lo straniero - Misteri d`Italia

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lo straniero - Misteri d`Italia
La questione irachena
L’aggressione anglo-americana
I sequestri di persona
L’assassinio di Enzo Baldoni
LO STRANIERO
L’interprete di Enzo Baldoni non era solo un interprete.
Era molto di più.
Nato nel 1968 in Kuwait, giordano palestinese, 36 anni, ingegnere,
pilota di elicotteri, informatico,
attivista contro l’occupazione militare americana.
Durante l’assedio di Falluja, organizza missioni di soccorso
e riesce a far liberare un inviato del «New York Times»
Mohammed Hussein Ramadan era orgoglioso del suo soprannome. Lo aveva
scelto sua madre quando era bambino. Essere Ghareeb, essere «straniero»,
avrebbe accompagnato la sua vita e avvolto la sua morte.
Per giorni e giorni, dopo l’agguato di venerdì 20 agosto in cui è stato ucciso,
Ghareeb è stato in Italia soltanto un soprannome. Il fratello Hazem, che vive in
Canada, ci scrive: «Amava il soprannome che gli aveva dato mia madre, al
punto che difficilmente usava il suo nome di battesimo».
Era nato in Kuwait nel 1968, da una famiglia giordana di palestinesi della
diaspora. Nel 1992, subito dopo la liberazione del Kuwait da parte americana,
la famiglia si era trasferita in Iraq dove Ghareeb si sarebbe laureato in
ingegneria. Qualche anno dopo, il padre era tornato in Palestina, un fratello era
emigrato a Londra, un altro in Canada. Ghareeb era rimasto.
Continua Hazem: «Ma dopo la cosiddetta guerra di liberazione il lavoro è
diventato più difficile, così Ghareeb aveva utilizzato la sua buona istruzione, le
conoscenze e l’inglese imparato da solo, per lavorare come interprete».
Il padre, che oggi ha 68 anni e che vive in Palestina dove possiede un’agenzia
immobiliare, è il capo della tribù dei Ramadan. Alla sua morte, il primogenito
prenderà il suo posto. Il secondo in linea di successione sarebbe stato proprio
Ghareeb. Per questo raccontava di avere ricevuto l’educazione di un capo. Ne
aveva parlato con l’attivista americano Ed Kinane di Voices of Wilderness che
aveva accompagnato nell’ottobre 2003 in un viaggio a Najaf durante il quale
erano stati ricevuti, insieme ad altri giornalisti, da Moqtada al Sadr. Kinane
aveva domandato in che cosa consistesse di preciso l’educazione di un capo.
«Devi sempre aiutare chi ha bisogno», aveva risposto Ghareeb, «devi sempre
sacrificare le tue risorse per gli altri».
Chi l’ha conosciuto racconta di un omone allegro, alto quasi due metri per 120
kg, spiritoso, affettuoso, esuberante. L’incontro con Enzo Baldoni, deciso da
una raffica di coincidenze che sarebbe tanto piaciuta al giornalista, dev’essere
stato quello tra due turbini gioiosi, fisicamente simili e spiritualmente affini.
Nel giro degli attivisti internazionali a Baghdad, Ghareeb era molto conosciuto.
Nell’aprile scorso aveva organizzato, per esempio, un’importante missione
umanitaria durante l’assedio di Falluja.
A volte si faceva vivo. Chiedeva aiuto per trasportare persone bisognose di
cure nell’ospedale della Croce rossa italiana di Baghdad. Era molto meno
conosciuto (e molto meno amato) tra gli interpreti iracheni del Palestine, l’hotel
dove in genere risiedono i giornalisti occidentali. Il fatto è che Ghareeb non era
il classico interprete. Così come Enzo Baldoni non era il classico giornalista. Per
entrambi era impossibile separare il lavoro dalla curiosità, l’interesse per gli
altri dalla generosità. Un miscuglio che per alcuni raddoppiava i rischi,
specialmente nell’Iraq di oggi.
Ricorda il giornalista Fausto Biloslavo: «Io l’ho conosciuto in aprile, l’ultima
volta che sono stato in Iraq. Stava scoppiando l’assedio di Falluja e si cercava
di capire se si riusciva ad andarci. Lui organizzava i convogli di aiuti alla città
assediata nel cortile della sede di Un Ponte per Baghdad. Imbarcava i pacifisti,
i volontari e i giornalisti. Io l’ho ringraziato, ma mi sembrava un po’
avventato».
Falluja, la morte e le mosche
L’assedio di Falluja inizia il 6 aprile, quando l’esercito americano circonda la
città. Muri di sabbia chiudono le vie d’accesso. Per quasi un mese nelle strade
si combatte sotto le bombe dell’aviazione Usa.
Contro le convenzioni internazionali, gli americani negano l’istituzione di zone
di sicurezza e di corridoi umanitari per soccorrere i feriti e inviare aiuti. Alla
fine si parlerà di 800 morti. L’11 aprile, Ghareeb riesce a fare arrivare in città
un pullman che ripartirà il giorno dopo per Baghdad, carico di morti, profughi e
feriti.
Scrive David Martinez che fa parte della missione: «Questa impresa è stata
organizzata da un nostro amico, un attivista iracheno e guardia del corpo
professionista che ha i contatti necessari per garantire la nostra sicurezza. È
alto, fuma a catena, ha i baffi, occhiali sottili e la pancia. È anche uno, sia
detto per inciso, che urla come un matto. Ma in alcune situazioni puoi fidarti
soltanto dei pazzi».
La descrizione è quella di un inferno. In una città al buio, perché senza
elettricità, allo stremo per la mancanza d’acqua e di cibo, i volontari raccolgono
profughi, morti e feriti. Il cadavere di un ragazzo sui vent’anni, scalzo, con una
maglia dell’Inter numero 28, quello di un vecchio ucciso davanti a casa e
osservato per giorni dalla famiglia asserragliata all’interno, due bambini colpiti
alla testa da cecchini americani.
«Il tanfo di morte ci opprime», scrive ancora Martinez, «e una nuvola di
mosche ci scorta indietro fino all’ospedale». La prima destinazione del pullman,
lasciata Falluja e lambita Abu Ghraib, è proprio l’ospedale della Croce rossa
italiana a Baghdad. Per garantire per la spedizione, agli occhi dei guerriglieri
che controllano molte strade, Ghareeb ha portato con sé il figlio di uno sceicco
della zona.
La missione è pericolosa, ma a Falluja Ghareeb può contare su rapporti
radicati. Quando il giornalista del New York Times, Jeffrey Gettleman, viene
fermato a un checkpoint della guerriglia, è proprio Ghareeb, garantendo per
lui, a farlo liberare.
Continua Biloslavo: «La mia impressione è che Ghareeb fosse vicino alla
fazione sunnita più moderata, arabo nazionalista, della guerriglia di Falluja,
quella nata dalla dissoluzione del partito Baath. Meno con quella dove ci sono
gli stranieri più legata ad al Qaeda». Anche se sicuramente – lo dimostrano il
viaggio a Najaf di ottobre con Ed Kinane e le missioni del 14 e 19 agosto –
negli ultimi tempi aveva stretto buoni contatti anche con gli sciiti dell’esercito
di Moqtada al Sadr.
Frequentava l’ospedale della Croce rossa italiana a Baghdad, ma solo
attraverso gli attivisti italiani. Era molto introdotto nella Mezzaluna rossa, come
dimostra il modo con cui, la sera del 14 agosto, dopo la rinuncia della Croce
rossa alla missione a Najaf, riesce a procurare i camion dell’organizzazione
umanitaria araba.
Il fratello Hazem racconta: «Ha messo a rischio la sua vita, viaggiando da nord
a sud in un Paese pericoloso come l’Iraq, offrendo il suo aiuto e aiutando in
qualunque modo potesse. Era un principe tra gli uomini».
Alla metà di ottobre del 2003, Ghareeb accompagna Ed Kinane e il suo amico
Neville in un viaggio che, oltre a Najaf, tocca Tikrit e Samarra, Mosul e il
Kurdistan dove acquista una tonnellata di olio d’oliva da rivendere a Baghdad.
Se fosse stato interno alla guerriglia sunnita di Falluja, i suoi rapporti con i
curdi, che in quella zona sono visti come servi degli americani, sarebbero stati
meno facili. È per questo che probabilmente, se tutto fosse andato bene,
avrebbe accompagnato Enzo Baldoni, il suo amico Mohammed e la sua
carrozzella, nell’ospedale di Emergency a Sulaymania, in Kurdistan.
Non è facile indicare il momento in cui il destino di Ghareeb svolta. Certamente
l’assedio di Falluja lo travolge. Gli impedisce di compilare i moduli necessari
per il visto in modo da andare in Canada dal fratello. Gli amici lo spronano a
prendersi una pausa. Lui promette ogni giorno che li compilerà ogni notte. Ma
tra tempi burocratici e bisogno di fare, tra richieste d’aiuto e tragedie
quotidiane, il tempo scade e il viaggio sfuma. Ha deciso di restare in Iraq. Non
è riuscito a staccarsi dal Paese in cui vive da 14 anni.
Due cicloni ottimisti
Se fai domande su una persona e i suoi amici ti rispondono con l’elenco delle
cose che amava, significa che quella persona amava molto la vita. L’elenco di
Ghareeb si compone di chilometri di sigarette (soltanto di marca Royal, perché
sosteneva che mischiare facesse male), ettolitri di tè e succhi di frutta freschi e
quintali di hamburger, soprattutto quelli di Tils.
La passione contagia Enzo Baldoni che lo conferma sul suo blog, il 10 agosto:
«Poi ce ne andiamo a mangiare un hamburger da Tils, a al Mansour: luci,
gente che passeggia, risate, grandi centrifugati di frutta e uno dei migliori
hamburger che abbia mai mangiato». (Detto dall’autore di alcune, divertenti,
campagne MacDonald’s).
Oltre a ciò che passa per la bocca, ciò che si fuma, si mangia e si beve,
Ghareeb adorava una felpa. Una felpa a scacchi rossi e blu, che aveva portato
con sé anche a Falluja. Le coperte di Linus in guerra non perdono il loro potere.
Dal settembre 2003 era legato a una bella ragazza europea con cui aveva
lavorato a Baghdad. La definizione di interprete è, insomma, di molte taglie più
piccola di Ghareeb. Da parecchio tempo l’ingenere specializzato nelle
produzioni in linea, che aveva imparato l’inglese ed era diventato perito
informatico, in possesso di un brevetto di pilota di elicotteri, cercava di
staccarsi da Baghdad, di fermarsi a riflettere. Sappiamo che all’epoca del
viaggio con Kinkane aveva un visto per il Ghana, forse perché era uno dei
Paesi da cui era più facile ottenerlo. Così si finisce per immaginarlo mentre
rimanda la partenza, e si consola bevendo un tè e sbranando un hamburger, in
attesa dell’arrivo di un giornalista italiano che non conosceva ancora e che
sarebbe stato suo amico.
Forse il destino esiste soltanto se ci credi veramente. In questo caso, le
coincidenze smettono di essere caso e acquistano senso. Enzo Baldoni tendeva
a leggere il mondo, gli incontri, i fatti come segni stradali. Tendeva a
interpretare gli eventi come ingredienti indispensabili (fagioli, verze,
gamberetti) di quel «gigantesco divertente minestrone cosmico» in cui sentiva
di abitare. Quello che è straordinario nel suo modo di leggere il mondo è che
questi segni non si trasformavano mai in verità, non si traducevano mai in
religione. Preferiva contemplarli bloccate allo stato nascente di buffe ipotesi di
lavoro e di esistenza. «Come sempre», si legge nel primo testo del suo blog,
«quando si prepara un viaggio importante, cominciano a grandinare le
coincidenze. E chissà quanto sono segni e quanto le provochiamo noi».
Nel viaggio di Enzo le coincidenze hanno davvero grandinato, lasciando in tutti
noi che le abbiamo messe in scena un senso di colpa mitigato dal sospetto di
essere stati soltanto usati, gentilmente, ridendo, dalla sua straordinaria
vitalità.
Nei giorni in cui Ghareeb aiutava decine di persone stremate a Falluja, a Milano
Enzo Baldoni entrava per la prima volta nella sala riunioni della casa editrice il
Saggiatore. Leggendo i suoi reportage su Diario, ci era venuto in mente di
commissionargli un libro. L’idea era ritrarre la guerriglia, quella dei capi
carismatici, ma soprattutto quella dei combattenti senza nome, a tutte le
latitudini possibili del pianeta. Enzo aveva allora in progetto un viaggio in
Kurdistan. Dopo quella proposta, decise di passare dall’Iraq.
Qualche tempo dopo, prendeva contatti con Eri Garuti, un’altra giornalista che
collabora con questo giornale. Si era presentato il 13 luglio, via e-mail, com’era
sua abitudine (ne scriveva centinaia ogni giorno): «Voglio scrivere un libro sui
guerriglieri. Mi chiamo Enzo Baldoni. Sono sposato da 25 anni con la stessa
donna che amo follemente e ho due figli grandi di cui sono proprio contento».
Dopo avergli descritto la situazione dell’Iraq, Eri gli aveva dato un numero di
telefono che si rivelerà decisivo. Quello di Paola Gasparoli di Un Ponte per
Baghdad. Enzo la chiama la sera del 5 agosto, appena arrivato in Iraq,
descrivendosi come un cinquantaseienne sovrappeso e decisamente poco
appetitoso. Paola ed Enzo si accordano per vedersi il giorno dopo. L’incontro
avviene alle 14 di venerdì 6 agosto, all’hotel Palestine. Enzo spiega a Paola
quello che intende fare. Si fa spiegare minuziosamente la situazione, si fa
elencare le frasi che non deve dire, ascolta tutto con estrema attenzione, ma
senza mai smettere di fare battute. In quali zone si possano nominare i
guerriglieri peshmerga del Kurdistan e in quali sia meglio cucirsi la bocca, quali
siano le varie fazioni tra i sunniti e gli sciiti e dove operino. Dal Palestine inizia
a contattare gli interpreti che gli aveva fornito Ferdinando Pellegrini, un altro
giornalista.
Paola Gasparoli ricorda: «Avevo sùbito pensato a Ghareeb, ma avevo anche
capito che si sarebbero innamorati all’istante. Preferivo passargli il contatto in
un secondo momento, quando avesse un po’ capito come andavano le cose in
Iraq. Poi, da amica di Ghareeb, volevo si prendesse quella famosa vacanza».
Medaglie al valore
Il giorno dopo Enzo insiste per accompagnare Paola fino all’aeroporto: «Non ti
mollo, non ti liberi di me così facilmente. Continuiamo a chiacchierare, continua
a raccontarmi l’Iraq».
Quando il telefono di Paola squilla è mezzogiorno del 7 agosto. È Ghareeb:
«Vorrai mica partire senza l’ultimo tè. Ti raggiungo ovunque tu sia». L’incontro
avviene poco dopo all’al Fanar, un hotel vicino al Palestine, dove a Enzo
piaceva andare. Entra Ghareeb. Sorride. «Si sono riconosciuti all’istante perché
fisicamente si assomigliano molto», racconta Paola Gasparoli «Ho detto a
Ghareeb: “Questo è un altro che vuole capire l’Iraq”. Lui si è battuto una mano
sulla fronte ed è scoppiato a ridere».
Enzo scatta alcune foto, saranno le uniche immagini di Paola con Ghareeb.
Sono le 12.15, finito il tè, accompagnano Paola a prendere i bagagli. Enzo la
accompagna all’aeroporto, dopo essersi messo d’accordo per mangiare con
Ghareeb la sera. Probabilmente «il famoso hamburger più buono della mia
vita» di Tils. È un giorno in cui il destino fa un po’ di conti.
Nel pomeriggio, Enzo incontra Ahmed, che per un giorno sarà il suo interprete.
La tariffa concordata è di 50 dollari al giorno, molto meno di quanto avrebbe
chiesto, per esempio, alla Rai. Ci spiega Ahmed: «Ho cercato di spiegargli che
qui non si capisce più niente, si sono mischiate le cose, non si sa più chi sono
quelli che combattono contro il governo, sunniti, sciiti, rapinatori o la vera
resistenza nazionale. Ho cercato di spiegargli il pericolo per gli stranieri e in
particolare per gli italiani».
Il 9 agosto, dopo essere andato a Falluja con Ghareeb, una città dove il suo
nuovo amico conta su ottimi contatti, Enzo Baldoni rinuncia al suo interprete.
Ahmed: «Abbiamo riaccompagnato Enzo in albergo, lui ci ha salutato e ha
chiesto perdono di non poter continuare con noi per motivo finanziario. Il
giorno dopo mi ha inviato una mail con l’articolo Zonzo per Baghdad scritto da
lui e pubblicato su internet con tante foto... L’ho salutato sperandogli buon
lavoro».
Il lavoro di Enzo e Ghareeb sarebbe stato ottimo. Un’impresa, sancita dalla
lettera di ringraziamento di al Sadr alla Croce rossa italiana e alla Mezzaluna,
che meriterebbe due medaglie al valore. Ex aequo.
«Najaf è caduta», annota Baldoni nel blog, «I marines e i soldati della guardia
nazionale irachena sono riusciti a entrare nella Città Santa e hanno chiuso tutti
gli accessi principali al mausoleo dell’Imam Ali, uno dei luoghi più sacri agli
sciiti di tutto il mondo, situato nel pieno centro di Najaf. Al cellulare di Ghareeb
si moltiplicano le invocazioni di soccorso e i bollettini degli scontri. C’è una
grande rabbia e tristezza. Non sappiamo cosa fare. Vorremmo portare aiuti,
medicinali, acqua. Non so se questa bella impresa porterà molta fortuna agli
americani. Si sono guadagnati per sempre l’odio degli iracheni, sunniti e sciiti».
Ghareeb spinge per rivolgersi a un vecchio amico di Enzo, Beppe De Santis, in
quel periodo alla guida della Croce rossa italiana, un’altra delle tessere di
questa storia.
Nella prima versione, non corretta, Enzo così descrive l’incontro: «È lui! Beppe,
“Il” Beppe de Santis. Quante pastasciutte mangiate insieme nelle notti
d’ambulanza, a Milano. E adesso, del tutto inaspettatamente, me lo trovo nel
buco del culo del mondo. Non è facile essere italiani a Baghdad; infatti gli
hanno sparato un Rpg nel reparto, il mese scorso».
Nell’ospedale della Croce rossa a Baghdad i reponsabili restano in carica circa
un mese. De Santis è entrato in carica a fine luglio. Con Enzo Baldoni si sono
persi di vista da vent’anni. Si ritrovano a Baghdad per caso, ognuno animato
dal bisogno di fare del bene facendo bene il proprio mestiere.
Quello che succede nei successivi tre giorni è straordinario. Una specie di
allineamento tra pianeti di quelli che capitano una volta in mille anni, come se
tutto - persone, desideri, circostanze, eventi esterni - avessero
improvvisamente deciso di smetterla di influenzarsi a casaccio, per mettersi a
cospirare secondo un fine preciso. Un fine che sarebbe stato alto, riuscito,
perfetto e tragico.
Quando il generale Abu Karrar, il mediatore a Baghdad del commissario
straordinario della Croce rossa Maurizio Scelli, entra in ospedale si imbatte in
Ghareeb. E ne rimane spiacevolmente colpito. «C’era un giovanotto trasandato
in tuta e ciabatte», si lamenta con gli amici. Nel frattempo, dopo il no di Scelli,
Baldoni e Ghareeb hanno scortato una trionfale missione della Mezzaluna rossa
a Najaf. Enzo si è anche lussato una spalla e per farsi curare, si trasferisce
all’interno dell’ospedale. È il 15 agosto 2004. Tre giorni dopo partirà il secondo
convoglio, quello attaccato all’andata e al ritorno, quello su cui si è taciuto
almeno quanto si è parlato. Tre giorni dopo il destino aveva fatto piani diversi.
In morte di un «interprete»
Abbiamo fatto analizzare da un medico legale le fotografie del cadavere di
Ghareeb. Ecco le sue osservazioni: «La causa del decesso va verosimilmente
indicata in un colpo d’arma da fuoco proveniente da destra che ha provocato la
frattura della base cranica. La crosta che si vede sulla fronte è probabilmente
terra. Il colore scuro della faccia non è dovuto all’affumicamento, ma alla
ipostasi (da mezz’ora fino a 12 ore dopo la morte, per effetto della gravità, il
sangue e i liquidi fluiscono nelle parti più in basso del corpo, rendendole più
gonfe e violacee, ndr) e a imbrattamento di sangue. Ci sono due macchie
vicino al cuore che potrebbero essere altri due colpi di arma da fuoco. Tutto
indica che il cadavere è stato a lungo a faccia in giù nel terreno».
Ghareeb era ancora vivo. Il colpo che lo ha ucciso proviene da destra. Se fosse
stato ucciso quando ancora era seduto al posto di guida sarebbe stato colpito
da sinistra. È probabile che dopo l’incidente Enzo e Ghareeb siano usciti dalla
Nissan bianca e siano stati raggiunti dai loro assassini. È probabile che
Ghareeb sia stato ucciso subito dopo.
L’automobile è sicuramente bruciata dall’interno in un secondo momento, nel
più tipico stile Cosa nostra. Il motore è integro, ma manca il tappo del
radiatore ed è stata portata via la batteria.
Said Ismael Hakki, presidente della Mezzaluna rossa irachena, che abbiamo
raggiunto al telefono e che aveva sconsigliato la missione, viene a sapere
dell’attacco «mezz’ora dopo il fatto» che si colloca «tra le 11 e le 12 di venerdì
20 agosto 2004». Racconta: «Ci hanno parlato di un gruppo di uomini
mascherati e armati di mitra, che sono intervenuti dopo l’esplosione. Non
sappiamo quanti fossero». Hakki dice di non ritenere che «l’esplosione fosse
dovuta a una mina, penso più a un colpo di Rpg o a una bomba innescata con
un telecomando».
Verso le 13, mentre viene data comunicazione alla Croce rossa italiana di
Baghdad che «un italiano è stato rapito e un palestinese portato all’ospedale di
Mahmudyah», alcuni uomini della Mezzaluna raggiungono l’ospedale dove
trovano il cadavere di Ghareeb. Alle 14, ora di Baghdad, il pacifista inglese
Justin Alexander, che conosceva Ghareeb, viene raggiunto dalla telefonata di
Safanaa, la donna irachena che aveva procurato i mezzi della Mezzaluna rossa
e i contatti necessari per la missione del 15. Piangendo, Safanaa comunica la
notizia della morte di Ghareeb e chiede a Justin il numero di un altro amico di
Ghareeb, un altro giornalista che non siamo riusciti a raggiungere.
Il capo missione Giuseppe De Santis scrive nel rapporto di avere ricevuto
«comunicazione informale della morte di Mr. Ghareeb, e nessuna notizia di
Baldoni» la sera del 20, appena dopo la diffusione della notizia. È ipotizzabile
che qualcuno, forse gli stessi poliziotti iracheni avvisati da De Santis
immediatamente dopo l’agguato (che si trovavano a non più di 800 metri dal
posto) o forse alcuni abitanti, abbiano assistito alla scena che si è svolta
quando il convoglio della Cri era già passato.
Per quasi due settimane in Italia nessuno riuscirà (ma non tenteranno in molti)
a dare un nome e una biografia all’«interprete» ucciso. La notizia della sua
morte viene data per la prima volta, nella mattinata di sabato 21 sul blog di
Enzo Baldoni, il cui responsabile viene avvisato dalla Croce rossa. Per una
conferma più «istituzionale» bisogna attendere i primi giorni della settimana
seguente. Le condizioni del cadavere sono tali, si legge ovunque, che il
riconoscimento è stato possibile solo attraverso un brandello della camicia.
In realtà già sabato mattina, Oday, l’iracheno dello staff della Cri rimasto ferito
nel viaggio d’andata, ha raggiunto l’obitorio di Iskandiryah e ha fotografato il
cadavere.
Come abbiamo potuto verificare dalle immagini, la maglietta verde di marca
Polo Ralph Lauren di Ghareeb è in buone condizioni. Alle 14.23 del giorno 24,
martedì, mentre al Jazeera trasmette il video di Enzo Baldoni, un sito non
ufficiale considerato legato ad Hamas pubblica una breve notizia intitolata
«Martyrdom of Palestinian journalist in Us bombing of Najaf». Eccola: «Khan
Jouinis. Un giornalista palestinese identificato come Mohammed Hussein
Ramadan, 36 anni, è morto da martire un paio di giorni fa mentre tentava di
soccorrere alcuni iracheni feriti a Najaf in Iraq. Fonti palestinesi a Khan Jounis
affermano che il corpo di Ramadan deve essere trasferito in Terra di Palestina
se permesso dalle autorità dell’occupante sionista. Ramadan, che è stato in
Iraq con la sua famiglia dal 1992, lavorava come interprete per agenzie di
stampa».
Parlando di lui, Ed Kinane scrive: «La destinazione definitiva è il ritorno nella
sua famiglia in Palestina. È stato fuori dalla Palestina per molti anni e ne ha
nostalgia. Parla della Palestina con orgoglio. “In Palestina non ci sono né sciiti
né sunniti e c’è una cultura nel popolo che non si può trovare da nessun’altra
parte in Medio Oriente”».
Per Enzo Baldoni gli incontri erano coincidenze in carne e ossa, persone
travestite da messaggeri, segnali migliori perché capaci di essere affettuosi,
intelligenti e generosi. Era convinto che ogni viaggio portasse con sé un
incontro. Mohammed Ramadan - per gli amici, Ghareeb - è stato il suo
incontro.