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Vincenzo Sorrentino
CUPIO DISSOLVI
Senso della vita e abbandono
(impressioni)
ARMANDO
EDITORE
Ringraziamenti
Ringrazio innanzitutto mia moglie Giusi, con la quale ho condiviso
le gioie e i dolori che mi hanno spinto a scrivere questo libro, per la
cura con cui ha letto il testo. Tutta la mia gratitudine va poi a Roberto
Gatti per il consueto rigore intellettuale e l’amichevole disponibilità
con cui ha discusso con me molti passaggi del libro. Un sentito grazie
a Giusi Gualtieri: durante la stesura del testo, il dialogo con lei è stato
estremamente importante e bello. Desidero, inoltre, ringraziare Laura
Fatini per aver consentito a queste pagine di passare al vaglio del suo
sguardo creativo e vitale sulle cose. Grazie poi a Marco Brunori per il
fatto di esserci. Un pensiero, infine, a Pietro Barcellona, di cui sento la
mancanza, e a Salvatore Arcella, la cui scomparsa ha lasciato un vuoto
che nessuna esperienza del senso potrà mai colmare.
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A Clara e Marta
Sommario
Il buio, la luce
17
La pulsione mistica
32
Il mondo che abitiamo
40
L’oblio
44
Senso e scopo
49
Amore vs volontà
55
Bellezza, estasi e condivisione
63
L’abbandono
80
Il dominio e l’“origine” della vita
95
La vita senza Dio
100
La luce, il buio
103
Cupio dissolvi et esse cum Christo.
(Agostino)
Fra i quadri del pittore Kramskòj ve n’è uno singolare intitolato Il contemplatore: vi è raffigurato un bosco d’inverno, e nel bosco, sulla strada, in un lacero caffetano e nei
suoi piccoli lapty, se ne sta, nella solitudine più totale, un
contadinello che si è perduto, e pare assorto, e tuttavia non
pensa, ma “contempla” qualcosa. Se lo si urtasse, trasalirebbe e vi guarderebbe come chi si desta all’improvviso,
senza capire nulla. Si riavrebbe subito, in verità, ma se gli
domandaste perché se ne stava lì a pensare, probabilmente non ricorderebbe nulla, ma in compenso serberebbe in
sé l’impressione avuta durante la sua contemplazione.
Quelle impressioni gli sono care, e di certo le accumula
senza avvedersene, suo malgrado; a quale scopo e perché
neppure lui lo sa.
(F. Dostoevskij)
Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte.
Verità, non prestarmi troppa attenzione.
Serietà, sii magnanima con me.
Sopporta, mistero dell’esistenza, se tiro via fili dal tuo
strascico.
(W. Szymborska)
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Nietzsche, due anni prima della sua caduta nei labirinti della follia:
Se si prescinde dall’ideale ascetico, l’uomo, l’animale uomo non
ha avuto fino a oggi alcun senso. La sua esistenza sulla terra è stata
vuota di ogni meta; “a che scopo l’uomo?” – fu una domanda senza
risposta; mancava la volontà per uomo e terra; dietro ogni grande
destino umano risonava, a guisa di ritornello, un ancor più grande
“invano!”. Questo appunto significa l’ideale ascetico: che qualche
cosa mancava, che un’enorme lacuna circondava l’uomo – egli non
sapeva giustificare, spiegare, affermare se stesso, soffriva del problema del suo significato. Soffriva anche d’altro, era principalmente
un animale malaticcio: ma non la sofferenza in se stessa era il suo
problema, bensì il fatto che il grido della domanda “a che scopo
soffrire?” restasse senza risposta. L’uomo, l’animale più coraggioso
e più abituato al dolore, in sé non nega la sofferenza; la vuole, la
ricerca persino, posto che gli si indichi un senso di essa, un “perché”
del soffrire. L’assurdità della sofferenza, non la sofferenza, è stata la
maledizione che fino a oggi è dilagata su tutta l’umanità – e l’ideale
ascetico offrì a essa un senso! È stato fino a oggi l’unico senso; un
qualsiasi senso è meglio che nessun senso; l’ideale ascetico è stato
sotto ogni aspetto il “faute de mieux” par excellence che sia mai
esistito sino a ora. In esso la sofferenza venne interpretata; l’enorme
vuoto parve colmato; si chiuse la porta dinanzi a ogni nichilismo
suicida. L’interpretazione – indubbiamente – comportò nuova sofferenza, più profonda, più intima, più venefica, più corrosiva rispetto
alla vita: dispose ogni sofferenza sotto la prospettiva della colpa…
Ma ciò nonostante – l’uomo venne in questo modo salvato, ebbe un
senso, non fu più, da quel momento in poi, una foglia al vento, un
trastullo dell’assurdo, del “senza-senso”, ormai poteva volere qualcosa – e soprattutto senza che avesse la minima importanza in che
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direzione, a che scopo, con che mezzo egli volesse: restava salvata
la volontà stessa. Non ci si può assolutamente nascondere che cosa
propriamente esprime tutto quel volere, che sulla base dell’ideale
ascetico ha preso il suo indirizzo: questo odio contro l’umano, più
ancora contro il ferino, più ancora contro il corporeo, questa ripugnanza ai sensi, alla ragione stessa, il timore della felicità e della
bellezza, questo desiderio di evadere da tutto ciò che è apparenza,
trasmutamento, divenire, morte, desiderio, dal desiderare stesso –
tutto ciò significa, si osi rendercene conto, una volontà del nulla,
un’avversione alla vita, una rivolta contro i presupposti fondamentalissimi della vita, e tuttavia è e resta una volontà!… E per ripetere
in conclusione quel che già dissi all’inizio: l’uomo preferisce ancora
volere il nulla, piuttosto che non volere…1.
Risponde Etty Hillesum, l’anno prima della sua morte ad Auschwitz:
Ero andata a dormire presto, dal mio letto guardavo fuori attraverso
la grande finestra aperta. Ed era come se la vita con tutti i suoi segreti mi fosse nuovamente accanto, come se la potessi toccare. Avevo
la sensazione di riposare sul suo petto nudo, di sentire il battito regolare e leggero del suo cuore. Ero fra le nude braccia della vita e ci
stavo così sicura e protetta. Pensavo: com’è strano. C’è la guerra. Ci
sono campi di concentramento. Piccole barbarie si accumulano di
giorno in giorno. Camminando per le strade, io so che in quella casa
c’è un figlio in prigione, in quell’altra un padre preso in ostaggio, o
un figlio diciottenne condannato a morte. E questo capita a due passi
da casa mia. So quanto la gente è agitata, conosco il grande dolore
umano che si accumula e si accumula, la persecuzione e l’oppressione, l’odio impotente e il sadismo: so che tutte queste cose esistono, e
continuo a guardar bene in faccia ogni pezzetto di realtà nemica.
Eppure, in un momento di abbandono, io mi ritrovo sul petto nudo
della vita e le sue braccia mi circondano così dolci e protettive, e il
battito del suo cuore non so ancora descriverlo: così lento e regolare
e così dolce, quasi smorzato, ma così fedele, come se non dovesse
arrestarsi mai, e anche così buono e misericordioso2.
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E ancora, dal “campo di smistamento” di Westerbork, a pochi mesi
dalla sua uccisione:
… la miseria che c’è qui è veramente terribile – eppure, alla sera
tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso
di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio
cuore si innalza sempre una voce – non ci posso far niente, è così,
è di una forza elementare – e questa voce dice: la vita è una cosa
splendida e grande…3.
Rilke scrive degli angeli:
Voi, primi perfetti, viziati della Creazione,
profili di vette, creste di tutto il Creato
rosse d’aurora, – polline della divinità in fiore,
articolazioni di luce, anditi, scale, troni,
spazi d’essenza, scudi di delizia, tumulti
di sentimento in tempeste d’entusiasmo, e a un tratto,
uno per uno,
specchi: la bellezza che da voi defluisce
la riattingete nei vostri volti4.
Eppure l’angelo di Wenders, in Il cielo sopra Berlino, sceglie di diventare mortale, di incarnarsi nella città che aveva conosciuto gli orrori
del nazismo e le distruzioni della seconda guerra mondiale, per sentire
la bellezza della vita terrena e dell’unione con una donna.
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Il buio, la luce
In questo preciso istante un enorme corpo celeste, dalla velocità infinitamente superiore a ogni nostro mezzo di misurazione, potrebbe essere
sul punto di colpire la terra e distruggerla. Un corpo celeste impossibile
per noi da avvistare prima dell’impatto o che sfugge a tutte le leggi fisiche con cui abbiamo costruito la nostra immagine dell’universo.
Il buio è lo spazio in cui si annida la possibilità di un tale evento.
In realtà, in quanto pensabile, l’avvento del corpo celeste consente di
delineare una metafora piuttosto imperfetta del buio, dal momento che
non possiamo escludere che quest’ultimo nasconda anche quello che ci
appare impossibile o addirittura impensabile. Il buio, infatti, è la dimensione che trascende l’orizzonte di luce in cui prende forma il mondo
visibile: i criteri in base ai quali disegniamo la linea di demarcazione tra
il possibile e l’impossibile sono tratti dalle nostre esperienze nel mondo
visibile, dal quale ricaviamo anche i materiali con i quali costruiamo i
confini della pensabilità delle cose. Chi ci garantisce che al di là della
linea di luce non si dia qualcosa che sovverte tali criteri e distrugge tali
materiali? Credere che nello spazio buio valgano gli stessi parametri
che riteniamo siano applicabili al cono di luce in cui viviamo, significa
proiettare indebitamente il mondo visibile oltre se stesso, significa cioè
cercare di illuminare l’intero universo.
Il buio è l’irriducibile dimensione dell’invisibilità perché non potrà
mai essere dissolto, o meglio perché non potrà mai essere eliminata la
possibilità del suo darsi oltre e dentro la trama del visibile. Ciò che oggi
è coperto dal buio potrà forse un giorno essere illuminato; è avvenuto
tante volte in passato: la scoperta di una mutazione genetica illumina un
frammento di buio. Ma per quanto estesa possa diventare la luce che illumina la nostra vita, per quanto lontano possano proiettarsi i suoi raggi
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negli spazi del cosmo e del microcosmo, non potrà mai essere eliminata
la possibilità che continuino a nascondersi ai nostri occhi territori bui, i
cui abitanti forse si affacceranno un giorno sul nostro mondo visibile o
rimarranno forse per sempre invisibili.
In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso
infiniti sistemi solari, c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più
menzognero della “storia del mondo”: ma tutto ciò durò soltanto
un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli
animali intelligenti dovettero morire5.
Menzognera, però, non è la conoscenza in quanto tale, ma la conoscenza che pretende di illuminare integralmente lo spazio sterminato
dell’invisibile nel quale è sospesa la nostra vita.
Tutto questo mondo visibile non è che un segmento impercettibile
nell’ampio seno della natura […]
L’uomo, dopo essere ritornato in sé, consideri ciò che egli è in confronto di ciò che esiste; che si consideri come smarrito in questo
angolo appartato della natura; e da questa piccola prigione in cui è
stato posto, intendo dire l’universo, impari a valutare la terra, i reami, le città e se stesso in giusta misura. Cos’è un uomo nell’infinito?
Ma per presentargli un altro prodigio altrettanto meraviglioso, che
cerchi, fra quanto conosce, le cose più minute. Un acaro gli presenti,
nella piccolezza del suo corpo, parti incomparabilmente più piccole… […]
Voglio fargli vedere lì dentro un nuovo abisso. Voglio dipingergli
non solamente l’universo visibile, ma quell’immensità della natura
che si può concepire, nell’ambito di quello scorcio d’atomo.
Vi scorga un’infinità di universi, di cui ciascuno ha il suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra, nelle stesse proporzioni del mondo
visibile […].
Infine, che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla in confronto con
l’infinito, un tutto in confronto al nulla, qualcosa di mezzo tra il
nulla e il tutto. Infinitamente lontano dal comprendere gli estremi,
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il termine delle cose e il loro principio sono per lui invincibilmente
nascosti in un segreto impenetrabile. Egli ugualmente incapace di
scorgere il nulla, da cui è tratto, e l’infinito in cui è inghiottito6.
Il buio non è la notte, ma è lo spazio all’interno del quale si alternano
il giorno e la notte, i due volti della piccola luce terrestre persa nel buio
dell’universo, le noir illimité, ce frère du silence éternel7.
Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e su la mesta landa
in purissimo azzurro
veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch’a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente; a cui
l’uomo non pur, ma questo
globo ove l’uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor più senz’alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o così paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell’uomo?8.
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