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RIIKKA PULKKINEN
LA PROMESSA
DEL PLENILUNIO
Prima edizione: marzo 2013
Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita:
www.illibraio.it
www.infinitestorie.it
Traduzione dal finlandese di
Irene Sorrentino
Titolo originale dell’opera:
Raja
© Riikka Pulkkinen
First published in 2006 by Gummerus Publishers with the Finnish title Raja.
Published in the italian language by arrangement
with Otava Group Agency, Helsinki
ISBN 978-88-11-68388-9
© 2013, Garzanti Libri s.p.a., Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
Printed in Italy
www.garzantilibri.it
ANJA
Nel giorno in cui Anja Aropalo aveva deciso di morire,
l’aria era dolciastra e densa come una ragnatela di zucchero. Era il mese di agosto, faceva ancora caldo, anche le notti erano calde e buie come nei paesi del Sud. Anja si era svegliata al mattino con un vivido pensiero: il suo piano era da
compiere oggi. Nessun’altra indecisione o debolezza di carattere. Quello era il giorno giusto.
La solitudine di Anja Aropalo andava avanti da due anni.
Da quando suo marito se n’era andato la percepiva come
un dolore lancinante sotto lo sterno. Anja aveva avuto la
sensazione che tutto il suo corpo fosse infettato dalla solitudine. Sentiva la nostalgia come una sofferenza fisica, come
un dolore non collocabile e un male sordo senza fine. Non
piangeva molto, tranne alcune volte di notte quando, girandosi su un fianco, toccava con le mani la parte vuota del letto accanto a sé. Più di tutto era un dolore silente.
Anja camminò dal negozio fino a casa. Il pensiero del
mattino si era rafforzato lungo il pomeriggio trasformandosi da intento in decisione. Anja aveva fatto le sue solite
cose in città e tornando si era fermata al negozietto sotto
casa e alla farmacia. Aveva comprato pane, formaggio, il
latte per il caffè, della carne per la cena. E il Doxal. Le pillole erano sul fondo della borsa, novanta pezzi tutti in fila
nella loro confezione trasparente. Per la depressione, c’era scritto sulla ricetta.
Ottenere quelle medicine era stato incredibilmente facile. Anja aveva preso un appuntamento dal medico del distretto sanitario, vi era andata e gli aveva raccontato la sua
vita. Il dottore le aveva proposto degli antidepressivi e Anja
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aveva affermato con spensieratezza di preferire le medicine
di vecchia generazione, forse il Doxal, ma anche il Triptyl
poteva andare bene.
«I nuovi antidepressivi mi portano forti nausee, lei sa
com’è. Gli effetti collaterali», aveva aggiunto Anja, ancora
una volta senza pensarci troppo su. Si erano scambiati
sguardi di comprensione reciproca. Il dottore aveva scritto
una ricetta per tre mesi di Doxal.
«Di tanto in tanto è bello avere dei pazienti che sanno cos’è meglio per loro e si assumono la propria responsabilità
personale, proprio come lei», aveva aggiunto il medico dopo che si erano stretti la mano per salutarsi. Anja aveva evitato lo sguardo del dottore, senza voltarsi indietro era uscita
da quella stanza e poi fuori da quell’edificio, aveva aumentato la velocità dei suoi passi e aveva camminato finché la
vergogna non era cominciata a calare in quel tratto di strada circondato da ippocastani in fiore.
Era andata al distretto sanitario a giugno e ora era agosto. Qualcosa aveva fatto temporeggiare Anja. Innanzitutto
le piante di lillà in fiore. Bisognava vederle. Alla fine di
giugno aveva pensato che mancavano due settimane alle
fragole. Nessuno vuole morire proprio nel periodo delle
fragole. Adesso l’aria si stava facendo sempre più greve sotto il peso dell’autunno imminente. Le peonie si vantavano
in maniera stravagante nelle aiuole sui cigli delle strade.
Quei fiori bianchi e pesanti erano troppo grandi per quegli steli sottili. Al limite dello stato di coscienza bruciava il
pensiero di tutta quella vanità, ma il calore brillante del sole lo riduceva in ombra. “Questa è la mia realtà”, pensò
Anja. “Quello che lascio è tutta una vita fatta di camminate al supermercato e da lì a casa. Vengono l’autunno e l’inverno e la primavera ed è di nuovo estate e le cose quotidiane sono sempre le stesse.”
Ma c’erano gli alberi. Le betulle con i loro corpi snelli e
bianchi e i meli che erano fioriti a maggio in modo luminosamente doloroso. Una volta in quel punto c’era un fitto bosco, le zone ricoperte dal muschio erano state divise all’inizio da un sentiero e solo in seguito da una mulattiera per10
corribile con i carri. Ora c’era una strada ricoperta di ghiaia
e dei vecchi abeti non ne erano rimasti che alcuni. Le loro
cime sembravano arrivare a toccare l’arco del cielo blu scuro. Contava qualcosa che un individuo costruisse una strada
per sé nonostante fosse nel bel mezzo della foresta? Nel
tempo aveva dovuto scavarsi un cammino e un significato,
costruire un senso mentre la vita le scivolava tra le dita e
proprio quando era giunta a sé stessa, non appena aveva
toccato ciò che determina la vita e ne traccia i limiti, aveva
dovuto rinunciarvi e spingersi verso il nuovo. Anja sospirò e
si fermò a cercare da bere nelle buste della spesa. “Vado a
casa e annaffio subito le rose”, pensò e provò un senso di
malessere per i boccioli pendenti nel calore della veranda.
Il sole le batteva sul collo e le faceva fischiare le orecchie: Anja si sentì incredibilmente spossata. La vita era piena di momenti pesanti come quello, in cui aspettava solo
che il tempo passasse, di arrivare a casa e chiudere le veneziane e preparare la cena che aveva progettato, di mangiare e poi ancora di attendere il sopraggiungere della notte.
Ma ora questa non sarebbe arrivata, non per lei. “Annaffio
prima le rose, poi mi preparo da mangiare”, pensò Anja.
“E poi le medicine.”
Alla porta di casa si sentì inondata da un tanfo di chiuso
assolato e polveroso. Le piante erano afflosciate per il caldo. Anja si affrettò ad aprire le finestre del soggiorno. L’aria rimase come un muro umido fuori dalle finestre al di
sopra dei gerani lucenti. Fuori c’era un silenzio assoluto.
Le lancette dell’orologio ticchettavano e ogni secondo si
dilatava assumendo forma circolare. Anja si asciugò il sudore dalla fronte. “Le rose.” Prese dal mobile della cucina un
annaffiatoio e tornò fuori in veranda. Aprì il rubinetto un
po’ malandato del giardino. L’acqua avanzò nel tubo lentamente per poi alla fine traboccare come una doccia dentro
l’annaffiatoio scintillando nei raggi solari. Le rose sembrarono tirare un sospiro di sollievo nel momento in cui ricevettero l’acqua. Alcune gocce caddero come lacrime sulle
superfici vellutate dei boccioli. Un’ape, resa gonfia e goffa
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dal nettare di piena estate, ronzò all’interno di una corolla
come se fosse in trance.
Gli stivali di gomma del marito erano ancora al solito posto nell’angolo della veranda. Anja v’infilò i piedi. Dei calzini di lana grigi, infeltriti per tutte le volte che si erano bagnati, erano rimasti dentro gli stivali e conservavano ancora
la forma dei piedi di lui. Nelle mattine d’inverno era solito
mettersi calzini e stivali e, mentre andava a prendere il giornale, spazzava via la neve dal vialetto.
Anja fece un passo sul prato e schiacciò l’erba sotto gli stivali. “Quest’inverno lascerò un segno, occuperò questo spazio. Possiedo questo corpo, i suoi limiti e le sue dimensioni.”
Anja attraversò il cortile fino all’orticello e controllò le cime dei cavoli. Tra le file di verdure il terreno si era schiarito
e spaccato per il caldo.
Prese l’annaffiatoio e lo posò al centro dell’orto accanto a
dov’erano piantate le carote. Le insalate e le taccole erano
quelle che avevano più bisogno d’acqua. Anja spruzzò fino a
pulirlo il secchio lasciato lì e dimenticato sul bordo del praticello e lo usò per raccogliere qualche zucchina e alcune
carote. I baccelli delle taccole li avrebbe messi nell’insalata,
e naturalmente anche i ravanelli. Le foglie di lattuga sembravano appassite ma prese alcune anche di quelle. E per
ultime colse le cipolle.
Anja si spogliò al piano di sopra davanti allo specchio della camera da letto. A cinquantatré anni era ancora esile. Le
gambe erano muscolose e lisce, la pancia soda. I seni erano
più scesi rispetto a quando era ragazza, un po’ allungati ma
sempre belli. Più di tutto ad Anja piacevano le sue clavicole
e il suo collo. Da giovane il loro essere così dritti e angolosi
le aveva dato un aspetto mascolino e sostenuto. Adesso quell’aria da maschiaccio era sparita ma il portamento era sempre lo stesso, così come anche una certa franchezza nell’atteggiamento delle spalle. Sul viso c’erano delle rughe che
lei curava come se fossero care amiche. Erano la sua ma12
schera, quella che l’esperienza le aveva forgiato e per la quale provava una profonda tenerezza.
Anja guardò allo specchio le sue braccia e il segno dell’abbronzatura che correva lungo le spalle, formatosi nel
corso dell’estate. Le braccia e il collo bruciacchiati erano di
un color rame, mentre la zona del petto era più chiara. Lo
specchio tracciava anche una seconda linea, formava un’altra immagine di quella donna di mezz’età, una figura dimenticata negli anni che tuttavia si delineava con dei contorni fragili dietro l’immagine riflessa nello specchio. Le
curve dei fianchi erano ora più dritte di allora e anche la
peluria era più crespa. Sul viso era apparso uno sguardo
più profondo, si trattava di un avviso della pelle sulla natura della realtà. Per il resto quella donna era la stessa di cui
si era innamorato il marito anni prima, la struttura scheletrica aveva le stesse linee di quella giovane ragazza che l’uomo aveva continuato a ricordare anche quando aveva dimenticato tutto il resto.
Dimenticare. Com’era iniziato tutto? In che modo, la prima volta, aveva iniziato a percepire il cambiamento? C’erano state così tante estati come quella, molte serate d’autunno e gelide giornate invernali insieme e inizi di primavera
con le loro albe rossastre e la neve che si scioglie e le passeggiate nel bosco. A un certo punto era arrivato come un presentimento, non tutto era come doveva essere, lui aveva detto o fatto qualcosa in altro modo oppure era semplicemente diverso? Presto quel presagio si era trasformato in informazione e dopo in evidenza: non c’era più ritorno a quello
che era divenuto così amato e familiare.
Anja si pulì i piedi e indossò un fresco vestito bianco. Raccolse i capelli con un elastico, scese al piano di sotto e andò
in cucina. Il primo soffio di vento della giornata smosse un
po’ le tende sottili e i secondi ticchettarono dilatandosi nuovamente verso l’interno. Aprì il pacchetto di Doxal e mise ogni confezione trasparente al suo posto sul tavolo della cucina. Poi si allontanò un po’ e guardò da lì le medicine messe
in fila. Quelle pilloline bianche la guardavano a loro volta,
erano come nudi occhi indifferenti.
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Anja affettò la cipolla mentre l’olio si riscaldava nella padella. Il profumo della cipolla che sfrigolava era rassicurante e pacifico. Anja si ricordò di un certo stato d’animo della
sua infanzia, quella pace che lentamente si faceva spazio in
tutto il suo corpo dopo un’attesa infinita. La mamma era
tornata a casa dal lavoro e preparavano insieme da mangiare, il papà sarebbe tornato poco dopo e quel profumo di cipolla soffritta si spandeva in tutta la cucina. Anja si ricordò
la ruvidezza dell’orlo della gonna della mamma e la padella
di ghisa nera, le voci dei bambini che giocavano in giardino.
La sorella stava fuori con gli altri e Anja aveva tutto per sé
quel momento particolare con la mamma, prima del ritorno del papà.
Anja affettò anche i peperoni, i pomodori e una grande
zucchina per unirli alle cipolle. Tagliò la carne a pezzetti e
la ripassò leggermente in un’altra padella con del burro,
spezzò delle erbette fresche colte dalle piantine sul davanzale della finestra e le mise insieme alla carne in una teglia
con carote e cipolle intere. Mentre la pentola delle patate
ribolliva silenziosamente, andò in cantina a prendere una
bottiglia di vino bianco. Con la carne ci stava meglio il vino rosso, ma con quel caldo il solo pensiero di bere del
rosso l’affaticava. Se ne versò un bicchiere. La bottiglia era
fresca al tatto, la bevanda spumeggiava e nella parte posteriore del palato aveva un gusto leggermente aspro. Il sapore del vino le ricordò il primo mese di maggio trascorso
con suo marito.
Lei era al primo anno di università, lui, invece, aveva già
studiato tre anni, era più grande e Anja aveva provato una
gratitudine imbarazzante quando aveva mostrato interesse
nei suoi confronti. Fino alla festa del Primo maggio era stato insolitamente caldo. Poi verso la metà del mese, nel giro
di una sola notte, era sembrato che la primavera volesse già
lasciare spazio all’estate. Avevano fatto festa tutta la notte e
all’alba, mentre aspettavano fuori il sorgere del sole, improvvisamente era iniziato a piovere. Lui l’aveva attirata sot14
to un melo e l’aveva baciata. Quel bacio sapeva di vino, di aspro, di limone e aghi di pino, di promesse di felicità le quali già allora, sotto i boccioli dei fiori del melo, contenevano
un silenzioso e sicuro elemento d’infelicità. All’epoca lo aveva interpretato come paura, ma adesso sapeva di cosa si
era trattato: di quella tacita consapevolezza che la felicità
moltiplica al massimo le sue possibilità nel momento in cui
tutto è a portata di mano ma nulla è ancora promesso. E
quando aveva allungato la mano verso la felicità e aveva avuto il coraggio di afferrarla, già allora aveva iniziato a mostrarsi la coscienza della sua temporaneità.
Anja prese da un cassetto carta e penna e sedette accanto
al tavolo. Bisognava scrivere un messaggio d’addio. Almeno
alla sorella Marita e alla nipotina. Anja abbozzò delle parole
sul pezzo di carta. Sembrava inutile mettersi a spiegare le ragioni. Nel frigo c’è uno spezzatino di carne aromatizzato al
rosmarino. Mangiatelo, non buttatelo via. Mi dispiace di non
avercela fatta. Potete prendere tutte le cose che volete. Il resto è per l’Esercito della salvezza. I soldi sul conto sono per le
cure di mio marito. Anja rilesse il messaggio. Le sembrò scontroso eppure non avrebbe saputo scriverlo diversamente.
Alla figlia di Marita, la nipote Mari, Anja voleva scrivere
qualcosa che le potesse essere utile nella vita. Una massima.
Sfogliò pagine del suo diario ma non vi trovò niente di adatto. Ci rifletté un attimo e poi nel messaggio per Mari scrisse
solo: Perdonami.
Dopo aver mangiato lo spezzatino di carne al rosmarino e
le patate e dopo aver bevuto un bicchiere di vino bianco,
Anja premette tutte le confezioni trasparenti per far uscire
le pillole sulla tovaglia. Decise di bere ancora un bicchiere.
Dispose le pillole in modo da formare le parole: doxal.
merda. Quando poi modificò l’ordine delle lettere, venne
fuori amore. La parola successiva che formò fu nostalgia.
Per iniziare Anja inghiottì alcune lettere della parola «nostalgia». ntg. gente. Questa faceva rima con divertente.
No, diamine. Non era divertente, non lo era proprio. A quel
punto Anja ingoiò l’intera parola.
Adesso aveva già buttato giù una certa quantità di pillole,
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per cui non cambiava nulla se prendeva anche quelle che
restavano. Anja prese tutte quelle parole, ne fece un mucchio e le spinse nella sua bocca. Mandò giù le compresse
con il vino bianco.
Chi mai avrebbe sentito la sua mancanza? Se la sorella
non si fosse accorta della sua assenza, all’università si sarebbero resi conto che non c’era solo dopo alcune settimane
quando, da professoressa, avrebbe dovuto essere al ricevimento studenti e non si sarebbe presentata.
Anja pensò a dove avrebbe voluto che la trovassero. Doveva andare adesso a stendersi sul letto? Con i vestiti o in camicia da notte? Se fosse andata al piano di sopra, in camera e
poi a letto, sarebbe potuto accadere che qualcuno pur entrando in casa non la trovasse. “Sarà andata da qualche parte”, avrebbero potuto pensare. E poi l’avrebbero trovata solo dopo un po’ di tempo, quando avrebbe iniziato a puzzare. Anja pensò ai titoli dei giornali: donna mummificata
distesa per settimane nel suo letto. No, no. Non poteva andare a letto. Le venne in mente che avrebbe potuto attaccare i messaggi d’addio alla scala e disegnare accanto
una freccia indicante verso l’alto. Il pensiero di una freccia
sulle scale che conduceva fino al corpo era buffo. Ai piedi
del letto avrebbe potuto sistemare un’altra freccia sempre
indirizzata verso l’alto. È andata in cielo.
Il pensiero la fece ridere. Anja scoppiò in una risata. Quel
suono nella casa vuota in quel particolare momento sembrò
grottesco. Non era una cosa da ridere. Lì si moriva.
Anja si accorse di essere un po’ ubriaca. Le sembrò inappropriato. Quello non assomigliava affatto al momento solenne che aveva progettato per la sua dipartita. D’altra parte, però, la morte era arrivata a piccoli passi. Almeno non le
faceva male.
Anja andò a stendersi sul pavimento della cucina. Premette una guancia contro la riga gialla del tappeto e sentì un
breve capogiro. Provò un po’ di dolore allo stomaco. Chiuse gli occhi e lasciò che la sua coscienza scivolasse via, sempre più lontano dal limite della consapevolezza, dietro il
confine, nella culla di una fitta foresta.
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Nel bosco c’erano delle felci. I colori erano brillanti, pungenti in modo insolito. Anja si addentrò ancor di più nel bosco fino a una fresca caverna a forma di arco. Il sole filtrava
attraverso un reticolo di rami. Da sotto le felci evaporava la
dolce e mite umidità della terra.
Una foresta magica.
Anja vide sé stessa e sua sorella, erano piccole, avevano le
trecce, correvano sul sentiero nel bosco senza guardare indietro. Tutto intorno c’era l’immensità di giugno e gli uccelli volavano avanti e indietro sopra le cime degli abeti. La foresta si ritirò chiudendosi, Anja si allontanò dalla culla del
bosco verso una sensazione di disgusto e verso il pavimento
della cucina, sulla riga gialla del tappeto dove riposava la
sua testa. Aprì bruscamente gli occhi e sentì che sulla sua
guancia si era impresso il segno del motivo a piccoli rombi
del tappeto. Su di esso c’era della bava. Il senso di nausea
ondeggiava insistente intorno alla mascella.
Fece un respiro profondo.
Niente da fare.
Si mise a sedere.
Adesso il mal di stomaco era davvero forte. Ebbe un urto
di vomito. Un attimo dopo si precipitò in bagno, appena in
tempo prima di rigettare tutto: lo spezzatino al rosmarino, il
vino bianco, le pillole di Doxal ancora intatte. Ansimò tra
un conato e l’altro. Il vomito le salì nel naso. Dagli occhi
scendevano le lacrime. Si sollevò singhiozzando, appoggiandosi alla tazza del wc. I singhiozzi risuonavano come rantoli del corpo tra le piastrelle del bagno. Anja si accasciò di
nuovo sul pavimento accanto allo spazzolone del water. Le
lacrime sgorgavano liberamente, in bocca aveva il sapore
del vomito e del sale.
Si alzò e si sciacquò la bocca. Pensò che erano decenni
che non vomitava. L’ultima volta era diciottenne. All’epoca
aveva creduto di essere incinta ma era stata solo un’intossicazione alimentare; non avevano mai avuto figli.
Anja andò di nuovo in cucina. L’odore del cibo la disgustò. Ebbe le vertigini. Si sedette sul pavimento, pensò di la17
sciar riposare un attimo la testa, si distese accanto alla macchia di bava e chiuse gli occhi.
Anja si svegliò per il rumore del tosaerba del vicino. Aveva la testa pesante e la bocca impastata. Si mise a sedere con
prudenza, poi si alzò in piedi. Si sentiva vacillare. Aprì il rubinetto, fece scorrere un po’ d’acqua per farla raffreddare,
prese un bicchiere dal mobile, lo riempì e bevve quattro
volte. La testa le pulsava, vomitò ancora. Anja si fermò un attimo. Quel malessere pareva essere sotto controllo.
Le confezioni vuote di medicine stavano sul tavolo e Anja
non le buttò via. Sarebbe stato come disfarsi delle prove e
per una qualche ragione le sembrò importante che ci fosse
una testimonianza del suo tentato suicidio. Anche se soltanto per sé stessa. Però in quel giorno non poteva più morire
e improvvisamente provò una vaga tenerezza nei confronti
della sua stessa vita in lotta. Oggi non conveniva più provarci. La morte doveva essere rimandata più in là; invece, bisognava andare a far visita al marito.
Sul far della sera nel cielo si accumularono delle nuvole,
come spesso accadeva quando l’aria era afosa. La corrente
calda si spingeva verso l’alto e lasciava spazio al vento. Il sole, ancora caldo, splendeva di traverso quando Anja chiuse
la porta di casa; tuttavia, mentre si recava alla fermata dell’autobus il cielo si dipinse di un minaccioso color grafite.
Quel grigio squarciò la luce calante con un cono intenso. Il
calore retrocedeva con l’incedere della pioggia. Un luì cantava ancora su un albero e il suo canto cristallino, in contrasto con i colori del cielo, assunse un tono minaccioso.
Quando Anja sedette nell’autobus già pioveva a catinelle.
Sempre lo stesso percorso: l’autobus curvava e si allontanava
da quel quartiere fatto di casette basse e filava via lungo l’autostrada. A metà del tragitto comparve l’ormai noto senso di
riluttanza, quasi una paura. “Non voglio.” Bisognava farsi coraggio e respingere i brutti pensieri. “Adesso bisogna solo
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andare”, ecco cosa doveva pensare. Quando poi l’autobus
arrivava più vicino al centro, e diveniva assolutamente necessario scendere, prendeva il tram e proseguiva verso il parco
Kaivopuisto, comprava un gelato a un chioschetto e semplicemente passeggiava, dimenticava tutto.
Il primo chiaro segnale della malattia era giunto inaspettato in un certo giorno, al rientro del marito dall’ufficio nel
primo pomeriggio. Anja aveva lavorato da casa e lui, prima
di tornare, era passato al supermercato e aveva comprato
dieci vaschette di gelato alla fragola.
Anja ricordava lo sguardo del marito, la sua espressione
cautamente turbata che lasciava trapelare la paura. Era rimasto in piedi all’ingresso con le vaschette di gelato alla fragola in mano, e del gelato sciolto era gocciolato silenzioso
sulle sue scarpe. Anja rammentò di aver riso all’inizio, aveva
creduto che lui scherzasse. Poi aveva chiesto come mai, come mai avesse tutte quelle confezioni di gelato e il marito aveva risposto che non se lo ricordava, che in nessun modo
riusciva a ricordarselo.
«Che cosa mi sta succedendo?» le aveva chiesto e Anja
non aveva saputo dire nulla, gli si era solo avvicinata e lo aveva abbracciato. Toccare l’altro è l’unico mezzo per diventare parte del dolore e della paura di un’altra persona, l’unico, eppure insufficiente.
L’autobus curvò in una strada stretta e Anja scese. L’acquazzone era finito e il sole trapassava le nuvole con i suoi
raggi brillanti. Quell’edificio basso a mattoncini bianchi
sembrava sempre lo stesso. Al suo interno le persone guardavano Anja sempre alla stessa maniera, sempre con la medesima espressione sul volto. Ricordi perduti, vite dimenticate e un solido corridoio di asfalto che conduceva a quell’edificio sempre uguale; un attimo prima era caldo per i
raggi di sole e ora evaporava il profumo di pioggia. La strada era volta a volta fiancheggiata da lombrichi schiacciati,
pozzanghere e rosai, da un’inebriante parete densa di aria
umida creatasi dopo la pioggia, dalle foglie fiammeggianti
dell’autunno, da un sottile strato di ghiaccio croccante e infine da neve soffice simile a un’assoluzione dai peccati. Den19
tro la clinica c’erano sempre le stesse facce, quel fetore di oblio, di zuppa di carne e di gelatina d’albicocca e, come ogni giovedì, di zuppa di piselli.
Anja aprì la porta ed entrò. L’eco dei suoi passi sul pavimento dell’atrio rimbalzò sulle pareti bianche. Le felci familiari
scrollavano il capo dal fondo del locale, davanti alla finestra.
A un certo punto erano stati costretti a riconoscere la gravità della situazione. Il marito non ricordava più. A una festa
qualcuno gli chiese da quanto erano sposati e lui non si ricordava nemmeno questo, e poco dopo dimenticò anche
come si faceva il caffè. Un’immagine era vivida: il marito
spaesato che piega tra le mani la carta per il filtro e lei sulla
porta della cucina a sorprendere la dimenticanza dell’uomo
all’imbocco del tunnel. In quel momento l’intuito aveva dato una sferzata alla conoscenza.
A poco a poco tutte le cose quotidiane, lavarsi i denti, allacciarsi le scarpe, leggere il giornale, tutto aveva iniziato a
richiedere sempre più tempo, tutto era divenuto più difficile. Il loro tempo si era rallentato, il marito era andato in
pensione d’invalidità dal suo lavoro di architetto, e i ricordi
comuni, quelli ai quali lui ancora aveva accesso, erano divenuti importanti e più significativi. Insieme avevano ricapitolato i loro ricordi, lui aveva raccontato ciò che ricordava e ripassato a voce le proprie reminiscenze, i profumi, i riccioli e
l’arco dei fianchi della sua ragazza anni addietro. Che significato poteva mai avere che il marito avesse già dimenticato
il suo lavoro, tutto quello che aveva rappresentato la sua vocazione, ma ricordasse ancora la curva dei suoi fianchi e alcuni determinati profumi del passato? Quando dimenticò
le parti del suo corpo rimasero ancora il ricordo del colore
del cielo in una certa serata d’estate di anni prima e la memoria della peluria lanuginosa della guancia amata. Noi abbiamo la memoria e tramite questa un’identità. La memoria
è più importante del corpo nel circoscrivere l’ego. Il mio
corpo può iniziare a deteriorarsi e appassire, mi si può rivoltare contro e alla fine volatilizzarsi, ma la memoria rimane
ancora in vita, può vivere ancora quando il corpo non obbe20
disce più alla volontà, e poi anch’essa scompare o si trasferisce in coloro che restano.
Anja camminò lungo il corridoio di linoleum diretta al salone, e mentre passava salutò un’infermiera dal volto conosciuto. Lì la luce era rigata dalle veneziane e delle strisce luminose si riflettevano sulle pareti come un cruciverba. Il
marito stava seduto accanto alla finestra e apriva la bocca
quando l’infermiera lo imboccava.
«Ciao», disse l’infermiera cortesemente.
Si chiamava Annika o Anniina? Anja non si ricordava mai
bene il suo nome.
«Vuoi continuare tu? Oggi è una buona giornata, il cibo
gli piace», disse Annika o Anniina.
Anja annuì e si avvicinò. Un senso di tenerezza inondò tutto il suo corpo e lei scosse le spalle. Mise la sua mano su quella calda del marito, pallida, tremante, e la strinse dolcemente.
«Sono io, Anja. Solo Anja.»
«Certo, certo Anja. Solo Anja», disse l’uomo con voce fioca.
Il suo sguardo vagò, provò a trovare quello di Anja poi si
diresse altrove. Infine la fissò e Anja vide uno sguardo familiare disperato, proprio come se si trattasse di un sonno
temporaneo da cui il marito si sarebbe presto risvegliato,
da un momento all’altro, se solo la sua interlocutrice avesse
trovato le parole esatte, il varco giusto verso i ricordi; allora
tutto si sarebbe dischiuso. Eppure non accadde. Il marito apriva la bocca come un uccellino e guardava il cibo. Nel
piatto c’era ancora del sugo di carne. Anja prese il cucchiaio e lo imboccò. Lui mangiò e al contempo respirava
profondamente con il naso. Anja gli diede da bere del succo
dal bicchiere con coperchio e beccuccio.
«Guarda, uno scoiattolo», disse l’uomo indicando un albero dietro la finestra.
Lo scoiattolo sedeva su un ramo di un abete tenendo le
zampette in alto vicino alla bocca mentre rosicchiava, proprio come se pregasse.
«Ma guarda», disse Anja. «È vero, c’è uno scoiattolo.»
«E laggiù un cavallo scalcia in cima all’abete», disse l’uomo e guardò in alto.
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«Ah… È un cavallo? Va bene allora», asserì Anja dandogli
da bere il succo e pulendogli poi la bocca.
«Grazie», le disse e la guardò negli occhi, ci vide attraverso, li sorpassò. Il viso del marito sembrava una maschera tirata sopra i suoi lineamenti ben noti. Non c’erano più segni
di sofferenza, nello sguardo non c’erano più quelle ombre
che avevano fatto piangere forte Anja ogni sera, due anni
prima, quando lui era in clinica solo di giorno e di notte le
dormiva accanto. Non c’era più quel terrore dilatato che si
era spalancato negli occhi del marito in una notte anni prima, quando chinandosi verso di lei le aveva affidato una responsabilità tale che nessuno avrebbe mai avuto il coraggio
di portare per la persona amata.
Un’informazione limpida, un momento di lucidità notturna e parole chiare: «Non ce la farò a sopravvivere a questo. Aiutami». Quella richiesta non indicava un aiuto qualsiasi bensì quello più pesante, quello che non si aveva il permesso di offrire.
Adesso quell’abisso di terrore era sparito dai suoi occhi.
Era rimasto solo un altro tipo di sguardo: amichevole, un
po’ indeciso, perplesso. L’uomo diede dei colpetti con la
sua mano tremante sul braccio di Anja.
«Chi sei tu, brava ragazza?» chiese il marito.
Anja gli accarezzò la testa.
«Anja, solo Anja», rispose.
«Sì, sì, Anja. Solo Anja», ripeté.
Durante il tragitto verso casa Anja si appoggiò al freddo finestrino dell’autobus ancora bagnato dalle gocce di pioggia.
L’acqua raccoltasi nell’intercapedine dei doppi vetri del finestrino gocciolava, di tanto in tanto cambiava direzione formando dei ruscelli imprevisti. Quel fluire d’acqua era quasi
impercettibile, era una forma d’arte arbitraria e la sua insignificanza apparente nascondeva al suo interno una certa logica
torbida che rispettava una regolarità. “Chi sei tu, brava ragazza?” Le parole del marito le risuonavano in testa, in esse c’era
stata quella stessa timidezza sommessa che si ritrova nella vo22
ce di un bambino e di un anziano. Il marito l’aveva detto a
sua moglie. Tu sei una brava ragazza. Una brava ragazza.
A casa le confezioni vuote di Doxal erano ancora sul tavolo. Anja si fermò sulla soglia della cucina, rimase a guardare
come il sole al tramonto scompariva lento dietro gli alberi
del giardino. Un pensiero le venne in mente, dapprima fragile, vacillò un attimo all’ombra di altri pensieri ma poi si
rafforzò. La supplica di un’altra persona non può essere ignorata. Non esistono parole leggere né è possibile incontrarsi a metà strada. Il suo significato è sempre intero e l’impegno incondizionato. Noi non ci assumiamo una responsabilità per la nostra nobiltà bensì per la nostra umanità. Non
esistono termini per i quali l’onere o il carico di una fiducia
reciproca possano diventare lievi, facili, comodi.
E ora Anja doveva riconoscere l’inevitabile: lei non poteva morire. Non adesso. Qualcun altro invece sarebbe morto,
qualcuno che aveva avanzato una richiesta. Una responsabilità le era stata affidata, una supplica. Sotto quel peso schiacciante il pensiero del proprio destino si fece leggero come
un sorriso.
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