India: crescita senza progresso

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India: crescita senza progresso
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India: crescita senza progresso
Luca Muzi
Nella "tribal belt", la grande regione dove vivono le popolazioni
adivasi, si concentrano le ricchezze minerarie dell'India, che hanno generato conflitti e ingiustizia
sociale, spiega la giornalista Marina Forti
Con un tasso di crescita vicino al nove per cento nell’ultimo decennio, l’India è una delle
economie emergenti e una delle potenze economiche del futuro. Nel mese di marzo il rapimento
da parte di gruppi armati di due cittadini italiani, Claudio Colangelo e Paolo Bosusco, poi liberati,
ha fatto però emergere un aspetto meno noto di questo Paese: «montagne remote, popolazioni
indigene e guerriglieri, sembrano gli ingredienti di una storia d’altri tempi e di un altro mondo»,
spiega Marina Forti, giornalista del
Manifesto e autrice di numerosi reportage dall’India centrale. In realtà non si tratta di «una storia
dell'altro mondo e i soggetti in campo non sono residuali. Anzi, tutto questo è perfettamente
dentro al mondo globalizzato in cui viviamo», aggiunge la Forti.
Ma facciamo un passo indietro. L’India ha cominciato a liberalizzare la propria economia a
partire dal 1993 e nel 2003 è stata inserita dagli analisti di Goldman Sachs tra i Paesi che
avrebbero cambiato l’economia mondiale: i cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina).
Secondo le previsioni di questi analisti, nel giro di trent'anni i Pil combinati dei paesi Bric avranno
superato la somma dei G6 (Usa, Regno unito, Francia, Germania, Italia e Giappone), mentre nel
2050 la Cina sarà la più grande economia mondiale, seguita dagli Stati Uniti, con l'India al terzo
posto. Una buona parte della crescita indiana degli ultimi vent'anni è dovuta alle "tecnologie
dell'informazione", in particolare la produzione di software o servizi per le imprese
occidentali che qui hanno delocalizzato contabilità, archivi, tele-marketing e call center. Ma non
c’è solo questo, perché in India si sono moltiplicati i progetti industriali, sono state create le
cosiddette "zone economiche speciali" e sono stati fatti grandi investimenti per
aumentare l'estrazione di materie prime. «L'India è una nazione ricca di risorse minerarie» spiega
la Forti, il Paese infatti «è il secondo produttore mondiale di cromite e talco, il terzo produttore di
carbone, il quarto di ferro, è inoltre un importante produttore di bauxite, quindi di alluminio, e di
molti altri minerali». Il carbone estratto è utilizzato per oltre il 70 per cento per produrre energia
elettrica, mentre il resto alimenta gli altiforni delle acciaierie. Tuttavia la produzione indiana non
arriva a soddisfare il fabbisogno interno e l'India è costretta a importare ancora altro carbone.
Anche il ferro è consumato o lavorato internamente, soprattutto per produrre l’acciaio di cui il
Paese è esportatore. L’estrazione di risorse minerarie si concentra quasi completamente in una
zona particolare dell’India centrale: «è la
mineral belt, la fascia dei minerali, si tratta di una regione montagnosa che attraversa cinque Stati
centro-settentrionali». Tre Stati in particolare, Jharkhand, Chhattisgarh e Orissa, concentrano al
proprio interno il 70 per cento dei giacimenti di carbone dell’India, il 56 per cento di quelli di ferro,
il 60 per cento di quelli di bauxite: «risorse enormi che attualmente sono solo in parte sfruttate»
afferma la Forti. Queste stesse zone sono anche il cuore della
tribal belt, «la regione dove vive gran parte della popolazione nativa del subcontinente indiano, gli
adivasi, gli "abitanti originari". Sono una minoranza consistente, l’8,6% della
popolazione indiana, cioè quasi 100 milioni di persone». Se si sovrappongono le due mappe,
quella dei giacimenti minerari e quella delle popolazioni native, si vedrà che queste coincidono
quasi alla perfezione: «è questa la radice del conflitto» afferma la Forti. Infatti «la storia delle
regioni "tribali", e in generale delle regioni rurali più remote, è una storia di esproprio e
di esclusione, già prima delle miniere». Non esistono cifre precise su quante persone siano state
obbligate a lasciare le proprie case e i propri terreni a causa di miniere, dighe, fabbriche e altre
opere, ma diversi studi «parlano di oltre 20 milioni di "sfollati involontari" in 50 anni per
fare posto alle varie grandi opere dello sviluppo». L’allontanamento delle popolazioni
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adivasi dalle proprie terre è iniziato negli anni Cinquanta quando cominciò lo sfruttamento del
legname e dei prodotti delle foreste della
tribal belt, da allora il costante accaparramento delle terre migliori da parte degli imprenditori
forestali ha costretto le popolazioni locali a continui spostamenti e a un progressivo
impoverimento. Oggi la situazione è decisamente peggiorata in seguito alla rapida espansione
delle attività estrattive che stanno riducendo ulteriormente le superfici coltivabili e stanno
inquinando terreni e falde acquifere. «Lo sviluppo in queste zone arriva solo sotto forma di
miniere, acciaierie o dighe che comportano requisizioni di terre, foreste abbattute e masse di
persone costrette a lasciare tutto» spiega la Forti, che cita il ricercatore indiano Aditya Nigam del
Centre for the Study of Developing Societies, per «in queste zone c'è fin troppo sviluppo, ma
nessun progresso: niente scuole, niente ospedali, niente strade, in queste zone mancano i servizi
più basilari».
L'industrializzazione forzata e l'espulsione dalle terre hanno peggiorato le condizioni di vita degli
abitanti della
tribal belt e, una volta persa l'economia di sussistenza basata sull'agricoltura e sulla raccolta di
frutti della foresta, gli
adivasi sono «finiti per essere più poveri, perché per loro è difficile anche lavorare nelle industrie
che si sono impossessate delle loro terre, nella maggioranza dei casi, infatti, non hanno le
qualifiche necessarie. Così finiscono ammassati in
bidonvilles urbane, o magari a scavare come abusivi al margine delle miniere di carbone per
cavarne qualcosa da vendere in città».
L'avanzata di fabbriche e miniere ha accelerato l'espulsione dei nativi dalla terra e inasprito
vecchie ingiustizie. Per questo motivo sono nati numerosi movimenti di protesta e di resistenza
contro lo spostamento forzato delle popolazioni, contro la requisizione delle terre, contro
acciaierie e miniere. Tra questi movimenti uno dei più influenti è quello dei maoisti o naxaliti,
nome derivante da una famosa rivolta contadina nel villaggio di Naxalbari, nel Bengala
occidentale, avvenuta nel 1967. Dopo un periodo di pausa durato vent'anni i maoisti hanno
ripreso la lotta armata sul finire degli anni Novanta e «oggi si propongono come i difensori dei
diritti dei nativi, buona parte dei militanti, infatti, sono "tribali", anche se la leadership è
composta da persone istruite e di casta alta, per lo più brahmini». La risposta del governo indiano
all’offensiva maoista è stata molto dura e nel 2009 è stata lanciata l'operazione
Green Hunt. La Forti spiega che «doveva essere una "operazione massiccia e
coordinata" contro le "roccaforti" dei maoisti, un affondo finale contro la
guerriglia che invece è culminata in un disastro». Gli unici risultati prodotti dalla «guerra ai
maoisti» sono stata la criminalizzazione dei movimenti di opposizione e la nascita di gruppi
paramilitari. Infatti, «nell'immaginario dell'opinione pubblica urbana indiana i movimenti di
resistenza e protesta in quelle zone vengono tutti identificati come maoisti. Ma non è così, anzi:
molti movimenti politici, di massa, non armati sono stati loro malgrado etichettati come maoisti e
criminalizzati». Inoltre sono nati molti gruppi paramilitari come la Salwa Judum, o
"autodifesa": «si dice che siano organizzazioni spontanee, invece sono milizie armate
e addestrate dal governo dello Stato di Chhattisgarh, e mandate a fare il vuoto attorno ai
"terroristi". Presto si sono diffuse notizie di villaggi bruciati, uccisioni, stupri». Dopo
anni di denunce è stato sentenziato che le milizie erano irregolari: «lo Stato non può armare civili
per combattere altri civili ha affermato la Corte suprema, ma in Chattisgarh le vecchie milizie
hanno solo cambiato nome o sono state tramutare in "ausiliari di polizia"».
«In India non si è trovato ancora un equilibrio tra crescita e stabilità della società», spiega Marina
Forti, «e oggi siamo di fronte a due Indie che si affrontano, una arcaica, quella dei contadini e dei
maiosti, e una moderna, quella del boom economico. L'india deve fare in modo che i benefici di
questa crescita arrivino davvero a tutta la popolazione, per questo è necessario affrontare la
questione della redistribuzione, non solo economica, ma anche di potere politico, ma questa
parola per il momento non sembra far parte del vocabolario del leader indiani».
Sì
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