Jean-Louis Fournier è un autore prolifico e

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Jean-Louis Fournier è un autore prolifico e
Jean-Louis Fournier è un autore prolifico e amatissimo
in tutti i paesi francofoni. I suoi libri più famosi pubblicati in Italia sono Aritmetica applicata e impertinente
(1994), Io, Dio (2005), Dove andiamo Papà? (2009),
Il mio ultimo capello nero (2012) e Il curriculum di
Dio (2010).
Gare du Nord
La frenesia e la multiculturalità della parigina Gare du
Nord raccontano il carattere composito della collana di
narrativa contemporanea di Edizioni Clichy, dedicata alla
scrittura di stampo letterario, principalmente francofona
ma non solo: storie, esseri umani, vite, colori, suoni, silenzi,
tematiche forti, autori dal linguaggio inconfondibile,
senza timore di assumere posizioni di rottura di fronte
all’establishment culturale e sociale o di raccontare abissi,
sperdimenti, discese ardite ma anche voli e flâneries.
Jean-Louis Fournier
Poeta e
contadino
«Poète et paysan»
de Jean-Louis Fournier
© 2010 Éditions Stock - Paris
Traduzione di Sylvia Zanotto
Per l’edizione italiana:
© 2014 Edizioni Clichy - Firenze
Edizioni Clichy
Via Pietrapiana, 32
50121 - Firenze
www.edizioniclichy.it
Isbn: 978-88-6799-110-5
Edizioni Clichy
In campagna,
di giorno ci si annoia,
la notte si ha paura.
Michel Audiard
Me ne sto seduto in mezzo a loro a tavola,
davanti alla televisione. Il fattore sonnecchia,
la moglie del fattore fa la maglia e le figlie del
contadino leggono riviste. Una ha i bigodini,
un’altra due rondelle di cetriolo sugli occhi, la
terza si mette lo smalto.
Mi annoio.
Siamo nel Pas-de-Calais, in un paesino che
non figura nemmeno sulla cartina. Si chiama
Monchy. La noia trasuda dal soffitto, talvolta
cola lentamente dalle travi, goccia dopo goccia, come catrame. Difficile capire se è ancora
giorno o già notte. Fuori, non c’è neanche un
paesaggio. La televisione è in bianco e nero.
L’immagine è piena di grumi e gente noiosa
ci parla dentro.
Mi annoio da morire.
Per sopravvivere, ho preso una matita e un
foglio bianco.
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Cosa ci faccio qui?
Ho in mano una forca, il manico è appiccicoso, trasporto letame, le mucche mi squadrano. Solo lo sguardo dolcissimo di una giovane
giovenca mi calma.
Sei mesi fa, ero uno studente a Parigi.
Preparavo l’esame di ammissione all’Istituto
Superiore di Cinematografia. Oggi sono la
signorina pipì delle mucche. Ogni settimana
devo cambiare loro la lettiera.
Le mie mani sono imbrattate di liquame,
puzzano. Corro all’acquaio della cucina ogni
cinque minuti per lavarle.
Ma cosa sono venuto a fare qui?
La fattoria è un’azienda di grandi dimensioni,
la più grande del paese. Duecento ettari di terra.
Ci praticano la policoltura, barbabietola e grano. Il grano richiede sole, la barbabietola pioggia. È comodo, permette al coltivatore, qualsiasi
tempo faccia, di potersi lamentare del tempo.
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Poi ci sono le piante da foraggio per il bestiame. E il lino che colora di blu i campi e li
trasforma in oceano Pacifico.
Ci sono un centinaio di bestie con le corna,
galline e anatre che mangiamo la domenica.
Il fattore è uno che conta, ha studiato. Viene da una buona famiglia, anche sua moglie.
Hanno il posto assegnato nella chiesa del villaggio. Ogni domenica, tutta la famiglia si
ritrova a messa. Le ragazze sono belle ed eleganti.
Il contadino ha tre figlie e un figlio. Sta invecchiando, ma nessuno dei figli vuole rilevare
la fattoria. Le ragazze studiano a Parigi, tutti
i figli dei coltivatori del posto le corteggiano,
ma loro non ne vogliono sapere, sognano di
meglio. Quanto al figlio, non si può contare
su di lui, è allergico alla paglia.
La bella azienda agricola sarà venduta, è
proprio un peccato.
A meno che non ci sia un pretendente...
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Ma che ci faccio qua?
Il cielo è basso, pioviggina. La terra è coperta di barbabietole fino all’orizzonte, ce ne
sono a migliaia. Bisognerà sbarbarle tutte.
Il trattore, a cui è stato bloccato il volante
con un cavo elastico, procede a diritto, trainando il suo rimorchio in mezzo alle barbabietole sradicate. Seguono quattro uomini per
lato, che con le forche raccolgono le barbabietole e le gettano nel rimorchio. Faccio parte
del seguito, sono uno dei quattro.
Al liceo Voltaire, nella classe di preparazione all’Istituto Superiore di Cinematografia, non mi hanno certo insegnato a tenere
in mano un forcone. Lo uso male. Le barbabietole vanno sempre prese da sotto, i denti
tangenti posizionati raso al suolo e le punte rivolte verso l’alto. Spesso mi capita di infilzare
i denti nella barbabietola; rimane conficcata,
mi devo fermare e staccarla con le mani. Perdo
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tempo. Ho le mani piene di terra, il manico
della mia forca scivola. Il trattore continua ad
avanzare. I miei colleghi camminano, riservati
e silenziosi, come i contadini di Millet. Sembra un funerale.
Sono stufo.
Ma che ci faccio sotto questo cielo gonfio
d’acqua, che mi pesa sempre di più e mi cola
sul collo come un cencio bagnato?
Io che sognavo di essere Fellini, io che
guardavo il mondo attraverso l’occhio della
cinepresa, io che passavo il tempo alla Cineteca, davanti ai film russi, io che sentenziavo
sulla negatività della regia in Fritz Lang. Perché sono qua?
Oggi, il regista ha un forcone in mano, sta
tentando di raccogliere barbabietole.
Non sono qui per poco, in vacanza da un
parente contadino. È peggio, sono qui per un
lungo periodo. Forse per sempre.
Sono appena rientrato sfinito dopo una
giornata nei campi. Me ne sto seduto davanti al mio piatto e la testa mi ciondola nella
zuppa da quanto sono stanco.
Quando rialzo la testa, vedo scintillare sullo schermo in bianco e nero della televisione
i nomi dei miei compagni. Lavorano al telegiornale, i ragazzi sono assistenti alla regia, le
ragazze segretarie di produzione. Vedo i loro
nomi tutti i giorni. Loro non sono tornati alla
terra.
Cerco d’immaginarmeli. Ben vestiti, con le
scarpe tirate a lucido, che danno del tu ai giornalisti, a persone famose, mentre baciano le
truccatrici, forse perfino Catherine Langeais.1
Io, nello sperduto Pas-de-Calais, do del tu
alle mucche. Puzzo di letame, ho gli stivali
1 Nota presentatrice francese fra gli anni Cinquanta e Settanta, famosa
anche per essere stata la fidanzata di François Mitterand.
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pieni di sterco e fango, siedo a tavola accanto
al fattore che mi considera un tipo bizzarro e
non crede molto alla mia vocazione di coltivatore. Me ne sto davanti a un piatto di minestra e a una televisione che mi sfida.
Lavoro come operaio agricolo presso il mio
futuro suocero, e la minestra è fredda.
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È tutta colpa della figlia del fattore. È incantevole, i suoi occhi sono belli, ride quando
dico stupidaggini e mi accorgo prestissimo
che ha la pelle liscia. Studiamo entrambi a Parigi. Io cinema. Lei psicologia.
La prima volta, ci siamo dati appuntamento alla fontana Saint-Michel, davanti al
drago che sputa acqua. Io mi presentavo con
un handicap, avevo avuto la pessima idea di
andare dal parrucchiere la mattina stessa. Non
mi aveva certo mancato: avevo i capelli troppo corti, ero brutto come la fame.
Lei ovviamente era affascinante come sempre, pimpante e bellissima come un soldo
nuovo di zecca. Abbiamo camminato a lungo
per Parigi. Alla fine della passeggiata, ci tenevamo per mano.
Parigi non era più ostile come lo è a volte
per i provinciali. Quel giorno era nostra complice.
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