- Claudio Magris: è pensabile il romanzo senza il mondo moderno

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- Claudio Magris: è pensabile il romanzo senza il mondo moderno
Alla ca della DS Prof.ssa R. Galassi – IISPONTANO – SANSI – L. LEONARDI DI SPOLETO
Alla ca dei Colleghi del Dipartimento dell’Area Umanistica
PROPOSTA DIDATTICA 2012 / 2013 – Prof.ssa Sambugaro
AMBITO UMANISTICO
SUL METODO
a) “lettura” individuale di un testo / opera
b) problematizzazione: con – dividere domande
c) lezione frontale (questa cambierà in funzione delle domande emerse nel gruppo classe)
d) approntare verifiche con tabella di autovalutazione (scil. valore autoregolativo della percezione soggettiva
dell’apprendere)
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- leggere un testo / opera impegnativo / a per discutere un problema (scil. la lettura individuale prevede
analisi, sintesi, critica con precomprensioni proprie);
- formulare una serie di domande (scil. le domande servono per la valutazione in itinere o valutazione
continua);
- redigere un abstract;
- scrivere una sintesi con indice analitico usando frasi nominali;
SUL CONTENUTO: LA CULTURA DEL ROMANZO
- Mario Vargas Llosa: è pensabile il mondo moderno senza il romanzo?
- Claudio Magris: è pensabile il romanzo senza il mondo moderno?
- Jack Goody: dall’oralità alla scrittura. Riflessioni antropologiche sul narrare (verità, menzogna,
narrazione)
- Henry Zhao: storiografia e fiction nella gerarchia culturale cinese (ogni scrittura è storiografia La verità nella storiografia e la verità nella fiction – l’influenza della storiografia sulla struttura
del romanzo cinese)
- Adriano Prosperi: censurare le favole
- Antonio Faeti: scuola e romanzo in Italia
- Francesco Orlando: statuti del soprannaturale nella narrativa
- L. O. Aranye Fradenburg: la storicità del romance mediovale
- Nancy Armstrong: il paradosso dell’individualismo
- Vittorio Coletti: la standardizzazione del linguaggio (il caso italiano)
- Maria Teresa Orsi: la standardizzazione del linguaggio (il caso giapponese)
- Sergio Givone: dire le emozioni. La costruzione dell’interiorità nel romanzo moderno
- Christa Bürger: il sistema dell’amore. Genesi e sviluppo della scrittura femminile
- Catherine Gallangher: dalla fantasy alla fiction, dal romance al novel – non individui ma specie
- Kate Flint: diffusione, consumo e romanzo nell’Ottocento
- Stefano Calabrese: bovarismo e altre patologie della lettura romanzesca
- Franco Moretti: il secolo serio
- Steven Johnson: complessità urbana e intreccio romanzesco
- Jean – Michel Rabaté: una lingua straniata. Dalle epifanie al Bildungsroman modernista
- Alberto Abruzzese: cinema e romanzo (dal visibile al sensibile)
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RI-PARTIRE DAL NOSTRO POF, FACENDO PRIMA UNA RIFLESSIONE DI TIPO
METODOLOGICO
FAR LEZIONE IN TRE TEMPI di Roberto Casati (IL SOLE 24ORE, n. 228)
Lettura individuale di un oggetto culturale, condivisione di domande scritte e a partire da queste
ultime lezioni frontali “….gli studenti devono leggere ogni settimana un articolo difficiletto e inviare
un commento / domanda il giorno prima della lezione [……]. A lezione passo una parte del tempo a
discutere di questi interventi prima di fare una presentazione più formale. La mia lezione cambia in
funzione delle domande ricevute. Le domande sono usate per una valutazione continua. Questa modalità
mi permette varie cose: ridimensionare il macigno della lezione frontale, far emergere le voci dei timidi,
spezzettare la valutazione, tenere sotto controllo il livello di assorbimento, valorizzare il contributo degli
studenti. La soddisfazione è reciproca. Non è male arrivare in classe e trovarsi di fronte studenti che
sanno già di cosa si parlerà, e avendo già localizzato i punti deboli grazie alle domande, si progredisce
rapidamente. Alla fine “della lezione” gli studenti hanno fatto ben quattro passaggi per i contenuti:
hanno letto, hanno scritto, hanno discusso, e mi hanno sentito esporre. Se dovessi dire perché la cosa
funziona citerei soprattutto il design complessivo della situazione, che è estremamente strutturata dal
punto di vista dei tempi e dei ruoli di ciascuno. Ha richiesto un vero e proprio progetto. Il mio è un
corso di materie umanistiche, il rapporto con il testo, la discussione e l’espressine scritta sono
fondamentali, la tecnologia mi permette di saldare questi elementi in un sistema fluido. Non è affatto
detto che questo sistema sia esportabile ad altre materie. In un corso di astronomia ha senso presentare
direttamente i contenuti con supporti multimediali e modellizzazioni; per esempio usando un
“osservatorio virtuale ” come Celestia o Stellarium; non ha senso far domande su articoli assegnati, e
serve invece far esercizi e autoverifiche.”
A margine di un convegno 2.0 …… e ….
…..a proposito della memoria della lavagna “[……] Vorrei qui sollevare una piccola perplessità sulla
ri-definizione dell’insegnamento in una classe equipaggiata con lavagna elettronica, e al tempo stesso
salutare un aspetto felice delle lavagne di ardesia o comunque non elettrificate. La vecchia lavagna
non contiene processori, non raddrizza le linee mentre le si tracciano, non fa scorrere diapositive, non
produce suoni, ma soprattutto non ricorda nulla. La sua memoria fisica di dissolve nell’entropia
creata dal gesto che cancella. Da una lavagna cancellata non si può risalire a quel che vi era scritto.
E non solo non si può (dato metafisico); è anche evidente a tutti che non si può (dato
epistemologico). Il che implica che gli utilizzatori della vecchia lavagna sanno di aver diritto all’errore,
o che viene loro concessa una seconda possibilità. La lavagna elettronica è invece abitata da molte
memorie, il cui utilizzo non è affatto trasparente per chi la usa. [……] Alla lavagna deve essere
possibile fare errori, e deve essere possibile cancellarli, e si deve sapere che non ne resterà traccia una
volta cancellati. Altrimenti non è più una lavagna, ma diventa un’altra cosa; uno spazio certo creativo,
che però ospita una creatività formattata e cauta”.
Roberto Casati
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Roberto Casati si è laureato in Filosofia del linguaggio all’Università degli Studi di Milano nel
1985 con Andrea Bonomi, sotto la cui direzione ha conseguito il Dottorato di Ricerca in
Filosofia nel 1991. Nello stesso anno ha anche ottenuto un Dottorato di Ricerca dall’Università
di Ginevra, sotto la direzione di Kevin Mulligan.
Entrato al Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) nel 1993, ha lavorato sulla
rappresentazione dello spazio e degli oggetti, soprattutto con Achille Varzi della Columbia
University, con cui ha pubblicato l’ormai classico Holes (MIT Press 1994, trad. italiana Buchi e
altre superficialità, Garzanti 1996), Parts and Places (MIT Press, 1999) e Semplicità
insormontabili (Laterza 2004), tradotto in otto lingue.
Il suo La scoperta dell’ombra (Mondadori 2001), tradotto in sette lingue, ha ottenuto il Premio
Fiesole Narrativa Under 40, il Premio Castiglioncello e il Premio della Science Se Livre
(Parigi). Nel 2006 ha pubblicato la raccolta di racconti filosofici Il caso Wassermann e altri
incidenti metafisici (Laterza).
Casati ha pubblicato un centinaio di articoli e lavori su riviste specializzate e collabora
regolarmente all’inserto culturale del Sole 24 Ore.
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A partire dall’Intervista sul classico di Mario Vegetti (in POF 2010 vd sito della scuola)
- Riflettere sull’approccio archeologico al sapere di cui si parla (riferendosi a Foucault); gli approcci
analitici (al sapere) e la lectio di Foucault
- La prosa del mondo: contenuti (Il romanzo)
Seguendo il filo rosso della lezione di Vegetti che cita Foucault riteniamo con lui imprescindibile
l’approccio archeologico. Leggere, cioè, le opere originali. Ciò significa multa per i docenti e multum
per i discenti. L’esempio delle tre fasi di lezione ovvero il design del progetto indica, invece, un
metodo di lavoro (per l’area umanistica).
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Per una epistemologia della pratica professionale si rimanda a D. A. Schon; per un approfondimento sul
linguaggio si rimanda a Il prezzo del linguaggio di Pennisi – Falzone; M. Foucault, Archeologia del
sapere (studio dei meccanismi che regolano la formazione dei discorsi) e Le parole e le cose (una
metodologia per la storia della cultura); di L. Mortari, Apprendere dall’esperienza e Ricercare e
riflettere; M. Baldassarre, Imparare ad insegnare, a proposito di paradigmi dominanti nella formazione
degli insegnanti e dei modelli di sviluppo professionale; U. Margotta – R. Minello, Poiein, la pedagogia
e le scienze della formazione; per uno studio sintetico ma esaustivo sul mito dell’oggettivismo e
soggettivismo nella linguistica occidentale ma anche sulla metafora come strumento linguistico si
rimanda a G. Lakoff – M. Johnson; per un approfondimento della struttura della civiltà occidentale si
rimanda a Gli abitatori del tempo (la struttura dell’occidente e il nichilismo) di E. Severino, A.
Damasio, L’errore di Cartesio e Alla ricerca di Spinosa (due metodi, due paradigmi che hanno segnato
il pensiero occidentale); M. Bettini, Vertere (per una antropologia della traduzione: perché tradurre
non significa la stessa cosa in tutte le culture; ciascuna tradizione ha fatto e fa ricorso a paradigmi
culturali specifici); di AA VV Il romanzo, 5 voll. (perché la narrazione e il narrare – anche oralmente trattati in senso diacronico e sincronico a occidente e a oriente restituiscono la fotografia della prosa del
mondo)
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UN’IPOTESI DI LAVORO SUL LINGUAGGIO:
a) CRATILO, DE VULGARI ELOQUENTIA E L’ARCHEOLOGIA DEL SAPERE A
CONFRONTO (il Cratilo perché: perché esamina la portata conoscitiva dei nomi per giungere
alla conclusione che occorre studiare la natura delle cose e non i nomi, [……] i nomi sono una pura
e arbitraria convenzione oppure rispecchiano la natura delle cose? L’ironia platonica ha un profondo
valore metodologico. Platone presenta la sua analisi in chiave ironica: infatti la validità teoretica è
piuttosto limitata invece l’importanza storico – culturale e metodologica è notevole – G. Reale);
b) LA STRUTTURA FRATTALE (scil. ricorsiva) DELL’ARGOMENTAZIONE.
(si veda a tal proposito Benoit Mandelbrot).
PS – alleghiamo indice delle opere consigliate (da Il romanzo – Einaudi – 5 voll.).
Le interpretazioni che si esplicano nelle domande che definiscono la prospettiva disciplinare, le
descrizioni e i principi inferenziali, si trovano riassunte qui di seguito. Tutto il materiale qui
riportato è rintracciabile in internet.
TEORIE DELLA CRITICA LETTERARIA
I metodi non debbono essere considerati procedure rigide; sono, piuttosto, ipotesi di lavoro, tutte da
verificare e nel caso da modificare nel corpo a corpo con un determinato testo o gruppo di testi.
Al di là della soglia
Non necessariamente la teoria lavora in favore della critica; vi sono anche teorizzazioni sull’arte e la
letteratura che tolgono terreno all’analisi critica, o ne limitano i poteri.
PLATONE (428-348 a.c)si trovano le avvisaglie nella filosofia di Platone. Da un lato nella
Repubblica Platone arriva al ripudio e quasi alla censura delle favole false dei poeti: non ad esse ma solo
ad imitazioni che propongano buoni modelli sociali deve ispirarsi l’educazione nello stato ideale.
Tuttavia Platone stesso aveva offerto una diversa soluzione tutta in favore della differenza inebriante
dell’arte: nel dialogo intitolato Jone la poesia è un sacro furore( in grecomania) che apparenta il
poeta a un essere divino. Egli è trascinato e alterato (è fuori di mente), il fuoco del suo animo è
paragonato alla forza magnetica che tiene uniti gli anelli di una catena.
Nozione di sublimegli spunti di Platone torneranno attivi nella nozione di sublime (oltre la soglia).
L’arte ha qualcosa che oltrepassa il limite della ragione. L’anonimo trattatista Del Sublime (Pseudo
Longino) pone i grandi autori al di sopra delle esistenze comuni in quanto fonti di travolgente
entusiasmo. Come l’autore è un posseduto dalla divina ispirazione così l’ascoltatore è travolto
dall’irresistibile signoria del suo empito. Il sublime mira all’esaltazione. Questa forza rapinosa può
essere oggetto di studio e di insegnamento. Ma il commento agli autori dimostra sempre che la tecnica
non basta. Nel greco dello Pseudo Longino il sublime suona Hypsos che significa vetta, altezza: in
confronto alla quale il critico rimane sempre a un livello inferiore.
DMUND BURKE la nozione di sublime la ritroveremo anche nell’inglese Edmund Burke autore
di una inchiesta sul bello e il sublime. Il sublime è definito un potere che lungi dall’essere prodotto dai
nostri ragionamenti li previene e ci spinge avanti con una forza irresistibile. Il sublime è distinto dal
bello ma in entrambi la poesia deve fare impressione, provocare stupore; nel sublime ciò che conta è
trasmettere l’affezione fosse pure assente l’idea. I poeti continueranno ad aver successo anche senza
conoscenza critica. La dottrina dei piaceri guarda con sospetto l’attività che vaglia e esclude (la parola
critica deriva dal greco krinein giudicare e separare).
THEOPHILE GAUTIER per lui il critico non è altro che uno scrittore fallito, uno a cui è
mancato il fiato, il critico è un eunuco obbligato ad assistere ai sollazzi del padrone.
AI GIORNI NOSTRI è invalsa l’idea che la letteratura potrebbe fare a meno di tramiti e andare
direttamente al rapporto con il lettore. Ancora di recente la critica è stata rimproverata di parassitismo.
I modelli del dover essere (la forma–trattato)
Per lungo tempo il trattato è stato la forma dominante della riflessione sulla letteratura, configurando
un’attività critica vista della costruzione di un modello. Nessun giudizio può prescindere da un modello
derivato dalle esperienze precedenti del critico ma i modelli possono essere più o meno duttili e aperti.
ARISTOTELE il prototipo della forma-trattato po’ essere visto nella Poetica di Aristotele. Egli
considera la letteratura come un modo di rappresentazione. Si tratta sempre di imitazione mentre lo
storico deve descrivere le cose realmente accadute il poeta deve occuparsi di quelle che possono
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accadere. Così come il verosimile artistico può convivere con il vero altrettanto al suo interno sono
distinguibili diversi generi.
Differenza tra e Platone e Aristotele: Platone mimesi e diegesi. Aristotele estensione della
mimesi. Aristotele estende la mimesi, come idea generale della rappresentazione a principio
complessivo, e articola ulteriormente la riflessione sui generi, prendendo in considerazione oltre i modi i
mezzi e soprattutto gli oggetti (se le persone imitate sono nobili o ignobili). Quest’ultima alternativa
vale a distinguere la tragedia che tratta di grandi uomini dalla commedia che basandosi su caratteri
peggiori tocca argomenti bassi e triviali; così allo schema classificatorio si sovrappone una gerarchia di
valori che vede la tragedia alla sommità della scala. Nella Poetica il lavoro di spiegazione tecnica è
sempre connesso all’attività giudicante. L’intenzione normativa rivolgerebbe il trattato in avanti verso le
opere ancora da fare alle quali è indicato il cammino. Aristotele lega l’ideale della bellezza all’unità
dell’opera come coerenza e commisurazione delle parti. La bellezza viene enunciata in termini di
organicità: l’opera deve avere la stessa armonia e proporzione di un organismo vivente.
Catarsisulla questione dell’effetto Aristotele si differenzia da Platone: la teoria della catarsi non
coincide con quella della mania. La tragedia mediante casi che suscitano pietà e terrore produce
purificazione (katharsis) di questo genere di passioni. Non si ha quindi uno scatenamento dell’emotività
ma i sentimenti ambivalenti da un lato di partecipazione (la pietà) dall’altro di rigetto (il terrore)
suscitati dalla tragedia sono destinati a venire superati e chiarificati in una sorta di presa di coscienza
collettiva degli spettatori.
ORAZIO l’Arte Poetica di Orazio lascia più margini di libertà. Fornisce dei consigli piuttosto che
delle prescrizioni: la convenienza, l’equilibrio, la non-contraddizione. Orazio pone la funzione della
poesia tra la piacevolezza e il valore educativo quindi tra l’utile e il piacevole.
I TRATTATISTI ITALIANI DEL ‘500 furono i principali eredi di Aristotele. La Poetica venne
rimessa in circolazione prima in versione latina poi nell’originale greco. Si irrigidirono alcuni aspetti ad
esempio il criterio dell’unità fissato nelle tre unità d’azione, di tempo e di luogo. La stessa catarsi venne
intesa come piacere mentale consona alla morale cristiana come purgazione dalle passioni perturbatrici
quali l’ira, l’avarizia o la lussuria. Il principio dell’arte come imitazione era ripreso anche nel senso
della esemplarità della tradizione classica assunta a guida del rinnovamento culturale. La ricerca sui
generi si allargò anche a quelli non trattati da Aristotele come la satira o l’elegia.
LODOVICO CASTELVETRO fu il maggiore degli aristotelici del ‘500. In Castelvetro è assunta
a fondamento una logica della verosimiglianza per condurla alle estreme conseguenze senza riguardo
per nessun idolo. Il semplice verosimile naturale viene integrato con il ragionevole e gli errori vengono
rapportati al giovamento della costituzione della favola.
Differenza con Platone in polemica con la concezione platonica del furore viene esaltata
l’autocoscienza.
GIORDANO BRUNO nel versante platonico della trattatistica si accentuava il grado di
emanazione fantastica della poesia e il suo valore di chiave esoterica del mondo. Bruno ne De gli eroici
furori affermava che le regole derivavano dalla poesia e non si può quindi imporle. Contro la
codificazione dei generi letterari ribatteva che ci sono tanti generi quanti poeti.
I TRATTATISTI DEL ‘600 si concentreranno sulla nozione di argutezza.
In BALTASAR GRACIAN autore del trattato L’acutezza e l’arte dell’ingegno e in EMANUELE
TESAURO Il Cannocchiale Aristotelicoc’è riferimento più all’Aristotele della Retorica che a quello
della Poetica. Il problema non è più la verosimiglianza quanto l’abilità nell’insaporire con trovate e soluzioni
sempre più audaci, una verità di per sé cruda. I barocchi valutano al massimo l’invenzione e la novità. Come
scrive Gracian l’esito dell’ingegno è un miracolo frutto del sottile ragionare. Il testo rappresenta una sorta di
banco di prova in cui l’autore è chiamato a distinguersi per finezza e sottigliezza. L’equilibrio è messo a dura
prova e si può arrivare anche ad ammettere la contraddizione come punto limite dell’ardimento. Il fine che si
propongono i barocchi è di sollecitare il destinatario con una continua stimolazione tenendolo in sospeso per
poi sorprenderlo con esiti inaspettati, da cui la meraviglia.
NICOLAS BOILEAU nell’Arte poetica riafferma il modello graziano. L’equilibrio, il giusto mezzo, la
naturalezza e l’armonia vengono posti come valori alla luce del buon senso. Predica la chiarezza chiedendo
al testo letterario di comunicare senza costringere il lettore ad alcuna fatica secondo il valore della
scorrevolezza. La razionalità propugnata da Boileau non si dimostra attraverso la costruzione di un dover
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essere in sé coerente ma avallata dal rimando al pubblico. Porsi il problema del pubblico, di come tenerne
desta l’attenzione indica che il consenso sui valori artistici va conquistato sul campo.
I TRATTATISTI DEL ‘700
GIANVINCENZO GRAVINA un valido esempio della forma-trattato è la sua Ragion Poetica. Poiché
i modelli vanno desunti dagli antichi ma riadattati ai costumi attuali, diventa necessario l’excursus storico
sull’evoluzione dei generi. Poiché la verosimiglianza è dovuta all’incanto che fa prendere per vera la
finzione poetica ecco allora chiamata in ballo l’interpretazione che individua sotto al falso il senso vero.
Un’interpretazione che restava ancorata all’interno moraleggiante di una utilità educativa.
GOTTHOLD EPHRAIM LESSING nel Laocoonte il lavoro critico va al di la delle regole e dei
precetti. Il criterio classico dell’unità e della convenienza veniva chiamato a confrontarsi con i problemi
dell’espressione di sentimenti forti come il dolore là dove il canone della bellezza è messo a repentaglio sui
confini del brutto o del disgustoso. Non è più questione d imitazione piuttosto emergono problemi di
datazione perché i rapporti tra gli oggetti critici prescelti non sono di dipendenza passiva, ma di filiazione
somigliante ma differente. Il Laocoonte è più un saggio che un trattato. Contempla divagazioni e digressioni.
Quando all’inizio Lessing afferma di voler procedere liberamente a fissare sulla carta i suoi pensieri proprio
nell’ordine in cui si sono sviluppati siamo già entrati nella nuova costellazione della critica moderna.
Alla ricerca del senso (la forma-commento)
L’altro grande modo in cui fin dall’antichità si è esplicata l’attività critica è stato il commento. Mentre la
forma-trattato vuole avere funzione di guida, la forma-commento si mette al servizio del testo. Lavorando
ai suoi margini e rendendolo più comprensibile, per avvicinarlo al lettore e favorire, quindi, il trasferimento
della tradizione. Annotazioni di fonte diversa possono convivere e svariare in molteplici direzioni. Ai giorni
nostri nella cosiddetta edizione critica assume particolare importanza il commento filologico puntato a
stabilire la correttezza del testo e la successione dei suoi stati. La prima grande impresa filologica fu
compiuta dagli alessandrini con la costituzione definitiva dei poemi omerici. Il compito del commento è che
il gesto con cui l’opera viene offerta al lettore comporta l’appianamento delle difficoltà, la risoluzione dei
passi oscuri. Là dove il testo non comunica immediatamente diventa necessaria l’interpretazione. Il nome
classico dell’arte dell’interpretazione è ermeneutica. Gli antichi lessero Omero mediante l’allegoria
termine che indica il dire altro. Le assurdità del mito potevano essere intese come un meraviglioso
rivestimento di concetti morali. Nel medioevo l’interpretazione assumerà un prioritario ruolo culturale: nel
cristianesimo la religione si fonda su un libro, la Sacra Scrittura, che parla per enigmi e parabole. Più che alla
razionalizzazione del mito l’esegesi biblica tende ad accedere al senso mistico, al mistero velato nella
Parola. Occorre anche riconoscere all’esegesi una produttività inventiva che arrivò ad articolarsi nella
dottrina dei 4 sensi: letterale, allegorico (un personaggio rappresentava una virtù), morale (indicazione per
il comportamento) e anagogico (una proiezione nella prospettiva della storia della salvezza).
DANTE adottò la dottrina dei 4 sensi soprattutto nelle pagine del Convivio mediante l’autocommento
che scrive a ridosso dei propri testi come integrazione e aiuto alla comprensione. Dante evidenzia il di più di
ragione che si ottiene spiegando il senso letterale in vista del raggiungimento della verità allegorica nascosta
sotto il manto delle favole.
Questo tirar fuori qualcosa di profondo e di non immediatamente visibile non è senza problemi: infatti una
volta che si è perduta la certezza nel senso immediatamente comunicato, sembra che nulla possa frenare
l’arbitrarietà dell’interpretazione. Si può capire ciò che si vuole? Il sospetto contenuto in questo interrogativo
produrrà alle soglie dell’età moderna una divaricazione tra commento filologico e interpretazione critica.
BENEDETTO SPINOZA nel suo Trattato teologico-politico sostiene che si debba distinguere tra
verità e senso letterale: è il secondo che può essere stabilito, mentre riguardo alla prima bisogna lasciare a
ognuno il diritto di giudicare liberamente. Spinosa precisa anche alcuni criteri in base ai quali elucidare il
senso della Scrittura: l’uso della lingua, il contesto, la storia dei testi. Ciò che abbiano voluto significare i
profeti sono geroglifici in senso negativo perché il significato non possiamo dedurlo ma solo cercare di
indovinarlo. È evidente che la polemica di Spinosa riguarda il fissarsi autoritario dell’interpretazione.
Restituisce all’interpreta la sua libertà.
DENIS DIDEROT anche nella sua Lettera sui sordomuti l’illuminista adotta il termine geroglifico, in
chiave però positiva. Occorre cogliere quello spirito che anima e vivifica simultaneamente tutte le parti del
testo, un tessuto di geroglifici ammucchiati gli uni sugli altri che lo dipingono. Ogni poesia è emblematica. Il
fatto che questo livello di comprensione non sia concesso a tutti non toglie che il nodo decisivo risieda nel
geroglifico per quanto delicato e sottile esso sia. Diderot ricorda il valore gestuale della comunicazione
umana.
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ERNST SCHLEIERMACHER con la sua ermeneutica romantica, all’interpretazione riservata ai
passi oscuri si sostituisce una interpretazione dell’autore, riportando il testo alle caratteristiche psicologiche
dello scrittore. Si parla di ermeneutica psicologica.
La critica militante e il problema del gusto (le teorie del gusto)
ORAZIOnell’Arte Poetica la figura del critico viene evocata contro l’invadenza e la presunzione dei
cattivi poeti. Il poeta deve diventare un Aristarco (archetipo del giudice severo) nel correggere i dettagli. La
funzione della critica nell’età classica è eminentemente emendatrice.
BOILEAUnell’Arte Poetica la critica si esprime ancora con consigli e rimproveri, ma amplificando i
toni dello scontro in quella che è ormai la battaglia letteraria.
SAVERIO BETTINELLI passerà i moderni al vaglio degli antichi, immaginando Virgilio nelle vesti
del critico esigente, nelle sue Lettere Virgiliane si fa strada la coscienza che nessun modello vada preso in
assoluto. Anzi proprio là dove incontra i grandi uomini la critica deve farsi attenta e non confondere la stima
che si può provare.
JOSEPH ADDISON il critico opera con nuovi strumenti. La diffusione dei giornali e delle riviste a
sfondo culturale e letterario come il suo The Spectator inglese riuscì a raggiungere un’alta tiratura
rivolgendosi a una cerchia molto vasta, comprensiva delle famiglie e del pubblico femminile. La letteratura
vi veniva trattata all’interno delle questioni del costume e della moda, in un tono accattivante e ricreativo. Il
critico del giornale lavora per guidare il lettore a delle giuste scelte. Mentre il commentatore arriva dopo, a
cose fatte, e il trattatista si pone prima dando modelli da seguire, emerge nei primi periodici letterari la figura
di un critico che interagisce con i testi seguendo il farsi della letteratura in atto. Il modo con cui esso si
afferma è ormai quello della critica militante. Addison rappresenta il tipo di critico che pretende
autorevolezza proprio perché fuori della mischia, si vuole neutrale spettatore. L’intervento periodico può
favorire invece la presa di posizione
Tale sarà il caso di due periodici in Italia tra loro rivali:
GIUSPPE BARETTI con la sua Frusta letteraria assume i panni di un nuovo Aristarco (anzi il suo
alter ego fittizio è Aristarco Scannabue). Baretti interpreta la funzione del critico, con un impegno non arreso
ai gusti prevalenti e pronto a schierarsi controcorrente. Il bersaglio preferito della frusta è l’Arcadia. Contro
la maniera stereotipata Baretti si richiama ancora di più al buon gusto e al buon senso. Il suo pregio sta nella
straordinaria effervescenza stilistica.
PIETRO VERRI all’insegna della combattività si apriva Il Caffè animato da Verri insieme al fratello
Alessandro e a Cesare Beccarla. Il Caffè è una rivista di tendenza calata in un progetto di risveglio
intellettuale in cui viene contestato con decisione il valore normativo dei precetti formali e dello stesso
purismo linguistico. Verri sostiene che il critico non deve restringere la prospettiva appigliandosi a qualche
piccolo difetto ma deve intendere l’effetto d’insieme dell’opera.
Parallelamente all’emergere della critica militante si sviluppa il dibattito sul gusto.
DAVID HUME il filosofo scozzese con la sua Regola del gusto muove dalla constatazione della
grande varietà dei gusti e afferma che la bellezza che noi percepiamo non è una qualità inerente alle cose ma
è legata al nostro sguardo soggettivo. Essa esiste soltanto nella mente che contempla le cose ed ogni mente
percepisce una bellezza diversa. A partire dal fato empirico che alcune opere ricevono maggiori consensi e
sono oggetto di una durevole ammirazione, Hume propende a credere che esista una struttura mentale che
induce l’uomo a provare piacere per alcune qualità e dispiacere per altre.
BURKE anche lui nel premettere alla sua Inchiesta sul bello e il sublime un saggio Sul gusto, perveniva
all’affermazione che le differenze dei giudizi sono differenze di grado che dipendono dalle doti naturali e
dall’esercizio.
Nella Critica del Giudizio di IMMANUEL KANT poiché giudicare bello qualcosa significa accorgersi
dell’accordo dell’oggetto con le nostre facoltà conoscitive, il giudizio rimanda a un senso comune e ciò rende
lecita la speranza del consenso e dell’adesione altrui. Perciò sostiene Kant sul gusto non si può disputare ma
si può legittimamente contendere. Il gusto buono è per Kant quello disinteressato. Nel giudizio entrano in
gioco l’immaginazione e il concetto. E l’esito è un aumento di carica vitale, di animazione delle facoltà
dell’uomo. La poesia è vista come un’esibizione di un concetto, congiunta con la circolazione di una quantità
di altri pensieri, avente l’effetto di fortificare l’animo. Inoltre, riflettendo sul sublime, Kant mette in luce
l’ambivalenza e l’interconnessione delle reazioni di piacere e dispiacere, strappando così l’arte alla semplice
degustazione del piacevole. Il sublime kantiano è stato collegato con la tensione interminabile dell’arte
moderna. Kant suggerisce alcune massime sul gusto: pensare da sé (e quindi originalmente), pensare
largo (nella prospettiva della comunità umana), pensare in modo da essere sempre in accordo con se
stessi (in modo conseguente).
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La comprensione storica (il processo storico)
La considerazione dell’origine storica dei testi porta a fissare lo sguardo sul processo dell’evoluzione.
GIANBATTISTA VICO con la Scienza Nuova è posto in luce il condizionamento della storia. Vico
cerca di leggere lo sviluppo secondo le fasi della vita umana La letteratura, o meglio la poesia, si trova
collocata in una delle fasi iniziali, nell’epoca cosiddetta eroica quando gli uomini in mancanza di categorie
intellettuali utilizzavano le favole, i miti e le metafore. Una tale concezione ha il merito di riconoscere alla
poesia il suo valore conoscitivo e la sua funzione sociale.
Nel ‘700 italiano vediamo nelle Lettere inglesi di Bettinelli che il ricorso alla storia serve a giustificare gli
addebiti rivolti ai grandi poeti del passato, ad indicarne i limiti storici. (Imitare Dante, stigmatizza Bettinelli,
sarebbe come voler tornare a vestirsi col cappuccio!)
JOHANN GOTTFRIED HERDER nella sua filosofia la collocazione dei prodotti culturali nella loro
propria casella cronologica è l’indizio di un atteggiamento tollerante che tendenzialmente accoglie la validità
di tutti i contributi portati al patrimonio dell’umanità, nel corso del tempo. Di fronte a ciascuna epoca occorre
porsi non nella posizione del giudice che valuta il vantaggio o lo svantaggio ma nell’immersione della
simpatia. La storicità apre la strada alla comprensione giustificativa.
La storia si separa dalla critica? La storia letteraria è una branca della storia o va compresa tra i generi della
critica? Nel primo caso i libri andrebbero trattati al pari dei fatti e degli eventi e quindi inventariati senza
gerarchie di valore, sulla base della loro datiti cronologica. Il secondo caso invece la storia letteraria verrà
vista come il culmine di una stagione culturale in cui la storia letteraria verrà condotta a concentrarsi sui testi
rilevati dal giudizio estetico.
BERTOLT BRECHT rapportare il testo alle tensioni storiche significa non farsi illusioni circa il suo
disinteresse; per quanto l’arte tenga spesso ad apparire superiore alle motivazioni di tipo materiale, è tuttavia
lecito interrogarsi sull’interesse dell’arte. Il drammaturgo tedesco suggerirà l’analisi degli scritti come
funzionari da un punto di vista sociale per verificare quanto essi possano giocare in difesa di una certa
cultura o avere influenza su determinati strati della popolazione e la misura in cui sono in grado di incidere
sulla situazione sociale esistente.
La svolta romantica: critica come partecipazione
Con il movimento romantico che nasce in Germania tra ‘700 e ‘800 si assiste a una svolta anche nel ruolo
assegnato alla critica. In primo luogo è superata la nozione classica di imitazione: l’artista e lo scrittore non
dovranno più riprodurre il mondo esterno, ma esprimere un mondo interiore. Rappresentare non la realtà,
ma l’idea. Rifiutate le regole, il raggiungimento del risultato artistico resta appannaggio della grande
personalità: il genio. Di fronte all’opera del genio, la critica non deve porsi a giudicare da fuori, ma deve
entrare nell’opera e contribuire ai suoi effetti. L’immedesimazione e la commozione diventano cardini
dell’approccio alla letteratura. Il tentativo di aderire alla costituzione profonda del testo dà inizio ala
modernità.
FRIEDRICH SCHILLER I punti chiave della posizione romantica sono espressi dal suo saggio Sulla
poesia ingenua e sentimentale. La questione principale che vi si apre è quella della discontinuità con la
tradizione: tra gli antichi e i moderni viene tracciato il solco di una differenza sostanziale nel modo di fare
poesia. La causa di questo mutamento è posta da Schiller nella separazione dalla natura. L’uomo moderno
non vive in modo naturale e quindi deve cercare la natura fuori di sé. La poesia sentimentale dei moderni è
costretta ad andare alla ricerca della naturalezza perduta e a riflettere sulla perdita stessa. Il moderno, poiché
per lui il reale e l’ideale non possono coincidere, opera su un doppio livello facendo interagire la sensibilità e
l’immaginazione degli oggetti particolari con le idee generali della ragione. Schiller si adopera a suddividere
la poesia sentimentale in disposizioni poetiche che discendono dalla scissione tra reale e ideale: satira
(quando l’ideale fa contrasto con il reale e lo rende oggetto della sua avversione), elegia (quando c’è
oscillazione tra la natura perduta e l’ideale irraggiungibile) e idillio (quando sia conseguito un accordo tale
da riconciliare l’ideale e il reale). Schiller mette a confronto lo stato d’animo dei moderni rispetto agli
antichi. Non sceglie in favore della dinamicità tuttavia quando discorre dell’effetto poetico esprime le proprie
notazioni positive in termini di tensione, potenza, forza, impulso, pathos.
Bisogna distinguere all’interno del romanticismo due diverse linee:
JOHANN WOLFGANG GOETHE la prima linea è incarnata insieme allo storicismo tollerante di
Herder da Goethe secondo il quale la critica produttiva deve entrare nelle ragioni dell’autore e domandasi
che cosa ha voluto fare l’autore. Goethe si pone dalla parte di un giudizio che propende al positivo. Egli
arriverà a dire che si impara veramente qualcosa solo dai libri che non siamo capaci di giudicare. Dai suoi
saggi si ricava anche un’attenuazione nel contrasto tra classicità e modernità. Egli salva la nozione classica
dell’arte come imitazione della natura.
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AUGUST WILHELM SCHLEGEL la seconda linea che approfondisce la contrapposizione tra
classicismo e romanticismo viene da lui sviluppata e l’applica in particolare all’evoluzione del dramma. Il
carattere fondante del romantico sta nella eterogeneità e contraddittorietà degli elementi dell’opera artistica;
alla perfezione e all’unità degli antichi, i moderni sostituiscono il valore della mescolanza e dell’antitesi.
Schlegel definisce la poesia romantica una poesia sempre in divenire, un’attiva tendenza alla sintesi che deve
tenere insieme poesia e prosa, genialità e critica. Il romantico qui non è sinonimo di una pura effusione
d’affetto ma piuttosto prevede l’intervento decisivo della riflessione. La prospettiva della critica schlegeliana
è quella dello scavo in profondità alla ricerca di un senso che non appare immediatamente. Da un lato dovrà
procedere con lentezza, nelle minime pieghe del testo, all’analisi costante del particolare; dall’altro lato
dovrà essere pronto a cogliere con un rapido colpo d’occhio il nucleo centrale. Per comprendere veramente
un’opera è necessario ricostruirla nelle parti che la compongono in modo da scoprire ed evidenziare il
suo carattere peculiare. Il giudizio comporta il fatto che il critico capisca l’autore meglio di quanto l’autore
non abbia capito se stesso, ma per poterlo fare è necessario essere riusciti a capire il modo in cui l’autore
capiva se stesso. La critica sarebbe lo sviluppo dell’autocomprensione dell’autore.
Vicino a queste ipotesi è NOVALIS la critica è per lui il prolungamento produttivo dell’opera: il vero
lettore deve essere l’autore ampliato. Novalis ragiona in termini di strategia e di fisiologia. Non deve
stupire il paragone che lui fa tra l’attività del critico e quella del medico: il critico tradizionale, che segnala i
difetti e le manchevolezze dell’opera, è come un medico che si limitasse a scoprire la malattia e a divulgarla
con gioia maligna invece di cercare di migliorare la disposizione malferma. Notevole anche l’allusione a un
senso fisiognomico del testo: come i tratti di un viso ne esprimono il carattere, così il linguaggio è
espressione delle idee. Ma la ricerca del senso, l’interpretazione, è qui qualcosa che ha a che fare con
l’eccitazione e la stimolazione delle energie.
In Europa dopo la Restaurazione i valori che prevarranno sono quelli della spontaneità, dello stato emotivo
diretto soprattutto al cuore, del sublime tradotto in facile empito e rivolto a un pubblico popolare. Dove
prevale il patetico la riflessione critica non ha granchè luogo a procedere.
Al passo con la concezione produttiva dei primi romantici ci sarà:
SAMUEL COLERIDGE secondo lui il genio non è una forza spontanea della natura né un automa
passivamente in preda a raptus che vede in esso invece l’unione del poeta e del filosofo. Il poeta è colui che
mette in attività tutta l’anima dell’uomo.
Più vicino alla linea irrazionalistica platonica appare:
PERCY BYSSHE SHELLEY con la sua Difesa della poesia anche se vede la poesia come
ampliamento spirituale verso una serie di combinazioni insospettate di pensiero preferisce lo strumento
principe per il carattere istintivo della facoltà poetica inconsapevole e trasfigurante.
MADAME DE STAEL appiattì le indicazioni dei tedeschi privilegiando l’aspetto affettivo.
Comprendere gli autori equivale a entrare in comunione con il loro stato psicologico e con il loro senso
religioso. Ma per esprimere il mistero della bellezza non ci sono parole.
Il romanticismo in Italia la naturale esigenza di una letteratura adatta ai nuovi tempi trovava risposta nelle
nozioni assai adattabili ancora una volta al patetico.
Più interessante risulta essere il confronto tra ALESSANDRO MANZONI e GIACOMO LEOPARDI. Sia
Manzoni che Leopardi ritengono decisivo giudicare l’effetto della poesia. Manzoni al fine di giustificare
l’impiego della verità storica nella tragedia sostiene che i fatti reali suscitano in noi un più forte interesse,
un’attrazione più viva, infine una maggiore simpatia per i personaggi del dramma. La discussione sulle unità
aristoteliche viene risolta dal Manzoni con il rifiuto delle regole e la rivendicazione della libertà
dell’artista, che deve attenersi soltanto al soggetto che si è scelto, trattandolo in modo da incidere con la
massima potenza al punto da gettare gli uomini fuori di se stessi. Leopardi valuta la poesia secondo la
capacità di suscitare l’interesse.
DIFFERENZE TRA MANZONI E LEOPARDI: In Manzoni c’è una sorta di svuotamento (il
destinatario è trasportato fuori di sé) in Leopardi un riempimento delle facoltà umane. Manzoni modella
la sua teoria su una catarsi rivolta verso uno scopo morale; per Leopardi l’effetto riguarda la sensibilità
e la vitalità in modo quasi fisico. Mentre in Manzoni le passioni vengono sollevate per mostrare come la
forza morale possa riuscire a dominarle. In Leopardi il valore classico dell’unità dell’opera è superato dal
valore del movimento e del contrasto. Manzoni dà ai problemi sollevati dal romanticismo la soluzione più
tradizionale mentre Leopardi risulta il più affine alla concezione dinamica propria della linea SchillerSchlegel-Novalis.
Letteratura e Storia
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La nozione della critica come partecipazione spingeva a prendere in esame anche il momento temporale in
cui ciascuna opera era stata pensata e prodotta. Prima le indicazioni sul clima e sull’ambiente geografico poi
troverà sempre più spazio il disegno della natura dei tempi con riguardo alla vita sociale. Ripercorrere le
tappe della storia letteraria nazionale era evidentemente un modo per risvegliare la coscienza unitaria della
nazione. Non bisogna dimenticare l’interesse del romanticismo per le origini.
UGO FOSCOLO in questa prospettiva cade ad esempio il vi esorto alle storie di Foscolo del quale è
utile tener presente l’esigenza di un libro che da un lato spieghi le cause della decadenza dell’utile letteratura
e dall’altro non si astenga dal giudizio sugli autori intervenendo più nel merito che nel numero degli scrittori.
Perché qui tocchiamo alcuni problemi di rilievo: l’esigenza di una linea storica che metta ordine nei fatti
e il superamento di una storiografia meramente compilativi. Ci sono 2 rischi: il rischio di imporre alla
storia un modello di evoluzione ideale aprioristico e il rischio di ridursi a un pellegrinaggio tra i capolavori.
Anche per HEGEL l’arte nel suo complesso rappresenta una fase nella vita dello spirito umano destinata ad
essere superata nel progresso verso il compimento dello Spirito assoluto. Nei gradi di questo progresso l’arte
deve cedere il passo alla religione e alla filosofia. È la morte dell’arte. L’arte ha cessato di essere il bisogno
supremo dello spirito. La storicità ha il cammino segnato: le fasi devono esattamente derivare dal
dispiegamento delle potenzialità insite nell’idea. Le fasi sono 3: la fase iniziale (l’arte simbolica dell’Oriente
e dell’antico Egitto) sarebbe caratterizzata dal prevalere della forma; la fase centrale (l’arte classica grecoromana) dall’armonia e dalla mediazione tra i due termini; la terza e ultima fase (l’arte romantica, che in
Hegel viene generalizzata a coprire tutta la produzione artistica dopo l’avvento del cristianesimo) dal
prevalere del contenuto.
FRANCESCO DE SANCTIS riflettendo sulla storiografia precedente non troverà accettabili né le idee
preconcette di chi ha giudicato tutto già in partenza né l’aggregazione estemporanea di un informe
compilazione piena di lacune e di prestiti e giudizi superficiali e frettolosi e partigiani. De Sanctis riuscì a
rendere ricco di contrasti e denso di spessore teorico il tracciato delle grandi linee della stria e nello stesso
tempo a mantenerlo aperto ai risultati dell’indagine empirica. Nella parte conclusiva della sua Storia propone
di unire le due tendenze, quella ideal e quella storica , speculazione e investigazione, costruzione mentale e
ricerca concreta. De Sanctis subisce l’influsso hegeliano ma ne ribalta il modo di procedere:<non è la storia
ad adattarsi allo svolgersi dell’idea, ma l’idea a estrinsecarsi secondo le condizioni poste dalla situazione
storica. Il suo disegno storico mette al centro soprattutto il problema del cambiamento culturale, della
elaborazione di una nuova cultura. Finché questa nuova cultura non appare, la letteratura non riesce a
compiere nessuna svolta decisiva. Perché l’arte è un fatto sociale, un risultato della cultura della vita
nazionale. Perciò, alle spalle dello storico che colloca gli autori secondo la posizione che hanno avuto nello
sviluppo evolutivo, deve sempre agire il critico con il suo giudizio di valore. La genesi dell’opera è lo
sviluppo organico, naturale, vivo, di un certo contenuto in una certa forma. Mentre lo storico ha modo di
apprezzare molti autori il critico è quasi sempre insoddisfatto per via degli ostacoli di natura storica che
hanno impedito la riuscita perfetta. Lo sviluppo culturale e quello delle tecniche letterarie trovano il loro
punto di confluenza nella personalità dell’autore. Essa diventa centrale nella Storia desanctiana e lo stesso
giudizio critico il più delle volte consiste nel vedere quale ruolo vi prevale: se l’uomo (quando il nuovo
contenuto viene colto ma rimane grezzo e non realizzato), l’artista (quando lo scrittore raggiunge l’armonia
ma la applica dall’esterno) o il poeta (è lo scrittore capace di trovare l’unità e la compenetrazione tra forma e
contenuto). Permane l’idea dell’organicità formale ma ciò che fa vivere e sviluppare il contenuto non è
soltanto la carica emotiva, il sentimento. Quando il sentimentale prende tutto il campo e detta legge
addirittura ad un genere in tale ripiegamento interiore diventa impossibile raggiungere la cosa. Se la base del
poeta è l’uomo nel contenuto devono intervenire con forza tutti gli aspetti della personalità, non solo della
vita intellettuale ma anche della vita attiva. La base del contenuto è morale e politica. L’entusiasmo che il
critico apprezza negli autori si trasmette alla sua stessa scrittura. Il suo interesse per la personalità dell’autore
arriva a personificare l’autore stesso e a chiamarlo in causa direttamente facendolo dialogare con l’epoca
attuale. L’uso del tu tende a coinvolgere il lettore nell’attraversamento delle opere. I giudizi emessi da De
Sanctis sono legati a un certo gusto e i suoi criteri non mancano di legami con le concezioni romantiche e
idealistiche. Ma ci sono alcuni aspetti che rendono questo tentativo di storia letteraria tuttora molto
interessante: come mette in luce le linee dell’evoluzione nella loro parabola ma anche nel loro intreccio
sottolineando attraverso una serie di confronti le diverse vie praticabili e i loro contrapposti risvolti culturali.
Ma soprattutto per la capacità di richiamare la storia sociale non giustapponendola meccanicamente alle
opere, ma amalgamandola strettamente alla valutazione dei testi entrando e uscendo dalla sfera letteraria
secondo le necessità del proprio discorso.
Critica russa:
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VISSARION BELINSKIJ andò legando sempre più la propria lettura dei testi con il livello generale
della situazione sociale e storica. Considera i testi letterari sempre immersi nella vita pubblica. In questa
ottica quelli che esteticamente sarebbero difetti potranno apparire addirittura pregi. L’arte esprime la società
e ne tratteggia il quadro fedele. Lo sguardo critico di Belinskij anticipa il realismo.
NIKOLAJ DOBROLJUBOV con lui la letteratura continuerà ad essere collegata alla vita reale. Egli
comincia a porsi il problema della politicità del testo. Sostiene che non è necessariamente compito
dell’autore dare oltre al problema anche la soluzione. Il critico in questa prospettiva non è tanto il giudice
dell’opera quanto l’avvocato che ne perora la causa. Il miglior metodo critico è quello che lascia al lettore la
possibilità di pervenire alla sua conclusione da solo.
Sull’esempio della scienza
A ‘800 inoltrato una sorta di sindrome scientifica si propaga per tutti i rami del sapere letterario. A un ideale
di scientificità si ispira tutta una serie di ricerche: edizioni critiche, studi sulla fortuna e diffusione degli
autori. Senza nulla togliere al sorriso della bellezza l’esame minuto dei dati e la soluzione su base empirica
dei singoli problemi producevano opere di gran mole.
ALESSANDRO D’ANCONA sostiene che la “tela” deve essere tessuta mettendo in ordine i fatti senza
voli ambiziosi.
HIPPOLYTE TAINE con la sua Filosofia dell’arte si pone davanti alle opere come a dei fatti dei
quali è necessario indagare le cause. La prima mossa è quella della contestualizzazione storica a partire dal
presupposto che l’opera non è isolata ma sta in relazione alle altre opere dell’autore, a quelle della sua
scuola, alla cultura e al gusto di un’epoca e può essere spiegata solo rifacendosi all’insieme da cui dipende.
Per comprenderla esattamente dobbiamo avere un’idea dello stato generale dello spirito e dei costumi del suo
tempo che ne sono la causa principale. La scienza non condanna né perdona: constata e spiega. Le creazioni
dell’immaginazione umana devono trovare tutta la loro giustificazione e il loro posto e Taine dice che la
prima operazione dello storico nel mettersi nei panni delle epoche passate non può non essere un moto di
simpatia. Il giudizio di valore è recuperato da Taine affermando che gli stessi caratteri naturali possono
essere ordinati gerarchicamente; alcuni sono più notevoli e più dominanti di altri. Le opere vanno valutate
secondo i caratteri che esse principalmente adottano. Taine offre 3 scale di riferimento: l’importanza (la
priorità al carattere che ha la maggiore invariabilità nel tempo), l’utilità morale dei caratteri distinguendo tra
salutari e nocivi e la combinazione degli elementi nell’opera e gli effetti dello stile. Il criterio detto della
convergenza degli effetti tiene parecchio del vecchio ideale classico dell’unità dell’opera e della simmetria
delle sue parti.
FERDINAND BRUNETIERE un altro tentativo di avvicinare scientificamente i fenomeni letterari è
quello compiuto da lui. Il modello scientifico è ripreso dalla teoria dell’evoluzione della specie di Darwin. Si
tratta di una prospettiva storica ma essa pare piuttosto svolgersi all’interno dell’orizzonte letterario. Rispetto
a Taine qui diventa più importante trovare il posto adeguato per l’opera nella catena evolutiva che non
trovare il modello umano cui è riferibile. Le cause cui maggiormente si attiene sono di natura endogena,
risiedono nella vita dei generi. Il critico francese vede nella fissazione un fatto positivo. Il momento migliore
nell’evoluzione sarà infatti quello in cui il genere realizza se stesso fino alla pienezza e perfezione dei propri
mezzi. L’imperativo “a classificare” non impedisce di giudicare. Come già in Taine le premesse scientifiche
si piegano a ospitare il giudizio, che anzi Brunetiere ritiene fondamentale e vorrebbe fondato oggettivamente.
PAUL BOURGET nei suoi saggi seppur in modo generico si evidenzia un atteggiamento osservatore.
L’analisi mette a fuoco i contemporanei e vi legge lo stigma negativo dei comportamenti moderni. Valutando
gli intrecci delle singolarità psicologiche con l’atmosfera morale dell’epoca. Queste ricerche preparano il
terreno in cui si svilupperà il successivo filone della critica psicoanalitica.
ALEKSANDR VESELOVSKIJ è sua una delle posizioni più interessanti generate dallo scientismo
ottocentesco. In polemica con i francesi lamenta che il metodo delle ricerche storiche spesso prende un po’
come capita gli elementi sociali o psicologici che si trova sottomano, risolvendo poi i problemi dello
sviluppo storico con l’apparizione del grande uomo cui l’ambiente finisce per fare da sfondo o da piedistallo.
Invece il metodo comparativo che propone procede mediante il confronto di molte serie di fenomeni.
Emergono delle sorprendenti somiglianze tra opere distanti nello spazio o nel tempo. Come nel linguaggio
noi adattiamo alle nostre esigenze una lingua che troviamo già fatta, così gli scrittori utilizzano forme
preesistenti depositate nella tradizione. Alla sua teoria dà il nome di Poetica storica. Poetica perché al modo
di quella aristotelica riscontra alla base della letteratura dei modelli costanti. Storica perché vede nella storia
extraletteraria la molla della trasformazione e della reinvenzione delle forme. Le forme costituiscono un
serbatoio stabile al quale i contenuti che emergono storicamente possono attingere. Ciò che accomuna opere
di generi, di culture e di epoche diverse è la somiglianza di certi schemi d’azione che Veselovskij chiama
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intrecci. Egli propone di distinguere motivi e intrecci. Per motivi si intendono le formule che l’immaginario
degli uomini elabora in risposta ai problemi della vita. Di fronte al sorgere di nuove esigenze le formule
diventano più complesse e si combinano negli intrecci. Sono le forze storiche che decretano la ripresa e il
rinnovamento dei vecchi intrecci facendo irrompere in essi dei nuovi motivi.
Impressionismo ed eclettismo
L’esercizio del mestiere del critico accademico conservava il potere di colui che dispensa posti agli autori
facendoli entrare nella storia. Dall’altro lato il critico giornalista fungeva invece da consigliere pubblico a
indirizzare i lettori. In entrambi i casi diventa decisiva l’autorità di colui che assurge ad arbitro del gusto. La
critica impressionistica che si diffonde nell’800 consiste nel rendere normativo il risultato dell’incontro con
il testo. Il critico dà conto degli effetti che il testo provoca su di lui e da conto che il piacere o il dispiacere
che egli ha avvertito debba essere provato anche dagli altri. Nel comunicare le proprie impressioni il critico
ricorre ad una scrittura che a sua volta deve imprimersi e imporsi all’attenzione del destinatario. Le principali
mosse retoriche sono l’evocazione con cui viene resa presente in modo vivace la scena o l’ambiente
dell’opera. Il paragone con cui il comportamento dell’autore è colto attraverso un’immagine e l’intervento
personale in cui l’io del critico si fa avanti a raccontare le circostanze che hanno accompagnato la sua lettura.
CHARLES BAUDELAIRE considera il poeta il migliore di tutti i critici. Al critico viene richiesta una
capacità creativa analoga a quella dello scrittore.
OSCAR WILDE nel suo Il critico come artista la critica è riscattata dalla concezione comune che la
vuole subalterna all’opera e riceve essa stessa il rango di creazione. Per lui si tratta di una creazione entro
una creazione. La critica può considerarsi indipendente dall’opera. Un critico artista di questo genere non si
applica alla spiegazione quanto piuttosto a fare più intenso il mistero. Sua dote non sarà affatto il rigore ma il
temperamento. La critica con la c maiuscola prende il ruolo di guida e coincide infine con lo Spirito del
mondo.
CHARLES-AUGUSTINE SAINTE-BEUVE è il più importante rappresentante della critica
giornalistica, soprattutto per rubrica settimanale. Egli eccelle nella conversazione critica, cioè un discorso
libero di toccare vari livelli e di servirsi di disparati apporti metodologici. Il suo approccio procede
all’insegna dell’eclettismo. Muove alla ricostruzione dell’epoca, dell’ambiente, della cerchia in cui è nato
ogni autore focalizzando il suo interesse sulla persona dello scrittore. L’atteggiamento scientifico e non
giudicante deve portare a conoscere un uomo. Per questo versante la critica va a coniugarsi strettamente con
la biografia. In quella che egli chiama la critica fisiologica è l’individuo-talento a finire al centro del quadro.
La forma prediletta da lui è il ritratto letterario. Il critico biografo deve raffigurare il genio nella sua posa
dei giorni migliori. Significa dare le sembianze fisiche dell’autore. Il critico deve trasferirsi nel suo autore
come una sorta di metamorfosi arrivando quasi a identificarsi e a convivere con lui. Sainte-Beuve
contempera e usa con moderazione criteri diversi. Passa dall’erudizione all’impressione, dalla storia alla
psicologia, dalla classificazione alla valutazione. In lui, versatile poligrafo, la critica giornalistica finisce per
accordarsi con la critica accademica. L’interesse per la nascita di nuovi talenti non configge con la funzione
professorale di vegliare sul mantenimento della tradizione.
GIOSUE’ CARDUCCI in Italia sarà lui ad assommare in sé le figure del poeta-critico e del criticoprofessore. Carducci non si sottrarrà al dettaglio delle ricerche erudite e la raccolta dei materiali. Il valore
poesia rimane al di là dell’erudizione.
A cavallo tra biografia, storia e partecipazione si muove il danese:
GEORG BRANDES delle sue opere si ricorda l’allargamento fuori dei confini nazionali, verso la
letteratura europea, e il ragionare per linee di tendenza raggruppando gli autori nelle correnti principali.
Vicino a Sainte-Beuve è l’americano:
HENRY JAMES noto come narratore ma attivo anche come critico sul suo terreno preferito, cioè
l’arte del romanzo, intende la funzione del critico come aiuto ravvicinato al lavoro dell’autore: la critica va
esercitata con rispetto e addirittura con tenerezza. Occorre proiettarsi ed immergersi nel testo. L’autore va
assimilato intimamente e compreso nella sua concezione di fondo, nel suo progetto. A ciò concorrono sia le
indicazioni biografiche che le immagini. Particolari i paragoni zoomorfi utilizzati da James. L’aspetto
interessante della sua critica è la distinzione tra soggetto ed esecuzione per cui invece di giudicare della
moralità o meno del soggetto si tratta di rendersi conto delle difficoltà superate per realizzarlo.
L’apprezzamento estetico
L’età moderna è caratterizzata anche dall’affermarsi dell’estetica. Sul lato dell’estetismo non mancano
posizioni ricche di risvolti problematici.
EDGAR ALLAN POE nei suoi scritti circola un’idea di bellezza con la maiuscola come
avvicinamento a un’essenza metafisica che non si può cogliere in poesia che per brevi indistinti barlumi.
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Getta le basi del simbolismo. Ma poiché la bellezza tende a coniugarsi con l’originalità bisogna considerare
la tecnica che ha analizzato nel commento nella sua Filosofia della composizione.
BAUDELAIRE afferma che il bello è sempre bizzarro. Non più un ideale eterno ma mosso dalla
contraddizione, in quanto aperto al relativo, al transeunte, alla rapida trasformazione della modernità: una
bellezza che fa i conti con la contingenza e la storicità.
WALTER PATER) per lui essenziale non è solo avvertire la bellezza ma anche spiegare e analizzare
l’impressione ricevuta. L’apprezzamento dei punti elevati, dei vertici, dei momenti eletti, conduce al
collegamento extrastorico tra gli artisti di genio, tutti ugualmente ospiti nella casa della bellezza e tuttavia
ciascuno secondo il proprio modo. La bellezza è relativa e non se ne può dare una definizione astratta. Il
fascino è qualcosa di peculiare, l’incanto è unico, la bellezza singolare. Pater ricorre alla biografia.
Il principale problema è come rapportare la sfera estetica agli altri settori dell’analisi filosofica. Sul
posizionamento dell’estetica all’interno dell’elevazione dello Spirito i filosofi dell’idealismo divergono:
SCHELLING le dà il rango principale. Le attribuisce il potere di risolvere con l’intuizione ogni
contraddizione, nell’identità di una infinita armonia.
mentre HEGELne fa un grado inferiore. La perfetta trasparenza dell’interno nell’esterno si riscontra
soltanto nell’arte classica. Il dinamismo del libero gioco delle facoltà, che c’era nell’estetica kantiana non si
ritrova nell’estetica schellinghiana. Neppure nell’estetica hegeliana da cui, invece, si sviluppa un tipo di
critica tesa a fissarsi sull’idea contenuta nell’opera, accreditando il contenutismo.
ARTHUR SCHOPENHAUER considera l’arte come un’intuizione contemplativa che astrae l’uomo
dalla sua vita abitudinaria dove egli è trascinato dalla cieca volontà di vivere. Dunque l’arte poiché riesce a
liberarci dalla schiavitù del volere è un conforto che fa dimenticare anche se solo momentaneamente i
travagli della vita.
FRIEDRICH NIETZSCHE la bellezza estetica serve a rendere tollerabile il peso dell’esistenza. La
bellezza è un trucco della forza primordiale per consentire alla vita di continuare. Egli propose di
abbandonare la figura del critico erudito per passare alla figura dell’ascoltatore estetico.
BENEDETTO CROCE a partire dalla Estetica egli lavora a suddividere l’attività dello Spirito in
diversi ambiti: l’estetica risulta così separata dal pensiero concettuale, come la sfera economico-pratica da
quella della morale. Secondo la dialettica dei distinti l’arte viene distinta dalla logica: essa è conoscenza, ma
conoscenza pre-logica, intuitiva, che non adopera concetti bensì immagini. L’arte è intuizione. Croce terrà
costantemente a escludere dal bello i livelli di riflessione più elaborata e paradossalmente un sistema di
pensiero verrà messo in opera per recuperare la posizione del lettore ingenuo. Croce vede nell’intuizione
qualcosa di già pacificato. Il sentimento contemplato è destinato a essere risolto e sperato per virtù dell’arte.
L’intuizione artistica è un momento superiore alla semplice percezione e sensazione. L’intuizione valida è
quella già corredata della sua espressione quindi già in qualche modo formata. Per Croce non è un processo
che porti dal contenuto alla forma ma i due aspetti debbono emergere insieme. L’estetica crociata perviene
al privilegiamento della forma ma lo scrittore non deve andare per nulla alla ricerca della forma migliore.
L’espressione non può essere trovata già pronta in regole prefissate. Dal punto di vista crociano l’estetica
non può giovarsi di alcun metodo comparativo: i paragoni tra due artisti diversi danneggiano l’uno e l’altro.
Croce ad escludere molti dei modi di approccio al testo che si erano imposti nell’800. non ammette la
spiegazione attraverso le cause esterne. L’opera letteraria non può essere riassorbita nella storia perché le
intenzioni dichiarate dell’autore non sono ritenute sufficienti in quanto l’intuizione è al di là della
consapevolezza. Anche i ponti tra critica e biografia risultano tagliati. Croce riduce l’importanza
dell’erudizione. Nell’estetica l’unica soluzione possibile sembra quella della compartecipazione. Non resta
che ricreare l’opera in noi. Il metodo critico proposto da Croce coinciderebbe con l’immedesimazione fino
alla stretta identità. Eppure nemmeno in questa forma il movimento della comprensione perde di mira il
giudizio. La critica che Croce deriva dalle proprie convinzioni estetiche è sempre volta all’apprezzamento.
Per contrassegnare il valore artistico Croce sceglierà il termine poesia divenendo sinonimo di bello. Con la
Poesia Croce riesce ad articolare maggiormente l’operazione critica. Accanto al bello è possibile rintracciare
il caratteristico cioè quel motivo generatore che permette di definire lo stato d’animo fondamentale di
ciascun autore. Nella Poesia viene puntualizzata la connessione tra estetica e storia. Ciò non comporta però
né la spiegazione dell’arte attraverso i mutamenti sociali né la sua connessione con la sfera pratica. L’unico
orizzonte storico concepibile è quello di una comunione eterna delle opere belle. La posizione di Croce fu a
lungo egemone in Italia e non senza influssi sul resto d’Europa. Certo, i seguaci di Croce resero più elastico
il suo metodo o ritornando all’arte come sentimento o puntando sulla degustazione di singoli frammenti
avulsi dall’insieme.
La transizione del primo novecento
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GUSTAVE LANSON l’erudizione, le cognizioni esatte e positive sono fondamentali ma il fine ultimo
è aiutare la comprensione e il godimento dei testi.
KARL VOSSLER nei suoi scritti ecco che si affaccia la nozione di stile.
RENATO SERRA e GIOVANNI BOINE portarono l’impressionismo critico alle estreme
conseguenze ma con soluzioni per molti versi opposte.
SERRAarrivò a seguire le impressioni fino al vero e proprio racconto della lettura. Egli porta attenzione
a tutta una serie di dati sull’autore e sui suoi luoghi prediletti. Come avveniva nel precedente caso
dell’eclettismo di Sainte-Beuve, Serra non avverte contrasto: infatti per lui le impressioni stesse sono fatti né
più né meno che i dati biografici. Ad essere esclusa è semmai l’emissione del giudizio, e questa è una
distinzione con Croce. Proprio per non prevaricare l’opera, Serra le offre molto spazio attraverso
l’abbondanza di citazioni dirette. E non volendo apparire un giudizio esterno, si attesta spesso sul
rilevamento degli effetti prodotti dal testo. Il metro del valore non è il bello definito filosoficamente come
per Croce ma l’incanto che l’opera ha saputo creare catturando il lettore. Un altro termine che Serra usa
come contrassegno positivo è la felicità. Felice è sia il risultato conseguito dall’opera sia lo stato che essa
procura. La differenza da Croce su questo punto si riduce di molto: l’ideale di Serra è una letteratura
improntata alla sobrietà felice dei classici e alla civiltà.
BOINE risulta per molti aspetti il contrario di Serra. Per Boine il giudizio è essenziale a costo di
esercitarlo in maniera drastica. Quella di Boine vuole essere una nuova frusta letteraria ed infatti l’Aristarco
Scannabue di Baretti viene rievocato espressamente. Una frusta che si esercita soprattutto sulla narrativa
commerciale ma anche sulla poesia di maniera. Il rifiuto viene formulato portando all’eccesso la
personalizzazione del discorso propria della critica impressionistica. Con Croce Boine intrattenne una
dura polemica sulle pagine della rivista fiorentina “La Voce”. Contro Croce Boine propone di sostituire
come termine della valutazione positiva al bello il grande. Boine va alla ricerca dell’uomo e non del poeta.
Ma il riferimento all’uomo non finisce in un sereno biografismo, piuttosto a Boine interessano il travaglio
interno della personalità e il dissidio che rompe la sublimazione e vitalizia i morti schemi letterari. L’ipotesi
di scrittura che Boine come critico rintraccia riceve il nome di lirica. Ma in un senso molto diverso dall’uso
fattone da Croce. In Serra la presa del testo è considerata alla stregua di un magico incantesimo al quale ci si
deve abbandonare. In Boine invece il rapporto è visto come una scossa, un urto.
ALBERT THIBAUDET ribalta la critica fisiologica di Sainte-Beuve proponendo la sua Filosofia della
critica, articolata nei tre rami della critica professionelle, parlée e d’artiste. Sia la critica universitaria che
quella svolta sulla stampa hanno per compito l’inventario; solo che l’una lo espleta sul passato l’altra sul
presente. La critica giornalistica a sua volta è il punto alto di quella critica parlée. I diversi tipi di critica
inquadrano competenze diversificate ma secondo lui non mancano di relazioni ed è anzi utile la loro
correzione reciproca.
PAUL VALERY è un lettore molto attento a ricostruire l’interiorità dell’autore. Ma ciò lo porta a
contestare la validità della critica biografica poiché i fatti esterni non hanno nessun necessario riferimento al
lavorio mentale che produce l’opera. Con la sua concezione della poesia come arte del linguaggio,
pendolarmente oscillante tra suono e senso, Valere consegna al futuro strutturalismo il problema del rapporto
tra significante e significato. È posto così il problema della libertà dell’interpretazione. Il poeta francese si
esprime contro la passività nella lettura.
THOMAS STEARNS ELIOT secondo lui la poesia contiene già al suo interno il germe del lavoro
critico e nondimeno il critico deve avere un senso fattuale estremamente sviluppato. Gli strumenti principali
sono soprattutto l’analisi e il confronto. L’importanza della prospettiva storica è che il presente può essere
compreso solo rispetto al passato.
VIRGINIA WOOLF la polemica riguarda il fatto che le donne vengono scarsamente considerate nel
mondo letterario e in partenza hanno molte meno possibilità di accedere alla scrittura. Quando la Woolf si
occupa delle scrittici può prevalere l’interesse biografico e campeggiare la ricostruzione della figura
autoriale. Oppure l’uso dell’immaginazione per entrare nelle vicende come se si partecipasse ad esse. O
ancora l’impiego di metafore vivide. La Woolf vorrebbe calarsi nel lettore comune e tuttavia continua ad
affidare al critico di professione un compito di supporto e di stimolo, non di autorità, ma di aiuto a
specificare meglio le impressioni confuse della lettura. Di fatto l’atteggiamento di simpatia e di adesione non
è sufficiente: la lotta contro i pregiudizi e le emarginazioni ha bisogno anche di un momento giudicante. La
Woolf consiglia di non esitare al giudizio più severo.
L’apporto della linguistica
FERDINAND DE SAUSSURE ha chiarito 3 distinzioni:
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1. i termini significante e significato si individuano i due livelli su cui si impegneranno le discipline
della fonologia (che studia i tratti distintivi e l’articolazione dei significanti) e della semantica (rivolta
all’analisi dei significati)
2. i termini langue e parole langue sta a indicare il codice cioè il sistema della lingua mentre la parole è
chiamata a designare il messaggio
3. la coppia sincronia/diacronia la sincronia si riferisce allo stato della lingua in un determinato
momento mentre la diacronia è rivolta a comprendere i processi di cambiamento e di mutazione.
LOUIS HJELMSLEV ha distinto espressione e contenuto i due livelli del significante e del
significato. Con la linguistica si è diffusa anche una mentalità scientifica. È nata una critica che non esita a
servirsi di schemi, anche grafici, per classificare i propri dati e definirne i legami di affinità, di differenza o
di opposizione.
Le spie dello stile
Nell’esercizio concreto della critica è stato possibile utilizzare gli spunti dell’analisi linguistica. Oggetto di
studio è quel tratto linguistico che più contraddistingue l’autore e fa del suo stile qualcosa di riconoscibile.
La nozione di stile è passata a designare l’aspetto individuale della lingua. E critica stilistica sarà allora
quella che tende alla determinazione delle peculiarità che rendono significativa la figura di un singolo autore
o addirittura di un singolo testo.
LEO SPITZER egli mise a punto il metodo della stilistica. Parte dal presupposto che esiste sempre
un rapporto reciproco tra stato interiore e fatti di linguaggi. Il critico partendo da qualche tratto che si trova
sulla superficie verbale deve arrivare ai centri emotivi. Si tratta di cogliere l’emersione espressiva che
Spitzer denomina spia stilistica e di ricondurla alla radice psicologica d’origine. Il critico parte armato delle
proprie impressioni che gli segnalano un particolare come decisivo ai fini dell’interpretazione. Il cosiddetto
clic che fa accendere la spia e mette in azione l’analisi, può non essere evidente ed immediato. Spitzer
raccomanda di leggere e rileggere con pazienza. Inoltre questo elemento linguistico va sempre sottoposto a
una verifica: deve dimostrare di non essere un fatto contingente e isolato ma un denominatore comune.
Parola e opera dovrebbero ritrovarsi legate in una armonia prestabilita. Spitzer ha teorizzato un movimento
pendolare dal particolare al generale, dalla circonferenza al centro del cerchio e viceversa denominandolo
circolo filologico. I problemi inerenti alla stilistica sono soprattutto le remore a risolvere l’atto critico
nell’analisi linguistica. Una volta avuto accesso attraverso le spie al centro dell’opera le carte possono
tornare in mano all’impressione estetica. L’uso normale della lingua, chiamato anche standard o grado zero,
è difficilmente accertabile in modo definitivo. Si tratta di stabilire quali scelte lo scrittore ha compiuto in
quei punti della lingua che essendo più elastici offrono la possibilità di diverse sfumature. Ma nessuno può
trasferirsi nella mente dell’autore per sapere esattamente quali scelte abbia compiuto e su quali alternative.
L’unico modo oggettivo è quello su cui ha puntato
GIANFRANCO CONTINI le uniche scelte reali operate dall’autore sono quelle documentate sotto
forma di correzioni.
ERICH AUERBACH successore di Spitzer dispiega tutta la versatilità del proprio metodo che è quello
della campionatura. Mentre Spitzer coglie come significativo un piccolo elemento all’interno del testo,
Auerbach preferisce lavorare su un campione abbastanza esteso contenente tutte le caratteristiche
fondamentali dello stile. Mimesis è un grande excursus storico che mette a confronto diverse soluzioni
stilistiche. Secondo Auerbach ogni testo prende posizione rispetto ai livelli stilistici e alla loro gerarchia: o
promuovendo la separazione (distanziando lo stile sublime dallo stile basso) o come nel medioevo e nell’età
moderna favorendo la mescolanza. Il testo è comprensibile e giudicabile solo secondo i parametri del suo
proprio tempo. Quella auerbachiana è una stilistica storicizzante. La situazione sociale spiega lo stile.
WILLIAM EMPSON ha analizzato nei testi poetici le ambiguità in tutti i loro tipi, ne distingue 7,
riuscendo a cogliere in parafrasi l’oscurità e la ricchezza di passi particolarmente ardui, senza escludere il
momento apprezzativi. Empson considera sia la creatività individuale che la convenzione collettiva.
ALLEN TATE e CLEANT BROOKS esponenti del New Criticism. Più che un compatto indirizzo
metodologico abbiamo a che fare con un’area di prospettive critiche associabili in base al comune interesse
per la lettura ravvicinata con la molteplicità dei significati del linguaggio poetico, affrontando la complessità
del paradosso e dell’ironia e tenendo presente l’uso figurativo della parola in poesia.
Il metodo formale
ROMAN JAKOBSON, VICTOR SKLOVSKIJ, JURIJ TYNJANOV diedero vita alla teoria del
metodo formale. Secondo Sklovskij il nostro modo di vedere le cose è reso ottuso dall’abitudine. Per
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risvegliare la capacità di visione è necessario che l’osservatore si metta in una prospettiva inedita e
sorprendente.
Anche i formalisti assumono la nozione di scarto, di deviazione della norma. I formalisti affrontarono la
questione mediante la contrapposizione tra linguaggio letterario e linguaggio pratico: il linguaggio pratico
adopera le parole come mezzi per realizzare i vari scopi della vita. Invece nel linguaggio letterario la parola
non è più mezzo ma fine in se stessa. Gli scarti indagati furono principalmente il ritmo e la rima in
poesia e l’intreccio in narrativa.
OSIP BRIK ha distinto l’impulso ritmico dalle leggi della metrica in modo da poter avviare l’analisi
del verso libero.
Allo stesso modo nell’ambito dell’intreccio SKLOVSKIJ individua diversi schemi di costruzione a gradini
(quando la storia procede per aggiunte successive), ad anello (quando ad una azione fa seguito una
contrazione), con intrecci paralleli, l’inserimento di novelle in una cornice e così via. Viene privilegiato
l’aspetto tecnico. I formalisti si adoperano a portare alla luce i segreti di fabbricazione, cercando di vedere
con quali procedimenti l’opera organizzi i propri materiali. Sklovskij porterà all’estremo questa impostazione
fino a considerare ininfluenti i materiali e a ritenere che le motivazioni tecniche siano le uniche decisive. In
questa ottica, in cui il contenuto dell’opera è la sua forma, si comprende l’interesse di Sklovskij per la messa
a nudo del procedimento e in generale per la parodia.
Il compito che si sono posti i formalisti non è valutare ma spiegare com’è fatto un testo. Il critico come
esperto inteso a dar conto del funzionamento dei meccanismi letterari. Un tentativo di osservare più da vicino
le funzioni dei singoli elementi testuali venne compiuto da PROPP sul corpus delle fiabe russe di magia.
Scoprì che vi era un unico schema attuato in modo diverso in ogni fiaba. C’è una costante che Propp
individua come una funzione del racconto a cui dà il nome di proibizione. L’analisi morfologica mostra che
le fiabe di magia si basano su un numero limitato di funzioni da cui ogni fiaba attinge per comporre la
propria sequenza.
Per Sklovskij la letteratura non avanza in linea retta ma per scarti e salti continui.
Tynjanov diede alla sistematicità l’estensione più ampia. Per lui l’opera letteraria è un sistema e un sistema
è la letteratura. L’evoluzione letteraria dovrà essere considerata come un avvicendamento di sistemi. La
letteratura è vista come costruzione verbale dinamica. Accanto al termine chiave di sistema assume grande
importanza la funzione. Tynjanov tiene a distinguere autofunzione un elemento assume passando da
un’opera all’altra nel percorso della tradizione letteraria e co-funzione è data dai rapporti con gli altri
elementi dell’opera-sistema. Una funzione è soggetta a mutamento: ad esempio un arcaismo che in una certa
epoca viene usato seriamente per nobilitare l’espressione può ricevere successivamente una funzione
contraria ed essere usato in senso parodistico e dissacrante. Tynjanov riconosce l’importanza della diacronia
e non manca di additare il problema con le funzioni linguistiche. La letteratura trae materiali dal costume per
rompere gli automatismi della tradizione. Inversamente i fenomeni letterari una volta esaurita la loro
funzione nel campo dell’arte possono rientrare nel costume.
Sistema e funzione: verso lo strutturalismo
Le nozioni di sistema e funzione saranno ulteriormente arricchite al Circolo linguistico di Praga cui collaborò
anche Jakobson. Nei praghesi compare il termine struttura che verrà poi ripreso da MUKAROVSKY.
Mukarovsky considera la funzione in quanto relazione dell’arte con il mondo sociale e storico. La sfera
dell’estetica e quindi anche la letteratura hanno una funzione che varia nel tempo. L’opera non comunica
singole realtà ma si rivolge alla coscienza del fruitore come un tutto solidale. E solo in quanto tale essa ha un
significato riferibile al contesto complessivo dei fenomeni sociali. Tutte le componenti dell’opera vanno
considerate come portatrici di significato in quello che Mukarovsky chiama il processo semantico e devono
diventare oggetto di considerazione per chi voglia rintracciare il senso complessivo.
CLAUDE LEVI-STRAUSS è il fautore del vero e proprio strutturalismo affermatosi in Francia. Il metodo
viene applicato a tutti gli ambiti dell’attività umana, non solo a quelli propriamente connessi al linguaggio,
come i miti, ma anche ai rapporti di parentela, alle usanze, all’alimentazione. Si tratta di individuare gli
elementi costitutivi di ogni fenomeno e di specificarne le relazioni, disponendoli in uno schema di classi che
si oppongono e si combinano fra loro. Applicando una logica binaria Lévi-Strauss riconduce fenomeni
appartenenti a culture anche molto distanti a strutture elementari ossia a un codice di base che darebbe nei
diversi luoghi soluzioni e combinazioni diverse, seguendo una struttura profonda comune a tutti: la struttura
dello spirito umano. Lo strutturalismo trova che tutto è segno, non solo i linguaggi veri e propri ma anche le
espressioni non verbali, l’abbigliamento, l’immagine pubblicitaria, le buone maniere. Vedere come funziona
un testo significa valutarlo positivamente, perché funziona bene.
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TZVETAN TODOROV parlando della poetica strutturale ha scritto che in essa l’opera è vista solo
come manifestazione di una struttura astratta della quale essa è solamente una delle possibili realizzazioni. È
possibile che il testo venga considerato meno importante delle regole che esso implica. Qualsiasi
realizzazione sarebbe già contenuta nel sistema generatore che lascerebbe l’unica libertà di variare le
combinazioni. Qui verrebbe a costituirsi il dominio a parte di una scienza della letteratura nettamente
separata dall’interpretazione critica. Ma ci sono state anche ricerche più limitate, su generi ristretti: così
accade a Todorov sul fantastico posto sul filo dell’esitazione tra strano e meraviglioso e confinato a rigore
nel solo periodo dell’800. pure piuttosto controversa era la differenza tra semiologia e semiotica (la prima
dovrebbe studiare i segni di tipo linguistico, cioè codificati. La seconda ogni tipo di significazione.
ROLAND BARTHES è uno dei più rappresentativi esponenti dello strutturalismo francese. Rifiutava
la storia letteraria proprio perché ridotta a un seguito cronachistico di autori. La critica per lui consiste nel
decifrare la significazione e nell’aprire l’opera non come l’effetto di una causa ma come il significante di un
significato. Barthes dava alla struttura soprattutto il valore di strumento metodologico. Egli ha messo gli
strumenti analitici al servizio di una lettura rapsodica tendente a costellare il testo nella dispersività di un
commento aperto a tutti i sensi possibili.
GERARD GENETTE le sue ricerche insieme a Barthes disegnano un arco evolutivo che cerca di
uscire dalle strettoie del metodo strutturale. Genette ha provveduto a contrastare l’illusione che il testo
letterario potesse essere considerato come un oggetto chiuso e a sé stante ed ha puntato sul rapporto del testo
con altri testi che risulta particolarmente utile nel caso della parodia.
Il privilegio del significante
In un celebre intervento del 1958 intitolato Linguistica e poetica JACOBSON si proponeva di rispondere
alla domanda fondamentale che cosa è che fa di un messaggio verbale un’opera d’arte. Qualsiasi situazione
comunicativa prevede un mittente che invia un messaggio a un destinatario. A questi Jacobson aggiunge
come indispensabili: un contesto, un codice e un contratto (un canale). Le rispettive funzioni che lui
individua sono:
MITTENTE funzione EMOTIVA
DESTINATARIO funzione CONATIVA
CONTESTO funzione REFERENZIALE
MESSAGGIO funzione POETICA
CONTATTO funzione FATICA
CODICE funzione METALINGUISTICA
Jacobson ipotizza un ordine gerarchico delle funzioni che preveda una funzione dominante. Ad esempio
nello slogan la funzione dominante è quella conativa. Nella poesia è dominante la funzione poetica. Anche
non nella poesia si è rivalutata la funzione poetica dapprima secondaria ma in questo nuovo clima culturale
considerata dominante. Jacobson risale agli aspetti fondamentali del comportamento linguistico, individuati
ora nella selezione e nella combinazione. Quando parliamo compiamo una selezione tra ttt le parole che
potremmo usare in un determinato punto della frase, e poi mettiamo insieme in un certo ordine combinatorio
i termini prescelti. La selezione è fondata sull’equivalenza dei termini possibili, mentre la combinazione
prevede che , per essere compatibili, i termini debbano svolgere ruoli diversi. Il sistema dei significanti trama
la propria rete organizzativa sopra quella della grammatica e della sintassi della lingua. E sebbene Jacobson
parli di sovrapposizione del principio di equivalenza sulla successione delle parole tuttavia egli mostra in
definitiva il prevalere della scansione specifica dei ritmi e dei suoni sulla forma usuale. Compare l’ipotesi di
un legame latente tra suono e significato
JURIJ LOTMAN definisce l’arte letteraria un sistema di simulazione secondario. Secondario perché
utilizza dei materiali preesistenti nella lingua naturale e di simulazione perché pur realizzandosi nella
sequenza lineare della scrittura, si organizza in modo da configurare con i suoi rapporti interni una
rappresentazione della realtà, una simulazione del proprio contenuto. Lotman propone, per definire l’opera
d’arte letteraria, la nozione di segno integrale. Mentre nella lingua naturale il testo è composto da segni
ciascuno dei quali è portatore di significato ed è a sua volta scomponibile in elementi (le lettere delle parole)
che di per sé non significano nulla, nell’arte verbale il significato è dato soltanto dal testo preso per intero.
Ciò vuol dire che il testo diventa segno e che i segni che lo compongono ne diventano gli elementi. È al
livello semantico-lessicale che Lotman attribuisce il valore di strato base non eludibile su cui si innestano
tutti gli altri contributi al senso complessivo. L’apporto dei significanti è considerato quindi non tanto in
chiave di autonomia totale ma come aumento della ricchezza del gioco semantico, come incremento
dell’informazione portata dal testo.
La scienza del racconto
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Le ricerche compiute da Propp nel campo delle fiabe verrà esteso all’intero universo del romanzo dalla
narratologia. L’approfondimento degli spunti di Propp poteva seguire due vie: la prima diretta a determinare
gli sviluppi dell’azione, la seconda volta a stabilire i rapporti tra i personaggi posti alla base della vicenda.
CLAUDE BREMOND nella sua Logica del racconto prende le mosse dall’impossibilità di decidere in
anticipo la successione delle funzioni. Propp aveva potuto stabilire un ordine di precedenza perché si trovava
a lavorare su un materiale fortemente stereotipato e soggetto a regole fisse. Bremond ritiene che l’unità
minima della narrazione non sia la funzione isolata ma la sequenza che raggruppa più funzioni. La sequenza
elementare sarebbe dunque un processo in 3 tempi composto da virtualità, passaggio all’atto e
conclusione. Quanto al montaggio di queste sequenze elementari nella sequenza complessiva Bremond
individua 3 modi caratteristici: il testa a coda quando ogni situazione di arrivo offre la possibilità di ripartire
con una nuova sequenza), la sacca (quando la sequenza si interrompe per dar luogo a una sottosequenza che
si svolge al suo interno), la legatura (quando due sequenze si sviluppano simultaneamente o parallelamente).
I ruoli narrativi dei personaggi vengono suddivisi in attivi e passivi. Gli agenti a loro volta si scindono tra
volontari e involontari.
ALGIRDAS GREIMAS nei suoi personaggi vengono riconosciuti ruoli o funzioni: un soggetto, un
oggetto, un destinatore che predispone l’oggetto per un destinatario cui si possono aggiungere un aiutante
e un oppositore. Per un totale di 6 attanti a costituire quello che Greimas chiama il modello attanziale.
TODOROV arriverà addirittura a tradurre l’intreccio in formule algebriche
GENETTE toccherà a lui con il Discorso del racconto del 1972 a sistematizzare l’analisi degli aspetti e
dei modi della narrazione uscendo dalla mera sequenza delle vicende. Vi sono alcuni problemi che lo studio
dell’intreccio non riesce a toccare, ad esempio quello dell’enunciazione. Chi racconta la storia? Un narratore
intradiegetico o extradiegetico che può avere parte o no nella vicenda e quindi potrà essere omodiegetico o
eterodiegetico.
BARTHES accanto alle funzioni egli suggerisce di considerare anche degli indizi che sono quelle
notazioni spesso appena accennate a indicare il carattere dei personaggi e l’atmosfera della vicenda, e
servono a preparare gli sviluppi della storia. Inoltre Barthes distingue tra le funzioni quelle cardinali o
nuclei da quelle di riempimento che offrono all’interprete dettagli non trascurabili. Barthes indica la
necessità di un passaggio dalle macrostrutture alle microstrutture verso il modo di organizzare i significati,
dove le analisi della poesia e della prosa si congiungono.
Semantica - semiotica
Del metodo messo in campo da GREIMAS sono da ricordare soprattutto alcune nozioni basilari: la
suddivisione del significato in semi, il formarsi di catene coordinate di semi dette isotopie, la connessione ai
semi di marche valutative.
Sulla scia di queste indicazioni greimasiane si sono mossi alcuni studiosi belgi dell’Università di Liegi
raccolti sotto la sigla del GRUPPO M i quali hanno riclassificato nei termini della semantica strutturale
l’antichissimo bagaglio della retorica. I ricercatori di Liegi passano a individuare 4 possibili forme di
deviazione: soppressione (quando viene tolto un elemento), aggiunzione (quando l’elemento viene
aggiunto), soppressione-aggiunzione (la sostituzione di un elemento con un altro) e permutazione
(invertire l’ordine degli elementi). La metafora è intesa come soppressione-aggiunzione nel significato di una
parola, la rima è vista come aggiunzione ripetitiva a livello dei suoni. Il Gruppo M ha precisato la propria
ipotesi teorica nella Retorica della poesia. Nel testo poetico le metafore e le altre figure produrrebbero un
proliferare di semi secondari che vanno a formare varie catene di isotopie. Mentre il linguaggio normalmente
si basa su una sola isotopia, la poesia è dotata di poli-isotopia. Tali reti semantiche possono essere ricondotte
a 3 grandi ambiti: un triangolo che ha per vertici l’uomo, il cosmo e il linguaggio stesso (anthropos, cosmos
e logos). Il modello Greimasiano è il quadrato semiotico dove il termine chiave si sviluppa in una dialettica
più aperta e complessa combinandosi con i termini contrari e contraddittori.
La cultura come universo di segni
MARIA CORTI ha considerato la comunicazione letteraria come scampo di tensioni tra istanze alla
codificazione e spinte trasformatrici.
CESARE SEGRE ha riattivato l’interesse verso la storia del confronto tra scrittori col sistema semioletterario.
Il Gruppo di Mosca e Tartu raccolto attorno a Lotman e a Uspenskij sostengono che se ogni testo non può
essere pienamente compreso nel suo valore altro che in rapporto al contesto culturale in cui si inscrive, è
allora alla cultura in quanto sistema dei sistemi che l’analisi deve in ultima istanza giungere. La cultura
risulterà dal modo di sommarsi e di organizzarsi dei diversi codici e sarà interpretabile come sistema di segni
sottoposto a regole strutturali. Sono queste le basi della culturologia. Secondo LOTMAN il modello
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culturale consiste essenzialmente in uno schema spaziale. Lo spazio viene suddiviso a opera di una frontiera
che serve a distinguere i valori dai disvalori: il gruppo sociale dai nemici, i vivi dai morti, le divinità buone
da quelle cattive. Le vicende dell’eroe sono significative perché e in quanto lo portano ad attraversare alcune
importanti barriere del modello culturale. I personaggi possono essere vincolati (che sono legati a una
particolare zona e non possono oltrepassarla) oppure mobili (che assurgono al rango di protagonisti e di
forze trainanti dell’azione narrativa). Per identificare i tipi culturali Lotman ha avanzato varie proposte
utilizzando le categorie tratte dalla linguistica. La classificazione più articolata è quella approntata prendendo
in considerazione l’atteggiamento rispetto al segno. Questi versanti in linguistica ricevono il nome di
paradigma e sintagma. Si aprono 4 possibilità: privilegiamento del primo aspetto o del secondo o di
nessuno dei due o di tutti e due. Lotman legge lo svolgimento della cultura russa prima del sec. XX come
successione di 4 tipi:
nel medioevo predomina l’aspetto pragmatico il segno è fortemente valorizzato a scapito di ciò che
non è segno
con i secoli XVI-XVII si impone la cultura del praticismo i segni non sono più presi per il rapporto
con un livello superiore ma per il posto che occupano in un piano determinato. È questo il tipo sintagmatico
dove predomina la capacità di combinare e organizzare i segni
l’illuminismo rappresenta il caso del rifiuto di entrambi gli aspetti
tra il secolo XVIII e XIX con l’instaurarsi della società borghese prende piede un modello culturale che
concilia l’aspetto paradigmatico con quello sintagmatico.
Perché una cultura dopo aver funzionato bene a un certo punto viene sostituita da un’altra la risposta degli
studiosi russi è che il dinamismo non sia imposto da cause estranee ma che sia intrinsecamente connesso alla
cultura. Senonchè una volta inteso il dinamismo una proprietà ineliminabile della cultura, si finisce per
ritenere il cambiamento un fatto naturale, insomma per deresponsabilizzare le forze culturali. Nell’ultima
fase della sua attività Lotman ha indicato il punto di passaggio tra i diversi stati con l’immagine
dell’esplosione. L’arte è un’esplosione di senso che accade senza preavviso in un dato momento temporale.
La semiotica ha consentito a Lotman di toccare il punto di congiunzione tra letteratura e comportamento.
La concezione materialistica della storia
La comprensione della letteratura ha ricevuto un potente impulso in seguito alle analisi del materialismo
scientifico fondato da KARL MARX e FRIEDRICH ENGELS la loro teoria forniva la precisa
indicazione di dove cercare le radici, il motore del processo storico. Tale ruolo era attribuito a una
motivazione sociale e a un nucleo profondo di natura economica. Secondo questo punto di vista, l’aspetto
propriamente umano non si trova nel linguaggio o nella significazione, ma nel lavoro e nell’organizzazione
legata alle necessità dell’attività lavorativa. Le istituzioni e pratiche culturali vanno comprese nel loro
intreccio con la base materiale socio-economica di cui sono espressione. La coscienza che si illude della
propria indipendenza finisce per rappresentare i rapporti reali in modo distorto e deformato. Questa falsa
coscienza viene dai due autori denominata ideologia. Viene messo in campo lo sguardo sospettoso della
critica dell’ideologia. Marx avverte che non la critica ma la rivoluzione è la forza motrice della storia. Come
mai noi gustiamo con intatto piacere le opere degli antichi, oggi che il quadro della vita sociale è
completamente mutato? Per la teoria, che viene risolta da Marx ricorrendo all’idea di un particolare fascino
che l’arte greca conserverebbe in quanto legata alla fanciullezza storica dell’umanità.
Letteratura e politica. Il collegamento con i gruppi e le classi che compongono la società può essere
tracciato riferendosi semplicemente all’estrazione sociale dell’autore o al tipo di pubblico al quale egli
dichiara di rivolgersi. Così accade del pari per lo studio dei raggruppamenti intellettuali e dei loro strumenti
collettivi (riviste, manifesti). Anche quando ingloba in sé l’analisi dell’opera, in ogni caso la sociologia della
letteratura procede a un rilevamento oggettivo della collocazione sociale che può muoversi in parallelo ma
non sostituire il giudizio critico vero e proprio. Non si tratta di emettere una valutazione che riguardi
la<letteratura presa a sé, ma di includer la sfera letteraria nella questione più generale del senso della storia.
Occorre ragionare su una valutazione politica. Alla distinzione tra bello e brutto propria del giudizio estetico,
verrà anteposta l’alternativa tra una direzione progressista o rivoluzionaria e l’inversa direzione reazionaria o
conservatrice. Di fatto la politicità della letteratura è stata spesso intesa come meccanica sottomissione del
valore estetico al valore politico. Ciò ha comportato una forte svalutazione del letterario. In realtà nella
politica culturale dei partiti comunisti negli anni centrali del ‘900 il valore estetico non venne annullato o
superato, quanto piuttosto ridotto e strumentalizzato. Se il giudizio che si dà di un’opera è “bella ma
reazionaria” ciò equivale ad ammettere che il giudizio politico negativo non riesce a escludere il giudizio
estetico positivo. L’opera, se pure è reazionaria, nondimeno rimane bella. Il piacere estetico confinato nella
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sua zona franca sopravvive intatto, con la conseguenza di limitare gravemente la portata della critica
dell’ideologia.
ANTONIO GRAMSCI il suo tratto peculiare è l’articolazione della critica su 3 livelli tra loro
interconnessi ma non sovrapponibili: la politica, la cultura e la letteratura. In carcere Gramsci avviò
un’ampia riflessione teorica e storica comprendente anche i problemi degli intellettuali e della letteratura, che
rimase consegnata alle pagine dei Quaderni. La sua preoccupazione principale sembra essere quella di
evitare sia l’autonomia del giudizio letterario sia l’intromissione del giudizio politico. Gramsci ritiene
opportuno distinguere il livello in senso stretto politico da quello letterario e inserirvi in mezzo, come una
sorta di spazio mediatore, il livello della cultura. Per capire bene quale sia il ruolo della cultura nella teoria e
nel metodo gramsciani è necessario considerarla nelle sue due facce, quella rivolta verso la politica e quella
rivolta verso la letteratura. Quella rivolta alla politica egli difende il valore rivoluzionario della cultura e
quindi l’importanza della lotta in ambito culturale. La vittoria del fascismo aveva convinto Gramsci che il
processo rivoluzionario sarebbe stato lento e complesso. Solo l’intervento nella cultura, cioè l’azione volta a
conseguire l’egemonia nell’ambito del senso comune, avrebbe creato un terreno favorevole alla battaglia
politica vera e propria. Nei Quaderni del carcere Gramsci riflette su una sconfitta epocale del movimento
rivoluzionario: gli è ormai chiaro che non basta la presa di potere se non c’è il consenso e quindi l’egemonia
culturale. Egli sviluppa una forte attenzione per l’organizzazione della cultura e si preoccupa di stabilire la
connessione tra i gruppi intellettuali e i più vasti gruppi sociali. Tra politica e cultura deve stabilirsi una
dialettica e non per nulla Gramsci rintraccia nella politica culturale un ulteriore livello intermedio. Il
raccordo tra l’opera letteraria e l’epoca storica non è sufficiente. L’attribuzione socio-storica rischia di saltare
il problema artistico. A parità di condizioni possiamo avere qui un artista e là quello che Gramsci definisce
umoristicamente un semplice untorello. Questa disparità tra artista e untorello vale a dire il diverso grado di
qualità delle opere, indica che il lavoro istruttorio del giudizio non può dirsi concluso se non perviene a
toccare il livello estetico. Non può prescindere dagli altri livelli e soprattutto dal livello culturale che gli è più
vicino e gli è direttamente collegato. Gramsci non accetterebbe mai una valutazione estetica puramente
svincolata dal terreno della cultura. Il sospetto che il metodo crociano di distinguere drasticamente tra poesia
e non poesia conduca in uno sterile rifiuto della gran parte della produzione letteraria spinge Gramsci ad
attribuire alla critica la funzione di cogliere gli aspetti propositivi anche nelle opere minori. Una critica delle
tendenze deve essere l’obiettivo del discorso sulla letteratura. Ciò che è possibile fare è lottare per la
formazione di una nuova cultura per una nuova vita morale così da creare il retroterra da cui nasceranno
nuove opere d’arte. Il livello culturale svolge un ruolo trainante nel giudizio. Gramsci interroga
l’interconnessione dei valori culturali e dei valori estetici nelle opere. Questo rapporto è espresso da Gramsci
anche attraverso la tradizionale relazione tra forma e contenuto. Riflettendo sul fatto che l’opera è un
processo e che ogni cambiamento nel contenuto deve determinare un cambiamento nella forma, Gramsci
perviene a ipotizzare una priorità relativa del contenuto e dunque in esso dei valori culturali.
In reazione a Croce procedeva in Italia anche il percorso dello storicismo critico portato avanti da LUIGI
RUSSO, NATALINO SAPEGNO e WALTER BINNI.
Gramsci e i diversi livelli di giudizio critico
L’articolazione della critica su tre livelli, tra loro interconnessi ma non sovrapponibili, è il “ il tratto peculiare
della impostazione data da Antonio Gramsci all’approccio “sociale” al fatto letterario. La preoccupazione
principale di Gramsci sembra quella di evitare sia l’autonomia del giudizio letterario, sia l’intromissione del
giudizio politico. Poiché il politico tende a produrre un’azione verso un determinato fine futuro, è inevitabile
che veda nel letterato qualcosa di attardato e non risolto, così, per forza di cose “il politico non sarà mai
contento dell’artista e non potrà esserlo”.
Per capire quale sia il ruolo della cultura nella teoria e nel metodo gramsciani è necessario considerarla nelle
sue due facce:
1- verso la politica Gramsci difende il valore rivoluzionario della cultura e quindi l’importanza della
lotta in ambito culturale. Secondo Gramsci c’è un’eccezione positiva dell’ideologia, che concerne quella
“storicamente organica” e necessaria a una determinata struttura economica e sociale; e un’eccezione
negativa, nel caso delle “ ideologie arbitrarie” per le quali vale l’analogia col velo di un’apparenza vana e
fuorviante. Solo l’intervento nella cultura, avrebbe creato un terreno favorevole alla battaglia politica vera e
propria.
2- verso la letteratura Gramsci sviluppa una forte attenzione per lì”organizzazione della cultura” e si
preoccupa di stabilire la connessione tra gruppi intellettuali e più vasti gruppi sociali. Il raccordo tra l’opera
letteraria e l’epoca storica non è sufficiente; l’attribuzione socio-storica rischia di saltare il “problema
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artistico”: a parità di condizioni possiamo avere qui un “artista” e là quello che Gramsci definisce
umoristicamente un “semplice ritornello”. Questa disparità tra “artista” e “untorello”, vale a dire il diverso
grado di qualità delle opere, indica che il lavoro istruttorio del giudizio non può dirsi concluso se non
perviene a toccare il livello estetico.(Gramsci non accetterebbe mai una valutazione estetica puramente
svincolata dal terreno della cultura).
Gramsci attribuisce alla critica la funzione di cogliere gli aspetti propositivi anche nelle opere minori; una
critica delle “tendenze” dev’essere l’obiettivo del discorso sulla letteratura. Sarebbe infatti non solo vano ma
“assurdo” pretendere di far spuntare nuovi geni artistici: ciò che è possibile fare è, lottare per la formazione
di una “nuova cultura”, per “una nuova vita morale”, così da creare il retroterra da cui nasceranno, nuove
opere d’arte.
Riflettendo sul fatto che l’opera è un “processo” e che ogni cambiamento nel contenuto deve determinare un
cambiamento nella forma, Gramsci perviene a ipotizzare una priorità relativa del contenuto, e dunque in esso
dei valori culturali.
Attraverso l’interpretazione del canto x dell’inferno di Dante, Gramsci affronta il problema della “struttura”
e ne afferma l’essenzialità per la comprensione del testo.
Gramsci oppone che, senza la conoscenza della pena, il dramma di Cavalcante sarebbe incomprensibile e
quindi ne subirebbe danno l’intero esito della scena dantesca. La conclusione è, che il “brano strutturale” è
necessario e ineliminabile; “non è solo struttura” ma anche “poesia”. E su di esso cada l’accento “estetico”.
Rispecchiamento e prospettiva in Lukàcs
GYORGY LUKACS la sua è un’estetica sistematica. L’idea che l’arte debba rispecchiare
fedelmente la realtà è tributaria della nozione aristotelica di mimesi. Lukacs la adatta e la aggiorna alla luce
delle tesi marxiste: non si dovranno più tradurre in immagini plastiche o verbali determinati oggetti o
situazioni della vita reale, ma cogliere attraverso l’arte le proprietà del momento storico della società umana,
dei conflitti di classe e dei rivolgimenti rivoluzionari che vi si svolgono. La totalità che l’arte è chiamata a
rappresentare non è soltanto quella dell’esistente, deve anche porre in evidenza la direzione del futuro. È ciò
che Lukacs chiama la prospettiva. Uno scrittore che raggiunge un simile rispecchiamento della realtà può
essere definito realista. Alla critica viene demandato il ruolo valutativo di giudicare la giustezza del
contenuto delle opere, ovvero l’adeguatezza del rispecchiamento rispetto alla verità storica. Nelle intenzioni
di Lukacs la teoria del rispecchiamento doveva esaltare l’apporto conoscitivo dell’arte. Mentre il sapere
scientifico e quello storico partono dal singolo fenomeno per giungere alla legge universale, il
rispecchiamento artistico si appoggia su una categoria intermedia tra singolarità e universalità, che non è più
il singolo fenomeno e non ancora l’essenza dispiegata nell’universale. È un termine medio tra i punti di
partenza e di arrivo del processo conoscitivo. In sede letteraria ala categoria del particolare corrisponde il
tipico: esso è l’accadere individuale orientato nel giusto rispecchiamento rispetto alla totalità storico-sociale.
Il giusto rispecchiamento deve dar conto della viva dialettica del reale: il tipo viene caratterizzato dal fatto
che in esso convergono tutte le contraddizioni più importanti, sociali e morali e psicologiche di un’epoca.
Una tale tipicità esige che il personaggio sia dotato di una visione del mondo che sia costruito con una
fisionomia intellettuale fortemente caratterizzata. Personaggio, carattere, intreccio: un privilegiamento del
genere narrativo. È prevalentemente con il romanzo che il suo metodo può produrre risultati. E in particolare
con il romanzo storico. Perché ci sia un autentico realismo i richiede che i fatti raccontati non siano fine a se
stessi ma che rinviino alla rappresentazione delle forze sociali portanti dell’epoca. La letteratura realista si
distingue non soltanto da quella irrealista ma anche dalla riproduzione fotografica delle cose così come si
presentano. La polemica di Lukacs contro il naturalismo e contro le poetiche moderne che procedono per
somma di dati sensoriali senza volerli organizzare e interpretare. Egli pone in alternativa narrare e
descrivere. Mentre nel narrare ogni aspetto è focalizzato sul nucleo drammatico della vicenda con una forte
partecipazione dell’autore che si trasfonde poi in partecipazione del lettore, nel descrivere prevale il distacco
dell’osservatore. Bertold Brecht fa un’obiezione alla posizione di Lukacs sostenendo che proprio per
rispondere all’esigenza di giungere al fondo della causalità sociale bisogna provare sperimentalmente i nuovi
strumenti formali: una forma che andava bene in passato può non andar bene per oggi, non si può usare lo
stesso specchio per rispecchiare epoche diverse. Nella concezione di Lukacs il mutamento storico viene
considerato come mutamento del contenuto da rispecchiare, ma lo specchio rimane di per sé immutabile. Lo
svolgimento letterario per Lukacs prende la fisionomia di una ricorsività ciclica. Questo ciclo corrisponde
secondo l’impostazione marxista all’arco dell’evoluzione storico-sociale delle forze propulsive della
borghesia che vengono sostituite dalle forze fresche del proletariato. Lukacs risolve anche il problema
marxiano del perdurante effetto delle opere del passato: che si tratti di Ulisse o di Don Chisciotte, il nostro
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interesse di lettori rimane vivo perché le avventure dell’eroe ci hanno rivelato i tratti essenziali della vita
umana. Così la teoria lukacsiana che tanto sembrerebbe rivoluzionaria risulta piuttosto conservatrice. Accetta
le gerarchie di valore ereditate dalla tradizione e rimane anche ferma alla visione romantica del genio
inconsapevole, del grande artista che raggiunge con un balzo intuitivo la vera realtà delle cose.
Gli studi sociali di Francoforte
Un’angolatura diversa pervenne dallo studio sociale dell’arte nella Scuola di Francoforte con MAX
HORKHEIMER, HERBERT MARCUSE e THEODOR ADORNO. Anche per i francofortesi l’arte e la
letteratura vanno considerate nell’ambito della società che le produce. Mentre nella visuale del marxismo la
sovrastruttura veniva guardata con sospetto perché lontana dalla realtà, gli studiosi modificarono questa
concezione alla luce della nuova esperienza sociale. Essi ebbero modo di vedere i regimi del fascismo e del
nazismo e le prime avvisaglie del consumismo neocapitalista. I nuovi fenomeni della cultura di massa
convinsero i francofortesi che l’ideologia non era pericolosa tanto per il suo distacco dalla prassi, quanto
esattamente all’opposto per il fatto di essere ormai troppo dipendente dall’ottica utilitaria del mercato. Con
l’industria culturale la cultura viene fatta rientrare tra i divertimenti eventualmente allestiti per il tempo
libero e in tal modo viene svilita, uniformata e neutralizzata. Se i prodotti culturali vengono proposti a un
pubblico indifferenziato viene a cadere anche la distinzione tra cultura borghese e cultura proletaria. I
francofortesi colgono la caduta di prestigio dell’arte e della letteratura nelle società industriali avanzate. Altri
mezzi di comunicazione. I mass media, salgono in primo piano.
MARCUSE l’arte raccoglie quella promessa di felicità che viene sempre più disattesa da un sistema
sociale alienante e repressivo. Egli considera la società moderna come un apparato dominato dalla logica del
guadagno, che non ammette perciò la felicità se non nella forma del dopolavoro, del riposo in vista di un
ulteriore sfruttamento. Ma il piacere che la bellezza suscita è negata dal regime utilitaristico: è necessario
secondo lui liberare l’esperienza estetica dalle incombenze ideali di cui è stata caricata, e restituirla invece al
momento della felicità sensibile. Negli anni ’50 Marcuse si appoggerà alla psicoanalisi per precisare l’arte
come ritorno del represso e come serbatoio delle istanze di liberazione. Ma se il condizionamento sociale è
essenziale negativo, per assumere la giusta posizione nel suo tempo l’arte dovrà tagliare i ponti proprio con
ciò che la determina e la deprime. Le opere d’arte rappresentano quel che esse non sono. Ciò vuol dire che la
loro storicità sta nel modo con cui si pongono fuori della situazione storica a loro toccata. L’arte è dunque
rivoluzionaria per sua stessa natura. Mentre per Lukacs l’arte è rivoluzionaria perché rispecchia fedelmente
le forze della prassi che tendono alla rivoluzione, invece, nel teorico francofortese la testimonianza che l’arte
rende riposa nella forza di resistenza alla prassi, a qualunque genere di prassi. Adorno respinge il progetto di
demistificazione portato avanti dal marxismo inteso a ricondurre le creazioni spirituali ai moventi materiali.
In questo quadro proprio l’arte autonoma verrà apprezzata esattamente nel suo essere priva di scopo.
Nell’epoca moderna l’arte percorre le soluzioni estremiste dell’avanguardia e nella dissonanza esprime il
conflitto tra la vocazione alla conciliazione e la vocazione alla verità che rende impossibile una sintesi felice.
Sulla considerazione del carattere rivoluzionario dell’arte per Marcuse questo carattere risiede nella
conservazione positiva delle istanze utopiche che possono così ritornare disponibili all’azione liberatrice. Per
Adorno si tratta di capacità negativa. L’arte è pensata per principio come estranea in quanto tale al mondo
empirico. Sebbene Adorno si adoperi a mantenere il rapporto tra la criticità dell’arte e la situazione storica.
L’efficacia dell’opera sta nella partecipazione allo spirito, il quale contribuisce al cambiamento della società
in processi sotterranei e si concentra nelle opere d’arte.
WALTER BENJAMIN presenta una soluzione alquanto difforme polemicamente distante da quella di
Lukacs. L’autore è egli stesso un produttore e non può quindi essere collocato all’esterno del mondo
produttivo, né il compito di rispecchiare il mondo (Lukacs) né con quello di rifiutarlo (Adorno). In fondo in
Lukacs e in Adorno pur nella diversità c’è un modello comune che consiste nel porre il nesso tra società e
arte privilegiando uno dei due termini sull’altro. Benjamin invece si sforza di considerarli su un piano
paritario. L’importante è stabilire come si situa nei rapporti di produzione. Benjamin conferisce un ruolo
fondamentale alle innovazioni tecniche. Assume un atteggiamento meno pessimistico di quello di Adorno
riguardo agli esiti del mondo moderno. La comparsa nell’epoca moderna di nuovi mezzi come la fotografia e
il cinema non solo ha aggiunto ulteriori campi di attività, ma soprattutto ha cambiato il modo di porsi
dell’arte rispetto al pubblico. La riproducibilità tecnica moderna porta le opere verso il pubblico con molto
maggiore disponibilità di quanto non accada al pezzo unico. Nelle moderne arti riproducibili Benjamin vede
invece avanzare quello che egli chiama il valore espositivo ossia la possibilità di un’esperienza più diffusa,
libera e disinibita dei prodotti artistici. Così viene superato l’atteggiamento individuale verso l’arte e la
visione comunemente accettata per cui l’ispirazione arriva solo nello stato di raccoglimento. L’opposto è il
lato collettivo della creatività, che Benjamin va a rintracciare nei modi organizzativi degli scrittori, nel loro
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riunirsi in gruppi e in tendenze, come nelle avanguardie. La scelta della giusta tendenza politica non
garantisce il valore letterario. La tendenza deve essere accoppiata alla qualità dell’opera di volta in volta
verificata e dimostrata sul testo in questione. Questa ottica impedisce la meccanica sovrapposizione della
politica alla letteratura. Il contenuto esplicito su cui insisteva la teoria lukacsiana del rispecchiamento, non
pare a Benjamin l’ultimo livello del senso di un testo. Benjamin riprende dall’antica esegesi la nozione di
allegoria e ne fa il principio della costruzione complessiva dell’opera che agisce attraverso la frammentarietà
e la tensione contraddittoria delle sue parti. Al contrario del simbolo l’allegoria teorizzata da Benjamin
elabora il suo discorso trasformando i personaggi e gli oggetti in segni di una scrittura e il tal modo li
estrania dal mondo naturale. Benjamin sostiene l’idea che l’opera d’arte serve a risvegliare le forze assopite e
a renderle disponibili per l’azione collettiva e ciò caratterizza anche l’atteggiamento del critico verso le opere
del passato. La distanza temporale è vista da Benjamin all’insegna della discontinuità, in polemica con lo
storicismo che considerava la storia uno sviluppo lineare e continuo. Il critico non deve limitarsi a
ricostruire, incasellando le opere nella sequenza del loro tempo di origine per sprigionare da esse ciò che
ancora interessa il presente.
ERNST BLOCH ritiene che l’attimo vissuto sfugga alla conoscenza e che perciò qualcosa di non
ancora conscio permanga sotterraneamente come spinta al rinnovamento nel presente. Ciò è collegato da
Bloch alla speranza utopica rivolta al futuro. Le aspirazioni umane alla felicità, rifiutate e sconfitte nel
passato, continuano a rivolgere il loro appello nell’ora attuale. Così, quella che era per Marx una difficoltà
appare nella teoria benjaminiana affatto naturale. Ma più che del fascino del passato in blocco, Benjamin
s’interessa di quei particolari quasi cancellati e resi muti dalla storia, da cui si manifesta l’utopia soffocata
dalle classi dominanti. Tra il passato e il presente è messa in atto una convergenza di tensioni: da un lato il
passato vale se ha la forza d’urto per mettere in crisi il presente, dall’altro lato l’interprete situato nel
presente deve essere pronto a mettere in discussione la gerarchia dei valori consolidati nella tradizione. Il
critico deve passare a contropelo la storia. Benjamin ha dedicato a Baudelaire una larga parte del proprio
lavoro nella fase cruciale degli anni ’30. egli si muove sulle connessioni di forma e contenuto. Scende nella
minuzia all’interno del testo andando a scoprire in un singolo verso la parola su cui si concentra il significato
della frase. Ma è pronto a uscire all’esterno per collegare le figure letterarie ai fenomeni della società e
dell’ambiente. La connessione del particolare alla totalità non può essere preordinata in anticipo ma deve per
Benjamin venir fuori ricavando dai testi al maggior grado possibile tutta l’energia che essi potenzialmente
contengono.
Benjamin: l’autore come produttore
Negli anni Trenta, assume particolare rilievo la posizione sostenuta da Walter Benjamin, teorico e saggista
nato a Berlino nel 1892, morto suicida nel 1940 in circostanze drammatiche, nel tentativo di espatriare
clandestinamente per sfuggire ai nazisti.
Benjamin tenne una conferenza a Parigi nel 1934: L'autore come produttore. L'autore è egli stesso un
produttore e non può quindi essere collocato all'esterno del mondo produttivo, né con il compito di
rispecchiare il mondo (Lukàcs), né con quello di rifiutarlo (Adorno).
L'importante non è stabilire qual è la posizione dì un'opera “rispetto ai rapporti di produzione dell'epoca”, ma
piuttosto chiedersi come si situa nei rapporti di produzione.
Benjamin conferisce un ruolo fondamentale alle innovazioni tecniche, . Mentre per Adorno le trasformazioni
della tecnica servono a un dominio sempre più capillare, per Benjamin esse pongono di fronte a un bivio:
possono essere sfruttate o in senso produttivo o in senso distruttivo. Ciascun momento storico si trova di
fronte alla biforcazione di una alternativa in cui diventa determinante la scelta politica.
Mentre le forme classiche si basano sull’unicità dell’opera, nella fotografia o nel cinema l’opera può
riprodursi in un infinito numero di copie tutte perfettamente equivalenti all’originale, che di per sé non
esiste più. ". Nelle moderne arti riproducibili Benjamin vede invece avanzare quello che egli chiama il
«valore espositivo», ossia la possibilità di un'esperienza più diffusa, libera e disinibita dei prodotti artistici.
L'opposto è un atteggiamento collettivo, che si estrinseca in Benjamin nell'interesse per i modi organizzativi
degli scrittori, per il loro riunirsi in gruppi e in tendenze.
La scelta della giusta tendenza politica non garantisce il valore letterario; la tendenza deve essere accoppiata
alla qualità dell'opera e questa somma di tendenza + qualità non può essere data per scontata ma di volta in
volta verificata e "dimostrata" sul testo in questione.
La tendenziosità politica, si realizza in un'esposizione pedagogica; il contenuto esplicito, non pare a
Benjamin l'ultimo livello del senso di un testo. Non solo egli considera nella tecnica il punto di
interpenetrazione tra forma e contenuto.
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Benjamin riprende dall'antica esegesi la nozione di allegoria, riscattandola dal discredito in cui era caduta
per opera dell'estetica romantica e idealistica, che l'aveva considerata un semplice gioco enigmistico. Anzi,
rispetto al passato Benjamin amplia la nozione stessa di allegoria, e ne fa il principio della costruzione
complessiva dell'opera.
Al contrario del simbolo l'allegoria teorizzata da Benjarnin elabora il suo discorso trasformando i personaggi
e gli oggetti in segni di una scrittura e il tal modo li estrania dal mondo naturale.
Il critico non deve limitarsi a ricostruire deve strappare le opere dal loro tempo di origine per sprigionare da
esse ciò che ancora interessa il presente; c’è un «nocciolo conoscitivo» che dal passato si proietta verso il
presente.
Ernst Bloch (1885-1977), ritiene che l'«attimo vissuto» sfugga alla conoscenza e che perciò qualcosa di
«non-ancora-conscio» permanga sotterraneamente come spinta al rinnovamento nel presente. Ciò è collegato
da Bloch alla speranza utopica verso il futuro. Tra il passato e il presente è messa in atto una convergenza di
tensioni: da un lato il passato vale se ha la forza d'urto per mettere in crisi il presente; dall'altro lato
l'interprete situato nel presente deve essere pronto a mettere in discussione la gerarchia dei valori consolidati
nella tradizione. critico deve passare "a contrappelo" la storia.
«Leggere tra le righe» è in questo caso la parola d'ordine adottata da Benjamin. il Benjamin critico lavora ad
individuare il nucleo principale di un testo in qualcosa che si fa scorgere solo marginalmente, ma che funge
da motore nascosto della composizione, innervandola nel suo complesso. Gli «oggetti essenziali non
appaiono mai, o quasi, in forma di descrizioni».
Benjamin ha dedicato a Baudelaire una larga parte del proprio lavoro nella fase cruciale degli anni Trenta.
Scende nella «minuzia», all'interno del testo, andando a scoprire in un singolo verso la parola su cui si
concentra il significato della frase; ma è pronto ad uscire all'esterno, per collegare le figure letterarie ai
fenomeni della società e del suo ambiente. In questo movimento pendolare c'è un atteggiamento costante, che
è quello di collegare i «motivi» in una «costellazione» facendo emergere al centro di essa il principio
unificatore, il nocciolo sostanziale e profondo.
che la connessione del particolare alla totalità non può essere preordinata in anticipo ma deve, venir fuori
ricavando dalle opere al maggior grado possibile tutta l'energia che esse potenzialmente contengono.
Marxismo e strutturalismo
JEAN-PAUL SARTRE nel suo pensiero il legame con l’esistenzialismo conduceva a una concezione
rilevante la specificità dell’avvenimento storico che non si esaurisce nella situazione ma tende a superarla. Di
qui il valore della libertà, il progetto rivolto al futuro. È un’analisi che convince quando ragiona in termini di
gruppi sociali e di collettivi.
GOLDMANN propone una sociologia della letteratura. Egli vuole rintracciare il legame tra letteratura
e società. Riferire i contenuti a una visione del mondo, o alla coscienza collettiva di un determinato gruppo
sociale (come farebbe Lukacs), risulta insufficiente se non addirittura fuorviante perchè la coscienza può
essere alienata e distorta. Con un uso del termine struttura molto più vicino a quello strutturalista che non a
quello marxista, Goldmann ipotizza che esista sempre una omologia tra la struttura mentale e culturale
indotta dalle forme della vita collettiva e la struttura del testo letterario. Queste strutture sono nello stesso
tempo formali e inconsce, è compito del critico e dell’interprete riscontrarle. Tra ‘800 e ‘900 Goldmann
rintraccia il passaggio a nuove fasi dello sviluppo sociale che si riverberano sulle strutture narrative.
Goldmann definisce il suo metodo strutturalismo genetico. Esso si basa sui due movimenti congiunti della
comprensione e della spiegazione. Mentre la comprensione rimane ancora al giudizio di fatto, spiegare
l’opera negli orizzonti della storia significa darne un giudizio di valore. Goldmann ritiene indispensabili
entrambi i livelli, e in ciò risiede il suo tentativo di sintesi tra marxismo e strutturalismo. Il primo livello, la
comprensione, è quello comunemente praticato dall’indagine strutturalista, il secondo, la spiegazione, è
quello più proprio delle correnti ispirate dal marxismo. Senonchè, la proposta goldmanniana da un lato non
scende nei particolari del testo rimanendo al rilevamento di strutture molto generali e generiche. Dall’altro
lato finisce per legare troppo strettamente le opere alla loro epoca facendo passare in secondo piano, nella
omologia obbligata tra società e letteratura, i caratteri discordanti e conflittuali.
Per ALTHUSSER la struttura è una rete di rapporti che attraversa tutti gli ambiti della realtà, che egli
definisce totalità complessa. Il suo sforzo è teso a liberare l’azione rivoluzionaria da tutti i valori
rassicuranti, in particolare egli attacca lo stalinismo per il suo generico umanesimo, che impediscono di fare i
conti con la realtà della lotta di classe. La teoria, in quanto attività di conoscenza scientifica, viene
nettamente opposta all’ideologia come soluzione immaginaria e illusoria. Althusser è convinto che anche il
testo letterario-artistico possa mantenere una propria carica critica che si situa al livello della strutturazione
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del testo. Più che ordinare gli elementi in classi diventa importante vedere i rapporti e i non rapporti interni
di forza tra gli elementi della struttura dell’opera.
Il problema dello specifico letterario in della Volpe
La più convincente teoria dello specifico artistico e letterario è venuta da GALVANO DELLA VOLPE
in particolare dalla Critica del gusto della Volpe sostiene che la conoscenza non può essere suddivisa in
un livello intuitivo e in un livello razionale, ma è un intreccio di sentimento e di logica. Perciò viene a cadere
la possibilità di assegnare alla letteratura il livello relativo all’intuizione, all’emozione immediata. La
specificità letteraria risiede nell’aspetto tecnico, nel modo con cui è organizzato il linguaggio poetico. Della
Volpe rovescia completamente l’impostazione dei formalisti: mentre quelli vedevano nel linguaggio un
mezzo unico adibito a fini diversi qui al contrario c’è l’identità del fine raggiunto con mezzi diversi. Della
Volpe elabora uno schema complesso: una tripartizione dove il linguaggio comune è confrontato con quello
della filosofia e della scienza. Della Volpe propone di distinguere, in base alla tecnica semantica, 3 tipi di
linguaggio che egli individua nei termini: equivoco, univoco e plurivoco. Il linguaggio comune è equivoco.
Il linguaggio scientifico e filosofico è univoco. Il linguaggio poetico è plurivoco o anche detto polisenso cioè
il testo poetico o letterario significa nel suo insieme. Non c’è contrapposizione per della Volpe tra discorso e
poesia. Sono due modi paralleli e paritari. Della Volpe ribalta la tradizionale ripartizione di forma e
contenuto attribuendo alle idee il livello formale e al materiale linguistico e immaginativo quello del
contenuto. Della Volpe è tra i teorici di ispirazione marxista, quello che ha maggiormente rivendicato il
carattere anche intellettuale dell’arte. Della Volpe ribatte che le figure retoriche e in particolare la metafora
non possono mai essere comprese correttamente se si fa a meno del nesso intellettuale su cui si fondano. La
chiave semantica della poesia che egli mette in opera prevede che gli effetti di suono, di musicalità e di ritmo
non venga conferito un senso indipendente ma soltanto un apporto ausiliario. Poiché della Volpe assegna alle
idee la responsabilità formale dell’opera, al critico toccherà di dare parere sulla validità delle idee e delle loro
forme; il che comporta la valutazione del grado di complessità e di organicità che le idee hanno raggiunto.
Ma nello stesso tempo del grado di incidenza storica attuale delle idee e della loro necessità storica.
Il lavoro dei segni
L’origine della semiotica moderna risale all’800 con CHARLES SANDERS PEIRCE al posto del
significante e significato propone segno, oggetto e interpretante.
Il nesso tra semiotica e marxismo verrà stretto più a fondo negli anni ‘60/’70, in Italia a opera di
FERRUCIO ROSSI-LANDI cose e parole sono prodotte insieme in quella realtà complessiva che egli
denomina riproduzione sociale che è l’insieme dei processi per mezzo dei quali una comunità o società
sopravvive, accrescendosi o almeno continuando ad esistere. Una volta articolato il ciclo produttivo nelle tre
fasi produzione-scambio-consumo l’intervento dei segni verbali si concentrerà nella fase di mezzo, nello
scambio. Affinché due oggetti materiali vengano scambiati è necessario che i due uomini che se li scambiano
si servano di sistemi segnici. Produzione e comunicazione, dunque, sono intrecciate e incastrate l’una
nell’altra. La comunicazione è vista dentro e addirittura al centro del meccanismo produttivo-riproduttivo.
Certo il lavoro linguistico non manca di provocare problemi. Se c’è una alienazione linguistica come
uscirne? Rossi-Landi risponde che nell’ideologia si aprono due strade alternativa: da un lato le ideologie
conservatrici che fanno perno su un valore ritenuto ancora da costruire. Egli sostiene che il realismo
corrisponde ai codici dominanti, è quel messaggio che il pubblico capisce ed accetta subito e facilmente
come proprio. Mentre per contro l’avanguardia indica quei messaggi dotati di un’esigenza di aumento della
quantità d’informazione e di rinnovamento comunicativo, implicando un rinnovamento sociale. Le azioni
compiute dai personaggi possono essere utilmente comparate con quei sistemi di segni non verbali che sono i
comportamenti. I comportamenti non sono retti da codici definiti ma da programmi. La letteratura spesso ha
il merito di portare a galla e rendere visibile la programmazione della comunicazione non verbale. La
valutazione dell’autore deve riguardare il suo grado di eccedenza. L’autore è produttore ma solo come
ingranaggio di una macchina più grande di lui anche nel senso (come in Benjamin) che produce novità e
consapevolezza. Il lavoro dei segni può anzi deve essere anche lavoro sui segni. L’analisi del profondo
L’indirizzo critico assume una nuova impostazione dopo l’avvento della psicoanalisi. I termini e i concetti
della psicoanalisi provengono dalle innovazioni introdotte da SIGMUND FREUD nel trattamento delle
malattie mentali alle soglie del ‘900. Freud affrontava i casi clinici non attribuendone le cause a disfunzioni
cerebrali, ma cercandone il motivo in accadimenti traumatici dell’esistenza trascorsa. Il medico doveva
vestire i panni dell’analista attraverso un minuzioso lavoro di interpretazione e di scavo delle espressioni
meno controllate, soprattutto i sogni e le libere associazioni.Freud portò avanti le ipotesi che andarono a
costituire l’apparato scientifico della psicoanalisi innanzitutto con la nozione di inconscio. La psicoanalisi
afferma che le ragioni del comportamento umano risiedono in piccola parte nella coscienza, mentre sono
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molto più forti i moventi inconsci. Freud descrive l’inconscio come il luogo delle pulsioni. Nell’inconscio
agiscono le forze aggressive e le energie vitali primarie.. la psicoanalisi è dunque un metodo interpretativo
che non accetta le apparenze immediate e non si stupisce di dover mettere in mora ciò che il parlante dice e
asserisce di voler dire. Alla triade coscienza-preconscio-inconscio si aggiunse una nuova terna formata da Io
(il serbatoio primario dell’energia psichica contenente le pulsioni ereditarie, innate e quelle rimosse), Es (è la
parte della psiche in contatto con l’esterno attraverso la percezione) e SuperIo (è solo in parte cosciente ed è
costituito da quei divieti che l’Io è stato costretto ad accettare e ad introiettare). Così dall’osservazione delle
devianze e delle anomalie la psicoanalisi giungeva a costruire una teoria dei processi costitutivi della psiche.
E poteva andare anche oltre applicando le proprie scoperte alle aree delle scienze umane, ivi compresa la
letteratura. La sorte della società moderna dipende per Freud dall’esito di grandi conflitti tra le istanze
profonde dell’uomo: da un lato tra principio del piacere e principio di realtà, dall’altro tra eros e pulsioni di
morte. Una certa attenzione alla letteratura è presente nella psicoanalisi fin dalle origini. Il punto di partenza
della ricerca freudiana era stato l’interpretazione dei sogni. Di fronte al racconto del sogno l’analista si
comporta come un critico letterario che cechi di ritrovare il senso al di là della lettera del testo.
La concezione dell’arte in Freud
Freud ha scritto che per la psicoanalisi i poeti sono alleati preziosi in quanto essi sanno in genere una
quantità di cose fra cielo e terra che il nostro sapere accademico neppure sospetta. Non c’è da stupirsi che
egli utilizzi accanto ai casi clinici anche le finzioni della letteratura o che si abbandoni a disgressioni nel
campo dell’arte. Per lui l’arte e la scrittura creativa si trovano in una posizione privilegiata quasi a metà
strada tra la coscienza e l’inconscio. Freud sottolinea che la tragedia greca su Edipo si incentra sul complesso
psichico dell’attrazione per la madre e dell’odio verso il padre,ma lo mostra secondo la cultura del tempo
come conseguenza ineluttabile della volontà esterna del destino. I sogni a cocchi aperti ci ricompensano dei
desideri che la realtà non è stata in grado di soddisfare. L’arte sarebbe un tipo speciale di fantasticheria che si
distingue per essere un atto di comunicazione, mentre la fantasticheria vera e propria è un’attività privata che
difficilmente si confessa. Allo scrittore dunque è concesso il privilegio di esporre pubblicamente senza
vergogna le proprie fantasticherie. Freud ha proceduto con grande cautela nel trasferire le scoperte della
psicologia del profondo al campo della letteratura e dell’arte. In particolare egli ritiene che su un punto la
psicoanalisi non possa dir nulla, cioè sul problema dell’origine dell’arte. Il dono meraviglioso che
contraddistingue l’artista rimane un enigma e la psicoanalisi non si intromette nella questione della
valutazione estetica. Lo spettatore condannato a un’esistenza piena di rinunce e di frustrazioni è portato a
identificarsi con l’eroe che vede sulla scena. La convinzione che il comportamento di un personaggio di
finzione possa essere analizzato alo stesso modo di quello di una persona e l’idea che il personaggio
protagonista risulti il portavoce diretto dell’autore, assegnatario dei problemi interiori di quello. Sebbene
Freud non abbia sottovalutato l’importanza dei materiali anonimi nella sua opera, è stato prevalente
l’interesse per la figura dell’autore, da raggiungere al di là dell’opera. Freud pur incoraggiando l’uso della
psicoanalisi al servizio della biografia era consapevole delle difficoltà di un’indagine condotta in assenza del
soggetto in esame e operante con documento non sicuri, parziali e lacunosi. L’analisi di Freud ci insegna a
indovinare cose segrete e nascoste in base a elementi poco apprezzati e inavvertiti dell’osservazione.
Psicoanalisi dell’autore, psicoanalisi del personaggio o psicoanalisi degli effetti
I continuatori di Freud guardarono molto di più ai materiali che non all’effetto. Sarà quindi il nesso
personaggio-autore o, semmai, il rapporto tra i motivi letterari e le strutture psichiche, a predominare nei
primi tentativi di critica letteraria ispirati alla psicoanalisi. Molti di questi tentativi furono affidati alle pagine
della rivista Imago nata nel 1912.
OTTO RANK ha dedicato al tema del doppio un saggio in cui si propone di spiegare le ripetute
apparizioni di un personaggio in tutto identico al protagonista, che lo sostituisce, lo perseguita e lo 28
conduce alla morte. Tutti i casi del doppio entrano a far parte secondo lui di una costellazione psichica
dominata dalla scissione dell’Io. Il tema del doppio è stato trattato da quasi tutti i romantici. Il saggio dà il
primo posto a Hoffmann (definito per eccellenza il poeta del doppio) e a Poe oltre che a Maupassant,
Dostoevskij e Oscar Wilde, prevalentemente autori della letteratura fantastica. Ma mentre Freud si adopera a
spiegare l’effetto sinistro di inquietudine o di terrore indotto da questi e altri simili racconti, Rank procede
invece a ritroso, dall’opera all’autore. La frequentazione del tema del doppio viene ricondotta alla psiche
degli autori. Ma questa propensione verso la psicoanalisi dell’autore non esaurisce il lavoro del critico, che
passa in un capitolo successivo ad analizzare le analogie del tema letterario con le produzioni del folklore.
Così arricchito di spessore, il tema letterario può essere messo in rapporto con un meccanismo psichico di
portata generale che travalica le epoche e i generi.
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GEORG GRODDECK sviluppa il tentativo di interpretare la produzione anonima e popolare sulla
base di un rinvenimento quasi ossessivo della simbologia sessuale.
MARIE BONAPARTE si distingue l suo lavoro sulla linea della psicoanalisi applicata alla biografia
su Edgard Allan Poe. La critica psicoanalitica si trova ad utilizzare l’opera in funzione della biografia e a
dare per scontata l’identificazione dell’eroe con l’autore.
ERNEST JONES ha puntato sulla psicoanalisi il suo saggio su Amleto. Jones svolse le sue riflessioni
seguendo l’indicazione freudiana dei rapporti sotterranei tra Amleto ed Edipo. Da un lato non manca la
biografia di Shakespeare. Jones applica il metodo comparativo mettendo in relazione la trama di Amleto con
i temi primordiali dei miti e delle leggende.
Nel secondo dopoguerra i critici mostrano una maggiore libertà d’azione rispetto ai canonici schemi
freudiani, ma in definitiva l’impostazione di fondo e i problemi affrontati restano gli stessi.
JEAN PAUL SARTRE propone una psicoanalisi esistenziale, un’indagine sull’individuo autore che
non sia solo rivolta alle cause riposte nel passato, ma si interroghi sulla scelta della posizione nel mondo che
il soggetto in questione ha compiuto, nella situazione in cui si è trovato, tra le tecniche e i ruoli, facendo i
conti con l’ideologia della sua classe. Sartre ricade nel modello della ricerca biografica: le opere sono
funzionalizzate alla ricostruzione della totalità dell’autore.
In Italia GIACOMO DEBENEDETTI anche se mantiene l’idea del personaggio come emissario
dell’autore, l’attenzione a certe configurazioni di immagini conduce in prossimità della critica tematica.
KATE MILLET critica femminista, devia dall’ortodossia psicoanalitica propendendo non verso
l’indagine eziologia ma verso la denuncia radicale dell’ideologia maschile.
BRUNO BETTELHAIM rappresenta il terzo ramo della critica ispirata alla psicoanalisi che
considera la questione degli effetti manifestato nello studio delle fiabe. Il testo della fiaba è quello più adatto
ai bisogni del piccolo lettore per esteriorizzare in modo controllabile i propri conflitti interiori e così lo aiuta
a strutturare la personalità. L’ipotesi di Bettelhaim che la rielaborazione immaginaria sia utile a ridurre la
dannosità del materiale inconscio e a fare in modo che parte delle sue energie servano a scopi positivi
potrebbe applicarsi in generale a tutta la finzione letteraria.
Nella rete delle immagini
Già nell’Interpretazione dei sogni Freud aveva notato la presenza di simboli cioè rappresentazioni inconsce.
Questo aspetto verrà approfondito da CARL GUSTAV JUNG egli collaborò con Freud per poi
staccarsene e fondare quella linea della ricerca che prenderà da lui il nome di junghiana. La deviazione di
Jung consiste proprio nella considerazione dell’inconscio collettivo, uno strato dell’inconscio più profondo di
quello individuale, un repertorio di immagini ancestrali presenti da sempre nell’uomo. Queste immagini
arcaiche e originarie sono denominate da Jung archetipi. Quanto ai problemi letterari,che Jung affronta nel
saggio Psicologia e poesia, la creazione artistica è considerata una delle migliori vie di accesso alla realtà
psichica soprattutto quando si tratti di creazione visionaria. Nell’ottica junghiana il grande poeta è colui che
riesce a superare la coscienza singola per far parlare gli archetipi, secondo l’esigenza psichica della
collettività. Da ciò discende un atteggiamento di disponibilità nei confronti dell’opera: lasciamo che l’opera
d’arte agisca su di noi come ha agito sul poeta. Per comprenderne il significato, bisogna lasciarsi plasmare da
lei come essa ha plasmato il poeta. Riemerge qui il modello platonico: l’effetto non va spiegato, ma ci si
deve abbandonare ad esso. La versione della psicoanalisi offerta da Jung ha molto stimolato lo studio
dell’immaginario collettivo.
GASTON BACHELARD secondo lui il regno della fantasia è diviso in 4 grandi ambiti che
corrispondono ai 4 elementi primordiali: fuoco, aria, acqua, terra. Ogni scrittore è portato a propendere nella
scelta dei propri temi e delle proprie metafore più verso l’uno o verso l’altro elemento. La ricerca
bachelardiana ha affrontato le fantasie sul rapporto tra l’uomo e la dimensione spaziale. Bachelard propone
di chiamare topo-analisi tale indagine sulle forme spaziali. Bachelard appare del tutto disposto a farsi
assorbire nel potere dell’immagine. A suo modo di vedere non bisogna ricondurre le immagini al passato ma
lasciarsi prendere dal loro scaturire e cioè dalla novità che esse mostrano al momento della lettura. Si può
capire, allora, il progressivo distacco di Bachelard dalla psicoanalisi. Ma non è solo contro la psicoanalisi che
va a parare il discorso bachelardiano. Esso sembra escludere in generale qualunque atteggiamento critico
esplicativo. Al critico letterario si sostituisce la figura del lettore appassionato che può cogliere l’espansione
immaginativa del testo grazie allo slancio della simpatia e dell’ammirazione.
JEAN-PIERRE RICHARD affronta particolarmente l’universo immaginario di ciascuno scrittore di
cui tratta, traendo dall’opera gli elementi base, il modo con cui vengono rese le reazioni, le forme o i colori
preferiti dalla fantasia dell’autore. Siamo però fuori della critica psicoanalitica propriamente detta perché
questi aspetti vanno a costituire l’insieme esistenziale dell’essere di uno scrittore e non l’inconscio.
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Il problema dell’immagine non era sfuggito alla critica psicoanalitica più ortodossa. Il miglior esempio di
psicocritica è di CHARLES MAURON in polemica con la critica tematica sostiene che non ci si può
limitare a inventariare le immagini ricorrenti di uno scrittore, ma bisogna ricondurle ai processi inconsci
corrispondenti. Non tutte le immagini usate da un autore abbiano uguale importanza: ve ne sono alcune che
tornano con tale insistenza da poter essere definite metafore ossessive. Per scoprire quali siano è necessaria
l’analisi del testo. Le parole e le immagini vengono raggruppate secondo le sfumature affettive. Se si
sovrappongono altri testi a quello di partenza si scopre che questa rete di associazioni è costante. Le reti da
lui individuate sono un’altra cosa rispetto alla tecnica letteraria di cui chi scrive può avere coscienza: sono in
comunicazione diretta con la realtà psichica inconscia. Con ulteriori passaggi, dalla rete delle immagini
vengono estratte le figure mitiche sulla quale le varie opere ritornano ossessivamente. È raggiunto così il
mito personale ovvero il fantasma più frequente in uno scrittore. Certo non prende per buoni i personaggi
immediatamente riconoscibili, ma li ricava dall’analisi delle immagini. Tuttavia alla fine i risultati
dell’analisi sono rapportati non alle istituzioni letterarie ma alle vicende biografiche dell’autore.
Psicoanalisi e struttura del linguaggio
Con le reti individuate da Mauron, la psicoanalisi si avvicina alle strutture linguistiche. E non poteva
mancare interscambio tra l’analisi del profondo e quella del linguaggio.
Il punto di massimo contatto tra psicoanalisi e strutturalismo viene raggiunto in Francia dalla teoria di
JACQUES LACAN egli identifica l’inconscio con il linguaggio. Ogni soggetto umano viene a
costituirsi con l’accesso al linguaggio. Il linguaggio non ci appartiene, lo troviamo già tutto costituito. Nella
teoria di Lacan l’inconscio è visto come linguaggio. Nelle manifestazioni dell’inconscio, quando ciò che
diciamo o facciamo appare come qualcosa di estraneo alla nostra coscienza, noi non lo riconosciamo per
nostro. Allora viene in evidenza questa voce impersonale, che Lacan definisce il discorso dell’Altro. Il
desiderio è visto come una catena di significanti in cerca di significato. Va notato però che l’importanza
attribuita al linguaggio non rafforza la certezza dell’analisi, anzi turba la posizione stessa dell’analista. La
teoria lacaniana è radicalmente pessimista: il soggetto nel suo accedere al linguaggio, si scinde
irreparabilmente e non può mai raggiungere un senso integro e definitivo. L’essere umano è sospinto dal
vuoto, dalla mancanza a essere. All’immaginario e al simbolico è associato un terzo termine: il reale. Ma il
reale non è la realtà, è qualcosa di irraggiungibile che può solo fare irruzione come perdita di senso. Le
ipotesi lacaniane possono essere applicate alle situazioni letterarie. In più hanno suscitato interpretazioni
riguardo ai giochi verbali sulle lettere o alle particolari dislocazioni dei significanti nel testo. Ma non solo:
l’idea del significante dominante o del grande Altro ha condotto anche verso la psicoanalisi della politica e la
reinterpretazione delle formazioni ideologiche dell’immaginario collettivo.
È soprattutto negli anni ’70 che si è svolto il tentativo di applicare la psicoanalisi ai livelli linguistici
dell’opera letteraria. Un ruolo importante è stato tenuto dal Gruppo attorno alla rivista TEL QUEL, ruolo
connesso anche alle realizzazioni testuali della scrittura.
JULIA KRISTEVA nelle sue proposte risulta chiaro il punto di distacco dallo strutturalismo.
L’individuazione del codice non è più sufficiente ma bisogna riuscire a vedere l’intero processo di
costituzione di ciò che ella chiama la significanza. Qui la psicoanalisi è d’aiuto. Si tratta infatti di guardare
al di sotto delle strutture per percepire gli spostamenti di energie pulsionali che attraversano la pratica del
linguaggio e possono arrivare a deformare e a sconvolgere la superficie dell’espressione rompendo la catena
significante e la struttura della significazione. La Kristeva distingue in un primo tempo tra feno-testo (indica
la superficie del livello codificato del linguaggio comunicativo) e geno-testo (indica la profondità delle fasi
dinamiche della produzione del testo). Adotterà in un secondo momento un’analoga opposizione tra
simbolico e semiotico dove il primo termine ricopre l’area del linguaggio organizzato e il secondo gli aspetti
in cui emerge la violenza delle cariche pulsionali. Gli aspetti linguistici che rendono leggibile l’istanza delle
pulsioni è il dispositivo fonematica e melodico del linguaggio poetico. Va precisato che la Kristeva allude a
fenomeni fonici e ritmici diversi da quelli della retorica e della metrica classica. Ella mette in relazione il
livello fonico-pulsionale con quello semantico-cosciente.
In questi esiti degli anni ’70 le scoperte della psicoanalisi sono utilizzate in senso rivoluzionario nella
contrapposizione diretta tra le pulsioni e la repressione sociale. Altrettanto il linguaggio poetico viene
anteposto al linguaggio comunicativo. Nella situazione culturale francese elementi di psicoanalisi entreranno
a far parte anche del bagaglio teorico del poststrutturalismo.
JEAN-FRANCOIS LYOTARD e GILLES DELEUZE reinterpretano l’inconscio in termini di zone
di tensioni, di campi di forze, insomma nel quadro di una meccanica delle pulsioni e degli investimenti
affettivi connessa alle grandi macchine sociali (le istituzioni, il potere,…). Lyotard di recente ha contribuito
alla diffusione della nozione di postmoderno. Deleuze ha trovato nei meccanismi testuali il riscontro
28
dell’inconscio concepito come macchina desiderate. Anch’egli con il rischio di un’estetizzazione del
marginale.
Il ritorno del represso in letteratura
FRANCESCO ORLANDO con la teoria freudiana della letteratura scarta gli scritti freudiani più
famosi. Il miglior ausilio per il critico è trovato nella ricerca sul motto di spirito: la parola arguta, la
barzelletta sono viste come esempio di comunicazione letteraria. Mentre il sogno o il lapsus sono
manifestazioni dell’inconscio che sfuggono alla nostra volontà, nella battuta spiritosa l’inconscio si
manifesta in una comunicazione linguistica intenzionalmente rivolta a qualcuno, analogamente a quanto
accade per le più reputate produzioni letterarie. Orlando sottolinea che Freud da un lato vede nel ricorso al
motto di spirito un modo per aggirare la censura ma dall’altro ritiene che la tecnica della battuta sia
inscindibile dai contenuti e comporti essa stessa un profitto di piacere. Queste indicazioni freudiane possono
essere estese a tutto il campo della letteratura. Mentre Freud parla di ritorno del rimosso, le pulsioni
censurate, Orlando preferisce parlare di ritorno del represso, allargando a comprendere le censure imposte
da forze sociali e storiche. Questo attacco alla repressione può avvenire in forme non solo inconsce ma anche
di consapevole e progettata rivendicazione. Orlando istituisce tutta una gradazione del ritorno del represso i
letteratura. Si va dall’assenza di consapevolezza, in cui il ritorno del represso è inconscio e quindi oscuro
all’autore stesso; al ritorno del represso conscio ma non accettato, quando l’autore lotta all’interno del
proprio testo contro i contenuti che vi emergono; al ritorno del represso accettato ma non propugnato, che
prevede il riconoscimento da parte della coscienza dell’autore fino ai casi di maggiore consapevolezza, che
sono quelli della cosiddetta letteratura impegnata: il ritorno del represso propugnato ma non autorizzato e
infine il ritorno del represso autorizzato proprio della contesa tra diverse posizioni culturali. Questa
suddivisione è per Orlando uno strumento operativo e non una griglia di classificazione delle opere. A
differenza della gran parte della critica psicoanalitica, Orlando lega strettamente l’emersione dei contenuti
alla considerazione della specifica tecnica della letteratura. La società consente allo scrittore la finzione e il
gioco con il linguaggio: è quindi possibile, secondo Orlando, applicare la formula del ritorno del represso
alla stessa forma del testo letterario definendolo il ritorno del represso formale. I vari giochi del testo sono
riconducibili nel loro insieme agli spostamenti del legame tra significante e significato sotto il termine usato
in retorica antica di figura. Se gli spostamenti e le deviazioni tra significanti e significati sono in eccesso, il
testo diventa completamente oscuro. È quello che accade in certe manifestazioni dell’inconscio come il
sogno. Orlando ritiene che ogni figura debba essere ricondotta a un principio di organizzazione generale
come strumento appropriato a esprimere determinati contenuti. Orlando ritiene che i significanti vadano
sempre visti quali portatori di significati. Il livello del contenuto e quello della forma ricevono pari
attenzione e risultano collegati fra loro. L’idea freudiana che il piacere prodotto dalla tecnica linguistica
renda accettabili certi contenuti non consentiti, viene così rielaborata e sviluppata. In Orlando la letteratura
come formazione di compromesso fa i conti soprattutto con i divieti formulati dalla società. La critica, allora,
recupera la prospettiva storica che andrebbe altrimenti perduta. La manifestazione linguistica di tipo
letterario è, secondo Orlando, l’esito di uno scontro di forze psichiche, che sono leggibili nel testo come
significati in contrasto.
La lettura come esperienza
La critica, in quanto offre le coordinate per avvicinarsi a un testo e capirlo, ha sempre di mira la lettura.
La lettura sta sempre a valle (come finalità della critica) ma anche a monte: il critico non è altro che un
lettore come tutti gli altri, ma in più propone la sua interpretazione ed esperienza. E’un rapporto “a due” nel
quale il testo non ha la possibilità di controbattere, per cui il critico-lettore ha tutta la responsabilità di quanto
accade.
Il critico è al servizio dell’autore, ma più che altro è un servo-padrone.
I nodi legati alla lettura di un testo sono tuttora dibattiti aperti e lo scetticismo accompagna ogni critica che è
dichiaratamente soggettiva. Ma come difendere i diritti di un testo dalla libertà del suo interprete? In cosa il
critico si differenzia da un lettore comune? Cosa lo autorizza a rendere pubblica la sua esperienza? Dal punto
di vista storico, come si ricostruisce il mutare dell’orizzonte nella ricezione del testo? All’interno del testo
poi, com’è l’atteggiamento del lettore? Si impadronisce del testo per intenderlo a suo piacere o si lascia
condizionare e quindi percorre il sentiero previsto che è implicito nel testo? Intorno a questi nodi si è svolto
dunque il dibattito sulla critica nella seconda metà del Novecento. Gli sviluppi novecenteschi hanno tratto il
loro fondamento teorico soprattutto nelle “filosofie della vita”: la fenomenologia di Edmund Husserl
(1859-1938) e l’esistenzialismo di Martin Heidegger.
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Da Husserl e dal suo metodo di apertura ai fenomeni e al mondo della vita, la critica di indirizzo
fenomenologico ha ripreso l’atteggiamento di continua interrogazione tra il ricercatore e “la cosa”.
Da Heidegger e dalla sua concezione dell’esistenza come “comprensione” dell’essere-nel-mondo è sorto il
ritorno all’ermeneutica (è l’arte di intendere e interpretare i testi e i documenti antichi).
L’attenzione sul momento della lettura si è diffusa in varie forme. Secondo il saggista belga GEORGES
POULET la lettura deve essere l’incontro di due coscienze: se l’essenza dell’opera è la coscienza
soggettiva che si manifesta in essa, allora la “coscienza critica” deve prestarsi a ospitare questa coscienza
altrui. La lettura consiste per Poulet nel cedere il posto a un altro essere, per poterlo comprendere
intuitivamente.
Diversa angolatura per l’italiano LUCIANO ANCESCHI la sua critica e la sua ricerca, di ispirazione
fenomenologia, puntano a riconoscere le particolarità dei fenomeni, ma anche a individuare le linee portanti
di una data situazione (le “direzioni vettoriali” o le “istituzioni”).
Il caso Blanchot
Nel clima letterario prodotto dall’esistenzialismo un posto a parte merita il critico francese MAURICE
BLANCHOT considera la letteratura “assurda” e “paradossale”. Lo “spazio letterario”, appunto per
essere tale, dovrebbe portare chi gli si avvicina all’esperienza limite della perdita di se stesso. Flaubert,
Mallarmè, Kafka, Rilke, Proust vengono letti in questa chiave come coloro che aprono l’accesso a un’
“alterità negativa” (uso di termini quali “morte”, “notte”, “abisso”, “oscuro”). Partendo dalla constatazione
che per scrivere bisogna essere soli, Blanchot sviluppa all’estremo il rapporto della parola letteraria con la
solitudine e col silenzio. Ma la solitudine e il silenzio sono in contrasto, appunto, con la parola. Perciò, si
interroga Blanchot, “come è possibile la letteratura?”. La letteratura poggia dunque su una paradossale
ambiguità che va intesa come compresenza di significato e assenza di significato. L’opera rappresenta
dunque un conflitto interno fra il vuoto dell’angoscia e il tentativo di comunicare. Ma, mentre l’autore, spinto
dal vuoto, non può che continuare a scrivere, l’opera, una volta compiuta si distacca dal suo autore per finire
nelle mani del lettore, che libera definitivamente l’opera dal suo autore. L’ingresso nello “spazio letterario”
comporta per il lettore il rischio della perdita delle proprie certezze, l’opera è dunque il luogo della perdita
delle sicurezze del suo lettore. Il lettore è chiamato a “partecipare” all’opera ma l’opera, in quanto
manifestazione del vuoto, lo tiene a distanza. La lettura si gioca quindi tra fascinazione ed estraneità. Il
giusto modo di leggere deve accettare questo gioco: sarà più vicino all’opera colui che “mantiene integra” la
distanza e “la riconosce opera senza di lui”. Questo è, per Blanchot, il metodo della “discrezione”. L’opera è
quindi, secondo lui, inattaccabile dalle interpretazioni: la critica è un tramite non solo inutile, ma anche
dannoso quando si frappone fra l’opera e il lettore dettandogli le norme dell’approccio al testo. Il giudizio del
critico sarebbe anche colpevole di coprire il vuoto costitutivo della letteratura, di spostarne lo spazio
paragonando l’opera a qualcosa d’altro, fosse la morale o le regole di estetica, violando quell’”ambiguità
essenziale”. Per assurdo l’opera “più è apprezzata, più è in pericolo”. Se invece messa da parte e dimenticata
l’opera può preservarsi intatta da strumentalizzazioni. Ma è naturalmente un paradosso perché Blanchot è un
critico e lavora per promuovere i suoi autori prediletti, quindi non può non ammettere che esiste un compito
positivo della critica, a patto che questa lasci alla profondità dell’opera la possibilità di manifestarsi.
Il dibattito sull’ermeneutica. Ripresa nell’Ottocento, è soprattutto nel Novecento che l’ermeneutica (l’arte
di intendere e interpretare testi e documenti antichi), con la filosofia esistenzialista di HEIDEGGER,
assurge a modello generale.
Heidegger vede un aspetto ermeneutico (interpretativo) nella situazione dell’uomo “gettato” nel mondo:
l’agire in una determinata situazione necessita prima di una “comprensione” della situazione stessa; questa
comprensione globale viene prima di ogni analisi dei particolari. Il “circolo ermeneutico” (da una visione del
tutto si procede verso l’individuazione dei particolari per poi tornare al tutto) è caratteristico di ogni
esperienza umana.
Su questa linea tracciata da Heidegger si è mosso un altro pensatore tedesco, HANS GADAMER . Per
Gadamer, la comprensione di qualsiasi messaggio parte da un “pregiudizio”: noi ci accostiamo a un testo
avendo già idea di quello che troveremo. Per Gadamer il pregiudizio non nasce da un’esperienza soggettiva
ma dipende da un sostrato culturale comune a tutti. L’interprete (un esperto) ha il compito di mediare il
rapporto tra l’opera del passato e i lettori di oggi. Il lavoro dell’esperto illustra ciò che il testo voleva dire
tanto quanto un attore o un musicista “attualizzano” un testo teatrale o uno spartito. Per Gadamer il dovere
del critico è dunque quello di consentire alla parola di superare il divario storico e di parlare ancora. Ma la
ricostruzione storica (il senso “originario” rispetto ai lettori del suo tempo) è semplicemente impossibile; il
critico deve però permettere un adattamento all’orizzonte attuale e contemporaneo, una “fusione d’orizzonti”
che vede l’interpretazione come un “dialogo” fra passato e presente. In “Verità e metodo” (1960), la sua
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opera più importante, se l’interpretazione deve assomigliare all’apertura di un dialogo con il testo, le regole
prefissate di un qualsiasi metodo applicato sarebbero disturbanti. L’interpretazione deve assolvere il suo
compito di interpretazione nel modo meno appariscente possibile: “paradossalmente un’interpretazione è
giusta proprio quando è capace di scomparire”. Per Gadamer il giudizio estetico (l’opera è bella o brutta) è
secondario, infatti la coscienza estetica viene chiamata a intervenire solo in un secondo momento.
Il grande successo delle sue tesi, soprattutto negli anni ottanta, si spiega proprio come reazione all’egemonia
delle tesi degli anni sessanta/settanta (marxismo e strutturalismo).
Dunque l’ermeneutica, con la sua intima unità di comprendere e interpretare, riduce il peso della critica e ne
limita di molto gli strumenti. Ma non è mancato anche un animato dibattito che si è snodato su 3 punti:
1) Un primo problema è quello dell’attualizzazione del testo. Se l’ermeneutica è “l’arte di far parlare di
nuovo qualche cosa”, essa adatta e traduce il senso alla situazione attuale dell’interprete. Noi uomini del
presente cerchiamo di entrare in dialogo con ciò che è stato scritto nel passato intendendolo non nel suo
senso originario ma, mediato dalla tradizione, come se si stesse rivolgendo a noi in questo momento. Questo
sradicamento delle intenzioni dell’autore ha suscitato le obiezioni di ERIC HIRSCH. Contro la continua
variabilità dell’interpretazione, Hirsch pone l’esigenza di riconoscere ogni volta, quale interpretazione sia più
valida; l’unico criterio è, a suo parere, il ricorso al significato “originario” che l’autore ha inteso trasmettere
nella situazione “originaria”. Gadamer sostiene invece che ormai che questo significato è andato
definitivamente perduto; dal canto suo, Hirsch non dice che questo sia possibile ma deve essere almeno
l’obiettivo al quale approssimarsi. Hirsch porta poi ad esempio negativo l’interpretazione dell’Amleto da
parte di Freud. Freud legge l’Amleto in base al “complesso di Edipo” attribuendo al protagonista un
desiderio inconscio nei confronti della madre; ma questo è sicuramente un tipo di significato estraneo alla
cultura di Shakespeare e perciò l’interpretazione freudiana deve essere rifiutata. Dunque per Hirsch la sola
comprensione non esaurisce l’interpretazione.
2) Sul nodo problematico del rapporto tra comprensione e spiegazione è intervenuto anche il francese PAUL
RICOEUR ha tentato di accostare ermeneutica e strutturalismo. Sostiene che la spiegazione del testo
non può essere considerato un momento secondario e una semplice esposizione di quanto si è compreso. Il
punto di partenza di questo recupero delle procedure esplicative sta nella concezione del simbolo. Il simbolo,
in quanto contiene molti sensi nascosti, fa appello all’interpretazione, ma il dischiudersi dell’inesauribile
ricchezza di senso propria del simbolo dovrà passare, secondo Ricoeur, attraverso l’identificazione delle
forme codificate rispetto alle quali il simbolo stesso esorbita. In questa prospettiva, l’analisi strutturalista non
è più una concorrente dell’ermeneutica, ma dovrebbe diventare un’utile tappa nel cammino verso il senso.
Tuttavia è l’ermeneutica a prevalere: per Ricoeur come per Gadamer, il linguaggio non è un “oggetto” ma
una “mediazione”, il che vuol dire che coglieremo il senso solo dalla visuale “chiusa” dei codici, a quella
“aperta” del concreto atto di linguaggio.
3) JURGEN HABERMAS (Scuola di Francoforte) intrecciando un confronto con le posizioni
ermeneutiche di Gadamer, dissente da esse sull’accettabilità della tradizione: i valori della tradizione non
devono essere presi per buoni solo perché hanno avuto la forza di giungere fino a noi. Habermas non dà per
scontata la validità dell’autorità sancita dalla tradizione. Il contenzioso riguarda anche la questione del
“pregiudizio” che, secondo l’ermeneutica, non può essere eliminato (Gadamer propende per i pregiudizi che
ci uniscono perché “del senso comune”). Per Habermas i pregiudizi legittimati dalla tradizione disconoscono
la forza della riflessione. Per Habermas la lettura deve essere quindi riflessiva.
Il dibattito non è chiuso: Gadamer ha risposto alle obiezioni di Habermas affermando che il riconoscimento
dell’autorità non è necessariamente qualcosa di costrittivo e opprimente. Questa discussione, tuttora aperta, è
una delle più interessanti e ha fatto nascere decisive questioni di fondo: accettare la tradizione in blocco
anche nelle gerarchie, o tradizioni non conformiste e alternative penalizzate dalla storia dei “vincitori”?
Dal poststrutturalismo alla decostruzione
Le nuove strategie di lettura si sono sviluppate in seguito alla crisi dello strutturalismo: la pretesa scientifica
di considerare il testo come un oggetto da analizzare ha sviluppato, per reazione, la sfiducia nella possibilità
di segnare con certezza i suoi limiti.
Il poststrutturalismo vede nell’idea di un testo “chiuso” e nell’attribuzione di un senso un atteggiamento
riprovevole: la prevaricazione della ragione tende a escludere tutto ciò che cade fuori dai codici
razionalizzabili. Il discorso qui eccede dalla critica letteraria. I due massimi esponenti del poststrutturalismo
sono infatti un epistemologo, MICHEL FOUCAULT e un filosofo, JACQUES DERRIDA. Tuttavia per la
formulazione delle loro teorie ricorrono alla letteratura intesa come linguaggio non strettamente razionale.
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Gli “eventi discorsivi”, secondo Foucault, non vanno ricondotti alle astratte regole da cui discendono in
quanto esecuzione di un codice immutabile; agli enunciati va restituita la loro singolarità. Gli enunciati
devono essere utilizzati come documenti, reperti archeologici, da cui individuare le pratiche sociali e
culturali di una storia.
Dal canto suo Derrida ritiene che lo strutturalismo abbia guardato soltanto la “forma” e non la “forza”
presente sotto le strutture. Se la profondità è irraggiungibile bisogna attenersi alle sconnessioni, alle crepe,
alle incongruenze. Il punto d’appoggio è l’equivocità del linguaggio: tutto può essere interpretato in modi
diverso e persino al contrario. Il senso di un testo non potrà mai essere definito quindi una volta per tutte. Il
testo è “aperto”, anche altri testi possono innestarsi in esso.
Il testo viene “decostruito”, ossia viene smembrato, per mostrarne l’intima disfunzione, mettendo alcune
parti contro altre e sviluppando le conseguenze di questa “doppiezza”. La brillante intelligenza di Derrida
sfocia spesso nel gioco di parole. Particolare attenzione è stata dedicata ai percorsi di “mislettura”, cioè i
fraintendimenti a cui il testo va inevitabilmente incontro durante la sua fruizione. Il “derradaismo” arriva
fino oltreoceano diffondendo una tendenza “decostruzionista”.
PAUL DE MAN belga trasferitosi negli USA, giunge perfino a formulare la “teoria del
fraintendimento”. Muovendo dalla considerazione del doppio livello del senso, letterale e figurato, de Man
vede questo “doppio senso” non come arricchimento dei significati ma come un conflitto, una reciproca
negazione; i livelli del testo non collaborano fra di loro ma si smentiscono reciprocamente ed è “impossibile
determinare quale dei due prevalga sull’altro poiché non esiste l’uno senza l’altro”. Questo scetticismo di
fondo conduce dubitare che l’interpretazione possa mai chiudersi sul raggiungimento di una verità. Ciò non
comporta, tuttavia, l’abbandono dell’attività critica e neppure l’assoluta libertà dell’interprete nei confronti
del testo.
Il relativismo delle interpretazioni
Anche il critico più convinto della qualità delle proprie ipotesi sa bene che in futuro nuove prospettive
metteranno in luce aspetti del testo che oggi non si è in grado di percepire. Un criterio di validità assoluto e
permanente non esiste.
Nel dibattito in corso negli Stati Uniti, la teoria per cui ogni lettura è una “mislettura” sembra annullare la
differenza fra i fraintendimenti (che comunque si appoggiano al testo) e le invenzioni di pura fantasia. Se
alcuni critici pongono quindi come fondamento che l’interprete è obbligato a non falsificare, altri assumono
posizioni opposte. STANLEY FISH ritiene che tutto sia “relativo” al punto di vista dell’osservatore.
E’ il lettore che, sulla base dei propri modelli acquisiti, scorge in una serie di segni il testo letterario. Fish nel
suo relativismo preferisce sostituire al verbo “leggere” il verbo “scrivere”: è il lettore che scrive il testo. “C’è
un testo in questa classe?” è il titolo del suo libro più noto e “no”, risponde Fish, “un solo testo non esiste
perché ogni lettore mette in atto modelli interpretativi differenti”. Non si possono quindi redimere
controversie sulle interpretazioni in quanto anche le caratteristiche “oggettive” in realtà sono già effetti della
particolare angolatura adottata.
La posizione di Fish può essere assegnata al pragmatismo: il significato (o la verità) di un testo esiste solo
all’interno della situazione che si viene a creare nella lettura. A differenza del decostruzionismo, che vede
nella lettura un messaggio costitutivamente ambiguo, Fish sostiene che il significato è sempre unico, ma è
esattamente quel significato che il metodo da noi scelto ci consente di ottenere. Secondo Fish è impossibile
redimere le controversie delle interpretazioni anche ricorrendo alla “lettera” del testo: non esiste un
significato “letterale”.
Ma allora il numero di interpretazioni è infinito? No, risponde Fish poiché nessuno inventa il proprio metodo
interpretativo. Ognuno sceglie e si orienta fra i metodi già inventati da altri, aderendo a una “comunità
interpretativa”. Niente però ci garantisce che le interpretazioni che apparirebbero oggi assurde possano
domani risultare plausibili: basta che riescano a persuadere e ad avere successo per creare una nuova
“comunità interpretativa”.
La teoria della ricezione e il lettore nel testo
La scelta metodologica nota come “Teoria della ricezione”, sorta in Germania presso l’università di Costanza
(da cui il nome Scuola di Costanza), mette a fuoco il momento della lettura non per “relativizzare”
l’interpretazione, ma per vederne la base nell’attività dei soggetti che leggono. La Scuola di Costanza trova i
suoi principali esponenti in HANS JAUSS e WOLFANG ISER.
JAUSS rintracciava la crisi della storia letteraria nella mancata considerazione della prospettiva dei
lettori e notava come gi stessi metodi della critica marxista e formalista tardassero a rendersi conto
dell’importanza della “ricezione” e dell’ “efficacia” dell’opera. Guardando unicamente alla ricezione ci si
limiterebbe alla registrazione della fortuna di un opera o di un autore, secondo i gusti del pubblico.
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L’efficacia invece vuole evidenziare l’impatto dell’opera sul pubblico anche a dispetto dei gusti vigenti. Per
calcolare l’efficacia Jauss inserisce la nozione di “orizzonte d’attesa”. Il rapporto fra opera è lettore è infatti
condizionato da ciò che il lettore si aspetta, sulla base delle opere del passato e dei generi letterari. E’ dunque
possibile che tra “ricezione” ed “efficacia” ci sia disparità o, che proprio il valore innovativo di un’opera
condizioni negativamente la sua accoglienza. Contraddicendo la concezione di Gadamer per cui classica è
quell’opera che da sempre è in grado di rendersi comprensibile al lettore, Jauss fa notare che spesso quelli
che oggi appaiono come classici indiscutibili hanno avuto difficoltà ad affermarsi, a causa della delusione
delle attese dei contemporanei.
Jauss finisce per modificare nel tempo le proprie concezioni, lasciando più spazio all’estetica, cioè alla
“godibilità” dell’opera. In polemica con Adorno, l’ “esperienza estetica” viene rilanciata in quanto
liberazione dell’uomo dai propri vincoli quotidiani. Recentemente si è rifatto all’ermeneutica, articolando la
lettura de testo in tre stadi: il primo livello, di “comprensione estetica”, costituirebbe la percezione del testo;
il secondo livello prevede la riflessione in cui si torna all’intero componimento per un’interpretazione
globale; il terzo livello corrisponde allo studio della ricezione sopra illustrato. Attraverso questa articolazione
in livelli, Jauss ha conferito spessore alla sua teoria.
L’altra importante direzione della Scuola di Costanza è stata seguita da ISER. Più che “ricezione”, Iser
preferisce parlare di “risposta”: il testo fornisce gli stimoli a cui il lettore è chiamato a rispondere. Il fatto
letterario possiede due polarità: quello “artistico” e quello “estetico”. L’opera occupa lo spazio intermedio e
il significato deriva dall’interazione fra testo e lettore. Il testo presenta margini di “indeterminatezza” che
vengono colmati dal lettore, il quale partecipa alla formazione del senso portando le proprie esperienze.
L’opera suscita nella fantasia del lettore immagini mentali che integrano il testo. Nessuna descrizione è mai
talmente dettagliata da non consentire l’intervento della nostra immaginazione.
Iser considera importanti anche le strategie che il testo dispiega lungo l’asse temporale. Ogni frase, a causa
della sua indeterminatezza, genera delle aspettative. Una completa saturazione delle aspettative è poco
probabile e soprattutto farebbe cadere l’interesse del lettore. Perché ci sia “coinvolgimento”, secondo Iser, è
necessario che le nostre aspettative non ottengano piena soddisfazione. I critici, di fatto, “non fanno altro che
cercare di tradurre il loro coinvolgimento in un linguaggio referenziale”.
Anche l’italiano Umberto Eco ha analizzato la “cooperazione” del lettore. Secondo Eco il lettore è nel testo,
nel senso che il testo prevede già in partenza il suo ruolo e il suo apporto partecipativo. Elaborata in
contemporanea con quella di Iser, la teoria di Eco sembra lasciare minori spazi alla fantasia del lettore:
mentre Iser parla di “lettore implicito”, Eco crea il ruolo del “lettore modello”, quel lettore previsto dal testo
per la realizzazione dei suoi effetti. Delle competenze del “lettore modello” si suppone faccia parte anche un
bagaglio di “sceneggiature”, ossia quelle sequenze canoniche che possiamo prevedere come sviluppi
probabili di determinate situazioni (Es: se in una comica compare una torta per noi è presumibile che verrà
tirata in faccia a uno dei personaggi).
Secondo Eco, l’interpretazione di un testo consiste proprio nel mettersi nei panni del “lettore modello”,
nell’accettare di giocare il gioco predisposto dal testo.
Bachtin e la letteratura pluridiscorsiva
Tra i critici al confine delle grandi correnti del Novecento, una delle figure principali è MICHAIL
BACHTIN la sua posizione non allineata né al formalismo, né alla critica marxista dominante nella
cultura sovietica gli costò una dura emarginazione. Il punto di partenza di Bachtin è la concezione del
linguaggio come “dialogo”. Qualsiasi parola, secondo Bachtin, è dialogica: più che esprimere l’interiorità del
parlante, è diretta a raggiungere l’interlocutore e viene quindi impostata per questo scopo. Perciò l’analisi di
un testo basata solo su elementi linguistici è considerata da Bachtin come un esame parziale. Bisogna capire
rispetto a quali discorsi (letterari e non) il testo intende intervenire ed assumere posizione. Bachtin preferisce
parlare di “senso” piuttosto che di “significato”. Qui sta la sua distanza dal formalismo, che ritaglia
procedimenti verbali staccati dal senso complessivo e non riflette fino in fondo il loro coordinamento interno
all’opera, né la relazione con le lingue “sociali”. Il linguaggio invece deve essere collegato con la società e
con la storia (sotto questo aspetto Bachtin si avvicina molto al materialismo storico). Ancora contro il
formalismo, la sua opinione è che nessun testo sia mai autonomo e autosufficiente: non solo ogni parola è già
stata detta da altri, ma ogni “enunciazione” interviene in discorsi che pre-esistono. Da ciò si deduce che il
testo deve essere considerato come l’anello di un a catena e dunque va collocato nell’avvicendarsi della
tradizione, variegata e composita. La tradizione non è costituita soltanto da testi: Bachtin sottolinea
l’importanza dei “generi”, cioè delle “forme tipiche” che si vengono accumulando nel tempo. Nella sua
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ottica i “generi” costituiscono una ricca molteplicità di vie possibili . Non parla solo di “generi letterari”, ma
di “generi di discorso”: i generi della “grande letteratura” coesistono con la lingua “colloquiale”,
“burocratica”, “oratoria”, “giornalistica”, ecc. I confini tra i generi devono consentire scambi e interferenze.
Non sono codici fissi ma principi organizzativi elastici e plasmabili. Nei “generi” circolano anche altre
caratterizzazioni che determinano l’appartenenza dei parlanti dei parlanti ai ceti professionali e sociali. Nella
prospettiva di Bachtin la “pluridiscorsività della lingua” è un valore: il testo può chiudersi nel
“monolinguismo” di u unico stile o aprirsi al “plurilinguismo”, alla concretezza della “parola viva”. Questa
seconda ipotesi è appannaggio del romanzo, per lui l’unico genere ancora “giovane e in divenire”. Poiché il
romanzo contiene in sé tutte le “voci” (del narratore e di tutti i personaggi diversi), contiene anche tutti i
“generi” di discorso orale (conversazione, oratoria,…) o di scrittura (documenti, lettere, memorie,…). Per
Bachtin “il romanzo è l’unione degli stili; la lingua del romanzo è il sistema delle lingue”. Questa sua idea
del romanzo trova la massima concretizzazione nel suo studio su Dostoevskij, visto come il culmine del
romanzo “polifonico”; egli ha saputo dare la parola, attraverso i suoi personaggi, a una grande quantità di
linguaggi e di punti di vista facendoli interagire fra loro.
Nei suoi studi ha posto particolare attenzione nel ricostruire la cultura popolare espressa nel carnevale e nelle
manifestazioni folkloristiche, analizzando il “sentimento carnevalesco del mondo” che si sviluppa
parallelamente e contro la cultura “ufficiale”. I caratteri della tradizione carnevalesca (ribaltamento comico
dei rapporti gerarchico-sociali, la mescolanza e il contatto familiare, il superamento dei contrari) penetrano
nella letteratura “dal basso” attraverso i generi minori quali la satira, il comico, il grottesco. Il vero epicentro
del “riso generale” è però l’autore francese rinascimentale Rabelais, l’altro autore a cui Bachtin ha dedicato
una copiosa ricerca.
L’approccio “mitico” di Frye
Lo studio del canadese FRYE è volto ad attenuare le divisioni metodologiche: il critico non deve
restare confinato in un unico metodo. Frye si rivolge all’indietro, alle radici del fenomeno letterario; non si
interroga sugli effetti (sulla riuscita) ma piuttosto sulle cause. Frye ricerca la “causa formale”, ossia quelle
forme elementari che le opere, di epoca in epoca, continuano a utilizzare e a riadattare. Frye denomina queste
forme elementari “archetipi”, derivato dalla psicanalisi di Jung. Questo tipo di critica assume il nome di
“critica archetipica”. L’archetipo per Frye è un’immagine tipica o ricorrente che si può riscontrare in diverse
opere e che può servire a collegarle fra di loro. Gli archetipi si collegano non solo alle immagini ma anche
alle azioni che si ripetono sempre uguali. Il mito per Frye disegna l’archetipo a livello dell’organizzazione
del testo. Anche la produzione moderna è legata al mito (Moby Dick di Melville), una storia moderna di
caccia alla balena che può essere fatta confluire nella nostra esperienza immaginativa di mostri e draghi. Solo
il contenuto delle opere muta, ma la forma (il modello mitico) rimane identica.
La convergenza di Frye con la tendenza metodologica del formalismo e dello strutturalismo non si ritrova
solo nella concezione della solidità delle forme ma anche nell’atteggiamento da assumere davanti al testo:
anche Frye rifiuta i attenersi alle immediate reazioni del gusto e crede, invece, nella “presa di distanza”.
Come per un quadro, anche nella poesia è necessario fare un passo indietro per vedere le forme archetipiche
che dischiude. Per dare ordine alla molteplicità delle forme Frye ricorre alle “radici rituali” della letteratura.
Come religione e folklore sono caratterizzati da dalle scadenze cicliche delle stagioni, così Frye suddivide i
miti in una quadripartizione che corrisponde al ciclo stagionale. Nell’ambito letterario: la rinascita
primaverile della natura è la commedia; al rigoglio e alla maturazione dell’estate corrisponde il romance (il
romanzo d’avventura); l’autunno coincide con la tragedia; il rigore dell’inverno trova il corrispettivo nelle
“forme negative” della satira e dell’ironia, dove il riso demolisce e segna la definitiva scomparsa dell’eroico.
Qui si delineano le differenze fra della teoria dei generi di Frye e quella di Bachtin.
Mentre Bachtin sottolinea la storicità delle forme e la rivalità delle linee fino al rovesciamento della
superiorità gerarchica di un genere sull’altro, Frye adotta un modello ciclico in cui la vita dei generi è
sostanzialmente extrastorica. Per ciascun genere è prevista un’evoluzione interna, ma secondo un arco
“naturale” di crescita destinata alla crisi e al tramonto.
Il modello della teorizzazione di Frye rimane la Poetica di Aristotele, sia pur attualizzata mediante la
psicanalisi junghiana. Frye afferma che “l’attenzione della lettura si muove contemporaneamente in due
direzioni”: l’una “centrifuga” che va verso le cose esterne, l’altra “centripeta” da cui cerchiamo di sviluppare
alle parole il senso. Dalla prima direzione emergono le descrizioni e le informazioni, dalle seconda direzione
le parole assumono significato per i rapporti che intrattengono nel contesto.
In merito al problema dell’interpretazione, Frye ritiene che debba seguire un cammino progressivo, passando
dal significato “letterale”, all’imagery (il complesso delle immagini di un testo) e da questa all’ “archetipo”
presente nella tradizione letteraria per giungere interrogarsi sul “centro ordinatore” degli elementi archetipici.
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Secondo Frye, la grande letteratura è quella che ripropone di riassumere in sé le diverse facce del mito. Per
Frye sono quindi scritture “totalizzanti” la Divina Commedia di Dante o il Paradiso perduto di Milton o la
Bibbia, il “mito centrale della cultura occidentale”.
La “relazione critica” in Starobinski
Come per Frye, anche STAROBINSKI incentra il discorso su una unità immaginativa (“tema” o
“simbolo”) che permette di costeggiare linguistica e psicanalisi. Secondo Starobinski “non basta inventare” i
temi che rientrano nell’immaginario di un autore, bisogna interrogarsi su quale “tema” abbia più rilevanza.
Questa ricerca del tema più insistente accomuna Starobinski alla critica psicanalitica. Il critico è convinto che
soltanto dall’esame dell’opera, e non e non solo dalle esperienze passate dell’autore, possa dispiegarsi “sotto
lo sguardo dell’osservatore perspicace” una grande “ricchezza di significati”.
Uno dei temi su cui il critico si è particolarmente impegnato è quello del clown, non un tema singolo ma
piuttosto una costellazione tematica: dal saltimbanco alla ballerina, dagli acrobati agli altri personaggi del
circo. Da quanto è emerso dai suoi studi il clown non è un semplice argomento da trattare, gli autori vi si
identificherebbero al punto da scorgervi il proprio ritratto e di vedervi rispecchiata la propria condizione in
un’epoca in cui la società conferisce loro sempre meno prestigio. Il suo studio perviene alla scoperta di un
archetipo più antico: il clown tragico, quello deriso e umiliato, il “doppio emblematico del Cristo”, la
“vittima innocente”.
Il clown è assolutizzato da Starobinski come portatore di assurdità pura e della totale assenza di significato
che, potendo essere riempita in qualunque modo, costituisce un modello di completa libertà (o anarchia).
Sul dilemma fra “oggettivismo” e “soggettivismo” Starobinski argomenta che c’è sempre una
“interdipendenza tra l’interpretazione dell’oggetto e l’interpretazione di sé”, per cui il critico, parlando di un
libro, parla anche inevitabilmente della propria posizione. Perfino colui che assumesse la massima
imparzialità “oggettiva” interverrebbe pur sempre in maniera “soggettiva”.
La difesa del canone e del valore dei classici
Il critico è un superlettore un uberleser, sostanzialmente diverso da un qualunque lettore per il piccolo
particolare di essere provvisto di una sensibilità senza pari che gli consente di entrare nell’autore, di rivivere
la sua esistenza e per tal via far partecipare gli altri al mistero glorioso della creazione. Anche grazie a una
speciale capacità espositiva: non c’è Grande Critico che non sia anche Grande Scrittore. Poiché uno dei
problemi del mondo dominato dal consumo è il suo eterno presente e quindi la perdita della memoria storica,
lo studio della letteratura tende al recupero del passato. Paradossalmente, mentre i laudatori dell’attualità, nel
cosiddetto postmodernismo, dichiarano l’impossibilità del nuovo e la fine della storia, l’idea del progresso
sembra inevitabilmente costretta ad atteggiamenti conservatrici, di difesa e tutela, addirittura di pietas. Ora, il
salvataggio dei classici consiste nel dare loro ancora la parola. Si apre qui la direzione di una critica come
dialogo che vuole recepire quanto il testo ha ancora da dirci. Il discorso critico deve rispettare il testo, il testo
che il tempo ha impregnato di significato, è circondato da un’aura sacrale. Tanto che non lo si chiamerà più
testo ma opera. Parlare di opera vuol dire connotarla da subito con un valore d’alto livello.
GEORGE STEINER insiste a configurare il rapporto con il testo nei modi della confidenza e
dell’accoglienza, come se si trattasse di un interlocutore che viene da lontano cui rispondere con cortesia e
tatto. L’umanesimo di Steiner è tinto di istanze religiose. La scrittura è vista come un atto di creazione che fa
sorgere dal nulla un mondo. E in questo rivaleggia con il divino. Il critico deve ritenersi sempre inferiore nei
confronti della creatività artistica e scontare un ruolo gregario come di chi vive attraverso esperienze altrui,
di seconda mano. Eppure il suo intervento è necessario e finisce per ottenere un posto modesto ma vitale. Di
fato secondo Steiner l’opera è di grado superiore alle sue interpretazioni. Però nel momento in cui il grande
patrimonio letterario rischia di sprofondare nel silenzio il compito del critico sebbene di rango inferiore
diventa molto importante. Nel periodo recente la rivendicazione della rilevanza della letteratura si è andata
appuntando soprattutto sulla questione del canone. Canone è una parola che proviene dalla terminologia
religiosa. Cos’è un canone letterario? È l’insieme dei libri che sono reputati fondamentali. Stabilire il canone
è una scelta difficile a volte dolorosa. Un individuo solo è poco per fare un canone.
HAROLD BLOOM ha suscitato scalpore quando ha preteso di fissare nientemeno che il Canone
occidentale, riunendo nel suo volume del 1994 gli autori imprescindibili della nostra tradizione. Gesto di
presunzione, gesto drastico e senza mezze misure, che restringe l’olimpo dei classici a 26 unità, attorno ai
giganti Shakespeare e Dante. Perciò in Bloom, sebbene la letteratura si disponga per grandi ere, la storia non
è quella collettiva bensì consiste essenzialmente nel legame autonomo che i capolavori intrecciano tra loro,
collegandosi da cima a cima. Questa prospettiva è in aperta polemica contro la diffusione nelle università
americane dei seguaci delle poetiche politiche (femminismo, postcolonialismo o neomarxismo), da lui
denominate la scuola critica del risentimento. Li definisce dei lemmings accademici che stanno conducendo
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allegramente alla distruzione del piacere della lettura e al livellamento delle discipline letterarie. Attribuire al
critico responsabilità politiche è come pretenderle da un giocatore di baseball. Riserva una particolare
avversione a Gramsci ritenuto colpevole per aver stretto i legami tra testo e gruppo sociale. Ironizza sul
marxismo. Il trattamento della grande opera, secondo Bloom, non può consistere in altro che nel criterio
dell’eccellenza estetica. Abbiamo allora una critica piuttosto tradizionale che pone in primo piano il giudizio.
Una critica che vuole misurare i punti alti, i vertici. Sul piano critico, la concentrazione sui valori massimi
conduce verso la venerazione, il culto: pieno di riferimenti religiosi nell’organizzazione stessa dei suoi libri,
Bloom perviene a una religione della letteratura dove i grandi autori vanno a costituire una Bibbia laica. A
guardar bene, il protagonista non è nemmeno più l’opera, ma l’autore, la grande personalità, il Genio, cui
Bloom dedica il suo più recente volume. La ripresa dell’autore, penalizzato nelle metodologie del ‘900,
porterebbe verso la critica biografica. Il critico non cerca di capire quanto della vita dell’autore si sia
travasato in quello che egli ha scritto, bensì viceversa quanto l’opera abbia influito sul suo autore. L’arte è
così importante da prevalere sulla vita: i personaggi hanno più vita degli esseri viventi. Il suo atteggiamento
è assai comune nel campo degli studi letterari, anzi, è la naturale reazione di chi difende il proprio campo di
attività. Vediamo svilupparsi l’elogio della letteratura come testimonianza che corrobora la coscienza civile,
rinsalda la memoria storica e apre al senso di tolleranza. Un nutrimento culturale.
Critiche femministe
La polemica del femminismo non risparmia il campo letterario: indiziato è proprio il canone, l’elenco degli
autori più validi, che è costruito sul pregiudizio. Il primo compito della critica femminista sarà allora quello
di reclamare pari dignità per le scrittrici. Per quanto non sino mancati gli attacchi al fallocentrismo e le
immagini combattive verso l’idolo, negli studi di genere è prevalsa nettamente la volta alla riscoperta e alla
riproposta delle scrittrici ingiustamente sottovalutate dalla critica ufficiale. Si determina una sorta di circuito
chiuso nel privilegiare il discorso di una donna su un’altra donna, rivolto alle donne. Secondo il femminismo
più oltranzista il maschio femminista è quello più sospetto. La richiesta d inserimento nel canone delle
scrittrici, si fonda sull’argomento che esse ne sono state tenute fuori in quanto donne; l’argomento perciò è
più forte quanto più si dimostra che non c’erano altri motivi di esclusione e che i loro testi erano altrettanto
validi di quelli maschili. Per paradosso, il risalto polemico è maggiore se si mantengono gli stessi criteri di
giudizio canonici e si dà scarso peso all’analisi del testo. D’altra parte, tutte le caratteristiche che possono
essere attribuite alla scrittura al femminile rischiano di assomigliare a poetiche già presenti nella tradizione.
Il ricorso alla figura dell’autrice, insito nel filone principale del femminismo, produce una stretta equazione
tra autrice-narratrice-protagonista, che conduce una volta di più nei paraggi della critica biografica. Il
femminismo è tutt’altro che monolitico. Come sul piano delle scelte letterarie si può passare dal racconto
minimalista del quotidiano e delle piccole percezioni alle punte del canto e della poesia, dall’autobiografismo
alla riscrittura, oppure dal piacere della lettura alle complicazioni dello sperimentalismo, altrettanto nella
critica varia l’atteggiamento. Uno dei punti che dominano il dibattito femminista è il pericolo
dell’essenzialismo cioè l’attribuzione alla dona di una essenza naturale ben definita e data una volta per tutte.
Cosa significa affermare l’essere donna? Il soggetto femminile è diviso, spaccato, ma per ciò stesso più
capace di disinvestimento e quindi di autocritica. La Kristeva rilegge il fondamento freudiano del complesso
di Edipo, facendo notare che,<mentre il maschio rimane attaccato alla figura materna, il desiderio della
bambina passa dalla madre al padre. Questa esplosione dell’identità porta da un lato a letture decostruttive
che esplorano le pieghe del testo e il gioco di dentro-fuori del soggetto femminile rispetto ai codici vigenti.
Porta anche, su un altro versante, per la china dell’antirazionalismo a un avvicinamento della critica alla
scrittura d’invenzione.
HELENE CIXOUS il suo saggio principale Il riso della medusa esalta le qualità sovversive della
scrittura al femminile come una forza dirompente. Apparentandosi al misticismo la Cixous mette in atto un
linguaggio immaginoso e un tono esortativo che risulta trascinante. L’esaltazione della poesia e dei poeti si
riflette in un comportamento di consonanza verso il testo. Anzi nel femminismo si direbbe di sorellanza. La
Cixous come larga parte del femminismo, insiste sulla corporeità, le donne sono corpo più dell’uomo, e
tuttavia inclina a una euforia ed empatia molto spirituale che si accosta alquanto allo sbocco neoumanistico.
Sul versante anglosassone il femminismo tende ad articolarsi in connessione con l’emergere di altre marche
di marginalità, in particolare quelle segnate dalla scelta sessuale e dalla razza (studi sull’omosessualità,
travestimento, razzismo verso le minoranze e i migranti postcoloniali).
BELL HOOKS è tra le rappresentanti del femminismo nero. La scrittrice afroamericana percorre
entrambe le direzioni: una rivolta al passato, della linea patrilineare che recupera la funzione tradizionale
della donna e il focolare come spazio domestico, e quella rivolta al futuro, del soggetto disponibile a forme
di legame nuove e molteplici.
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GAYATRI CHAKRAVORTY SPIVAC la Spivac si pone al crocevia dei metodi: psicoanalisi e
marxismo, decostruzione, femminismo e postcolonialismo. La psicoanalisi e la decostruzione servono a
togliere qualsiasi illusione di identità chiuse o fondamentaliste e scoprono l’eccesso della donna. Il marxismo
riconduce il discorso alla sua radice sociale, ma fornisce anche l’indicazione del valore come forma senza
contenuto. Il femminismo allargato su scala mondiale scopre il radicale dislivello tra le donne occidentali,
privilegiate e quelle del Terzo mondo. Il postcolonialismo si appunta sul problema del soggetto subalterno
(ripreso da Gramsci) e della difficoltà di rappresentarlo senza incorrere in sovrapposizioni paternalistiche.
L’escluso deve restare irraggiungibile (tipo la cosa in sé di Kant), per poter interrompere il continuo
ricaricarsi del meccanismo di sussunzione (ricondurre da un concetto particolare ad uno più generale). Per la
Spivac leggere un testo è anche sempre leggere il mondo. Il suo atteggiamento critico va al di là del vissuto
autobiografico, assume altri possibili sensi allegorici e soprattutto di allegoria politica. Di recente la Spivac
ha scritto che proprio perché si basa su una figurazione irriducibile, non immediatamente permeabile dalla
lettura veloce, la letteratura è ciò che sfugge al sistema.
Postcolonialismo e cultural studies
Il fenomeno della globalizzazione si è ripercosso nella sfera letteraria producendo un eccezionale
allargamento geografico. Non è più possibile ragionare dall’interno di una sola cultura, senza considerare i
rapporti con l’esterno e gli apporti delle minoranze interne. In questo contesto assume sempre più importanza
l’ottica della letteratura comparata e il dibattito teorico-letterario proveniente dal Terzo mondo si sviluppa
nelle correnti riconducibili al postcolonialismo. È evidente che l’uscita di interi mondi dalla servitù coloniale
determina la ricerca e il recupero della loro cultura originaria.
Un antesignano della decolonizzazione è FRANTZ FANON vedeva nella negritudine e nell’arabismo
delle forme di reazione ancora venate di razzismo, sia pur rovesciato.
In quale lingua scrivere? Se si sceglie la lingua nativa si guadagna il contatto con la base primordiale, ma si
perde in diffusione internazionale. Molti autori inseriscono nel testo termini locali non tradotti per
comunicare al lettore occidentale, che non può comprenderli, l’impressione di una distanza e la portata del
genocidio culturale causato dal colonialismo (questo effetto è stato definito un gap metonimico).
Le tendenze postcoloniali recenti si sono orientate su due assi: quello della polemica e quello della
ibridazione. Sul primo fronte spicca EDWARD W. SAID in cultura e imperialismo c’è una critica
postcoloniale pienamente sviluppata in forma di ermeneutica del sospetto. Si può vedere in Said qualche
propensione al contenutismo e un indubbio privilegiamento della narrativa. Ma bisogna riconoscere una
grande forza argomentativi e il merito di collegare il testo al contesto esterno. La letteratura è fatta da esseri
umani e va quindi sempre ricollocata nel mondo, rimessa in situazione. Ciò non elimina il suo valore
estetico, ma lo comprende meglio attraverso il contrappunto tra l’opera e le condizioni che ne hanno
determinato l’esistenza. L’atto critico consisterà nel vedere il testo come un campo dinamico di parole e non
come un blocco statico. Il testo di per sé non è mai un oggetto finito e sta al critico e alla sua posizione
politica prolungare certe diramazioni e non altre. In favore dell’interculturalità Said parla anche di traveling
theory, una teoria in viaggio, fatta di spostamenti e interscambi. Nell’esilio di Said il continuo confronto
culturale mette in crisi le identità l’identità viene a trovarsi nel mezzo. L’adattamento necessario verso la
cultura dei dominatori è però attraversato dal rigetto e dalla imitazione deviante: si va dal writing back di
talune riscritture che rivoltano dal punto di vista dello schiave i capolavori occidentali. EDOUARD
GLISSANT sostiene che la diversità è soprattutto nella distinzione tra culture ataviche e culture
composite: le culture ataviche sono quelle che si arroccano attorno a un mito fondatore e si definiscono in
base all’espulsione violenta dell’altro. Le culture composite sono quelle che traggono la loro forza
dall’apertura alla relazione di svariate componenti, sviluppando un gusto della caoticità e dl cambiamento.
La ricerca delle radici va: alla radice unica o al rizoma, radice senza centro e aggrovigliata. Parola d’ordine
è al creolizzazione, non soltanto l’inserimento nel testo del lessico del colore locale ma anche un’ulteriore
attività di impasto linguistico. Glissant non è propriamente un critico, ma la sua oetica è piena di indicazioni
e di termini che possono essere assai utili ad affrontare le nuove forme letterarie della globalizzazione, nella
prospettiva di u cambiamento dell’immaginario. Sul piano letterario il richiamo al barocco contiene sia l’idea
di una commistione dei generi tradizionali. Creolizzare vuol dire anche superare le convenzioni e disfare i
generi
Sovrapponendosi al postcolonialismo si è affermata di recente negli USA i CULTURAL STUDIES è
necessario tracciare una breve storia: l’attenzione dedicata alla letteratura nell’ambito dello studio della
cultura è nata in Inghilterra e poi si è trasferita in USA subendo alcune modifiche. L’inizio può essere
imputato al gallese Raymond Williams (1921-1988) che ha allargato la considerazione della cultura nel
quadro del marxismo estendendo la nozione di egemonia di Gramsci e individuando i diversi stadi e rapporti
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interni mediante la distinzione tra forme culturali dominanti, residuali o emergenti. Inoltre Williams vedeva
l’apporto della letteratura come contributo al mutamento delle strutture del sentire o del sentimento. Su
queste basi si sviluppava soprattutto la ricerca sulla cultura della classe operaia e sulla cultura popolare. Nel
successivo sviluppo in USA la voga dei cultural studies ha perduto l’attenzione verso la funzione letteraria di
ammortizzatore sociale, di contenimento e di compensazione. Si entra in una situazione in cui il livello alto e
il basso si sono mescolati e il popolare si riferisce all’intera gamma del pubblico ormai reso indifferenziato.
Negli USA i cultural studies tendono ad inglobare qualsiasi differenza culturale, le donne, i neri e gli
handicappati secondo grandi e piccole ripartizioni tuttavia molto stemperata nella misura dell’esistente. Una
volta che il termine cultura sostituisce l’ideologia non si è più in grado di operare una critica: la pluralità
delle culture relative alle diverse tribù viene accettata dai cultural studies con l’ottica neutrale
dell’antropologo. Si tratta solo di differenti stili di vita. Il problema non è tanto il livellamento quanto il fatto
che né il capolavoro né il tascabile usa e getta vengano sottoposti alla demistificazione.
L’interpretazione politica e l’inconscio ideologico
Nel mondo odierno continua a essere pressante la questione politica. Per quanto evidenti le enormi disparità
e i laceranti conflitti che agitano il mondo la loro analisi è tutt’altro che facile. Nella comunicazione
deduttiva la finalità ideologica finisce per scomparire. L’ideologia si configura adesso in molti modi: non è
più rappresentata solo dalla menzogna ma passa anche attraverso la verità parziale e soprattutto attraverso il
sottointeso che viene trasmesso dalle immagini. Il valore politico delle rassicurazioni dell’io spinge alla
connessione tra il marxismo e la psicoanalisi.
FREDRIC JAMESON ha parlato di inconscio politico. La letteratura e l’arte vanno lette come sintomi
della storia. Il critico deve ricondurre i problemi che incontra sulla superficie del testo a un sottotesto di tipo
socio-economico. Jameson articola l’ideologia nei suoi elementi costitutivi detti ideologemi che sono
qualcosa che sta a metà strada tra un concetto e un’immagine. In ogni caso uno schema elementare di
distribuzione del materiale immaginario, quale è ad esempio la netta divisione tra bene e male, buoni e
cattivi. Per questa via diventa possibile tornare a considerare i generi letterari. Nel romance antico la
soluzione dell’intreccio è data dall’intervento della magia, in epoca moderna la funzione magica viene
sostituita da altre forze, nel western dall’abilità del pistolero, nella fantascienza dalla tecnologia,…I generi
sono archetipi che attraversano le epoche, ma quello che conta in essi è la parte variabile, nella quale
possiamo scoprire l’azione della storia. L’ideologia ha nel testo fratture e scompensi. Il marxismo in Jameson
è proprio quel metodo che è capace di superare e inglobare in sé gli altri metodi, inserendoli nell’orizzonte
della storia della formazione sociale. Nei 4 livelli letterale, allegorico, morale e anagogico sostituisce il
morale con la lettura psicologica e l’anagogico con una storia della salvezza puramente terrena, quindi con il
livello storico-sociale. Ogni testo letterario è il prodotto di una condizione determinata rispetto alle cui
contraddizioni cerca di dare risposta mediante le invenzioni dell’immaginario quindi è il sintomo di un
disagio subito e porta dentro di sé i semi del tempo cioè una proiezione verso il futuro. Una volta constatato
il passaggio del capitalismo alla sua terza fase detta tardo capitalismo caratterizzata dallo sviluppo
informatico e multinazionale, dalla simbiosi tra il mercato e i mass media allora la cultura adeguata a questo
nuovo stadio risulterà il postmoderno. Per paradosso il postmoderno nasce con l’affermarsi della
modernizzazione su tutti i suoi avversari: è il moderno assoluto. Altro paradosso: proprio nel mentre vede
mescolarsi il paradigma della produzione con quello semiotico Jameson ristabilisce il nesso del marxismo
classico tra base e sovrastruttura in modo ferreo: data la base del tardo capitalismo non ci può essere che una
sovrastruttura, il postmoderno. Proprio la negazione della realtà figura come il realismo dei nostri tempi. La
figura intellettuale che prevale è quella dell’osservatore che si dedica alla cartografia cognitiva.
TERRY EAGLETON propone di riordinare i vari lati della questione della nozione di ideologia. Per
lui ideologico è un insulto che significa arroccato su idee fisse. Vedere l’ideologia dappertutto è un modo per
svuotarla e convivere con essa. Sfaccettata e flessibile l’ideologia si mostra come campo complesso e
conflittuale di significato. La critica è ciò che ci permette ancora di riconoscere gli interessi oggettivi che
agiscono nei discorsi. Ora la letteratura non può essere definita di per sé ma solo in rapporto al complesso
delle pratiche sociali. Ha bisogno di un termine intermedio che è l’estetica dotata di una sua specifica
ideologia: l’ideologia dell’estetica. In quanto mediatrice l’estetica ha sempre due facce una rivolta al lato
intellettuale della costruzione e dell’analisi, l’altra radicata nella sensibilità materialistica del corpo. Il suo
interesse nei confronti di Benjamin deriva soprattutto dalle intuizioni sulla corporeità del linguaggio. Il corpo
è ciò che tutti abbiamo in comune. L’estetica può elevarsi nei cieli della sublimazione, della distinzione di
classe ma aiutare a costruire il soggetto della sfida e dell’alternativa. L’autonomia trasforma l’arte in una
entità separata, costituisce un rifugio e rappresenta l’immagine del soggetto non alienato e dello sviluppo
della sensibilità umana. C’è in questo posizionamento centrale dell’estetica molto di Kant riletto attraverso
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Marx sicchè lo spazio della mediazione diventa anche spazio di conflitto. Il discorso, dice Eagleton, è
strategico. Vale a dire che per prima cosa dobbiamo chiederci non quale sia l’oggetto o come dobbiamo
analizzarlo ma perché vogliamo indagare su di esso. L’ironia per Eagleton fondamentale e connaturata al
rivoluzionario. Egli parla del critico come clown e il suo stile è continuamente percorso dall’humor.
JUAN CARLOS RODRIGUEZ la sua interpretazione della poesia classica è sulla base della matrice
ideologica. A differenza di Jameson in Rodriguez l’epoca non genera una sola poetica bensì due: ci sono
sempre due letterature e quindi un gioco di alternative. Le diverse poetiche si trovano incluse nella
produzione ideologica. Si determina qui un rapporto profondo con la psicoanalisi sulla centralità del
problema dell’io o meglio dell’io sono, l’identità. La storicità radicale che Rodriguez assegna alla letteratura
sta proprio nella misura della sua partecipazione alla produzione dell’io, all’invenzione del soggetto.
Soprattutto la poesia nella sua funzione di rifugio dell’anima contribuisce alla costruzione di un mondo
privato ritenuto autentico. Stretto tra i due inconsci e tirato da parti opposte dalle richieste sociali, l’io soffre
la crisi e la rottura ma questo vuol dire anche che può staccarsi dall’identità che gli è stata assegnata. Il testo
è capace di rifiuto, può pronunciare la sillaba del no e nella modernità letteraria questo atto sovversivo può
svolgersi secondo la linea dello svuotamento. Nel secondo ‘900 tutto sembra condurre alla diminuzione del
carattere contrastivo e alternativo. Il capitalismo avanzato ha provveduto a privare di sostanza gli ambiti
della politica e della filosofia. L’io ormai non solo è funzionale alla produzione ma è diventato esso stesso un
mezzo di produzione: si andrebbe verso un nuovo feudalesimo dove è importante l’appropriazione sociale
dell’intero uomo.
EDOARDO SANGUINETI è in Italia il principale rappresentante della resistenza e dell’efficacia del
marxismo. Egli ha posto a base del suo discorso critico l’equazione tra ideologia e linguaggio. La storia non
è dietro ma dentro il testo. Perciò la decifrazione dei segni non può mai essere esentata da un interrogativo
politico. Decifrare vuol dire capire la coerenza di un testo, capire da quale sistema o codice è retto. Il critico
deve procedere all’interpretazione in quanto il testo si presenta in modo non trasparente con l’aspetto
dell’enigma. Solo che questa ambiguità non è una dote intrinseca ma è il prodotto di una attività sociale.
Riprendendo lo storicismo assoluto di Gramsci Sanguineti afferma che il critico ha da farsi storico, scrittore
di cose.
L’oggetto testo
Tenersi all’oggetto-testo significa lo studio empirico della letteratura nei suoi aspetti concreti, nelle sue
istituzioni, nella sociologia del pubblico. La considerazione della letteratura come forma di interazione
comunicativa può sfatare alcuni miti, compreso quello dell’interpretazione giusta ma rischia di cadere
comunque in un mito quello dell’osservazione scientifica. Certo la statistica può illustrare la reazione dei
lettori e la loro risposta a determinati fenomeni e consente di avviare una psicoanalisi sperimentale del
lettore. Con il lettore statistico si rimane tuttavia sempre a un livello descrittivo di emozioni e impressioni
immediate, non di effetti a lunga scadenza.
Un’altra via oggettiva è quella intrapresa dalla critica genetica che si occupa di studiare i dati di archivio
degli stati preparatori dei testi. Mentre l’interesse primario della filologi era di determinare qual è il vero
testo, la critica genetica sembra far sparire l’unicità del testo nella miriade dei suoi materiali in progress
mettendo in evidenza piuttosto i testi virtuali, quello che il testo avrebbe potuto essere. Già cominciano ad
avventurarsi un poco di più nei problemi interpretativi i lavori che riguardano le strutture dei testi, in
particolare narrativi. Essendo il mercato interessato soprattutto al romanzo è questo il lato privilegiato anche
dalle ricerche teoriche e metodologiche. Gli studi sui modi della trama o sui mondi possibili creati dalle
storie, mettono al centro proprio quegli elementi che costituiscono l’attrazione del romanzo di consumo sul
lettore più ingenuo. Si conferma il ruolo naturale di mediazione e di compensazione del racconto. Nel
frattempo anche la semiotica è andata oltre lo smontaggio narratologico delle azioni per affrontare la
questione delle passioni. L’analisi basata sulle nozioni di tema o di genere può consentire utili
attraversamenti e connessioni tra epoche distanti, diverse aree geografiche e culturali. La critica tematica
sembra in grado di raccogliere e rendere più aderenti al testo le istanze della psicoanalisi. Quanto ai generi
non sono più considerati come caselle da classificazione ma entrano nel testo come componenti dinamiche.
Proprio questa eterogeneità del testo può spingere l’analisi critica ancora più a fondo verso le più minute
manifestazioni e i piccoli indizi. Dalla struttura vista come quadro in cui tutti gli elementi dovevano trovare
posto si passa alle strutture nel senso che i testi funzionerebbero proprio nella inesatta sovrapposizione di
almeno due o più modelli. Dalla funzione al disfunzionamento in quanto si tratta di rinvenire non già
l’accordo e il parallelismo ma le smagliature della composizione, le discordanze, i contrasti.
Ecco la grande scommessa della critica oggi: appassionare di nuovo alla lettura, in un momento in cui il testo
letterario è trascurato e affrontato solamente per obbligo scolastico. Far questo attraverso l’allenamento del
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rovello del lavoro critico. Se leggere è leggersi allora è chiaro che la cultura dominante del mercato non ha
bisogno di rendere consapevoli i consumatori. Dobbiamo imparare a leggere. La letteratura può funzionare
come momento consolatorio o compensativo, come addestramento alla sopportazione dei danni reali, oppure
può affrontare il trauma mostrandolo e diffondendolo in forma di urti e spezzature anche formali e
linguistiche stimolando la reazione. Imparare a leggere vuol dire investire attenzione e concentrazione per
leggere tra le righe la posizione dell’oggetto-messaggio che ci sta di fronte. Forse potremo sentirci coinvolti
e trovare dentro di esso qualcosa che riguarda molto da vicino anche noi e gli stringenti appelli della nostra
tanto problematica attualità.
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