RELAZIONE Don Aldo Martin

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RELAZIONE Don Aldo Martin
Andria, 17.02.2016
Se uno è in Cristo, è una nuova creatura (2 Cor 5,17)
Questa espressione di Paolo, che come altre frasi lapidarie, si propone a noi come una gemma
che va gustata in tutte le sue sfaccettature: la potremmo anche definire – senza temere di esagerare – come una sorta di microcosmo che condensa il vangelo intero, similmente ad altre espressioni molto sintetiche di Paolo: «Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me», «Tutto posso
in colui che mi da la forza», «Per me vivere è Cristo e morire un guadagno». Si tratta di frasi
brevissime, ma così dense da contenere, appunto, l’intero vangelo di Paolo. Ebbene questa frase
si presta, già a partire dal testo originale, a ben due traduzioni differenti, perché il termine ktísis,
sostantivo del verbo ktizo/creare, significa sia «creatura», sia «creazione». Ecco allora le due
possibilità: «Se uno è in Cristo, è una nuova creazione» «Se uno è in Cristo, è una nuova creatura». Come si vede ci troviamo davanti ad una sorta di “esuberanza” di significato, perché si parla
di una novità che permea il creato e una che invece riguarda l’uomo. Potremmo già anticipare
che non si tratta di due sfumature necessariamente contrapposte o alternative fra loro, ma possono essere considerate insieme. Partiamo dalla prima, quella che riguarda il mondo, il cosmo intero.
1) Significato cosmologico
«Se uno è in Cristo, è una nuova creazione (kainè ktísis);
le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove»
L’apostolo Paolo sta dicendo ai cristiani di Corinto che la novità cristiana è così ricca e vivace
che non tocca solo l’individuo singolarmente inteso e nemmeno la sola umanità nel suo complesso, ma ha dei riverberi anche per la natura, riguarda l’intero universo. Questo è fantastico, perché
la morte e la risurrezione di Gesù costituiscono certamente un evento che salva l’uomo, ma ha
una forza e un’energia tale da coinvolgere l’intero universo. Basta mettersi in sintonia con il gemito dell’universo:
▪ L’intero creato geme assieme all’uomo (Rm 8,18-23):
Se guardiamo la natura non possiamo non sentirci interamente coinvolti in essa; anzi, possiamo rispecchiarci negli elementi del creato, perché vi ritroviamo alcune delle nostre aspirazioni e
sofferenze. Basti pensare, ad esempio, a quanto stiamo male quando si secca una pianta cui abbiamo prestato molte cure, o a quando ci muore il cane o il gatto. La natura, poi, viene letteralmente violentata dall’azione iniqua dell’uomo (inquinamento, sfruttamento delle risorse, ecc.).
Ebbene, Paolo ci dice che essa anela alla liberazione. C’è un fremito che attraversa il creato con
il quale non possiamo non sentirci in profonda sintonia.
Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che
sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli
di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della
corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la
creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le
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primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro
corpo.
Anche il nostro corpo geme, soffre e spera: pensiamo a tutte le volte in cui ci ribelliamo alla
malattia e desideriamo la salute. Ora, la natura intera è attraversata dalla grazia di Cristo: anche
lei in qualche modo geme e soffre perché anela a risorgere. Desidera prendere parte alla liberazione riservata all’uomo. La prova? Il corpo dell’uomo: noi, che per le leggi della natura dovremmo accettare serenamente la morte (muoiono le piante, muoiono gli animali, muoiono addirittura le stelle, ci dicono gli scienziati), non riusciamo ad acconsentirvi; non siamo capaci di tollerare la morte delle persone care e la nostra morte personale. Interessante, no? Ciò che appare
un’evidenza lampante a livello naturale/scientifico, non siamo in grado di accettarlo a livello
umano.
L’intera realtà creata, dunque, fa da cassa di risonanza al desiderio dell’uomo, entra in sintonia con il suo anelito alla risurrezione: anch’essa aspira alla libertà. E questo fremito della natura
noi lo riconosciamo per il semplice fatto che è nel cuore dell’uomo.
Nella lettera agli Efesini si dice che Dio ha in cuore il progetto di unire, di pacificare in serena
armonia tutte le realtà create: Dio vuole «ricondurre al Cristo, unico capo (ricapitolare), tutte le
cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra» (Ef 1,10); è come se si dicesse che l’umanità e le cose
faranno pace e si uniranno sotto la signoria buona di Cristo che sta conducendo l’intero universo
alla sua piena realizzazione. E il visionario di Apocalisse se ne esce con questa affermazione:
«Vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il
mare non c’era più» (Ap 21,1; il mare, nel contesto apocalittico, è la sede delle potenze avverse,
nemiche).
Nella liturgia incontriamo la seguente espressione: «allora, nella creazione nuova, finalmente
liberata dalla corruzione della morte, canteremo l’inno di ringraziamento che sale a Te dal tuo
Cristo vivente in eterno» (preghiera eucaristica della riconciliazione I). Papa Francesco nella
Laudis canticum ci ricorda come noi esseri umani siamo realmente interconnessi con il mondo e
dal destino dell’uno dipende il destino dell’altro.
2) Significato antropologico
«Se uno è in Cristo, è una nuova creatura (kainè ktísis);
le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove»
C’è oggi un modo di dire assai interessante: «rifarsi una vita», magari dopo un fallimento affettivo o matrimoniale. È il desiderio di ripartire da capo. Anche al tempo del cristianesimo primitivo la gente aveva perso la fiducia nella religione ufficiale (il culto degli dei dell’Olimpo era
una religione diventata ormai una manifestazione semplicemente civile, segno di lealtà
all’impero) e sentiva il desiderio di una vita nuova, una spiritualità che desse nuova linfa alla vita
di tutti i giorni. Con le dovute differenze, pure oggi si respira un clima di attesa. C’è stanchezza e
rassegnazione, ma anche tanto desiderio di novità e di autenticità: una vita nuova. L’uomo non
smette di volere rinascere, desidera combattere tutte le forze mortifere che lo attanagliano e desidera vivere e vivere in modo pieno. Pure l’esperienza degli anni della ricostruzione nel dopoguerra dimostra la capacità e il desiderio dell’uomo di ripartire, di risorgere.
Un film recentissimo – a mio avviso – tocca molto bene questo tema: Revenant-Redivivo
(2016) di Alejandro González Iñárritu con un Di Caprio nuovamente candidato all’Oscar. Film
crudele, animalesco, bellissimo, racconta di un uomo realmente esistito, Hugh Glass, guida di
una spedizione di cacciatori che ha subito un incredibile numero di violenze, ha rischiato più volte di morire, ne è uscito vivo e alla fine fa una scelta grandiosa: evita di farsi vendetta di chi lo
aveva tradito, sperando di averlo ucciso. Ebbene, c’è un scena “topica” – verrebbe da dire –, an2
che se molto cruda, di quando, per difendersi dal freddo polare, il protagonista squarta il proprio
cavallo, ne cava fuori le interiora e si rifugia nel ventre che gli garantisce ancora un po’ di calore
e gli assicura la sopravvivenza durante la notte gelida. All’indomani se ne esce vivo. La fuoriuscita sembra un parto, scaturito dal cadavere del cavallo. Una sorta di singolarissimo parto cesareo. Una vera e propria nuova nascita.
Se si prova a digitare su qualche motore di ricerca in Internet la frase «uomo nuovo», saltano
fuori moltissimi articoli che raccontano la svolta – presunta o reale – di chi, dopo avere pagato
per i propri sbagli, magari con un periodo di detenzione in carcere, sperimenta l’impulso di ripartire da capo: il tale e il tale altro, recitano i titoli, si sente e vuole essere un uomo nuovo. Ebbene,
nel cristianesimo delle origini si faceva l’esperienza della rinascita, in primis nel sacramento del
battesimo.
▪ Il battesimo come morte al peccato e vita nuova (Rm 6,1-7)
Che diremo dunque? Rimaniamo nel peccato perché abbondi la grazia? È assurdo! Noi, che già
siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere in esso? O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo
stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della
gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione.
Lo sappiamo: l’uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è liberato dal peccato.
È vero, purtroppo, che noi non facciamo l’esperienza che si aveva nel cristianesimo primitivo:
la persona adulta, con il sacramento del battesimo, percepiva che c’era un “prima” e un “dopo”,
una svolta radicale. Una presa di distanza da un certo tipo di condotta – un taglio con il passato –
, per inaugurarne una nuova. Con il rito del battesimo ci si immergeva nella vasca battesimale,
per far “affogare” simbolicamente l’uomo vecchio e far emergere a nuova vita l’uomo nuovo
(seguivano, poi, la crismazione, il conferimento della veste candida e della fiaccola accesa al cero pasquale come segni di luce e di vita nuova appena ricevuta nell’abluzione battesimale). Il
battesimo era ed è il sacramento della rinascita. Non per niente la vasca battesimale veniva intesa
come un grembo da cui prende vita «l’uomo nuovo».
▪ L’antitesi «uomo vecchio/uomo nuovo»
Paolo (o, meglio, qualcuno dei suoi discepoli) potrà dire infatti:
Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato (Col
3,9-10). [Si deve] abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo,
creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità (Ef 4,22-24)
Qui bisogna fare molta attenzione, perché l’espressione «uomo nuovo» va usata con le pinze,
essendo stata utilizzata e manipolata in molte derive ideologiche: pensiamo al “super-uomo” di
Nietzsche e alle sue declinazioni nel progetto di umanità nuova del nazifascismo, nato dopo la
prima guerra mondiale sull’onda dell’esaltazione dei valori futuristi. Nasce il progetto dell’uomo
nuovo fascista, che esalta la mascolinità forte, vincente (il vestito era una sorta di divisa, il popolo si percepiva come un corpo organico pronto a scendere in guerra; inoltre, erano previsti molti
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atteggiamenti inediti che dovevano inaugurare una sorta di “umanità nuova”: l’affetto per la
mamma doveva essere sostituito con la devozione totale alla patria, i valori cristiani con gli ideali della virilità, della durezza e della violenza, la stretta di mano sostituita dal saluto fascista, e lo
strumento musicale con il moschetto, e così via; dello studio di questa progettualità antropologica s’è occupato un docente di Oxford, Martin Conway, e ha dimostrato che era trasversale a molte nazioni, non solo quelle a prevalenza fascista). Oppure, pensiamo alla avvisaglie di un uomo
cibernetico, che uscirà dall’interazione e dalla commistione tra esseri umani e macchine molto
evolute: un uomo nuovo che potrà abilmente manipolare il proprio corpo per superarne i limiti
(pensiamo ad uno fra gli esempi più aberranti: la crioconservazione dei corpi in attesa di fantomatiche nuove scoperte della scienza). Si pensi, infine, ad alcune derive salutiste: un corpo bello,
giovane, prestante, atletico è diventato l’idolo cui in alcuni casi si offrono molti sacrifici e per il
quale si celebrano molte liturgie…
Quindi, è d’obbligo il quesito: quale uomo nuovo? Non quello che si autoesalta, ma quello
che fa i conti con la propria realtà: l’uomo che desidera ma che è fragile, che prova a realizzarsi,
ma che sperimenta anche il fallimento, che ha bisogno di essere redento perché da solo non ha
tutte le risorse per vivere. E qui dobbiamo provvidenzialmente tornare alla vicenda personale di
Paolo, ossia a quello che ha sperimentato sulla propria pelle nell’evento di Damasco, quando la
luce del Risorto lo ha scaraventato a terra, facendolo diventare cieco. Ora, pur non riuscendo a
guardare nulla, paradossalmente comincia a vedere.
La cecità è il riflesso negativo della gloria di Dio che gli è stata manifestata. È tipico della conversione cristiana il fatto che l’uomo venga a conoscere molto di più di se stesso e a spaventarsi delle
proprie tenebre quando conosce la luce di Dio, che non attraverso un esame rigoroso, quasi una psicanalisi delle proprie profondità. È al contatto col volto di Cristo che l’uomo si scopre tenebra1.
La cristofania mostra a Paolo che era un uomo morto: credeva di essere un uomo religioso, osservante della legge e un uomo gradito a Dio, e invece no! Era come «un aborto» (1Cor 15,8).
Crolla l’impalcatura dell’uomo che si era costruito e finalmente si riscopre tenebra. Crolla a terra. Muore il Paolo vecchio e nasce il Paolo nuovo. Così, con l’antitesi «uomo vecchio/uomo nuovo» comprendiamo più a fondo la frase sintetica di 2Cor: «Se uno è in Cristo, è una nuova creatura (kainè ktísis); le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove». E quali sono le
cose vecchie contrapposte a quelle nuove?
▪ La contrapposizione tra le opere della carne e il frutto dello Spirito (Gal 5,19-23)
C’è un passaggio della lettera ai Galati che è illuminante:
Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del
genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di
Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé.
Qui non ci troviamo davanti alla contrapposizione tra corpo e anima. Le opere della carne non
sono le realtà legate esclusivamente al corpo (di solito, purtroppo, si è fatto credere che si tratti delle
naturali dimensioni pulsionali della fame e della sessualità: non è esattamente questo niente di tutto
questo) e nei frutti dello Spirito gli atteggiamenti tradizionalmente considerati spirituali (tante preghiere, tanti digiuni, tante devozioni, ecc…). Piuttosto, abbiamo due sfere di influenza nelle quali si
dibatte ogni vita umana. In ciascuno di noi si ripresenta in continuazione la dialettica tra l’uomo
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MARTINI C.M., Le confessioni di Paolo, Ancora, Milano 1982, p. 46.
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carnale (ossia l’uomo centrato su di sé) e l’uomo spirituale (aperto all’influsso dello Spirito santo).
La riprova, poi, che Paolo non stia solo guardando con sospetto alla corporeità sta nel fatto che
nell’elenco delle opere della carne sono menzionate anche «inimicizie, discordia, gelosia, dissensi,
divisioni, fazioni, invidie», che non hanno una immediata attinenza alla dimensione corporea.
Un dettaglio grammaticale diviene un prezioso elemento di riflessione: l’elenco dei frutti dello
Spirito non è preceduto da un’indicazione al plurale (i frutti dello Spirito – similmente alle opere
della carne), ma, curiosamente, da un’indicazione al singolare: «il frutto dello Spirito». Sembra
un’inesattezza, invece è una scelta strategica… Più ci si abbandona alla logica della carne e più ci si
disperde in mille rivoli che non portano se non alla disgregazione della persona, a dividerla interiormente. Ecco dunque le diverse opere della carne, che frantumano il soggetto. Viceversa, più ci
si affida all’iniziativa dello Spirito in noi e più si assiste ad un processo di unificazione e pacificazione della persona, la cui più autentica fruttificazione – e più evidente cartina di tornasole – è, appunto, l’amore. Lo Spirito produce in definitiva un unico vero frutto, un centro attorno al quale l’io
riesce ad armonizzare e integrare tutte le sue facoltà.
3) Essere in Cristo
L’espressione «essere in Cristo» è uno dei nelogismi più originali e più frequenti nelle lettere di
Paolo: infatti il sintagma «in Cristo» compare centinaia di volte (33 nella sola lettera agli efesini).
I credenti approdano ad una novità ontologica tale (cf. ad esempio 2,6) da non poter più esser definiti
prescindendo da Cristo. La sua persona, infatti, sembra debordare in un esubero nel quale essi sono, per
l’appunto, inclusi. In altre parole si dà in Cristo un'eccedenza tale, una sorta di “zona”, “sfera”, “sede”, alla
quale i credenti possono non solo aderire ma anche esservi vitalmente inclusi. Come si vede il nostro linguaggio è necessariamente metaforico (come lo è il sintagma en autô) dal momento che la realtà sperimentata e descritta dall'autore non si lascia ingabbiare in una definizione chiara e distinta. La persona di Cristo
“esce dai margini” in modo tale che d'ora in poi si può addirittura essere in lui (in lui collocati, da lui rappresentati, a lui incorporati… Come si vede i vari significati non si elidono affatto l’un l’altro). La conseguenza diretta è il concetto di partecipazione: ciò che avviene nella persona di Cristo si riversa direttamente
su coloro che sono in lui (cf. 2,6). Quindi Cristo non crea separando da sé, piuttosto crea l’uomo nuovo associandolo a sé. Essere in Cristo comporta dunque per la Chiesa una partecipazione al destino di Lui2.
Questo comporta una partecipazione sacramentale ed esistenziale del cristiano alla vita del Risorto3. Sacramentale, perché la vita nuova gli viene donata nei sacramenti. Esistenziale, perché la
vita nuova si concretizza nel credente con una condotta di vita nuova.
Il cristiano, infatti, non ha tra le mani una lista precisa di cose da fare: non ci sono “regole” che
coprono tutta la vasta gamma delle situazioni umane, regole che gli dicano cosa deve fare. Si tratta,
piuttosto, di vivere costantemente alla luce della relazione con Cristo: è da questa situazione nuova
che nasce l’uomo nuovo. Ed è lo Spirito santo in noi che ci abilita a questa novità di vita. È la vita
nell’amore, che chiede un rinnovamento continuo, in primis della modalità di pensare:
Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente,
santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi
trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono,
a lui gradito e perfetto (Rm 12,1-2).
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MARTIN A., La tipologia adamica nella lettera agli Efesini, Analecta Biblica 2005, pp. 140-141.
CABASILAS N., Vita in Cristo, Città Nuova 1994: parla della nostra esistenza innestata nella vita di Gesù risorto tramite
il battesimo, il santo miron (l’unzione crismale) e l’eucaristia. Siamo così abilitati a riproporre esistenzialmente ciò che
Gesù ci ha comandato di ripetere nel rito: «fate questo in memoria di me».
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I padri del deserto e la tradizione monastica parlano di questa vita in Cristo con espressioni diverse: «memoria Dei» (sentire la nostalgia di Dio), oppure vivere sempre «alla presenza di Dio».
Oggi diremmo: accogliere la «compagnia di Cristo» – come ci insegna l’esicasmo con la preghiera
del cuore –, oppure coltivare «l’amicizia con Gesù». E questa disposizione interiore, che provoca la
pace del cuore, genera anche una condotta nuova: la vita nell’amore, un’esistenza agapica: «Tutto
scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13). Produce il frutto dello Spirito, che diventa
amore nei confronti del fratello bisognoso: «avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e
mi avete dato da bere, ero nudo e mi avete vestito, ero forestiero e mi avete ospitato» (Mt 25).
In altre parole è quello che il Concilio sintetizza magistralmente in GS n.22: Cristo, che è il nuovo Adamo, «svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione».
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