meno frustrante del prevedibile. Il prezzo da pagare è
elevato ed è quello della rinuncia all’autonomia personale e di un adeguamento
completo. Inizia in tal modo un processo di identificazione adesiva che ingloba
tutti (detenuti, operatori, agenti).
L’organizzazione di tutto ciò è complessa: in essa interagiscono numerosi
sottosistemi di cui i principali sono: la popolazione detenuta, il personale di
custodia, il personale amministrativo, gli operatori penitenziari. Il tipo di
interazione che si osserva è caratterizzato da un sistema piramidale, in un’unica
direzione, dall’alto verso il basso. Si evidenzia l’impiego dell’ottica lineare,
dicotomica, complementare: giusto-sbagliato, bravo detenuto-cattivo detenuto,
contenitore-contenuto, controllori-controllati, superiore-inferiore. Il contatto
interpersonale, la relazione, non vengono scelti né evitati, l’unica modalità
possibile attiene alla sfera del controllo. In tal modo si realizza l’adeguamento al
carcere. Nell’ambito della istituzione carceraria il processo di adattamentoistituzionalizzazione assume un valore preminente, ed impone un processo
globale senza spazi alternativi e discrezionali finendo con il coinvolgere anche
coloro che dovrebbero essere predisposti al mutamento (gli operatori penitenziari).
Donald Clemmer adopera un termine particolare: “prisonizzazione” che significa
“l’assunzione in grado minore o maggiore delle abitudini, degli usi, dei costumi e
della cultura prevalente della prigione”. E' stata messa in evidenza l’esistenza di
una dimensione autonoma, definita appunto “cultura detentiva”. Il carcere è
organizzato con criteri di efficienza per raggiungere l’obiettivo del massimo
controllo e della sicurezza; ma la legislazione vuole anche il carcere come luogo di
negoziazione, dove le relazioni non devono essere più di tipo duale, lineare, ma
dove si deve promuovere le relazioni fra i diversi sistemi interni ed esterni: la
famiglia, la comunità sociale. Questi messaggi evidenziano una paradossale
ingiunzione, ma ci sono altre considerazioni da fare, una struttura in cui sono
rigidamente classificati i ruoli, i compiti, e dove si evidenziano alleanze
strumentali per la conservazione della struttura interna con precisi limiti e
funzioni che non possono assolutamente essere forzati senza provocare inevitabili
conflitti. La rete tra i vari sistemi all’interno del carcere (personale
amministrativo, operatori, detenuti) fa sì che tutto resti immutato proprio
tentando di cambiare la logica penitenziaria, la quale potrebbe mutare solo
effettuando un salto di livello e quindi una trasformazione della struttura stessa.
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Dopo aver esaminato i tre parametri fondamentali, nei quali si muove lo
psicologo penitenziario, l’osservazione di fondo è questa: l’ordinamento
penitenziario presenta decise caratteristiche di positività, innovazione e
cambiamento, forse a motivo della lunga gestazione (quasi ventennale) e per i
profondi mutamenti politico-sociali che lo hanno accompagnato, nel senso di un
cambiamento anche qualitativo dei fatti e dei vissuti socio-culturali che hanno
portato a tentare una risposta diversa alla criminalità, eppure lo stesso
ordinamento che nella sua enunciazione dovrebbe evocare qualcosa di nuovo e di
attuale, appare, già in parte, superato.
Vediamo come si inserisce a questo punto la figura dello psicologo.
Lo psicologo nella struttura penitenziaria.
Esaminato brevemente l’assunto normativo è possibile a questo punto
individuare alla luce di esperienze pratiche successive alla Legge 354/1975, quali
sono state le difficoltà incontrate per la sua concreta applicazione. In particolare,
per quanto riguarda la utilizzazione dello psicologo ai fini degli obiettivi
riabilitativi. In linea generale, uno dei problemi è legato agli enunciati di una
riforma penitenziaria da un lato innovativi e dall’altro forse già superati e, nei
fatti, dalla insufficiente chiarezza nei programmi e dalla povertà dei mezzi messi a
disposizione, da resistenze all’innovazione esercitata a vari livelli da ambienti,
forse in parte, non ancora convinti della necessità di dover cambiare, e in parte
non in grado di recepire le nuove realtà. Il tutto attribuibile, credo, anche a difetto
di formazione degli operatori, ma più in generale a chiunque graviti intorno al
pianeta carcere.
E’ immediatamente rilevabile una sproporzione tra la riforma esistente e le
risorse destinate: strutture, assolutamente carenti, e persone, “esitanti” perché
forse impreparate alla difficile, complessa situazione connessa con le realizzazioni
degli obiettivi istituzionali. Questo nonostante le lunghissime discussioni e
polemiche che ne hanno caratterizzato la gestazione, e nonostante, in definitiva,
ci fossimo semplicemente adeguati alla Costituzione (art. 27), che prevede che la
pena debba tendere alla “rieducazione” del reo, ai principi della Carta dei diritti
dell’uomo (ONU) e alle prescrizioni del Consiglio d’Europa. Strettamente collegate
a queste considerazioni sono le analisi degli stessi psicologi : criteri sulla
generalità della 354, che risulta da una parte inapplicata e dall’altra superata,
soprattutto in relazione alle metodiche di trattamento ed al ruolo dello psicologo,
quasi accessorio, subalterno. Nella legge citata non è chiarita la posizione
giuridico-professionale dello psicologo, sfumata appare la sua attività, che si
caratterizza come precaria, anche per la ristrettezza delle ore concesse in Istituto.
Inoltre non è previsto nessun programma di formazione specifico, valido per la
messa a punto di sistemi di osservazione e di trattamento comuni. Altre difficoltà
derivano inoltre dalle lunghe discussioni in atto, circa i modi e l’efficacia delle
varie tecniche e metodi della osservazione e del trattamento.
In effetti, sostanziali carenze si rilevano, ad esempio, circa l’osservazione
scientifica della personalità, alquanto approssimativa, ancora insufficiente, e non
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sempre effettuata da personale specializzato. L’applicazione del trattamento per il
recupero dell’individuo che ha violato la legge è del resto oggettivamente
estremamente difficoltoso, nonostante i numerosi passi avanti compiuti a livelli
giuridico e criminologico verso un’ulteriore affermazione dei diritti umani e civili
del reo. La struttura del sistema penale in Italia e all’estero, ha subìto delle
innegabili modifiche ed un palese rinnovamento, ma c’è molto ancora da fare,
non solo per migliorare le strutture di attuazione e le metodologie d’intervento,
ma anche per scardinare la vecchia e ormai superata concezione, ancora vigente
nelle masse e ai vertici, che continua a vedere il carcere come luogo
sostanzialmente punitivo. Tale residuo di una concezione retributiva della pena, o
anche solamente utilitaria, nuoce indubbiamente alla buona attuazione del
trattamento.
Ci sono pertanto motivazioni di ordine teorico, ideologico e di attuazione
pratica che rendono la soluzione dei problemi, soprattutto quelli relativi al
trattamento, piuttosto difficoltosa.
Un discorso sul trattamento è da fare a due livelli: uno riguardante il
detenuto “attuale”, cioè il soggetto che dovrebbe usufruire del trattamento
individualizzato, previsto dall’attività di osservazione e trattamento, l’altro
riguardante il detenuto da “inserire” ovvero il soggetto che, proprio grazie al
percorso individuale svolto all’interno dell’istituto, si progetta nella realtà esterna.
E inoltre la pena ed il trattamento sono da intendersi in senso attivo, finalizzati
cioè ad operare positive sollecitazioni nella personalità, nei comportamenti e negli
atteggiamenti. Agli specialisti non è stato possibile attuare altro che “tentativi” di
osservazione, non potendo spesso andare al di là di una semplice anamnesi
socio-familiare e personale, caratterizzata, spesso, da un linguaggio burocratico,
distante dalla descrizione relazionale dell’individuo, oserei dire “informativa”
piuttosto che “conoscitiva” e quindi senza poter veramente fare approfondimenti
sulle caratteristiche della struttura mentale dei soggetti, per mancanza di
condizioni e strutture operative adeguate. A questo proposito appare opportuno
sottolineare come le aree di osservazione degli psicologi riguardanti i rapporti del
detenuto con gli altri detenuti, con gli operatori, con le istituzioni, con la famiglia,
potrebbero essere in grado di aumentare la conoscenza della personalità del
recluso favorendo un miglior trattamento dello stesso. Pensiamo, ad esempio, al
fatto che usualmente lo psicologo non conosce, nel senso che non effettua
colloqui, con i familiari del soggetto o, che spesso non ha conoscenza del
compagno di cella oppure dei compagni che il detenuto reputa maggiormente
significativi. Il dettato dell’ordinamento penitenziario, è inutile negarlo, è nel
senso di un modello clinico della osservazione e suppone l’attuazione di uno
schema di questo tipo: diagnosi-terapia-progetto di reinserimento. Ricorda Serra,
infatti che: “la legge in effetti tende a seguire una linea di massima di proiezione
all’esterno del soggetto; è la scelta del modello esplicito tesa al reinserimento del
soggetto, più che al miglioramento delle sue attuali condizioni di detenuto. Queste
ultime, infatti, isolate dalla proiezione del dopo, non farebbero che sottolineare gli
aspetti esclusori e stigmatizzanti della pena, aggiungendo ai già devianti nuove e
più sottili e pericolose forme di patologia psichica e sociale”.
Nella attuale situazione culturale e legislativa, un obiettivo minimo da
conseguire è quello di far diventare in qualche modo “terapeutica” la struttura
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istituzionale. Il trattamento dovrebbe consistere nel mettere in grado gli utenti di
percepire nuovi strumenti e di utilizzarli. Riadattarsi è difficile proprio in quanto
risulta particolarmente arduo ad alcuni individui conoscere e gestire la propria
persona e la propria libertà : e non si attua alcuna modificazione se non si riesce
a mettere in grado coloro che dovrebbero usufruirne di esserne consapevoli e
soprattutto protagonisti. Occorre infatti recuperare l’individuale più che tendere a
rendere più umano l'istituzionale. “L’istituzionale” è certo una realtà forse
ineliminabile e quindi campo di operatività e perciò suscettibile di
perfezionamento. Ma appare estremamente ingenua e incerta una operazione di
recupero di tale versante, quale quello della espiazione della pena. che da una
parte non sembra avere ancora risolto taluni problemi di fondo riguardanti le
modalità, e che dall’altra ha certamente bisogno di decristallizzare le attuali
soluzioni “totalizzanti”. L’attuale sistema penale, infatti, tende ad espropriare la
facoltà di scelta individuale e la libertà. L’osservazione ed il trattamento, così
come vengono ipotizzate nell’Ordinamento Penitenziario, dovrebbero invece
essenzialmente essere attuate nella linea di strumenti di recupero anzitutto delle
capacità di scelta. Il rapporto degli operatori dovrebbe ricalcare il più possibile il
rapporto terapeutico nella sua più moderna accezione cioè favorire un percorso di
consapevolezza attribuendo il proprio significato al reato. Nell’ambito di tale
rapporto il soggetto perviene ad una conoscenza della propria esistenza e rivela o
meno la propria propensione al personale progetto esistenziale. A volte si è
potuto scorgere che il bilancio esistenziale si chiude negativamente persino sul
piano delle aspettative delinquenziali (anni di galera per ripetuti reati che non
hanno fruttato niente) e, soprattutto si chiude negativamente sul piano degli
affetti (disfacimento della famiglia e deterioramento dei rapporti sociali). Nella
misura in cui gli operatori del trattamento attuano un approccio diretto a
comprendere e conoscere i problemi del detenuto, si realizza un incontro
terapeutico nell’ambito del quale è rispettata la libertà individuale del soggetto.
Alla riforma dell’ordinamento non è corrisposta una riforma (in termini di
formazione/adeguamento) degli operatori penitenziari. E’ evidente quindi quello
che è accaduto e che accade negli istituti penitenziari in termini di applicazione di
articoli della riforma, quali quelli riguardanti le riunioni di équipes di
osservazione e trattamento, i tipi di misure alternative, l’immissione di psicologi,
criminologi e di educatori.
Ma cos’è una équipe? Come si articola il lavoro di gruppo, quali ne sono le
dinamiche? Cosa vuol dire fare osservazione, quali tecniche utilizzare e quali no,
si dispone di mezzi e strumenti adatti? E per i vecchi operatori (il personale di
custodia ) i compiti sono mutati? In che senso infine è inteso il dover formulare
programmi di trattamento, in prospettiva del reinserimento sociale e lavorativo
dei detenuti se non in diretto rapporto e collaborazione con il territorio?
La riforma dell’ordinamento penitenziario ha accentuato una linea di
tendenza in senso riabilitativo e risocializzativo della organizzazione interna degli
istituti. D’altra parte ci si aspetta che il dettato della legge venga interpretato a
favore dei detenuti, ove possibile, non frapponendo, a volte, ostacoli burocratici e
impedendo, di fatto, che la riforma venga elusa in aspetti del resto essenziali e
vitali. Manca inoltre tuttora una proiezione e un raccordo all’esterno della politica
di rinnovamento, creando paradossi e incomprensioni. All’interno degli istituti,
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l’esterno è concepito solo in termini di pericolo potenziale e di diffidenza talora
anche da parte degli operatori stessi che hanno poche occasioni di confronto sia
con la Magistratura di Sorveglianza che con gli enti territoriali. A questo
ovviamente si aggiunge la difficoltà di pensare ad un progetto di reinserimento
che non può e non deve riguardare solo la sfera economico-lavorativa seppur
essenziale, in quanto è stato dimostrato che non sempre è sufficiente, ma deve
ampliarsi alla conoscenza della capacità relazionale per non lasciare il soggetto
nell’ambito esclusivo della sottocultura di appartenenza, con manifestazioni
ulteriori di comportamenti antisociali, che costituiscono un rafforzamento dei
processi di identificazione e forniscono l’unica possibilità di sopravvivenza.
Il fatto che alla base di tutto c’è il reato, sembra non venga mai preso in
considerazione, anzi venga addirittura escluso. Non si parla mai del significato e
della funzione che il reato ha avuto e che tuttora assume per la personalità del
soggetto.
Sarebbe come parlare della riabilitazione del malato senza accennare alla
specifica malattia invalidante. Se il reato ha una funzione, sia pure negativa (nel
senso che una cattiva compagnia è una soluzione qualitativamente “negativa”, ad
esempio, nell’adolescenza) non possiamo pensare ad un reinserimento senza la
possibilità che il soggetto sia in grado o desideri scegliere comportamenti e
atteggiamenti diversi per il suo processo di adattamento sociale. A tal proposito si
vuole parlare ora di una specifica esperienza lavorativa.
Una esperienza alla sezione “Osservazione”
Sezione “osservazione” o sezione per i “protetti” è definita quella limitata
area destinata a raccogliere persone differenti e con diversificate tipologie di reati
che, appunto, hanno in comune il dover essere “protetti” . Tali individui non
possono essere visti dagli altri detenuti né possono svolgere attività in comune
con altri, in sostanza nella maggior parte dei casi, non partecipano a nessuna
delle attività trattamentali che può offrire l’istituzione. In taluni penitenziari si è
comunque avvertita l’esigenza di poter svolgere adeguate attività trattamentali e ci
si è attivati per la creazione di attività in tali sezioni che consistono nella
possibilità di frequentare la scuola, nell’apertura di piccoli laboratori di
falegnameria o di corsi di computer. Ma torniamo un attimo al termine “protetti”:
come anticipato in tali sezioni vi sono detenuti diversi, individui che hanno
commesso reati sessuali nei confronti di donne, di minori, reati di incesto, ex
appartenenti alle forze dell’ordine, collaboratori di giustizia o ex collaboratori di
giustizia, a volte troviamo anche soggetti transessuali che anche loro devono
essere protetti. L’esigenza istituzionale di “protezione” dagli altri detenuti spesso
non sembra trovare riscontro nel vissuto di tali soggetti che, oltretutto, avendo,
taluni, sperimentato sezioni normali in altri istituti, non si vivono in modo diverso
da altri individui che hanno commesso reati altrettanto gravi . Quindi che
significato simbolico assume il termine “protetti” ? Forse il fatto che siano
reclusi, che non abbiano momenti in comune con altri detenuti, che non
prendono parte alle iniziative e manifestazioni istituzionali, che abbiano una
ridotta libertà di movimento rispetto agli altri (non vi è possibilità, per esempio, di
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frequentare la biblioteca, di trovare un lavoro, ridottissima è la percentuale di chi
usufruisce di benefici premiali) ha il senso di proteggere loro da se stessi se,
appunto, non vogliamo pensare che la pena sia solo vendicativa e retributiva non
aderendo dunque ai principi della
riforma penitenziaria.
“Osservare”
e
“proteggere” i detenuti dalla loro stessa persona, da quegli spazi mentali infantili
che hanno abolito ogni differenziazione sessuale e di ruolo (come nei reati
d’incesto o sui minori) o coloro che hanno visto crollare un’identità che celava,
citando Winnicott, un “falso sé” (come gli appartenenti alle forze dell’ordine che,
tra l’altro, non si ritengono simili agli altri detenuti) o i collaboratori di giustizia
che, al di là del significato reale del loro gesto, si “pentono” come i bambini delle
loro malefatte (non a caso in gergo vengono chiamati “pentiti”).
Se si è certamente d’accordo sull’utilità per gli stessi di essere custoditi e,
appunto, protetti dalla loro incapacità attuale di sentire e agire in modo diverso
nonché, talora, da una presente pericolosità sociale, ci si domanda però come è
possibile nel sistema penitenziario attuale poter svolgere un’attività di
osservazione e trattamento su tali soggetti e attraverso quali fattori poter almeno
“tentare” una prognosi sociale. Spesso tale sezione, forse per l'esigenza di tutti :
giudici, psicologi, avvocati, agenti di custodia, di essere “protetti” dal contatto
emotivo e relazionale con tali detenuti viene dimenticata nel tempo-spazio
dell’operatore che si confonde con il tempo-spazio del carcere nel senso che viene
a crearsi un sistema circolare di proiezione in cui tutto viene assorbito dalla
“impossibilità” di fare qualcosa, lo psicologo non sa quali attività proporre perché
magari quelle più adatte al soggetto non sono accessibili allo stesso, i benefici
premiali presupporrebbero più che un’indagine familiare, un momento
conoscitivo e di esplorazione delle dinamiche familiari che non viene solitamente
fatta e, probabilmente, non è neppure compito delle assistenti sociali ministeriali,
il detenuto si lamenta e nella maggior parte dei casi comincia a manifestare ansia
di tipo persecutoria e quindi diviene praticamente impossibile sia per il detenuto
che per lo psicologo cercare di effettuare uno spostamento dalla realtà esterna,
oggettiva, a quella interna personologica e individuale.
Tale modalità non
favorisce certo una conoscenza delle difficoltà del soggetto ma un’abile strumento
difensivo anche per lo psicologo che, in parte, teme il contatto per paura di
lasciarsi invadere, di provare rabbia o disgusto, lo stesso che il soggetto ha
provato e vuole trasmettere. La soluzione finale spesso consiste nel lasciar
trascorrere tutti gli anni di carcere e nel tornare successivamente nel nucleo di
appartenenza senza la possibilità di modificare qualcosa o di poter lavorare con
équipes esterne che si occupano
di tali problemi sempre più evidenti e che,
certamente, sono indici di un disagio profondo che spesso riguarda l’intero nucleo
familiare (pensiamo ai casi di incesto). Anche all’interno dell'istituzione, nelle
attività di osservazione e trattamento, spesso non si riesce a cogliere taluni
aspetti della personalità, in quanto la maggior parte di detenuti non lavora, pochi
frequentano la scuola, esistono processi di stigmatizzazione anche fra loro, molti
sono lasciati soli dai familiari oppure i parenti che decidono di star loro ancora
vicino, lo fanno schierandosi dalla loro parte. I soggetti si vivono legati agli atti
processuali che a tutti i costi desiderano spiegare o negare volendo convincere
l’interlocutore. Quale può essere dunque, in tali casi, il ruolo terapeutico dello
psicologo? Forse di aiutare il soggetto a conoscere la sua verità; ma è possibile in
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tale contesto? E’ capitato e, più di una volta, che alcuni riconoscessero la loro
colpevolezza, la loro incapacità di gestire le emozioni, ma a chi rivolgersi
all’esterno per confidare tali “terribili” desideri? Qualcuno ci aveva provato con il
consultorio familiare ma è stato risposto che non era il luogo adatto e, in parte è
certamente vero; d’altro canto esistono centri per bambini maltrattati e vittime di
abuso psicologico e sessuale, come esistono centri per donne con gli stessi
problemi entrambi indispensabili, ma come affrontare il problema dall’altra
parte? Solo con un inasprimento delle pene? Certamente no, occorre un impegno
profuso e ampio nella conoscenza di tali disturbi e nella capacità di offrire
risposte e percorsi da affrontare all’interno del carcere ma anche al suo esterno,
attraverso una maggiore collaborazione con la Magistratura e gli enti territoriali,
se non si vuole rimanere passivi davanti a fenomeni allarmanti e dover dire che
non c’è nulla da fare.
Parte seconda
Questa seconda parte, è stata redatta a distanza di qualche anno rispetto alla
prima. Sono seguite dunque nuove esperienze e conseguentemente nuove
riflessioni che avrebbero forse richiesto qualche modifica di quanto
precedentemente osservato. Abbiamo tuttavia deciso di lasciare invariato quanto
esposto nella prima parte, proprio per poter evidenziare l’evoluzione del nostro
interesse. Tutto ciò per rendere ragione delle ripetizioni che inevitabilmente il
lettore noterà nelle pagine che seguono.
Sulla rieducazione e riabilitazione
Dopo quanto detto finora, è lecito domandarsi quale possa essere una
valida ipotesi di lavoro che permetta di superare, almeno in parte, l’attuale
empasse in cui ristagna il problema della rieducazione del detenuto.
Non
vi
sono infatti dubbi sul suo fallimento o per lo meno sul fatto che non ha dato i
risultati sperati: per rendersi conto della situazione basta osservare le statistiche
sulla recidiva. Ciò che colpisce è semmai il fatto che la reiterazione del reato non
avviene, tanto, durante la concessione dei benefici premiali previsti
dall’ordinamento penitenziario, ma dopo aver riacquistato la libertà, bene prezioso
che, ogni detenuto sogna per anni di ottenere.
Si può pensare, al riguardo, che una forma di controllo esteriore funzioni al
posto dell’interiorizzazione di regole e di norme etico-sociali, ma che si tratti di
una situazione del tutto temporanea, e che quindi il tempo trascorso in carcere
non abbia affatto modificato gli aspetti della personalità legati alla commissione di
atti antigiuridici, che vengono perciò reiterati una volta venuto meno lo stretto
controllo del regime carcerario.
Ciò significa che l’ordinamento penitenziario pur avendo contemplato le
finalità trattamentali e rieducative in maniera puntuale, non riesce però a
15
sostenerle adeguatamente nella loro attuazione, per cui tutto rimane sul piano
programmatico e crea non poche perplessità sull’effettivo impegno rieducativo.
L’ordinamento penitenziario, nell’art.1, oltre a sottolineare la necessità di
trattamento conforme a umanità e tale da assicurare il rispetto della dignità della
persona, precisa che : “Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere
attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con
l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi”; se è vero che si prevede
che il trattamento sia attuato secondo un criterio di individualizzazione in
rapporto a specifiche condizioni dei soggetti; se è ancora vero che nell’art.13, si
afferma che “Il trattamento penitenziario deve rispondere ai bisogni di ciascun
soggetto”; è anche vero che il trattamento, secondo l’art.15, “è svolto avvalendosi
principalmente dell’istruzione, del lavoro, delle attività culturali, ricreative e
sportive, agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la
famiglia” il che sembra indicare una visione alquanto semplicistica della processo
che deve avvenire perché un soggetto antisociale diventi socialmente integrato.
Inoltre, nell’Ordinamento penitenziario, la figura dello psicologo che, dovrebbe
avere nella questione, data la natura psicodinamica degli obbiettivi rieducativi, un
ruolo primario, è invece, così come delineata dall’art.80, ritenuta “facoltativa”,
mentre la figura cardine rimane quella dell’educatore. Ci sembra che tale
incongruenza sia più che sufficiente per farci ritenere le nostre perplessità non del
tutto immotivate, e che l’ordinamento penitenziario rischi di ridursi ad una vasta
operazione demagogica.
D’altro canto, il punto di vista del detenuto sulla situazione, non è certo più
confortante: ciò che di fatto si osserva, all’interno degli istituti penitenziari, è
prevalentemente una sollecitazione continua, da parte dei detenuti, per ottenere
lavoro. Ovviamente ciò è anche comprensibile poiché, spesso, la necessità sentita
come prioritaria è quella di aiutare la famiglia all’esterno o di non pesare sui
propri genitori; oppure egli non può contare che su se stesso, non essendogli
rimasto alcun contatto con il mondo esterno. Non va inoltre dimenticato che,
talvolta, l’attività lavorativa è utile per ottenere le stesse misure alternative al
carcere o, come nel caso della concessione, da parte della direzione del carcere, di
quanto previsto dall’art.21, diviene persino indispensabile. Non solo: alcune
attività cominciate all’interno dell’istituto penitenziario possono proseguire anche
all’esterno e si può ben immaginare come i detenuti spesso orientino i loro
interessi verso quelle attività. Tuttavia, pur prendendo in considerazione questo
insieme di ragioni, rimaniamo convinti che si tratta di un impegno che da solo
non può certo esaurire l’idea del “trattamento”.
In sostanza, il trattamento viene a coincidere, per così dire, con una sorta di
ergoterapia, quindi di lavoro inteso come “cura”, come processo rieducativo in sé,
cosa ben diversa dal risultato di un percorso di rieducazione e risocializzazione.
Vi è poi il principio della “buona condotta”; che rientra nella logica di
un’istituzione come quella carceraria che utilizza un sistema fondato sul premiopunizione; in tal senso si possono leggere, infatti, le ricompense elargite (encomi,
colloqui e telefonate premiali) e le sanzioni previste (ammonizioni, richiami,
esclusione dalle attività ricreative e sportive, isolamento dalle attività in comune).
In sintesi, possiamo dire che la decisione, da parte del detenuto, di
comportarsi “bene”, cioè di non incorrere in sanzioni disciplinari che potrebbero,
16
una volta segnalate alla magistratura di sorveglianza, interferire con la
concessione dei benefici, altro non è che l’accettazione di un accordo implicito, a
seguito del quale vi è una equivalenza di significato tra riabilitazione e “buona
condotta”. Certo, è anche ovvio che all’interno di un istituto di pena, il problema
primario sia quello del controllo e della sicurezza. Ricordiamo, a tale proposito,
che esiste un regime di sorveglianza particolare, riservato ai detenuti che
presentano una pericolosità penitenziaria (concetto diverso da quello di
pericolosità sociale): soggetti che con il loro comportamento compromettono la
sicurezza o l’ordine degli istituti, che con la violenza o la minaccia impediscono le
attività degli altri detenuti e che con la loro arroganza cercano di esercitare, e di
fatto spesso ci riescono, una azione di soggezione nei loro confronti. Tuttavia tali
situazioni non sono frequenti, per cui il fare della “buona condotta” il parametro
esclusivo della avvenuta riabilitazione non è nemmeno giustificato dall’emergenza
.
Quello che sorprende è che non esistano analisi approfondite, nel senso
scientifico del termine, di detta situazione. Non ci risulta che qualcuno abbia
sottolineato, ad esempio, che questa norma implicita della buona condotta crea
un circolo vizioso, in quanto ripropone proprio quello schema relazionale autoritàdipendenza che il detenuto ha rifiutato ed attaccato attraverso l’atto criminoso.
Allo stesso modo è palese che il sistema premio-punizione altro non è che il tipico
strumento del conservatorismo più radicale. Non è forse vero che tale sistema
altro non è che la trasposizione del famoso “voto in condotta” nel cui clima molti
di noi sono stati educati? Queste osservazioni sono tanto più ineludibili quanto
più richiamano la situazione adolescenziale laddove, del resto, si rivela e prende
corpo il comportamento asociale che costituisce, di regola, il prodromo della
futura personalità delinquenziale.
Per quanto riguarda l’attività occupazionale, essa trova ampie motivazioni e
giustificazioni: tenere il detenuto occupato in attività trattamentali lo distoglie
dall’oziare in cella, dal passare il tempo a guardare la televisione o
dall’intrattenere rapporti conflittuali sia con i compagni di detenzione, che con gli
agenti di custodia ; ma non può diventare al tempo stesso mezzo e fine della
riabilitazione; può semmai costituirsi come un’opportunità, talora proveniente
dall’esterno. Si pensi
al coinvolgimento di cooperative di solidarietà o ad
associazioni cattoliche, piuttosto che ad aiuti dalle scuole, dalle Università o da
Comuni per coordinare e programmare corsi, un modo, quindi, perché il “fuori”
conosca il carcere. Un esempio di ciò lo si può trovare negli incontri effettuati tra
studenti delle superiori di scuole esterne e studenti detenuti o tra lavoratori
esterni e lavoratori detenuti.
Tutti questi problemi di convivenza e organizzazione istituzionale, pur
tenuti presenti nell’ordinamento penitenziario, finiscono però col far riservare
scarsa attenzione alla verifica di un effettivo risultato rieducativo e riabilitativo.
Tuttavia questa situazione non può protrarsi all’infinito: non si possono ignorare
le critiche e le proteste dell’opinione pubblica, dato che stanno diventando
sempre più pressanti. Non è da oggi che le innovazioni introdotte dalla riforma
sono oggetto di perplessità e critiche, pur accettando le difficoltà connesse al
problema. Se non si può perseguire una politica di de-carcerizzazione senza dare
per scontati alcuni inconvenienti rispetto alla concessione dei benefici premiali,
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primo tra i quali quelli che derivano dal fatto che il principio della
individualizzazione del trattamento è tutt’altro che facilmente attuabile, data la
difficoltà di effettuare prognosi e data la tendenza da parte di persone pericolose
di approfittare dell’eccessivo indulgenzialismo per eludere l’esecuzione della pena,
tuttavia l’identificazione della pubblica opinione con le vittime dei reati è massivo
e quindi ineludibile, per cui continuano ad essere avanzate, da più parti, proposte
per limitare la portata delle misure alternative al carcere, escludendone gli autori
di reati di particolare allarme sociale (quelli connessi per esempio
all’appartenenza alle associazioni di tipo mafioso, al traffico di droga, al
rapimento per fini di estorsione, ai reati sessuali ecc).
Al di là del dibattito, tuttora in corso, sulla necessità della certezza della
pena piuttosto che sulla sua durata massima che, di fatto, proprio per effetto
delle misure alternative risultano indefinite, occorre ammettere che la realtà è che
manca una concezione adeguata del processo di rieducazione e che senza di esso i
fallimenti e le reazioni ad essi sono destinati a ripetersi. Non è il tempo che manca
per la realizzazione di un valido percorso, dato che anche le misure alternative
richiedono comunque un lasso di tempo per essere concesse; pensiamo per
esempio agli ergastolani che per fruire di permessi devono trascorrere dieci anni
in carcere e venti anni per ottenere la semi-libertà o, comunque, ai soggetti che
subiscono restrizioni all’accesso ai benefici proprio in conseguenza della tipologia
del reato (lasciando chiaramente a parte il discorso sulla concessione della
liberazione anticipata). Ciò che manca è, ripetiamo, una concezione scientifica e
nello stesso tempo non eccessivamente “astratta” (cioè realisticamente fondata),
del concetto di rieducazione che richiede come condizione preliminare una
sufficiente comprensione del significato del reato, inteso come aspetto in qualche
modo “funzionale” alla personalità dell’individuo.
Vale a dire che senza valutazione dell’atto delinquenziale come inserito nella
economia mentale del soggetto non si può costruire una convincente teoria
rieducativa.
Il dubbio è che tale lacuna concettuale non sia davvero sentita come tale,
ma che invece il detenuto diventi oggetto di attenzione solo in occasioni eclatanti
come quelle a cui si riferisce sempre più spesso la cronaca nera . Sembra che la
Giustizia non sia tanto intenzionata a punire la violenza o il comportamento lesivo
in sé, quanto il fatto che tale comportamento aggressivo viene posto in essere
con modalità “palesemente” in contrasto con le quelle implicitamente accettate
dalla Società. Generalmente l’azione punita è quella diretta, caratterizzata da
sottrazione o da offesa concreta, evidente, ed è più grave se si lascia cogliere in
flagranza.
Da qui è naturale che ci si preoccupi di reinserire il soggetto limitandosi a
richiedere prove di “adeguamento” senza preoccuparsi se nel detenuto sia
avvenuto quel processo a seguito del quale, ci verrebbe da dire, la asocialità
dovrebbe trasformarsi in disponibilità alla collaborazione sociale o almeno ad un
adattamento alle regole sociali.
Basti pensare a certi comportamenti chiaramente delinquenziali come
l’inquinamento acustico e atmosferico, la sofisticazione alimentare, l’occultamento
dei residui tossici delle lavorazioni chimiche ecc., che non vengono di fatto
perseguite con la medesima fermezza con cui si perseguono altri reati, pur
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danneggiando i soggetti molto di più di quanto non accada, poniamo, in una
truffa, dato che producono danni alla salute o addirittura modificazioni genetiche
che influiscono sulle generazioni future. Ma questo discorso esce dagli obbiettivi
del nostro lavoro, anche perché ci porterebbe lontano.
Il carcere quindi, si pone, in qualche modo, come un periodo di
riabilitazione “coatta” ma rispetto a cosa? Attraverso il lavoro, lo studio, la buona
condotta si chiede in sostanza di essere un buon detenuto, come se la risposta a
tutto questo costituisse un indice significativo di capacità di reinserimento sociale.
Eppure già Michel Foucault spingeva a diffidare di tali adeguamenti istituzionali,
con la frase divenuta storica, “bravo detenuto, cattivo cittadino”.
In effetti, è paradossale pensare che un individuo, che fino a poco tempo fa
viveva e si comportava non aderendo a norme sociali e giuridiche, aderisca ora
alle regole carcerarie per qualcosa di più di un semplice adeguamento di
convenienza, dato che opponendosi al quale avrebbe tutto da perdere. Inoltre,
quale interesse può avere il detenuto ad instaurare una relazione sincera con lo
psicologo che è anche colui che relazionerà al Magistrato di Sorveglianza? Occorre
anche dire che nella logica premiale vengono inevitabilmente coinvolti gli stessi
psicologi in quanto quando si sentono dire dai detenuti che “è tutto a posto” per
poter accedere ai benefici di legge, cioè che gli stessi svolgono attività lavorativa,
effettuano colloqui con i familiari, non hanno rapporti disciplinari da parte della
polizia penitenziaria ecc., non riescono a contrapporre un criterio rieducativo
alternativo. Il reato appare lontano, rappresenta il “prima”; inoltre, in virtù di
quale logica ci si potrebbe opporre a tale visione delle cose? Tutto ciò porta, talora,
ad una sorta di diffidenza reciproca tra lo psicologo ed il detenuto, nel senso che
se lo psicologo appare al detenuto come una figura strumentale con cui trovare
una sorta di intesa, nel modo di rapportarsi del detenuto, legittimato da quanto
previsto dall’ordinamento penitenziario, lo psicologo non vede nessuna apertura
che possa essere davvero considerata “vantaggiosa”, per cui manca una reale
motivazione ad aprirsi ad un rapporto di fiducia che creerebbe più problemi di
quelli che vorrebbe risolvere. Certamente può accadere che vi siano detenuti che
non cedono al sospetto e al timore di uscirne danneggiati, ma non è certo la
regola. Sul versante opposto dobbiamo chiederci: “se anche gli psicologi che oggi
si lamentano di essere in pochi, di non avere lo stesso linguaggio degli addetti alla
custodia, e talora anche della direzione del carcere, fossero soddisfatti nelle loro
richieste organizzative sarebbero in grado di affrontare adeguatamente il problema
rieducativo”? Forse i detenuti potrebbero vedere più spesso lo psicologo, ma allora
l’impostazione metodologica e scientifica mostrerebbe (salvo che in rare eccezioni)
tutta la sua approssimazione.
In sintesi, ciò che sosteniamo è che occorre una metodologia fondata su una
concezione credibile e scientifica
delle motivazioni che sottendono l’azione
criminosa; una concezione che ne spieghi la natura e la funzione. Da qui,
riteniamo che la base di ogni progetto di rieducazione non possa che essere
costituita da una diagnosi differenziale del reato in termini di significato
psicologico associata alla corrispondente diagnosi di personalità del reo .
Solo la comprensione della funzione che il reato ha avuto e che assume
tuttora per l’individuo, può permettere allo psicologo di verificare quello che
potremmo definire “il livello di fattibilità” per l’avvio e l’attuazione di un processo
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di rieducazione e riabilitazione.
Le tipologie classificatorie della criminalità come quelle che, ad esempio,
sono delineate in qualche Compendio di Criminologia, sono interessanti ma non
sufficienti. Certamente, distinguere, come fa G. Ponti, i Delitti convenzionali o
comuni (ciò che abitualmente e immediatamente viene percepito come delitto e
che suscita univoche reazioni di disapprovazione) dai Delitti dell'ambiente
familiare, (laddove l’ambiente familiare rappresenta un contesto sociale nel cui
ambito si possono realizzare molte condotte criminose specificamente legate alle
particolari caratteristiche dei rapporti interpersonali che in esso si realizzano); o la
Criminalità economica (reati effettuati all'interno di imprese di tipo commerciale,
industriale, finanziario, o produttrici di servizi del terziario, e anche professionali),
dalla Criminalità organizzata, da quella politica e dal terrorismo, contribuisce
certo a far ordine nella complessità della realtà criminale; tuttavia tali
classificazioni per la loro genericità non permettono,
alla luce di quanto
espresso, di rispondere, nemmeno in parte, al problema di cui ci stiamo
occupando: rimangono delle categorie generali scarsamente utilizzabili. Pensiamo,
infatti, a quale casistica diversificata sia inclusa nell’ambito della delittuosità
comune: solo all’interno del reato di appropriazione indebita (da intendersi non
nel senso strettamente giuridico del termine), si va dalle rapine commesse con
l’utilizzo di armi in locali pubblici (poste, banche, negozi)
al furto in
appartamento, al furto di un auto, alle rapine a danno degli anziani che hanno
appena ritirato la pensione, alle minacce del tossicodipendente che agita la
siringa utilizzandola come un’arma impropria, al furto del cleptomane, al
taccheggio nei mezzi pubblici; questo limitandoci a citazioni casuali. E all’interno
degli esempi fatti, come capire realmente quale sia l’intenzione, il movente
psicologico oltre che quello razionale? Se una rapina porta con sé un omicidio o se
il tossicodipendente in preda all’effetto di sostanze, trasforma una minaccia in
una aggressione, talora con conseguenze mortali, come capire cosa sia davvero
successo nella persona, che non si può a volte considerare in preda al panico dato
che ha, magari, già subito una dura esperienza carceraria? Queste riflessioni
dovrebbero anche
aiutarci
a chiarire che la delinquenza non è diretta
conseguenza del disagio sociale considerato in termini sociologici o economici,
ma ha una eziologia psichica complessa. Sappiamo bene, ormai, che spesso il reo
è di “famiglia bene” e che si tratta spesso di soggetti ai quali, sul piano materiale
non manca proprio nulla, e che il loro delinquere ha altrove le sue radici
motivazionali.
La correlazione fra delinquenza e disagio sociale è, semmai, una di quelle
correlazioni che la statistica definisce “correlazioni false”, in quanto la correlazione
è spesso apparente, dato che esiste un fattore “terzo” a cui entrambi i termini del
rapporto possono essere a loro volta correlati acquistando diverso significato.
A nostro avviso, oggi, siamo in possesso di esperienze cliniche così
approfondite da poterne astrarre delle teorie avanzate sia sulla natura e il peso
delle influenze ambientali (famiglia e contesto gruppale), sia sulla natura e la
struttura della personalità delinquenziale, sia, di conseguenza, sul significato
delle diverse forme in cui si articola la nosografia criminale.
Vi è anche la possibilità di rivedere concetti scientifici e convinzioni
giuridiche ormai desueti, che rischiano di far apparire “risibili” alcuni dei più
20
tradizionali istituti giuridici (vedi, ad esempio, il problema della capacità di
intendere e volere, l’esclusione delle psicopatie dalla categoria delle malattie
mentali deresponsabilizzanti, ecc), e inducono ad attribuire la natura di mero
palliativo a quelle strategie ritenute ancora fondamentali (le attività
occupazionali), che potrebbero davvero divenire “terapeutiche” nella misura in
cui, rendendoci conto del loro significato simbolico, potrebbero trovare una
utilizzazione del tutto diversa da quella attuale. Persino la pena alternativa
assumerebbe un senso diverso se psicodinamicamente orientata (vale a dire se
fosse collegata, per esempio, ad inserimenti gruppali adeguati)
L’impostazione da noi seguita tende dunque alla ricerca di una serie di
parametri e di elementi attorno ai quali organizzare un programma di ricerca e
analisi differenziata del reato, che consenta, se non di incidere sostanzialmente
sul problema della rieducazione, almeno di far luce sulle “vere” difficoltà del
processo di rieducazione e riabilitazione previsto dal recente Ordinamento
penitenziario.
Certamente la delusione potrebbe essere grande (forse il timore che la
rieducazione sia una “utopia” aleggia come un fantasma). Ne potrebbe infatti
esitare la conclusione che solo pochi sono i casi in cui è davvero possibile la
rieducazione; tuttavia questo almeno consentirebbe di imboccare, questa volta a
ragion veduta, ulteriori direzioni di ricerca e dosare l’impegno e l’energia degli
operatori sociali; evitare le suggestioni demagogiche e ridimensionare le velleità di
coloro che agitano facili soluzioni.
Potremmo anche essere costretti ad ammettere che a volte, una concezione
meramente “custodialista” della pena è l’unica al momento praticabile.
Da tutte queste considerazioni sulle esigenze di perseguimento della verità
come condizione prioritaria per sperare di affrontare il problema con successo, ci
sembra di poter dedurre che le direzioni di ricerca dovrebbero essere diverse e
riguardare:
a) lo studio della personalità antisociale, intesa
psicopatologica in un più ampio quadro nosografico
come
configurazione
b) lo studio del significato simbolico dei diversi reati presi in considerazione,
questa volta, come un tentativo di costruzione di una nosografia del reato.
c) lo studio del significato e delle correlazioni funzionali tra reato e personalità
del reo. Non dobbiamo dimenticare che l’azione criminosa trova il suo correlato
nel concetto psicoanalitico di acting che assume una connotazione complessa
all’interno del trattamento psicoanalitico, ma che può essere riassunto come la
predilezione dell’azione rispetto alla attività di pensiero.
d) lo studio del rapporto tra struttura familiare e comportamento deviante,
ponendo tra parentesi il concetto di disagio sociale, concetto prettamente
sociologico, privilegiando invece la disamina delle funzioni positive e negative
della famiglia viste in un’ottica psicodinamica.
In sintesi si tratta di studiare la personalità antisociale
21
tenendo conto
dell’insieme dei fattori
psicologici e psico-sociali (influenze dei gruppi di
appartenenza, ideologia relazionale ecc.), considerando però la delinquenza
essenzialmente come un disturbo della personalità con effetti di disadattamento
relazionale e sociale.
Anche nel caso che tale disturbo della personalità sia stato determinato o
sia stato influenzato “essenzialmente” da condizioni familiari sfavorevoli e da ruoli
genitoriali negativi, non per questo cessa di essere tale, per cui non è sufficiente
operare esclusivamente nel senso delle condizioni di vita. Offrire al detenuto
diverse opportunità da quelle originarie non ottiene automaticamente in lui un
cambiamento della sua ideologia delinquenziale.
Ci rendiamo conto che questa connotazione della delinquenza in termini di
psicopatologia presta facilmente il fianco a più di una obiezione. Potrebbe
sembrare una difesa del “sistema” (“chi lo accetta è sano chi vi si oppone è
malato”), oppure una negazione del concetto di responsabilità (se il delinquente è
una sorta di “malato mentale”, non è responsabile). Tuttavia ricordiamo che il
termine “psicopatologia” è da noi utilizzato nella sua accezione più ampia di
visione distorta della realtà, in funzione di strutture personologiche e
caratterologiche essenzialmente narcisistiche, costruitesi attorno alla sofferenza
intollerabile, al disagio e alla intolleranza, a volte genetica’ della frustrazione. Del
resto sappiamo che i detenuti “malati di mente” non sono quelli che soggiornano
in carcere, ma quelli dichiarati “incapaci di intendere e volere” e ricoverati altrove.
Inoltre è l’ordinamento penitenziario che per primo utilizza i termini
“rieducazione” e “riabilitazione” e che parla esplicitamente di “trattamento”.
Il fatto è che il problema della delinquenza e quello correlato della pena sono
alquanto insidiosi e la Società oscilla tra concezioni alternative e inconciliabili che
sono il retaggio di una società moralistica in cui il concetto di colpa e perdono
sono centrali. Vale a dire che il concetto di disturbo mentale, per essere applicato
alla delinquenza necessità di una concezione laica del comportamento sociale. In
cui della necessità non è quasi mai possibile fare “virtù”.
In questa ottica “laica”, in cui lo scopo è di capire la natura dei problemi e
non di giudicare, l’analisi differenziata del reato è a nostro avviso ineludibile; il
medesimo reato, per quanto la gravità possa porlo, da un certo punto di vista,
sullo stesso piano rispetto ai diversi soggetti, non riveste lo stesso ruolo nelle
diverse personalità. Una uccisione che avvenga in ambito familiare, perpetrata da
un coniuge nei confronti dell’altro, ha un diverso significato, da quello che assume
lo stesso reato pur perpetrato con lo stesso scopo, ma avvalendosi di un
intermediario il quale magari neppure conosce la vittima designata; o ancora chi
commette un omicidio in gruppo (pensiamo per esempio ad alcuni omicidi
commessi da giovani adolescenti o appena maggiorenni), non ha lo stesso
significato se il contesto è borghese piuttosto che di emarginazione sociale. E
ancora, come si nota soprattutto in questi ultimi tempi, la criminalità a sfondo
sessuale è quanto di più diversificato ci possa essere in termini di differenziazione
motivazionale. Vi è una differenza di personalità tra chi commette un incesto
(quindi all'interno di relazioni affettive e familiari) da chi
pone in essere
comportamenti pedofili adescando bambini all’uscita della scuola.
Tutte queste sfaccettature del reato, correlate con i diversi aspetti e le
differenti strutture di personalità, sembrerebbero perdersi e confondersi nel girone
22
infernale dell’ambiente carcerario. Tuttavia la conoscenza psicoanalitica intorno
alla ostinata tendenza delle strutture mentali a realizzarsi attraverso la ripetizione
(vedi il concetto di “coazione a ripetere”) ci induce a pensare che il detenuto
tenda a riprodurre modalità di atteggiamento e di comportamento che, al di là del
cambiamento di stile di vita imposto dalle strutture carcerarie, si ripropone anche
nell’ambiente carcerario. Stando così le cose la stessa vita carceraria può
diventare significativa in quanto rivelatrice di caratteristiche di personalità (per
esempio può essere utile conoscere il tipo di attività che il detenuto predilige:
manuale, come lavorare il legno o occuparsi della serra ecc. oppure intellettiva,
come l’informatica, il corso di biblioteconomia o lo studio da solo in cella; inoltre
se il detenuto privilegia attività di gruppo o individuali; i rapporti con i compagni).
Vale a dire che se il reato, specie se reiterato (delinquenza abituale), aveva una
sua funzione, ora tale funzione deve pur essere assolta da qualche altro elemento
sia pure mimetizzato nel “contratto” di buona condotta.
E’ chiaro che l’obbiettivo della rieducazione va distinto in due tempi o
momenti: il primo riguarda la conoscenza, il secondo la metodologia
dell’intervento ed il programma riabilitativo. Si tratta di due momenti distinti ma
interdipendenti: una conoscenza senza una corrispondente metodologia
applicativa diventa inservibile; una metodologia non sostenuta da un adeguato
referente teorico risente della approssimazione e della superficialità del “buon
senso comune”: il programma riabilitativo rimane a livello puramente formale ed è
destinato a deludere. Crediamo che questa sia la lacuna maggiore dei progetti che
riguardano la rieducazione: vi è una metodologia semplicistica che si avvale di
teorie troppo astratte.
E’ noto che negli ultimi tempi si tende a privilegiare il concetto di modello
rispetto alla teoria: una costruzione concettuale più agile che permette risultati
circoscritti ma suscettibili di essere poi collegati tra loro per soddisfare più ampie
esigenze. Un modello non è una teoria, dice Donald Meltzer1, ma un insieme di
concetti funzionalmente organizzati tra loro.
Nell’ambito della ricerca criminologica questa ricerca di modelli è quanto
mai essenziale
L’osservazione della personalità deve, quindi, consistere in una diagnosi
dinamica in grado di descrivere una data personalità in una data situazione; in
un modo che richiama il concetto giuridico di “fattispecie” poiché è solo da questa
che può scaturire una prognosi di reinserimento piuttosto che di persistente
pericolosità sociale. E’ da tale indagine che si possono astrarre utili indicazioni, al
di là del comportamento manifesto, per capire in quale modo il detenuto possa
usufruire di spazi di libertà a controllo ridotto, oppure, al contrario, se la
fruizione di tali spazi debba avvenire sotto stretto controllo o, a limite, in strutture
protette.
1
Insigne psicoanalista inglese autore, tra l’altro, di un interessante studio sulla importanza delle funzioni familiari per lo sviluppo psicologico del bambino: Donald Meltzer: Il ruolo educativo della famiglia – Torino.
23
Il punto di vista psicologico tradizionale
Dicevamo delle
correlazioni tra reato e personalità del reo. Questo
collegamento non può avvenire senza un discorso preliminare che chiarisca i
referenti teorici e l’impostazione metodologica che si intende seguire, e che attinge
alla concezione psicoanalitica dello sviluppo mentale
Ciò che ha nociuto alla psicologia criminale e alla criminologia è sempre
stata, a nostro avviso, una impostazione metodologica fondata sulla correlazione
tra soggetto e realtà esterna; in altre parole l’impostazione psicologica
comportamentista e l’impostazione sociologica. Concezioni che hanno portato a
scelte ed atteggiamenti rigidi, improntati a prese di posizione intransigenti
avvenute tra elementi dicotomici, spesso in opposizione tra loro piuttosto che in
rapporto dialettico. L’esito non poteva che essere quello che è stato e cioè
chiaramente pregiudizievole per la comprensione del fenomeno delinquenziale.
Da questo punto di vista fu certamente pregiudizievole la contrapposizione
tra i fattori costituzionali ed ambientali.
Se l’influenza costituzionale è considerata fondamentale, allora le cause
vanno ricercate con l’anamnesi individuale e familiare intesa come elemento
eziopatogenetico; se invece i fattori ritenuti fondanti la personalità, sono quelli
ambientali, la direzione diventa essenzialmente sociologica con una tendenza alla
deresponsabilizzazione dell’individuo singolo e con un’apertura alla permissività
che non permette di capire la differenza tra chi “si ravvede” e chi, al contrario,
reitera il crimine, o addirittura lo mantiene come filosofia esistenziale (delinquenza
abituale). In tali frangenti, il sistema premio-punizione diventa basilare nella
prima concezione, in quanto serve da stimolo e da rinforzo alle tendenze positive e
assume, inoltre, una valenza deterrente per le tendenze negative (i concetti base
sono dunque quelli di “rinforzo” e di “condizionamento”); mentre alla seconda
concezione consegue un atteggiamento permissivo e tollerante, sorta di elemento
compensatorio e risarcitorio rispetto alle ingiustizie patite.
Considerando le cose sul piano storico, possiamo dire che se è vero che la
concezione della pena è passata dall’una all’altra concezione, cioè dalla pena come
punizione alla pena con funzioni rieducative, tuttavia quest’ultima, mancando di
fondamento scientifico rischia di divenire una sorta di “aspettativa di gratitudine”
o di “riappacificazione sociale” che la società si aspetta da parte del detenuto per
non aver troppo infierito su di lui (il che sfocia nel concetto esasperato di
“garantismo”).
L’approfondimento delle conoscenze, in specie quelle psicoanalitiche, sulla
natura del processo di sviluppo ha dimostrato però l’unilateralità di ciascuna delle
ipotesi sopraddette nella misura in cui alla realtà esterna, oggettiva, costituzionale
o ambientale che sia, viene attribuito un valore, un significato, che di per se
stessa non possiede.
Ma accenniamo ora, sia pure sommariamente, alla impostazione psicoanalitica
che fondata, com’è attualmente, sul concetto nucleare di “relazione
interpersonale”, permette nuove prospettive di indagine e di intervento.
24
La concezione psicoanalitica della personalità
Pur non essendo ovviamente possibile trattare in questa sede il complesso
insieme
concettuale
della
Psicoanalisi,
prenderemo
comunque
in
considerazione quegli aspetti che ci saranno utili per comprendere di che
cosa stiamo parlando quando ci riferiamo al “significato” del reato.
Secondo la Psicoanalisi più attuale, la personalità si costruisce, si struttura,
in funzione dell’esperienza emotiva (affetti, sentimenti ed emozioni). Vale a dire
che la natura della nostra visione della realtà e le qualità che attribuiamo alle
nostre relazioni interpersonali, in altre parole, le “valenze affettive”, dipendono
dalle
esperienze emotive ad esse correlate che, dando
luogo ad idee,
atteggiamenti e comportamenti in rapporto alla concezione che ci siamo fatti della
realtà, concorrono sia a strutturare quell’insieme di elementi personologici ai quali
siamo abituati a riferirci con il termine “carattere”, sia alla formazione di quella
che potremmo definire la “ideologia relazionale”, vale a dire il modo di considerare
le relazioni interpersonali.
Si tratta di una prospettiva molto più ampia di quella consentita dalla
primitiva concezione freudiana, che metteva invece l’accento essenzialmente sulla
soddisfazione sessuale come “gradiente significativo” della vita di relazione .
Secondo Freud, il modo di essere di un individuo, compresi i suoi
comportamenti, le sue strategie e i suoi atteggiamenti relazionali, dipende dalle
vicende pulsionali; per cui all’origine dell’amore e dell’odio (e dei sentimenti a
questi connessi) vi é, rispettivamente, la soddisfazione sessuale o la sua
frustrazione; e quindi tutto sembra dipendere dalla disponibilità dei genitori alla
gratificazione delle pulsioni piuttosto che alla loro repressione.
Amore e odio nella concezione freudiana sono quindi strettamente
dipendenti dalle “vicissitudini degli istinti”, come ebbe a dire lo stesso Freud, ed
alle loro trasformazioni (di cui tratterò tra poco).
Furono i successori di Freud che, cominciarono a considerare le vicende
dell’amore e dell’odio in rapporto ad un concetto di sofferenza psichica ben più
complesso; questa volta non solo dovuta alla frustrazione sessuale del bambino o
alla sua paura di essere punito a seguito dei desideri edipici (angoscia di
castrazione); ma collegata alle emozioni e agli affetti così come si presentano al
soggetto nelle sue vicissitudini della crescita e a loro volta correlati alle esperienze
di amore, sostegno, protezione o, al contrario, di odio, abbandono, mancanza di
cure ecc.
Il clima in cui avviene lo sviluppo è dapprima un clima di persecutorietà
(fame, sete, sonno, dentizione ecc.) , cioè molto diverso da quello felice che si
attribuiva un tempo all’età infantile; più tardi di ambivalenza (paura-sicurezza,
fiducia-sfiducia, speranza-disperazione, egoismo-altruismo ecc.), infine di
riconoscimento del valore dell’oggetto, con la messa a fuoco delle aspettative nei
suoi confronti (bisogno e desiderio di sostegno, protezione, comprensione,
solidarietà, altruismo ecc.); sia pure in una situazione comunque oscillante tra
posizioni narcisistiche ed altruistiche.
Questa evoluzione di pensiero
introdusse nella Psicoanalisi un vero e
proprio “sistema di valori”, per cui cominciarono a prendere corpo in maniera
nuova, concetti come egoismo e altruismo, buono e cattivo, verità e menzogna,
25
invidia e gratitudine, con una conseguente crescita progressiva, in termini di
importanza, del concetto di responsabilità quale elemento fondamentale per la
maturazione e la stabilità psichica.
Si scoprì che il pessimismo piuttosto che l’ottimismo, la fiducia e la
speranza piuttosto che la sfiducia e la disperazione (o il scetticismo), derivano
dalla qualità e dalle caratteristiche (vere o immaginate che siano) dei rapporti più
significativi della nostra infanzia e dalla loro possibile trasformazione nel corso del
processo di crescita; dato che sono essi che, una volta interiorizzati, vanno a
caratterizzare quel “mondo interno” che ciascuno poi tende a riprodurre ed a
riproporre a se stesso e agli altri, nella realtà di ogni giorno.
La caratteristica di questa situazione, quella che la rende problematica, è
data dal fatto che, come dicevo più sopra, all’inizio le esperienze emotive vissute
dal bambino sono in gran parte dolorose e soprattutto scarsamente dotate di
senso, oltre che ingestibili; una atmosfera “persecutoria” che deve essere
bonificata dalla presenza e dalle cure genitoriali, dapprima la madre
successivamente il padre; cure che solo faticosamente il bambino riuscirà a
collegare alle figure reali dei genitori.
In poche parole, nel periodo neonatale accade al bambino
quello che,
filogeneticamente, si ritiene sia accaduto all’uomo primitivo quando attribuiva i
mali dei quali non conosceva il significato, agli Dei o ai Dèmoni.
Sia pure avvantaggiato dal fatto che le percezioni infantili persecutorie sono
“fantasmatiche” e quindi irreali, mentre la presenza e la sollecitudine materna è
reale, concreta, per cui gli aspetti negativi vengono ancorati alla fantasia (l’orco, la
strega ecc.) e quelli positivi alla presenza reale materna, il bambino ha comunque
bisogno di questo processo di “bonifica” che cambi la iniziale componente
paranoica della visione del modo2.
Il problema è che, affinché una esperienza negativa sia bonificata c’è
bisogno di tempo e di tolleranza, soprattutto di tolleranza della mancanza,
dell’attesa.
Una intolleranza dell’angoscia, induce infatti il bambino a ricorrere a
meccanismi psichici così detti di scissione e negazione, con i quali allontanerà
dalla sua mente, attraverso fantasie difensive, l’esperienza emotiva intollerabile:
egli tenderà cioè a negare la realtà che non riesce a sopportare.
Ora, se non c’è questa capacità di tolleranza, se manca questa disponibilità
a procrastinare l’azione, non c’è nemmeno la possibilità di utilizzare il pensiero,
quello strumento che permette di verificare criticamente la fondatezza dei nostri
timori e la effettiva realtà delle intenzioni altrui.
E’ noto come di fronte ad un impatto emozionale che pensiamo potrebbe
indurci ad una azione intempestiva preferiamo “pensarci su”
Il pensiero nasce infatti dalla sospensione dell’azione e dalla capacità di
dilazionare la soddisfazione dell’impulso, come sosteneva del resto lo stesso
Freud.
Se il soggetto è intollerante, se il suo desiderio o se la sua aggressività sono
incontenibili, il tentativo di risolvere i problemi attraverso l’azione diverrà la sua
regola di vita; quello che a livello psicopatologico si chiama “passaggio all’atto” o
2
E’ evidente come le esperienze negative siano estremamente deleterie se avvengono in un’epoca in cui il
bambino è “naturalmente” portato a vivere il mondo come persecutorio; in tal caso, anziché una bonifica vi è
una drammatica conferma della natura malvagia del mondo.
26
acting.
La tolleranza del bisogno e del desiderio permettono invece al soggetto di
rappresentarsi la situazione, di prenderne le distanze in maniera sufficiente da
esercitare la funzione del giudizio.
Il soggetto asociale, il delinquente, difettano di questa tolleranza:
“pretendono” che le loro esigenze vengano soddisfatte immediatamente, mancando
di qualsiasi fiducia rispetto alla possibilità che qualcuno si preoccupi di loro e
tendono, per così dire, a “passare a vie di fatto”
Non riuscendo a prendere nemmeno momentaneamente la distanza dai loro
bisogni e desideri essi non possono inoltre usufruire di quel particolare processo
noto come “simbolizzazione” (di cui tratteremo immediatamente) e che costituisce
una discriminante tra comportamento adattivo e comportamento intollerante.
Il processo di simbolizzazione
Il concetto di “simbolizzazione”, in Psicoanalisi, è alquanto complesso: si
tratta, in parole semplici, di un processo di rappresentazione, di significazione
attraverso, appunto, l’uso di oggetti-simbolo3; un processo del tipo di quello, forse
più noto, collegato con la metafora; ma che oltre all’aspetto rappresentazionale
include anche l’aspetto affettivo.
Il simbolo diventa una sorta di contenitore di significati che originariamente
non gli sono affatto pertinenti.
Freud non costruì una vera teoria del simbolo; utilizzò soprattutto il
concetto di sublimazione4; anche se questo comportò una concezione riduttiva del
più creativo concetto di simbolizzazione, che può “anche” contenere una funzione
di sublimazione, ma senza ridursi, limitarsi ad essa.
In poche parole, ogni cosa, ogni azione è in grado di contenere
simbolicamente il significato del nostro “essere in rapporto col mondo” e quindi di
“veicolare” significati.
La simbolizzazione non ha solo una funzione rappresentazionale, allo scopo
di dirottare e scaricare energie pulsionali, ma permette al soggetto di realizzare
bisogni e desideri in maniera indiretta: vale a dire che permette al bisogno di
essere soddisfatto anche se non vi sono le condizioni e gli oggetti originari ai quali
il bisogno di fatto si riferisce. Per fare un esempio noto a tutti, un artista può
riempire la sua solitudine creando una opera d’arte che simbolicamente
rappresenti l’oggetto che avrebbe dovuto colmare, nella realtà, tale solitudine.
Certamente vi sono situazioni che richiedono di essere soddisfatte realmente
e direttamente; la simbolizzazione non può sostituire in toto la realtà, ma solo
rendere tollerabile le frustrazioni alle quali inevitabilmente ciascuno viene a
trovarsi esposto. L’artista, o l’artigiano o anche colui che ama il suo lavoro non
può, ad esempio, con la sua attività, sopperire permanentemente alla esigenza di
una soddisfazione affettiva reale, ma può controllarla, dilazionarla, sottoporla a
3
Il termine “oggetto” va inteso nel senso sintattico di “complemento oggetto”, si tratta dunque di cose, luoghi, immagini, persone, situazioni, utilizzate come simboli.
4
Con sublimazione si intende la canalizzazione e lo scarico delle energie pulsionali (libidiche e aggressive)
in direzioni e con modalità sostitutive rispetto alle originarie . Il processo avverrebbe in due tempi: il primo
riguarda la trasformazione dell’energia istintuale (ad esempio da sessuale in non sessuale) il secondo
l’utilizzazione della attività sostitutiva.
27
giudizio (ridimensionamento) senza sentirsi sopraffatto dal bisogno e reagire di
conseguenza.
Certo, se le nostre soddisfazioni pulsionali ed emotive fossero
esclusivamente simboliche la vita diverrebbe invivibile; ma risulta altrettanto
nocivo all’individuo e, nel caso del criminale, anche alla società , al contrario, il
fatto che il ricorso alla simbolizzazione sia scarso o nullo, e che l’unico elemento
di valore venga attribuito all’azione, peggio se violenta, e su di essa il soggetto
conti in via esclusiva per costringere la realtà alle proprie esigenze.
Possiamo sintetizzare quanto detto come segue:
La mancanza di qualcosa o di qualcuno in grado di soddisfare un bisogno,
che permanga nel tempo fino a creare un senso di disagio e di sofferenza può
essere affrontata in tre diversi modi:
a) attraverso una tolleranza dell’attesa: la fiducia e la speranza sono forti e
la convinzione che presto il disagio e la sofferenza verranno superati con l’aiuto di
qualcuno e per l’avvento di tempi migliori sostiene il soggetto nell’attesa.
b) con l’aiuto della simbolizzazione: il desiderio viene in parte mantenuto in
parte trasformato in desiderio di qualcosa d’altro che, essendo maggiormente
accessibile dell’oggetto di desiderio originario, permette la diminuzione del disagio.
c) reagendo a seguito della intolleranza dell’attesa (per un eccesso di
sfiducia o per la presenza di odio o per l’assenza di esperienze relazionali positive
ecc.): in tal caso il processo di simbolizzazione non è accessibile, la speranza è
nulla e il ricorso all’azione
è considerato l’unica modalità per ottenere
soddisfazione.
E’ chiaro, anche se le scelte non sono mai univoche, che la scelta
delinquenziale riguarda essenzialmente la terza alternativa.
Il problema è aggravato dal fatto che tale ricorso all’azione non è poi in
grado di risolvere comunque il problema del bisogno.
Facciamo un esempio, anche se alquanto banale. Un soggetto a cui venga in
mente o
desideri di commettere un furto, come reazione ad una difficoltà
economica ritenuta ingiusta e intollerabile, se riesce a trattenersi dal commetterlo,
può non solo riflettere sulle altre possibili soluzioni, ma potrebbe anche arrivare a
interpretare il suo senso di ingiustizia come dovuto, non tanto alla reale
situazione, ma come un “derivato” da una mancanza affettiva che esige di essere
colmata, da un bisogno che richieda una immediata soddisfazione; egli può
arrivare anche a rendersi conto che non ha bisogno proprio di quella cosa che
vuole rubare ma che si tratta di una azione-protesta “simbolica” nei confronti di
una situazione vissuta come ingiusta. Egli potrebbe addirittura riuscire a
collegare tutto ciò con una frustrazione affettiva di antica data e di origine
familiare, che ha dato luogo ad una visione distorta della realtà con effetti di
generalizzare una visione pessimistica del prossimo (“i commercianti sono tutti
ladri”, “gli uomini politici pensano tutti solo alla loro poltrona” ecc.). Una volta
messo a fuoco il reale significato del suo desiderio (immancabilmente di natura
affettiva), egli potrebbe scoprire che una parte del suo ragionamento è distorto, o
parziale o comunque che possono essere disponibili altri mezzi di soddisfazione,
diversi dal furto e altre relazioni interpersonali non necessariamente fraudolente.
Se il soggetto invece “sceglie”, per così dire, la soluzione dell’atto criminoso e
28
si limita a seguire i suoi impulsi e a rubare tout court ciò che desidera, essendo
impossibilitato a riflettere sul significato che per lui ha il furto, non solo non
riuscirà a trattenersi dall’azione delittuosa ma, ignorandone la natura “sostitutiva”
sarà costretto a ripeterla in quanto l’acquisizione ottenuta non potrà mai
compensarlo dal disagio vissuto, essendo esso, evidentemente di altra natura.
Poiché, però, il desiderio è “altro” da quello cosciente, la soddisfazione non potrà
che risultare provvisoria; presto si esaurirà e ricomparirà il desiderio di rubare.
Questa è la ragione per cui il ladro continua a rubare anche se il bottino è così
ingente da non richiedere ulteriori incrementi.
Certamente anche il furto e la cosa rubata hanno, in un certo qual modo un
valore simbolico, ma non promuovono riflessione e giudizio, non veicolano
significati, ma sostituiscono “concretamente” l’oggetto originario al quale il
bisogno è collegato.
Possiamo fare un ulteriore passo avanti dicendo che, all’interno di questa
situazione, in cui l’azione delittuosa assume un significato emotivo, anche se
non accessibile alla coscienza, il criminale stesso assume un ruolo simbolico: egli
si identifica cioè con un personaggio del suo mondo interiore, del suo “mondo
interno”.
Il ruolo che ciascuno assume nella vita, criminale o meno che sia, è
sempre, prima di tutto, un ruolo “familiare”: il padre, la madre, lui stesso
bambino o adolescente, il fratello, la sorella (indipendentemente che egli abbia
davvero fratelli o sorelle). Anche il criminale, come tutti, nella vita sarà un capo,
un dipendente, un persecutore, una vittima ecc. così come potrà avere un ruolo
lavorativo o professionale; ma comunque il suo ruolo reale corrisponderà nella
realtà psichica (a livello simbolico) a quello di un membro della famiglia che sarà
diverso a seconda delle diverse situazioni (o diverse posizioni nella medesima
situazione) in cui il soggetto si troverà a vivere e ad operare.
Se ci è
consentito di essere riduttivi rispetto alla complessità delle
situazioni, possiamo fare degli esempi. Il ruolo psicologico assunto in un certo
momento da un criminale può essere quello di un figlio che sottrae il nutrimento
alla madre egoista (il rapinatore di una banca); oppure un padre dispotico
(industriale che tratta male i suoi operai); oppure una madre prostituta (un
politico corrotto). Si tratta di situazioni che non sono simboliche nella misura in
cui non servono a rappresentare delle idee, ma a realizzarle. La banca da rapinare
non simbolizza una madre egoista, non corrisponde alla idea che sia tale, ma “è”
una madre egoista che pertanto è legittimo rapinare.
Profilo psicologico del criminale
Possiamo ora raffigurarci il criminale come un soggetto che:
a) è arroccato in una posizione narcisistica,
b) utilizza le parole e le azioni non per comunicare ma per controllare, possedere,
sottrarre, ferire, sopraffare e
quant’altro può essere ascrivibile ad una
posizione egoistica,
c) non tiene in alcun conto il valore e la sensibilità dell’altro.
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d) ritiene la sua ideologia conforme alla realtà delle cose
sfiducia nelle relazioni interpersonali.
data la
sua totale
Ma dobbiamo anche aggiungere che il criminale non è così per vocazione,
ma a seguito dei casi della vita che lo hanno reso intollerabile nei confronti della
sofferenza emotiva che evidentemente considera ingiusta, inopportuna, priva di
significato e, soprattutto, imputabile agli altri.
Con un termine moderno potremmo dire che il criminale non ha potuto, per
tutta una serie di ragioni, usufruire di una “pari opportunità” nell’ambito della
vita di relazione e utilizza l’azione al posto del pensiero. E questo
indipendentemente dallo “status” economico, in quanto i disagi e le sofferenze
lamentate e spesso effettivamente patite, sono di natura emotiva e non materiale
Il criminale dunque é un soggetto che essendo più propenso al passaggio
all’azione piuttosto che alla riflessione e all’autocritica, si presenta come
sostanzialmente refrattario a qualsiasi sistema di valori sociali. Di conseguenza, si
potrebbe ritenere che solo una pena “esemplare” possa indurlo ad un diverso
atteggiamento e comportamento.
Tuttavia, per fortuna, le cose non stanno proprio così: non essendo la
personalità intesa come una struttura unitaria monolitica.
Oggi sappiamo che non esiste il delinquente o l’onesto o l’alienato o il sano,
ma che ogni personalità è composita, vale a dire che si tratta di una struttura
composta di “parti” in rapporto dinamico tra loro, a volte più o meno integrate,
altre volte scarsamente in rapporto reciproco. La natura della personalità, da
questo punto di vista, non è univoca, ma dipende dalla parte del Sé che ne ha
assunto in quel momento il controllo. Questo va considerato anche in senso
opposto: vale a dire che anche nella persona più onesta si celano, in qualche
parte della personalità, aspetti delinquenziali che potrebbero emergere in
determinate situazioni.
Ciascuno di noi possiede quindi parti mature e immature, adulte e infantili,
oneste e criminali. Anche nei casi più gravi, più insani, vi è sempre una parte
sana della personalità che potrebbe in teoria (con tutte le riserve del caso) arrivare
a riprendere il controllo della personalità.
Se è vero che il criminale è più o meno durevolmente dominato da una parte
negativa, narcisista del Sé, è anche vero che possiede anche altri aspetti di
personalità che attualmente sono messi “fuori gioco”, lontani dalla coscienza, ma
che particolari condizioni ambientali e soprattutto di rapporto umano, potrebbero
rimettere in questione. Certamente le situazioni sono molto variabili: é chiaro che
la struttura di un delinquente psicopatico è diversa da quella di un truffatore, così
come il narcisismo di un rapinatore è diverso dal narcisismo di un uomo politico
corrotto. In certi casi poi il cinismo è atavico e radicato, mentre in altri casi può
essere derivato in gran parte (mai esclusivamente) dal clima familiare o extra
familiare in cui il soggetto è vissuto. Tuttavia quello che conta innanzitutto è che
al di là delle differenze, la personalità non è strutturalmente monolitica, per cui
possiamo sempre
ritenere che sia possibile instaurare un processo di
ristrutturazione che cambi l’assetto, per così, dire gerarchico delle parti della
personalità.
Ma veniamo ora al processo di rieducazione.
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Il progetto rieducativo-riabilitativo
A questo punto, una volta stabilito che esiste sempre una correlazione tra
reato e personalità del reo in termini di significato e di funzionalità, e che esiste
sempre una possibilità di trasformazione e di ristrutturazione di qualsiasi
personalità per quanto patologica essa sia, possediamo gli elementi teorici per
poter costruire un modello rieducativo di natura processuale.
Ci rendiamo conto che parlare di fattibilità non significa ancora dir nulla
sulle sue probabilità di realizzazione. Quello che sosteniamo è che, comunque,
senza un modello che sia in grado di sostenere e di giustificare l’affermazione di
fattibilità, nessuna realizzazione è possibile, a meno che non si voglia credere
all’influenza del “caso” o si conti sui “colpi di fortuna”: le conversioni sulla via di
Damasco sono oggi alquanto rare
Anche se l’affermazione che segue può sembrare paradossale, dobbiamo
dire che il criterio di fattibilità è utile anche qualora la probabilità di realizzazione
risulti pressoché nulla.
“Ma, si potrebbe obbiettare, proprio questo è il punto. Dato che ogni caso di
delinquenza è presentato come un caso complesso che richiede una sorta di
terapia a lungo termine, la rieducazione diviene impraticabile, data la situazione
carceraria di oggi. E nemmeno si può pensare che le cose saranno mai tali da
poter essere affrontate nel modo che sembrerebbe implicitamente suggerire
l’esposizione appena conclusa”.
Possiamo rispondere che se è pur vero che ciò che caratterizza il progetto di
rieducazione del detenuto è l’aver a che fare con una situazione mentale
complessa, in cui problemi come quello del sovraffollamento, della frequenza dei
trasferimenti, della carenza di personale specialistico, della scarsa disponibilità
degli stessi soggetti interessati, (per parlare solo degli elementi più evidenti) sono
tali da scoraggiare il più perseverante e preparato degli operatori sociali; tuttavia
non possiamo nemmeno continuare a contare su elementi, quale è il “patto di
buona condotta”, che non hanno alcuna ragionevole prospettiva di successo per il
fatto che sono fondati su presupposti sbagliati o infondati.
Anche se ciò spesso accade, un tale non può far finta che la propria moglie
gli sia fedele per timore di affrontare la sua incapacità di soddisfarne le esigenze
affettive: prima o poi la situazione diventerà evidente e intollerabile.
I fatti di cronaca stanno poi dimostrando che la “benevolenza” non può
essere una valida alternativa alla pena utilizzata come deterrente. Per gran parte
dei criminali la tolleranza delle Società è semplicemente vissuta (al di là delle
dichiarazioni) un segno di debolezza; anzi è a volte vissuta addirittura come una
implicita ammissione di responsabilità sociale. D’altra parte, è naturale che sia
così, dato che il criminale cambierebbe partito solo la sua organizzazione mentale
avesse basi diverse da quelle che lo hanno indotto al crimine e che si fonda su
una precisa concezione del mondo.
La stessa faccenda dei “pentiti”, mostra che sul “pentito” si può contare
solo per creare fratture all’interno della criminalità; egli acconsente a collaborare
per una serie di ragioni che nulla hanno a che vedere con il “pentimento” che, da
questo punto di vista, suona come un termine grottesco. L’utilizzazione del pentito
ha sortito tutta una serie di risultati tranne quello di cambiarne la natura; né
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credo che nessuno si sia illuso che questo rientrasse tra gli obbiettivi previsti
dalla sua utilizzazione.
E allora? Innanzitutto se l’analisi differenziata del reato mettesse in evidenza tutto
ciò, non in termini di opinione, ma come esito di una indagine scientifica, molte
inutili diatribe potrebbero essere evitate; in secondo luogo ci si potrebbe davvero
dedicare a quella parte della popolazione carceraria che è ricuperabile, per quanto
esigua possa essere; in terzo luogo ci si deciderebbe ad impiegare le dovute
energie a quella fase di età che è il crogiolo della futura criminalità e che oggi
viene liquidata troppo sommariamente attraverso il concetto di imputabilità, cioè
l’età adolescenziale.
Se cioè la criminalità si rivelasse un problema sul quale si può solo agire
preventivamente e non a fatti avvenuti, potremmo
evitare le tentazioni
demagogiche che provocano appunto uno spreco di energia senza, nel migliore
dei casi, alcun risultato rilevante e che servono solo a mascherare la nostra
impotenza (la questione della sessualità in carcere, i parametri di buona condotta,
l’affidamento all’assistenza sociale ecc.).
In sintesi possiamo ribadire che l’analisi differenziata del reato alla luce delle
esigenze trasformative della personalità del reo è l’unica via percorribile, qualsiasi
sia il suo risultato. Se tale via non fosse anch’essa percorribile non ci resterebbe
altro che affrontare la criminalità dal versante della prevenzione e utilizzando
l’unico deterrente della pena “certa”.
L’analisi differenziata del reato
Si tratta del paragrafo pragmatico o meglio programmatico di questo nostro
lavoro.
La maggiore difficoltà nell’attuare una adeguata analisi del reato deriva
dalla particolare mancanza di disponibilità del detenuto e dalla assenza di
motivazioni trasformative. Mentre infatti il lavoro clinico che, in fondo, si propone
gli stessi obbietti di conoscenza e trasformativi, conta sulla disponibilità del
paziente e sulla sua sincerità, nel caso del detenuto queste vengono a mancare,
dato che manca la fondamentale fiducia nella così detta “relazione di aiuto”.
Accade, nel caso del detenuto, quello che accade nel caso dell’adolescente
nel suo conflitto inter-generazionale: la situazione interpersonale è dominata
dall’idea che l’altro fa parte, “milita”, in campo avverso, per cui “non ci si può mai
fidare”.
Per di più si aggiunge, nel caso del detenuto, la natura perversa della sua
ideologia relazionale, per cui chi è sincero nei suoi confronti rischia di porgere
comunque il fianco alla manipolazione ed alla distorsione del significato.
L’ideologia del perverso è infatti cinica e amorale e può essere riassunta con
le parole di D. Meltzer quando, trattando appunto delle perversioni afferma:
“ L’essenza dell’impulso perverso è di trasformare il buono in cattivo, pur
conservando l’apparenza del buono, con delinquente sfida di ogni giudizio fondato
solo su criteri descrittivi..................”.
Il delinquente distorce il significato di ogni atteggiamento di colui che gli
mostra disponibilità, distorcendone le motivazioni; per cui, continua Meltzer, “I
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buoni oggetti vengono resi deboli in virtù proprio delle loro qualità, come la
esitazione a giudicare senza prove evidenti, la generosità, l’indulgenza, l’esame
autocritico, la prontezza al sacrificio, ecc.”
Il rifiuto a giudicare in assenza di prove viene considerato dal delinquente come
equivalente ad un giudizio di innocenza; la riluttanza a punire (e questo ci
interessa particolarmente) viene salutata come debolezza, la prontezza al sacrificio
come stupidità.
Questo rende ragione del fatto che nonostante tutte le agevolazioni e la
disponibilità mostrata, il detenuto spesso non si perita di reiterare il reato.
L’analisi differenziale deve quindi tener conto di questi aspetti che danno
luogo ad un atteggiamento di insincerità da parte del criminale; da qui la
necessità di ottenere sia il materiale anamnestico sia quello
relativo alla
personalità del detenuto in maniera indiretta, in quanto le dichiarazioni e le
informazioni fornite dall’interessato (i colloqui psicologici) sono spesso fallaci e
richiedono di essere verificate, in termini di coerenza, sottoponendole a quello che
potremmo chiamare “confronto incrociato”. A tale proposito saranno importanti
strumenti come i test proiettivi, l’esame grafologico, il racconto familiare della
storia del soggetto, l’esame degli atti processuali, l’indagine sui precedenti ecc.
Quello che assume un rilievo particolare, come del resto accade nel
tradizionale trattamento psicoanalitico, è la utilizzazione della
così detta
situazione di transfert. Si tratta del fatto che ogni soggetto tende a rivivere e a
riproporre nel presente, nella situazione attuale, atteggiamenti e comportamenti
che riflettono pregiudizialmente la sua concezione di vita e la sua ideologia
relazionale posti in essere in passato; al punto e con tale convinzione che il
soggetto tende addirittura a forzare il suo interlocutore ad assumere il ruolo che
egli ha deciso (inconsciamente) di assegnargli. Il detenuto tende cioè non solo a
riproporsi in termini di atteggiamenti, così come gli suggerisce la sua personalità,
ma anche spinge gli altri a corrispondere alle sue aspettative, per quanto
pregiudizievoli possano essere.
In termini più specifici (e secondo un linguaggio tecnico) si dice che il
detenuto (come del resto ogni altro soggetto) tende a ricostruire e rivivere le
configurazioni e le vicende che caratterizzano il suo “mondo interno”. I suoi
personaggi interni sono quindi una sorta di “personaggi in cerca di autore” di
pirandelliana memoria.
Per questo motivo, oltre al materiale indiretto di cui abbiamo fatto menzione sarà
indispensabile conoscere qual è lo stile di vita che il detenuto tende a realizzare o
ha già realizzato nel carcere. A questo proposito possono essere utili tecniche
psicologiche rappresentazionali come lo psicodramma e il sociodramma.
Se riteniamo infine che il problema della delinquenza adulta abbia un
antecedente storico nella delinquenza minorile (ed è difficile smentirlo), non
possiamo non concentrare in ogni caso l’attenzione su quella che è certamente la
matrice (sia essa considerata generatrice o modulante), dei comportamenti
asociali e cioè la famiglia di origine e il gruppo dei coetanei. Anche la stessa
rieducazione del detenuto diventa critica senza la concomitante collaborazione
familiare e del gruppo dei pari; da qui l’imprescindibilità dalle tecniche di gruppo.
Un intervento rieducativo che non metta in moto, parallelamente al
trattamento individuale, una qualsivoglia forma di monitoraggio familiare
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(metodologicamente convincente) è quasi certamente destinato a fallire.
Del resto questa “complementarietà operativa”, come abbiamo visto, è
prevista espressamente dall’Ordinamento penitenziario laddove sono sollecitati i
rapporti tra il detenuto e la sua famiglia.
A questo punto il nostro lavoro di sensibilizzazione al problema rieducativo
potrebbe considerarsi
concluso, anche perché il procedere oltre richiede
impegno di energie e una stesura di programmi che devono essere correlati ad un
approccio concreto al mondo penitenziario.
Vorremmo però aggiungere qualcosa riguardo ai diritti della difesa.
I diritti della difesa
Vi sono, oltre alle difficoltà dovute alle strutture caratterologiche dei
soggetti, anche degli ostacoli oggettivi al trattamento rieducativo; dovuti in
particolare alle difficoltà che derivano dalla restrizione della libertà, dai frequenti
trasferimenti, dalla burocrazia che rende difficile il rapporto tra detenuto e mondo
esterno al carcere, compreso quello stesso con lo psicologo o il rappresentante
legale. Difficoltà, questa volta, che sono in gran parte indipendenti dalla volontà
del detenuto.
Abbiamo visto che la posizione dello psicologo nel carcere non è favorito
dall’Ordinamento penitenziario, inoltre occorre fare i conti con le difficoltà
oggettive che riguardano il personale di custodia e il problema della sicurezza e
infine è la stessa opinione pubblica che ha un concetto di rieducazione
difficilmente coniugabile con il rispetto per la personalità del detenuto.
La posizione dello psicologo in qualsiasi trattamento psicoterapico è in un
certo senso passiva, nella misura in cui dipende dalla disponibilità del paziente;
tuttavia vi è anche un intervento attivo dello psicologo che consiste nella
salvaguardia di quelle che sono le condizioni strutturali senza le quali il
trattamento non è possibile. Se questo può avvenire anche in assenza di una
collaborazione dell’utente, come quando si tratta ad esempio di una grave
patologia in regime di istituzionalizzazione, non è possibile però senza la
collaborazione istituzionale..
Verrebbe da dire che se è possibile curare lo schizofrenico in situazione di
ricovero, attraverso una strutturazione delle condizioni ambientali e di rapporto in
totale assenza della collaborazione del paziente, questo dovrebbe essere tanto più
possibile in contesto penitenziario in cui, per lo meno, la capacità di intendere e
di volere del detenuto è, almeno per definizione, integra e in cui vi è, da parte del
detenuto, una qualche motivazione alla collaborazione.
Sembra invece che per quanto riguarda il detenuto, i diritti della difesa
sostanzialmente cessino al momento della sentenza. Questo però non può essere
vero nella misura in cui subentrano quei diritti del detenuto che vanno dal
rispetto delle condizioni umanitarie alla applicazione dell’Ordinamento
penitenziario sostanziato dal processo di rieducazione e riabilitazione di cui
stiamo trattando. Vale a dire che il concetto di rappresentanza legale non viene
meno, ma muta la sua sostanza nella misura in cui viene deposto il codice penale
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e di procedura penale e viene assunto quello dell’Ordinamento penitenziario.
La rieducazione è un diritto del detenuto e non solo un dovere della
Istituzione penitenziaria, ma crediamo che la realizzazione di questo principio sia
ancora a di là da venire.
Conclusioni
Dopo un excursus storico sul significato della pena, abbiamo iniziato
rilevando le discrepanze esistenti tra l’ideologia della rieducazione e la sua
inefficienza sul piano dell’attuazione.
Abbiamo potuto osservare come la attività lavorativa che assume il ruolo di
una vera e propria “ergoterapia” e che consiste nel porre al centro del progetto
rieducativo la frequenza ai corsi ed alle attività lavorative, sia importante solo se
diviene complementare alla possibilità di crescita personale dell’individuo e non
rimanga solo un modo, seppur utile, per non oziare in cella, sostituendosi inoltre
ad ogni progetto di analisi personologica.
Nel corso dello scritto si è anche sottolineato negativamente il ruolo centrale
che assume quello che abbiamo definito “il patto di buona condotta” che finisce
per essere il perno attorno al quale ruota tutta l’ideologia riabilitativa,
permettendo di eludere il problema rieducativo..
Si è quindi sostenuto la necessità di una analisi differenziale del reato
correlata poi con la specifica personalità del singolo detenuto (individuazione del
progetto di rieducazione).
Ne risulterebbe una serie di provvedimenti che
possiamo sintetizzare come segue:
- La costituzione di una Commissione di studio per l’analisi differenziale del reato
- La creazione di un monitoraggio individuale del detenuto fondato sulla
correlazione tra tipo di reato ascrittogli e profilo psicologico, che permetta di
seguire il processo rieducativo.
- La istituzionalizzazione della pratica gruppale come strumento riabilitativo di
elezione per la rieducazione del detenuto, riservando il trattamento individuale
solo a quei detenuti con atteggiamenti eccessivamente narcisistici e con tendenze
all’isolamento, fermo restando, comunque, l’obbiettivo di un inserimento futuro in
un gruppo.
La utilizzazione della anamnesi individuale e familiare e di tecniche
rappresentazionali e proiettive come strumenti di conoscenza ambientale e di
indagine psicologica del soggetto, onde superare il problema della scarsa
disponibilità alla comunicazione, tipica del detenuto.
- L’istituzione di comunità non esclusivamente a carattere lavorativo per i
detenuti che non possono utilizzare di progressivi contatti con la famiglia di
origine o coniugale; strutture in cui trascorrere anche l’eventuale misura
alternativa con la presenza di educatori volontari, una sorta di passaggio dal
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carcere alla libertà avente natura “transizionale”.
Certamente ancora altri sono i problemi che caratterizzano il problema
rieducativo (ad esempio il problema della sessualità in carcere) ma sarebbe un
errore affrontarli singolarmente senza poterli inserire in un più vasto progetto di
indagine e di trattamento.
Il presente lavoro ha solo lo scopo di proporre una visione del progetto e del
processo rieducativo del detenuto, fondandoli su basi scientificamente attendibili
e in grado di orientare nella scelta degli obbiettivi e delle strategie.
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