IIS Eula Arimondi, classe 4D Emma Rocca Lidia Rolfi oggi: la

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IIS Eula Arimondi, classe 4D Emma Rocca Lidia Rolfi oggi: la
IIS Eula Arimondi, classe 4D
Emma Rocca
Lidia Rolfi oggi: la fierezza della diversità
“La tua vita da persona comune, quale pensi di essere, termina nel momento esatto in cui le SS
tedesche ti ordinano di metterti in fila e bisogna avviarsi su una lunga strada, alla fine della quale
di intravede un muro nero altissimo e si apre il portone: è l’ingresso di Ravensbrück, un campo di
lavoro unicamente femminile. Nessuna persona normale può immaginare l'aspetto di una città
concentrazionaria, una città concepita, studiata e strutturata apposta per violentare la persona, per
umiliarla, per distruggerla, per renderla bestia”.
Così scrive Lidia Rolfi. Era una ragazza come tanti suoi coetanei, cresciuta nelle scuole di
regime, educata ad amare il duce a tal punto che le prime parole che imparò a scrivere furono “Eia,
eia, eia, alalà!”, la prima lettura “Duce, ti amo”, il primo disegno la bandiera e il fascio littorio. Ma
i primi dubbi iniziano a sorgere nella sua mente di bambina dopo il 10 giugno del 1940, data in cui
l'Italia entra in guerra al fianco dei tedeschi. La guerra tocca direttamente la famiglia di Lidia: due
dei suoi cinque fratelli sono partiti per il fronte russo e di loro, come di tanti altri, non si hanno
notizie. L'immagine del padre che la schiaffeggia, per la prima ed ultima volta in vita sua, perché
tornando da scuola grida «Viva la guerra!» e quella della madre che piange di nascosto, fanno
scattare in Lidia una seria riflessione su tutte le certezze che aveva avuto fino a quel momento.
Diventerà maestra e nel contempo sarà una staffetta, sarà poi incarcerata, torturata, la sua
femminilità sarà recisa, rasa come i suoi capelli, appena arrivata al campo di lavoro. Così infatti ai
tedeschi piaceva chiamare i campi di sterminio, perché non ti facevano lavorare ti distruggevano.
Lidia Rolfi non era troppo diversa dal modello di uomo perfetto pensato da Hitler, era cristiana,
eterosessuale, in buona salute. Era diversa dagli altri, però. Lei aveva scelto di opporsi, aveva messo
in gioco la sua vita per non darla vinta a quelle idee così lontane dal suo modo di pensare. Non
poteva immaginare cosa avrebbe trovato una volta superato quel portone. Non poteva nemmeno
sognare lontanamente come avrebbero reso il suo corpo, perché nessuna persona sana di mente
avrebbe potuto costruire un così efficiente programma organizzativo per annientare intere
popolazioni.
Anche all’interno dei campo esiste la diversità. Lidia se ne accorge, è italiana perciò a rigore
di logica è fascista anche lei, è perciò vista come un nemico dalle sue compagne, perché tutte hanno
qualcosa di diverso da lei. Chi non è cristiana, chi, come Lidia, non la pensa come Hitler, chi non è
etero, chi ha problemi fisici e i nazisti sono la causa per cui loro sono lì. Ma poco niente importa si
è sulla stessa barca e bisogna remare, insieme ma Lidia continua a non pensarla come Hitler,
all’interno dei campi vive per la sopravvivenza, ma una volta uscita scriverà numerosi libri perché
fin da subito comprende che il silenzio non cancella il passato, solo lo priva di significato. Non sarà
mai più una persona comune, Lidia. Ha combattuto per ciò che riteneva corretto, perché nessuno
può arrogarsi il diritto di uccidere un altro essere solo perché diverso da lui. Perché dovrebbe
meritare la pena di morte l’essere nato in un’altra parte nel mondo, il credere in un Dio diverso,
l’avere una carnagione è diversa, delle malformazioni fisiche o gusti sessuali diversi?
Le persone come Lidia hanno messo in gioco la propria vita, con paura certo, ma con
orgoglio. Eppure la loro morte ha cambiato qualcosa nel mondo? Certo se ne parla a scuola:“non
bisogna essere razzisti” dicono, ma se ti rubano qualcosa e ti trovi tra un italiano e un albanese o un
ragazzo di carnagione scura chi accusiamo per primo? Sono stufa dei moralismi, del perbenismo
scandalizzato: sì, sono certa che la prima persona a pagarne le conseguenze non sarebbe di certo
l’Italiano. Perché siamo stati da sempre abituati a viverla così, perché abbiamo paura, perché il
diverso non è bello.
Dovremmo osservare la situazione dei migranti che ogni giorno arrivano in Italia, per capire
quanto siamo in grado di accogliere la diversità. Mesi fa i social sono stati riempiti di notizie
riguardanti la tragedia avvenuta nel mare di Lampedusa e la cosa più triste è il fatto che moltissimi
definivano questo avvenimento una fortuna, dicevano che se l’erano cercata, che era un bene perché
erano centinaia di persone in meno che l’Italia doveva accudire e meno male che sono morti così ci
sono posti di lavoro in più per noi italiani. Certo perché un nero che lava i vetri di una macchina o
che lavora nei campi per pochi soldi al giorno cambia la vita di un italiano. Come si può pensare
che ci rubino il lavoro, che la nostra povertà possa dipendere da costoro? Abbiamo fatto di questi
uomini un capro espiatorio, di nuovo. Come quando la crisi economica in Germania portò i puri
ariani a scegliere come capro espiatorio gli sporchi ebrei.
La paura del diverso e l’assurdità dell’ignoranza sono senz’altro le più alte barriere che il
mondo di oggi deve superare, nonostante l’uomo sia persino arrivato sullo spazio e abbia il progetto
di popolare altri pianeti. L’essere umano è arrivato tanto lontano, ma, in questo caso, non ha ancora
fatto grandi passi in avanti: per l'ennesima volta, vittima della crisi economica e dei proclami del
politico qualunque, rischia di cadere nel baratro dell’ignoranza e di farsi sopraffare dagli istinti
razzisti. E mai come oggi devono risuonare limpide nei nostri cuori le parole le più belle parole mai
pronunciate da M. Luther King:
“Io sogno che un giorno gli uomini /si solleveranno e capiranno/ che sono fatti per vivere da
fratelli/ Io sogno che un giorno il nero di questo paese/ e ogni uomo di colore del mondo
intero/saranno giudicati in base al loro valore personale/anziché per il colore della pelle e che tutti
gli uomini/rispetteranno la dignità dell’essere umano”.