LA LEGGENDA DELLA NEBBIA Uno degli eventi atmosferici più
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LA LEGGENDA DELLA NEBBIA Uno degli eventi atmosferici più
LA LEGGENDA DELLA NEBBIA Uno degli eventi atmosferici più affascinanti delle Grandi Valli Veronesi e Mantovane, è senza dubbio quello legato alla nebbia. Un alone di mistero che da sempre avvolge le persone, le cose, i luoghi, l’ambiente e che ha creato attorno ad essa, un gran numero di storie e di favole. La scienza e l’innovazione, hanno permesso di spiegare le cause di questo fenomeno e se in passato la nebbia faceva molta paura a tutti gli umani, ad un certo punto accadde qualcosa di magico, di unico, e da allora la nebbia è divenuta amica del mondo. Si racconta, infatti, che un giorno d'autunno, presso un laghetto sperduto, le fate dell'acqua trovarono un bambino biondo, bellissimo. Chi era? Chi l'aveva portato fin là? Le fatine non lo sapevano e non c’era nessuno attorno per poterlo chiedere. Le fate allora, avvolsero il piccino in caldi panni e lo chiamarono Oliviero. Le stagioni passavano una dopo l'altra e nessun essere umano andava al piccolo lago dimenticato. Le fatine erano felici: il piccolo Oliviero, diventava sempre più grande attorniato dall’amore delle piccole fate. Però, alcuni strani avvenimenti accaddero mentre riposavano nelle profondità del lago; un pettirosso volava ogni sera presso il bambino addormentato sulla riva e lo svegliava becchettandogli affettuosamente una guancia. Poi gli raccontava di un paese bello e lontano, dove la sua mamma lo invocava tutti i giorni. Oliviero ascoltava attento e pensava che un giorno avrebbe abbandonato il laghetto per andare alla ricerca di sua madre. Così un mattino di novembre le fatine si alzarono da loro letto d'acqua e mossero verso la riva. Chiamarono a lungo Oliviero ma il bambino non c'era più. Allora si levarono subito in volo e affannate videro Oliviero scendere a valle preceduto dal pettirosso. In un batter d’occhio lo raggiunsero affollandosi attorno e allargando con le mani le loro vesti di velo grigio perché il bambino non riuscisse più a scorgere il pettirosso che gli faceva da guida, né il sentiero, né la valle lontana. Come per miracolo, dalle dita delle fate i veli cominciarono ad allungarsi, diffondendosi ovunque e queste dita avvolsero Oliviero in un’impalpabile nube, cancellando monti e campagne fino a soffocare la luce del giorno. Ma il fanciullo non si scoraggiò e riuscì a tornare tra gli uomini lasciando il lago e le care fatine. Da allora, ogni anno, la nebbia stende i suoi umidi veli: sono le vesti bagnate di lacrime delle eteree fate del lago che non riescono a dimenticare il bambino biondo. Un’altra storia che riguarda la nebbia si svolse, invece, nelle zone poste a cavallo del rodigino e della bassa pianura veronese. Si racconta che in passato su queste terre vi abitasse un uomo il quale incendiava tutto quello che poteva ardere. Quando appiccava il fuoco, alte fiamme si propagavano nell’ambiente circostante persino nei canali e nei fossati. Qui però, il pantano della palude invece di fare fumo nero, iniziò a eruttare del fumo bianco e da lì nacque la nebbia che iniziò ad allargarsi sempre di più fin fuori della palude. Così nacque la nebbia ed è per questo motivo che essa predilige le zone umide della nostra pianura. SANTA LUCIA E LA LEGGENDA DEI REGALI Una delle tradizioni veronesi più antiche, sentite e partecipate, è quella legata a Santa Lucia e all’usanza, tutta veronese, di aspettare l’intera notte l’arrivo della Santa che porta i regali ai bambini buoni accompagnata dal fedele asinello. Una tradizione antica e partecipata che ha le sue origini nella storia. Infatti se da un lato si dice che le spoglie della santa siracusana, protettrice degli occhi, siano passate da Verona nel loro viaggio verso la Germania intorno al X secolo, dall’altro la tradizione di portare i doni e riempire piazza Bra a Verona di “banchetti”, nasce da un fatto realmente accaduto. Due sono le interpretazioni legate alla diffusione del suo culto in città e diocesi; la prima riguarda il suo passaggio verso la Germania e quindi la diffusione del culto legato alla Santa in tutto il Nord Europa, la seconda prende spunto dalla lunga presenza del dominio della Serenissima Repubblica di Venezia su Verona e alla sua venerazione nella città lagunare dove le spoglie di Santa Lucia vennero trasportate nel 1204 e dove tutt’ora riposano. A Verona però, il culto ha un suo particolare carattere. Infatti, una leggenda veronese racconta che intorno al XIII secolo, in città, specie tra i bimbi, era scoppiata una terribile ed incurabile epidemia di “male agli occhi”. Non riuscendo a debellare il morbo, la gente decise di rivolgersi alla santa chiedendo la grazia per salvare i propri figli dalla cecità. Venne così deciso di organizzare un pellegrinaggio da farsi a piedi scalzi e senza mantello, fino alla chiesa di Sant’Agnese ma dedicata anche a Santa Lucia, che si trovava dove oggi c’è la sede del Comune: Palazzo Barbieri. La stagione invernale ed il freddo pungente spaventarono i bambini che non avevano nessuna intenzione di partecipare al pellegrinaggio. Allora i genitori promisero loro che, se avessero ubbidito, la Santa avrebbe fatto trovare al loro ritorno tanti doni. I bambini accettarono e… l’epidemia si esaurì. Da allora e fino ai nostri giorni, è rimasta la tradizione di portare in chiesa i bambini, per la benedizione degli occhi. Ecco perché il 13 dicembre e la notte del 12, tutti i bambini aspettano l’arrivo di Santa Lucia che porta loro gli attesi regali a cavallo di un asinello. Si lascia un piatto sul tavolo con del cibo con cui ristorare sia lei che l’asinello prima di andare a dormire. In questa sera i bambini vanno a letto presto e chiudono gli occhi nel timore che la Santa, trovandoli ancora svegli, li accechi con la cenere. La mattina dopo, Santa Lucia fa trovare loro il piatto colmo di dolci, fra cui le immancabili “pastefrolle di Santa. Lucia”, di varia forma (stella, cavallino, cuore…), nonché l'altrettanto immancabile "ghiaia dell'Adige". Le formine delle frolle scacciano il male e sono di buon auspicio. Legata a questa tradizione religiosa si è poi sviluppata la tradizionale fiera: i“bancheti de Santa Lussia”. Ma chi era Santa Lucia? Storicamente Lucia era una giovane e ricca siracusana di religione cristiana, martirizzata intorno al 304 durante l’ultima persecuzione ai cristiani perpetrata da Diocleziano. La leggenda narra che Lucia, promessa sposa ad un giovane concittadino, a causa di una malattia che aveva colpito la madre, decise di andare a pregare sulla tomba di Sant’Agata. Lì le apparve la Santa, da cui ottenne la guarigione richiesta a patto che dedicasse la sua vita ai poveri, agli emarginati e ai sofferenti. Tornata a casa Lucia ruppe il fidanzamento e si dedicò, come promesso, a soccorrere i più deboli. Ma il fidanzato non accettò il gesto d’amore verso il prossimo della promessa sposa e la denunciò come cristiana al prefetto Pascanio. Arrestata, minacciata e torturata, fu messa a morte, il giorno 13 dicembre, perché non accettò di rinnegare la propria fede. Sempre secondo la leggenda, poco prima di condannarla a morte, il prefetto affermò che il fidanzato di Lucia l’aveva denunciata perché disperato all’idea di perdere ciò che più lo affascinava della giovane: la particolare luce nei suoi occhi. Lucia, allora, se li strappò e disse a Pascanio di consegnarli al fidanzato. Per questo gesto estremo che la portò alla cecità, Lucia è la santa protettrice degli occhi e patrona di ottici, oculisti e non vedenti. Poco dopo la sua morte il culto nei confronti di questa giovane si diffuse in breve tempo; già nel 310 a Siracusa le fu dedicato un oratorio e, nel VI secolo, papa Gregorio Magno la inserì nel Canone della Messa Romana, mentre un alone di mistero avvolge la storia delle sue reliquie. C’è chi sostiene che il corpo della Santa rimase a Siracusa fino all’VIII secolo, quando il duca di Spoleto, conquistata la città, ne trasportò le spoglie in Abruzzo; da qui, l’imperatore Ottone I di Sassonia le fece portare in Germania, intorno al X secolo. C’è invece chi sostiene che il corpo fu trasferito a Costantinopoli nel IX o X secolo per sottrarlo ai pericoli dell’invasione saracena della Sicilia. Nel 1204, i Crociati conquistarono la città e le spoglie furono trasportate a Venezia, da cui, nei secoli successivi, il culto si estese nei territori posti sotto il dominio della Serenissima, tra cui Verona. IL MITO DI FETONTE Uno dei miti più conosciuti e diffusi nel Veneto, è legato al fiume Po e al mito di Fetonte la cui storia richiama non solo la tradizione orale e scritta, ma anche quella artistica con grandi affreschi che impreziosiscono alcune sontuose ville del territorio. A dire il vero, sul fiume Po che lambisce sia il Veneto che l’Emilia ed attraversa buona parte della Lombardia e sul lento scorrere delle sue acque, trovano voce molte leggende come quelle di Eridano, di Fetonte, delle isole Elettridi, delle sorelle di Meleagro, di Dedalo e Icaro, di Eracle reduce dal paese degli Iperborei ed altre. Eridano era innanzitutto il nome con cui i Greci chiamavano il fiume Po, anche se il suo nome è un'acquisizione storica. Eridano era in origine un fiume leggendario, sulla cui localizzazione si sono variamente pronunciati gli antichi fino a che si giunse ad identificare il fiume leggendario con il Po e a localizzare nel Polesine lo scenario dei miti sopra elencati. Tra essi il mito di Fetonte che fa rivivere questa leggenda nei momenti di silenzio e di quiete. Si narra, infatti, di un giovane dio Sole il cui nome era appunto Fetonte, figlio del Sole e di Climene, sprofondato nel fiume Eridano cioè nel Po con il carro. Il giovane era stato offeso da un altro dio dell'Olimpo il quale insinuava che Fetonte non fosse figlio del Sole. Egli volle invece dimostrare che ciò era falso, e decise di guidare il carro fiammeggiante del padre ma, non avendo le sue capacità, ben presto la quadriga di fuoco si avvicinò troppo alla Terra. I cavalli correvano per il cielo senza governo e Fetonte, terrorizzato, abbandonò le redini: i cavalli spinsero il carro troppo vicino al nostro globo che si disseccò e incominciò a bruciare. Il carro di fuoco vagava incendiando boschi e montagne, disseccando i fiumi e le sorgenti. Fu allora che gli Etiopi divennero neri al suo avvicinarsi. Il mare cominciava ad abbassarsi e sulla sua superficie galleggiavano animali marini morti. Infine la dea Terra si levò dal suolo emergendo e in tale posa invocò Giove, il re degli dei, lamentando che il Cosmo stava ripiombando nel caos originario e invitandolo a salvare quanto rimaneva ancora del Mondo. Giove così andò da Vulcano per farsi forgiare una saetta; brandì il fulmine e folgorò lo sventurato auriga. Il carro fu frantumato, i cavalli fuggirono nel cielo e Fetonte morì precipitando verso terra come una stella cadente e con le chiome avvolte dalle fiamme. Il suo corpo fu accolto dal fiume Eridano e fu sepolto dalle ninfe Esperie. Il giorno dopo il Sole, afflitto per l'accaduto, non si levò e la terra fu illuminata solo dai fuochi del grande incendio che divampava nel Mondo. La madre Climene trovò il sarcofago del figlio e vi versò tutte le sue lacrime. Ancor di più si disperarono le sorelle di Fetonte, le Eliadi; costoro, a furia di piangere, si trasformarono lentamente in pioppi stillanti lacrime d’ambra, mentre della loro natura umana non restò che l’accenno della bocca. Pagina - 1 LA LEGGENDA DELLA POTATURA E DELL’UVA Due tradizionali leggende raccontano la storia della nostra campagna e sono legate al lavoro dell’uomo che con la propria tenacia ed il proprio ingegno, ha saputo trarre beneficio da una situazione sfortunata. Sono legate entrambe alla vigna e al faticoso lavoro dell’uomo che vide un fatto sfortunato, trasformarsi in un’occasione di fortuna e di crescita. Si racconta, infatti, che ad inventare la potatura non fosse stato un uomo bensì un asino. Un giorno un asino fuggito da una stalla, riuscì a correre verso l'abbeveratoio. Dopo alcune sorsi, alzò il muso e vide lì a fianco una vite che il contadino aveva messo a pergola per fare ombra. Sollevato il muso, iniziò a brucare alcuni tralci con dei poderosi morsi e a strapparne degli altri cosicché qualche tralcio venne accorciato e il contadino, visto questo disastro, pianse a dirotto. Ormai era convinto che quella vite non potesse più produrre nulla e, passato un po’ di tempo, decise di tagliarla. Recatosi sul posto, vide invece con grande meraviglia che la vite con i tralci troncati aveva dato in breve tempo una quantità maggiore di uva delle altre. Allora capì che era meglio potare le viti. Allora sapete che vi dico? E’ per questo motivo che si dice che la potatura è stata inventata da un asino. Quella dell’uva è invece una favola vecchia di secoli e si svolse in una zona come la nostra. Tanti e tanti anni fa la vite non produceva frutti. Era una pianta ornamentale. Un contadino aveva una vite bella e rigogliosa. I suoi rami, carichi di foglie, si allungavano sempre più e coprivano con la loro ombra le pianticelle vicine. “Anche le piccole piante hanno bisogno di sole” pensava il contadino. “Devo perciò potare la vite.” Un giorno egli tagliò energicamente tutti i rami della bella pianta e tolse molte foglie degli altri. La vite ne soffrì e pianse amaramente. Quando scese la sera, un usignolo si posò delicatamente sopra un piccolo ramo della pianta e si mise a cantare per consolarla. Il canto dell’usignolo era così dolce, che le stelle si commossero così tanto che fecero discendere un po’ della loro energia sulla vite. Allora la pianta sentì scorrere in sé una linfa nuova. Le sue gemme si aprirono e tante foglioline verdi spuntarono sui rami quasi spogli. Le sue lacrime, belle come perle, si trasformarono a poco a poco in piccoli frutti…Al sorgere del sole, dai rami pendevano i primi grappoli d’uva. La vite era diventata così una pianta fruttifera. I suoi frutti avevano l’energia delle stelle, la dolcezza del canto dell’usignolo e il colore del cielo all’aurora e il gusto del nettare degli dei.