lo straniero - Misteri d`Italia
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lo straniero - Misteri d`Italia
La questione irachena L’aggressione anglo-americana I sequestri di persona L’assassinio di Enzo Baldoni LO STRANIERO L’interprete di Enzo Baldoni non era solo un interprete. Era molto di più. Nato nel 1968 in Kuwait, giordano palestinese, 36 anni, ingegnere, pilota di elicotteri, informatico, attivista contro l’occupazione militare americana. Durante l’assedio di Falluja, organizza missioni di soccorso e riesce a far liberare un inviato del «New York Times» Mohammed Hussein Ramadan era orgoglioso del suo soprannome. Lo aveva scelto sua madre quando era bambino. Essere Ghareeb, essere «straniero», avrebbe accompagnato la sua vita e avvolto la sua morte. Per giorni e giorni, dopo l’agguato di venerdì 20 agosto in cui è stato ucciso, Ghareeb è stato in Italia soltanto un soprannome. Il fratello Hazem, che vive in Canada, ci scrive: «Amava il soprannome che gli aveva dato mia madre, al punto che difficilmente usava il suo nome di battesimo». Era nato in Kuwait nel 1968, da una famiglia giordana di palestinesi della diaspora. Nel 1992, subito dopo la liberazione del Kuwait da parte americana, la famiglia si era trasferita in Iraq dove Ghareeb si sarebbe laureato in ingegneria. Qualche anno dopo, il padre era tornato in Palestina, un fratello era emigrato a Londra, un altro in Canada. Ghareeb era rimasto. Continua Hazem: «Ma dopo la cosiddetta guerra di liberazione il lavoro è diventato più difficile, così Ghareeb aveva utilizzato la sua buona istruzione, le conoscenze e l’inglese imparato da solo, per lavorare come interprete». Il padre, che oggi ha 68 anni e che vive in Palestina dove possiede un’agenzia immobiliare, è il capo della tribù dei Ramadan. Alla sua morte, il primogenito prenderà il suo posto. Il secondo in linea di successione sarebbe stato proprio Ghareeb. Per questo raccontava di avere ricevuto l’educazione di un capo. Ne aveva parlato con l’attivista americano Ed Kinane di Voices of Wilderness che aveva accompagnato nell’ottobre 2003 in un viaggio a Najaf durante il quale erano stati ricevuti, insieme ad altri giornalisti, da Moqtada al Sadr. Kinane aveva domandato in che cosa consistesse di preciso l’educazione di un capo. «Devi sempre aiutare chi ha bisogno», aveva risposto Ghareeb, «devi sempre sacrificare le tue risorse per gli altri». Chi l’ha conosciuto racconta di un omone allegro, alto quasi due metri per 120 kg, spiritoso, affettuoso, esuberante. L’incontro con Enzo Baldoni, deciso da una raffica di coincidenze che sarebbe tanto piaciuta al giornalista, dev’essere stato quello tra due turbini gioiosi, fisicamente simili e spiritualmente affini. Nel giro degli attivisti internazionali a Baghdad, Ghareeb era molto conosciuto. Nell’aprile scorso aveva organizzato, per esempio, un’importante missione umanitaria durante l’assedio di Falluja. A volte si faceva vivo. Chiedeva aiuto per trasportare persone bisognose di cure nell’ospedale della Croce rossa italiana di Baghdad. Era molto meno conosciuto (e molto meno amato) tra gli interpreti iracheni del Palestine, l’hotel dove in genere risiedono i giornalisti occidentali. Il fatto è che Ghareeb non era il classico interprete. Così come Enzo Baldoni non era il classico giornalista. Per entrambi era impossibile separare il lavoro dalla curiosità, l’interesse per gli altri dalla generosità. Un miscuglio che per alcuni raddoppiava i rischi, specialmente nell’Iraq di oggi. Ricorda il giornalista Fausto Biloslavo: «Io l’ho conosciuto in aprile, l’ultima volta che sono stato in Iraq. Stava scoppiando l’assedio di Falluja e si cercava di capire se si riusciva ad andarci. Lui organizzava i convogli di aiuti alla città assediata nel cortile della sede di Un Ponte per Baghdad. Imbarcava i pacifisti, i volontari e i giornalisti. Io l’ho ringraziato, ma mi sembrava un po’ avventato». Falluja, la morte e le mosche L’assedio di Falluja inizia il 6 aprile, quando l’esercito americano circonda la città. Muri di sabbia chiudono le vie d’accesso. Per quasi un mese nelle strade si combatte sotto le bombe dell’aviazione Usa. Contro le convenzioni internazionali, gli americani negano l’istituzione di zone di sicurezza e di corridoi umanitari per soccorrere i feriti e inviare aiuti. Alla fine si parlerà di 800 morti. L’11 aprile, Ghareeb riesce a fare arrivare in città un pullman che ripartirà il giorno dopo per Baghdad, carico di morti, profughi e feriti. Scrive David Martinez che fa parte della missione: «Questa impresa è stata organizzata da un nostro amico, un attivista iracheno e guardia del corpo professionista che ha i contatti necessari per garantire la nostra sicurezza. È alto, fuma a catena, ha i baffi, occhiali sottili e la pancia. È anche uno, sia detto per inciso, che urla come un matto. Ma in alcune situazioni puoi fidarti soltanto dei pazzi». La descrizione è quella di un inferno. In una città al buio, perché senza elettricità, allo stremo per la mancanza d’acqua e di cibo, i volontari raccolgono profughi, morti e feriti. Il cadavere di un ragazzo sui vent’anni, scalzo, con una maglia dell’Inter numero 28, quello di un vecchio ucciso davanti a casa e osservato per giorni dalla famiglia asserragliata all’interno, due bambini colpiti alla testa da cecchini americani. «Il tanfo di morte ci opprime», scrive ancora Martinez, «e una nuvola di mosche ci scorta indietro fino all’ospedale». La prima destinazione del pullman, lasciata Falluja e lambita Abu Ghraib, è proprio l’ospedale della Croce rossa italiana a Baghdad. Per garantire per la spedizione, agli occhi dei guerriglieri che controllano molte strade, Ghareeb ha portato con sé il figlio di uno sceicco della zona. La missione è pericolosa, ma a Falluja Ghareeb può contare su rapporti radicati. Quando il giornalista del New York Times, Jeffrey Gettleman, viene fermato a un checkpoint della guerriglia, è proprio Ghareeb, garantendo per lui, a farlo liberare. Continua Biloslavo: «La mia impressione è che Ghareeb fosse vicino alla fazione sunnita più moderata, arabo nazionalista, della guerriglia di Falluja, quella nata dalla dissoluzione del partito Baath. Meno con quella dove ci sono gli stranieri più legata ad al Qaeda». Anche se sicuramente – lo dimostrano il viaggio a Najaf di ottobre con Ed Kinane e le missioni del 14 e 19 agosto – negli ultimi tempi aveva stretto buoni contatti anche con gli sciiti dell’esercito di Moqtada al Sadr. Frequentava l’ospedale della Croce rossa italiana a Baghdad, ma solo attraverso gli attivisti italiani. Era molto introdotto nella Mezzaluna rossa, come dimostra il modo con cui, la sera del 14 agosto, dopo la rinuncia della Croce rossa alla missione a Najaf, riesce a procurare i camion dell’organizzazione umanitaria araba. Il fratello Hazem racconta: «Ha messo a rischio la sua vita, viaggiando da nord a sud in un Paese pericoloso come l’Iraq, offrendo il suo aiuto e aiutando in qualunque modo potesse. Era un principe tra gli uomini». Alla metà di ottobre del 2003, Ghareeb accompagna Ed Kinane e il suo amico Neville in un viaggio che, oltre a Najaf, tocca Tikrit e Samarra, Mosul e il Kurdistan dove acquista una tonnellata di olio d’oliva da rivendere a Baghdad. Se fosse stato interno alla guerriglia sunnita di Falluja, i suoi rapporti con i curdi, che in quella zona sono visti come servi degli americani, sarebbero stati meno facili. È per questo che probabilmente, se tutto fosse andato bene, avrebbe accompagnato Enzo Baldoni, il suo amico Mohammed e la sua carrozzella, nell’ospedale di Emergency a Sulaymania, in Kurdistan. Non è facile indicare il momento in cui il destino di Ghareeb svolta. Certamente l’assedio di Falluja lo travolge. Gli impedisce di compilare i moduli necessari per il visto in modo da andare in Canada dal fratello. Gli amici lo spronano a prendersi una pausa. Lui promette ogni giorno che li compilerà ogni notte. Ma tra tempi burocratici e bisogno di fare, tra richieste d’aiuto e tragedie quotidiane, il tempo scade e il viaggio sfuma. Ha deciso di restare in Iraq. Non è riuscito a staccarsi dal Paese in cui vive da 14 anni. Due cicloni ottimisti Se fai domande su una persona e i suoi amici ti rispondono con l’elenco delle cose che amava, significa che quella persona amava molto la vita. L’elenco di Ghareeb si compone di chilometri di sigarette (soltanto di marca Royal, perché sosteneva che mischiare facesse male), ettolitri di tè e succhi di frutta freschi e quintali di hamburger, soprattutto quelli di Tils. La passione contagia Enzo Baldoni che lo conferma sul suo blog, il 10 agosto: «Poi ce ne andiamo a mangiare un hamburger da Tils, a al Mansour: luci, gente che passeggia, risate, grandi centrifugati di frutta e uno dei migliori hamburger che abbia mai mangiato». (Detto dall’autore di alcune, divertenti, campagne MacDonald’s). Oltre a ciò che passa per la bocca, ciò che si fuma, si mangia e si beve, Ghareeb adorava una felpa. Una felpa a scacchi rossi e blu, che aveva portato con sé anche a Falluja. Le coperte di Linus in guerra non perdono il loro potere. Dal settembre 2003 era legato a una bella ragazza europea con cui aveva lavorato a Baghdad. La definizione di interprete è, insomma, di molte taglie più piccola di Ghareeb. Da parecchio tempo l’ingenere specializzato nelle produzioni in linea, che aveva imparato l’inglese ed era diventato perito informatico, in possesso di un brevetto di pilota di elicotteri, cercava di staccarsi da Baghdad, di fermarsi a riflettere. Sappiamo che all’epoca del viaggio con Kinkane aveva un visto per il Ghana, forse perché era uno dei Paesi da cui era più facile ottenerlo. Così si finisce per immaginarlo mentre rimanda la partenza, e si consola bevendo un tè e sbranando un hamburger, in attesa dell’arrivo di un giornalista italiano che non conosceva ancora e che sarebbe stato suo amico. Forse il destino esiste soltanto se ci credi veramente. In questo caso, le coincidenze smettono di essere caso e acquistano senso. Enzo Baldoni tendeva a leggere il mondo, gli incontri, i fatti come segni stradali. Tendeva a interpretare gli eventi come ingredienti indispensabili (fagioli, verze, gamberetti) di quel «gigantesco divertente minestrone cosmico» in cui sentiva di abitare. Quello che è straordinario nel suo modo di leggere il mondo è che questi segni non si trasformavano mai in verità, non si traducevano mai in religione. Preferiva contemplarli bloccate allo stato nascente di buffe ipotesi di lavoro e di esistenza. «Come sempre», si legge nel primo testo del suo blog, «quando si prepara un viaggio importante, cominciano a grandinare le coincidenze. E chissà quanto sono segni e quanto le provochiamo noi». Nel viaggio di Enzo le coincidenze hanno davvero grandinato, lasciando in tutti noi che le abbiamo messe in scena un senso di colpa mitigato dal sospetto di essere stati soltanto usati, gentilmente, ridendo, dalla sua straordinaria vitalità. Nei giorni in cui Ghareeb aiutava decine di persone stremate a Falluja, a Milano Enzo Baldoni entrava per la prima volta nella sala riunioni della casa editrice il Saggiatore. Leggendo i suoi reportage su Diario, ci era venuto in mente di commissionargli un libro. L’idea era ritrarre la guerriglia, quella dei capi carismatici, ma soprattutto quella dei combattenti senza nome, a tutte le latitudini possibili del pianeta. Enzo aveva allora in progetto un viaggio in Kurdistan. Dopo quella proposta, decise di passare dall’Iraq. Qualche tempo dopo, prendeva contatti con Eri Garuti, un’altra giornalista che collabora con questo giornale. Si era presentato il 13 luglio, via e-mail, com’era sua abitudine (ne scriveva centinaia ogni giorno): «Voglio scrivere un libro sui guerriglieri. Mi chiamo Enzo Baldoni. Sono sposato da 25 anni con la stessa donna che amo follemente e ho due figli grandi di cui sono proprio contento». Dopo avergli descritto la situazione dell’Iraq, Eri gli aveva dato un numero di telefono che si rivelerà decisivo. Quello di Paola Gasparoli di Un Ponte per Baghdad. Enzo la chiama la sera del 5 agosto, appena arrivato in Iraq, descrivendosi come un cinquantaseienne sovrappeso e decisamente poco appetitoso. Paola ed Enzo si accordano per vedersi il giorno dopo. L’incontro avviene alle 14 di venerdì 6 agosto, all’hotel Palestine. Enzo spiega a Paola quello che intende fare. Si fa spiegare minuziosamente la situazione, si fa elencare le frasi che non deve dire, ascolta tutto con estrema attenzione, ma senza mai smettere di fare battute. In quali zone si possano nominare i guerriglieri peshmerga del Kurdistan e in quali sia meglio cucirsi la bocca, quali siano le varie fazioni tra i sunniti e gli sciiti e dove operino. Dal Palestine inizia a contattare gli interpreti che gli aveva fornito Ferdinando Pellegrini, un altro giornalista. Paola Gasparoli ricorda: «Avevo sùbito pensato a Ghareeb, ma avevo anche capito che si sarebbero innamorati all’istante. Preferivo passargli il contatto in un secondo momento, quando avesse un po’ capito come andavano le cose in Iraq. Poi, da amica di Ghareeb, volevo si prendesse quella famosa vacanza». Medaglie al valore Il giorno dopo Enzo insiste per accompagnare Paola fino all’aeroporto: «Non ti mollo, non ti liberi di me così facilmente. Continuiamo a chiacchierare, continua a raccontarmi l’Iraq». Quando il telefono di Paola squilla è mezzogiorno del 7 agosto. È Ghareeb: «Vorrai mica partire senza l’ultimo tè. Ti raggiungo ovunque tu sia». L’incontro avviene poco dopo all’al Fanar, un hotel vicino al Palestine, dove a Enzo piaceva andare. Entra Ghareeb. Sorride. «Si sono riconosciuti all’istante perché fisicamente si assomigliano molto», racconta Paola Gasparoli «Ho detto a Ghareeb: “Questo è un altro che vuole capire l’Iraq”. Lui si è battuto una mano sulla fronte ed è scoppiato a ridere». Enzo scatta alcune foto, saranno le uniche immagini di Paola con Ghareeb. Sono le 12.15, finito il tè, accompagnano Paola a prendere i bagagli. Enzo la accompagna all’aeroporto, dopo essersi messo d’accordo per mangiare con Ghareeb la sera. Probabilmente «il famoso hamburger più buono della mia vita» di Tils. È un giorno in cui il destino fa un po’ di conti. Nel pomeriggio, Enzo incontra Ahmed, che per un giorno sarà il suo interprete. La tariffa concordata è di 50 dollari al giorno, molto meno di quanto avrebbe chiesto, per esempio, alla Rai. Ci spiega Ahmed: «Ho cercato di spiegargli che qui non si capisce più niente, si sono mischiate le cose, non si sa più chi sono quelli che combattono contro il governo, sunniti, sciiti, rapinatori o la vera resistenza nazionale. Ho cercato di spiegargli il pericolo per gli stranieri e in particolare per gli italiani». Il 9 agosto, dopo essere andato a Falluja con Ghareeb, una città dove il suo nuovo amico conta su ottimi contatti, Enzo Baldoni rinuncia al suo interprete. Ahmed: «Abbiamo riaccompagnato Enzo in albergo, lui ci ha salutato e ha chiesto perdono di non poter continuare con noi per motivo finanziario. Il giorno dopo mi ha inviato una mail con l’articolo Zonzo per Baghdad scritto da lui e pubblicato su internet con tante foto... L’ho salutato sperandogli buon lavoro». Il lavoro di Enzo e Ghareeb sarebbe stato ottimo. Un’impresa, sancita dalla lettera di ringraziamento di al Sadr alla Croce rossa italiana e alla Mezzaluna, che meriterebbe due medaglie al valore. Ex aequo. «Najaf è caduta», annota Baldoni nel blog, «I marines e i soldati della guardia nazionale irachena sono riusciti a entrare nella Città Santa e hanno chiuso tutti gli accessi principali al mausoleo dell’Imam Ali, uno dei luoghi più sacri agli sciiti di tutto il mondo, situato nel pieno centro di Najaf. Al cellulare di Ghareeb si moltiplicano le invocazioni di soccorso e i bollettini degli scontri. C’è una grande rabbia e tristezza. Non sappiamo cosa fare. Vorremmo portare aiuti, medicinali, acqua. Non so se questa bella impresa porterà molta fortuna agli americani. Si sono guadagnati per sempre l’odio degli iracheni, sunniti e sciiti». Ghareeb spinge per rivolgersi a un vecchio amico di Enzo, Beppe De Santis, in quel periodo alla guida della Croce rossa italiana, un’altra delle tessere di questa storia. Nella prima versione, non corretta, Enzo così descrive l’incontro: «È lui! Beppe, “Il” Beppe de Santis. Quante pastasciutte mangiate insieme nelle notti d’ambulanza, a Milano. E adesso, del tutto inaspettatamente, me lo trovo nel buco del culo del mondo. Non è facile essere italiani a Baghdad; infatti gli hanno sparato un Rpg nel reparto, il mese scorso». Nell’ospedale della Croce rossa a Baghdad i reponsabili restano in carica circa un mese. De Santis è entrato in carica a fine luglio. Con Enzo Baldoni si sono persi di vista da vent’anni. Si ritrovano a Baghdad per caso, ognuno animato dal bisogno di fare del bene facendo bene il proprio mestiere. Quello che succede nei successivi tre giorni è straordinario. Una specie di allineamento tra pianeti di quelli che capitano una volta in mille anni, come se tutto - persone, desideri, circostanze, eventi esterni - avessero improvvisamente deciso di smetterla di influenzarsi a casaccio, per mettersi a cospirare secondo un fine preciso. Un fine che sarebbe stato alto, riuscito, perfetto e tragico. Quando il generale Abu Karrar, il mediatore a Baghdad del commissario straordinario della Croce rossa Maurizio Scelli, entra in ospedale si imbatte in Ghareeb. E ne rimane spiacevolmente colpito. «C’era un giovanotto trasandato in tuta e ciabatte», si lamenta con gli amici. Nel frattempo, dopo il no di Scelli, Baldoni e Ghareeb hanno scortato una trionfale missione della Mezzaluna rossa a Najaf. Enzo si è anche lussato una spalla e per farsi curare, si trasferisce all’interno dell’ospedale. È il 15 agosto 2004. Tre giorni dopo partirà il secondo convoglio, quello attaccato all’andata e al ritorno, quello su cui si è taciuto almeno quanto si è parlato. Tre giorni dopo il destino aveva fatto piani diversi. In morte di un «interprete» Abbiamo fatto analizzare da un medico legale le fotografie del cadavere di Ghareeb. Ecco le sue osservazioni: «La causa del decesso va verosimilmente indicata in un colpo d’arma da fuoco proveniente da destra che ha provocato la frattura della base cranica. La crosta che si vede sulla fronte è probabilmente terra. Il colore scuro della faccia non è dovuto all’affumicamento, ma alla ipostasi (da mezz’ora fino a 12 ore dopo la morte, per effetto della gravità, il sangue e i liquidi fluiscono nelle parti più in basso del corpo, rendendole più gonfe e violacee, ndr) e a imbrattamento di sangue. Ci sono due macchie vicino al cuore che potrebbero essere altri due colpi di arma da fuoco. Tutto indica che il cadavere è stato a lungo a faccia in giù nel terreno». Ghareeb era ancora vivo. Il colpo che lo ha ucciso proviene da destra. Se fosse stato ucciso quando ancora era seduto al posto di guida sarebbe stato colpito da sinistra. È probabile che dopo l’incidente Enzo e Ghareeb siano usciti dalla Nissan bianca e siano stati raggiunti dai loro assassini. È probabile che Ghareeb sia stato ucciso subito dopo. L’automobile è sicuramente bruciata dall’interno in un secondo momento, nel più tipico stile Cosa nostra. Il motore è integro, ma manca il tappo del radiatore ed è stata portata via la batteria. Said Ismael Hakki, presidente della Mezzaluna rossa irachena, che abbiamo raggiunto al telefono e che aveva sconsigliato la missione, viene a sapere dell’attacco «mezz’ora dopo il fatto» che si colloca «tra le 11 e le 12 di venerdì 20 agosto 2004». Racconta: «Ci hanno parlato di un gruppo di uomini mascherati e armati di mitra, che sono intervenuti dopo l’esplosione. Non sappiamo quanti fossero». Hakki dice di non ritenere che «l’esplosione fosse dovuta a una mina, penso più a un colpo di Rpg o a una bomba innescata con un telecomando». Verso le 13, mentre viene data comunicazione alla Croce rossa italiana di Baghdad che «un italiano è stato rapito e un palestinese portato all’ospedale di Mahmudyah», alcuni uomini della Mezzaluna raggiungono l’ospedale dove trovano il cadavere di Ghareeb. Alle 14, ora di Baghdad, il pacifista inglese Justin Alexander, che conosceva Ghareeb, viene raggiunto dalla telefonata di Safanaa, la donna irachena che aveva procurato i mezzi della Mezzaluna rossa e i contatti necessari per la missione del 15. Piangendo, Safanaa comunica la notizia della morte di Ghareeb e chiede a Justin il numero di un altro amico di Ghareeb, un altro giornalista che non siamo riusciti a raggiungere. Il capo missione Giuseppe De Santis scrive nel rapporto di avere ricevuto «comunicazione informale della morte di Mr. Ghareeb, e nessuna notizia di Baldoni» la sera del 20, appena dopo la diffusione della notizia. È ipotizzabile che qualcuno, forse gli stessi poliziotti iracheni avvisati da De Santis immediatamente dopo l’agguato (che si trovavano a non più di 800 metri dal posto) o forse alcuni abitanti, abbiano assistito alla scena che si è svolta quando il convoglio della Cri era già passato. Per quasi due settimane in Italia nessuno riuscirà (ma non tenteranno in molti) a dare un nome e una biografia all’«interprete» ucciso. La notizia della sua morte viene data per la prima volta, nella mattinata di sabato 21 sul blog di Enzo Baldoni, il cui responsabile viene avvisato dalla Croce rossa. Per una conferma più «istituzionale» bisogna attendere i primi giorni della settimana seguente. Le condizioni del cadavere sono tali, si legge ovunque, che il riconoscimento è stato possibile solo attraverso un brandello della camicia. In realtà già sabato mattina, Oday, l’iracheno dello staff della Cri rimasto ferito nel viaggio d’andata, ha raggiunto l’obitorio di Iskandiryah e ha fotografato il cadavere. Come abbiamo potuto verificare dalle immagini, la maglietta verde di marca Polo Ralph Lauren di Ghareeb è in buone condizioni. Alle 14.23 del giorno 24, martedì, mentre al Jazeera trasmette il video di Enzo Baldoni, un sito non ufficiale considerato legato ad Hamas pubblica una breve notizia intitolata «Martyrdom of Palestinian journalist in Us bombing of Najaf». Eccola: «Khan Jouinis. Un giornalista palestinese identificato come Mohammed Hussein Ramadan, 36 anni, è morto da martire un paio di giorni fa mentre tentava di soccorrere alcuni iracheni feriti a Najaf in Iraq. Fonti palestinesi a Khan Jounis affermano che il corpo di Ramadan deve essere trasferito in Terra di Palestina se permesso dalle autorità dell’occupante sionista. Ramadan, che è stato in Iraq con la sua famiglia dal 1992, lavorava come interprete per agenzie di stampa». Parlando di lui, Ed Kinane scrive: «La destinazione definitiva è il ritorno nella sua famiglia in Palestina. È stato fuori dalla Palestina per molti anni e ne ha nostalgia. Parla della Palestina con orgoglio. “In Palestina non ci sono né sciiti né sunniti e c’è una cultura nel popolo che non si può trovare da nessun’altra parte in Medio Oriente”». Per Enzo Baldoni gli incontri erano coincidenze in carne e ossa, persone travestite da messaggeri, segnali migliori perché capaci di essere affettuosi, intelligenti e generosi. Era convinto che ogni viaggio portasse con sé un incontro. Mohammed Ramadan - per gli amici, Ghareeb - è stato il suo incontro.