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Anno XXVII
n.1
marzo
2016
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Viale Giotto, 200
71122 FOGGIA - Tel. e Fax 0881 749774
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Afd Matteo Russo
Vice Direttore
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Direttore Responsabile
Dott. Giuseppe Tampone
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Dott. Michele Del Gaudio
Vice Presidente
Dott. Silvio Piancone
Segretario
Dott. Matteo Vizzani
Tesoriere
AFD Gaetano Consalvo
CONSIGLIO DIRETTIVO
M. S. Cicilano, M. R. Cimarrusti, G. Chiumento,
F. Mansi, A. Marchesani,
P. Papagna, M. Russo, A. Santoro, A. Scisco,
C. Tampone, G. Tino
REVISORI DEI CONTI
A. Libertazzi, A. Turco, D. Trombetta,
M. Marchese (Supp.)
Dal Collegio
• Il collegio IPASVI di Foggia a
scuola di legalità
pag. 3
a cura di Ciro Antonio TAMPONE
APPROFONDIMENTI
• La sindrome del burnout: impatto nella professione sanitaria infermieristica
a cura di Roberta Merla, Gianluca Marcucci
pag. 9
• il prelievo ematico da accesso venoso periferico:
perchè non eseguirlo? un mito da sfatare.
a cura di Celestina Pazienza, Gianluca Marcucci
pag. 23
• Programma Preliminare Gattarella
pag. 32
• III CONGRESSO NAZIONALE SOCIETA’ SCIENTIFICA
COMLAS
pag. 35
Norme editoriali per le proposte di pubblicazione
Le proposte editoriali verrano valutate dal comitato di redazione e prese in considerazione solo se originali (non pubblicati in precedenza) il cui contenuto sia di chiaro interesse
infermieristico. La pubblicazione del materiale è subordinata al giudizio insindacabile
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Libri: Autore, Titolo (in corsivo), Luogo, Editore, Data, Pagina
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Atti: Titolo dell’evento, città, data.
Quando il lavoro coinvolge, a vario titolo, l’istituzione di appartenenza degli autori o
soggetti diversi dagli autori, è necessario allegare una liberatoria scritta dei relativi
responsabili. Il materiale inviato non verrà restituito in alcun caso.
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Dal Collegio
Il Collegio IPASVI di Foggia a scuola di legalità
a cura di Ciro Antonio TAMPONE
Ci troviamo di fronte al fatto che domani è già oggi…
La speranza spetta a noi, e per quanto potremmo desiderare altrimenti,
3
dobbiamo scegliere ……(Martin Luther King)
Da diversi
anni, si assiste ad un cambio di lettura e di interpretazione dei
fenomeni legati alla responsabilità professionale.
Le motivazioni sono da
attribuire ad un maggior
livello culturale dei cittadini e alla maggiore diffusione attraverso i mass-media delle
conoscenze mediche e sanitarie, l’aumento
della complessità delle patologie e dei trattamenti; la sensibilizzazione delle associazioni a difesa dei diritti del malato; l’allungamento della vita media; l’evoluzione del
concetto di responsabilità civile.
Tutto ciò comporta una crescente attenzione alle forme di tutela e di auto-tutela
dell’assistito nei confronti degli operatori
sanitari; alla progressiva identificazione
dell’obbligazione di mezzi con quella di
risultati, che comporta, per il professionista della salute, una responsabilità sia per
le modalità con cui opera, sia per gli effettivi esiti della sua azione; alla diffusione
dell’EBP e al ruolo delle organizzazioni e
delle istituzioni che insieme alle società
scientifiche, attraverso la diffusione e l’adozione di protocolli e linee guida, rendono l’attività professionale meno libera e
più uniforme. I riferimenti per poter analizzare e declinare la responsabilità professionale derivano non solo dalle norme per
l’esercizio professionale, ma anche dagli
orientamenti della dottrina giurisprudenziale e dalle sentenze emanate, soprattutto
da parte della Cassazione.
Anche quest’anno il Collegio IPASVI di
Foggia ha programmato un evento formativo residenziale a garanzia della collettività e della professione infermieristica dal
titolo “ Incontri su aspetti etico legali della professione infermieristica”, accreditato
E.C.M. (educazione continua in medicina), tenutosi a Foggia il 28 maggio 2016.
Il Presidente del collegio IPASVI di Foggia
dottor Michele del Gaudio dopo i doverosi saluti alla platea “oltre ottanta partecipanti”, ha disegnato “ Il contesto attuale
dell’esercizio professionale infermieristico”. La sua relazione ha raffrontato l’evoluzione dei bisogni delle persone con l’evoluzione della professione infermieristica
fino ad arrivare ai cambiamenti richiesti
dal SSN. Il suo resoconto si è soffermato sulla responsabilità dei professionisti
dell’assistenza e sui Dirigenti Infermieri
alla luce delle nuove competenza e utilizzo
delle stesse.
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Il dottor Silvio Piancone Dirigente dell’Assistenza Infermieristica presso il Policlinico
degli Ospedali Riuniti di Foggia nonché vicepresidente del Collegio IPASVI di Foggia
ha relazionato su un tema al quanto attuale e discusso su testate giornalistiche sanitarie
quale il “Demansionamento ed il riconoscimento della professione infermieristica”.
Tutti sappiamo che il demansionamento è un illecito, derivante da un comportamento illegittimo da parte del datore di lavoro in grado di provocare un danno ingiusto al
lavoratore conseguente ad un atteggiamento, commissivo o omissivo, che comunque
costringa il lavoratore ad eseguire (in tutto o in parte) mansioni o attività tipiche e
contrattualmente definite proprie di lavoratori appartenenti a categorie contrattuali inferiori. E a questo punto sorgono diverse domande, quali sono le mansioni inferiori che
l'infermiere non può fare, che risarcimenti spettano, che cosa si può fare per opporsi...
La questione è difficile il nostro Codice Deontologico prevede che:
Articolo 49
L’infermiere, nell’interesse primario degli assistiti, compensa le carenze e i disservizi che possono eccezionalmente verificarsi nella struttura in cui opera. Rifiuta la
compensazione, documentandone le ragioni, quando sia abituale o ricorrente o comunque pregiudichi sistematicamente il suo mandato professionale.
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Il demansionamento deve avere le seguenti caratteristiche
Diverse sentenze di cassazione sono state illustrare e approfondite con l’ausilio dell’avvocato Pierluigi Caraglia avvocato del Collegio IPASVI di Foggia e la professoressa Emanuela Turillazzi Professore di Medicina Legale, Università degli Studi di Foggia.
Alcune sentenze citate
La Cassazione, Sezione Lavoro, con Sentenza n.10157 del
06/05/ 2004
La Corte di Appello, in data 2 Dicembre 2015, riforma la precedente sentenza e, con la
sentenza n° 8132,.
Tribunale di Chieti sentenza 19903/2015
Sentenza del 06.10.2015, n. 1302, Tribunale di Cagliari
Sentenza n.52/2016 il Giudice del Lavoro del Tribunale di Caltanissetta
Il dottor Piancone conclude la sua relazione con una domanda “ Come difendersi dal
demansionamento” suggerisce di:
Ma ricordarsi anche che
•
•
•
•
l’onere della prova è a carico del ricorrente
servono prove documentali
prove testimoniali
relazione del ctp
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L’avvocato Pierluigi Caraglia presenta “un’Analisi della responsabilità infermieristica:
riferimenti normativi e giurisprudenziali”
Esercizio
professionale:
responsabilità
di natura giuridica e ambiti
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normativi
La responsabilità penale:
fattispecie di
reato penale
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La professoressa Emanuela Turillazzi confronta la legge 189/ 2012 conosciuta come
legge Balduzzi in modo particolare l’art.
3”responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie” e il ddl Gelli
in materia di responsabilità professionale,
(prossima approvazione). Non si tratta assolutamente di un provvedimento sbilanciato a favore dei professionisti ma tende
a ricostituire un nuovo equilibrio nel rapporto tra medico e paziente. Questa legge risponde a due problematiche come la
mole del contenzioso medico legale, che
ha causato un aumento sostanziale del costo delle assicurazioni per professionisti e
strutture sanitarie, e il fenomeno della medicina difensiva che ha prodotto un uso
inappropriato delle risorse destinate alla
sanità pubblica. “Le Linee Guida ha spiegato la Turillazzi saranno inserite nel Sistema
Sanitario Nazionale e pubblicate sul sito
dell'Istituto Superiore di Sanità che ricoprirà così un ruolo centrale.
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Grazie a nuovi emendamenti approvati,
i verbali e gli atti conseguenti l’attività di
gestione del rischio clinico non potranno
essere acquisiti o utilizzati nell’ambito dei
procedimenti giudiziali. La responsabilità
extracontrattuale ci sarà anche per i medici
di famiglia e viene escluso l'intervento della
Corte dei Conti nell'azione di rivalsa.
Un punto a sfavore di questa legge è la rivalsa dell’azienda nella colpa grave e nel dolo
presso i dipendenti. La domanda critica è
che cos’è la colpa grave, considerando che
non esiste una definizione ma bensì solo
interpretazioni da parte dei giudici.
In conclusione descrive una serie di casi clinici che vedono attori medici e infermieri.
Il bilancio dell’evento formativo organizzato dal Collegio IPASVI di Foggia è stato
più che positivo per l’attualità degli argomenti proposti e per i tanti spunti di riflessione per i professionisti infermieri e tutto
ciò a costo zero per i propri iscritti.
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Approfondimenti
La sindrome di burnout:
impatto nella professione sanitaria
a cura di:
Roberta Merla, Dottore in Infermieristica Università degli Studi di Foggia
Gianluca Marcucci, Dottore Magistrale in Scienze Infermieristiche e Ostetriche, Docente a contratto MED/45 Università degli Studi di Foggia, CdL Infermieristica Sede di San
Giovanni Rotondo
(Articolo Estratto dalla Tesi di Laurea della Dottoressa Roberta Merla)
Introduzione
Le trasformazioni della società e del mondo del lavoro hanno amplificato i rischi
definiti trasversali o psico-sociali, che
rappresentano oggi un ipotetico ostacolo, di una certa rilevanza alla salute e alla
sicurezza dei lavoratori. In una delle pri-
me definizioni dell' OIL (Organizzazione
Internazionale del Lavoro, 1986) i rischi
psico-sociali sono stati individuati in termini di interazione tra contenuto del lavoro, gestione e organizzazione del lavoro, condizioni ambientali e organizzative
da un lato, competenze ed esigenze dei lavoratori dipendenti dall'altro. Interazione
in grado di produrre danni fisici o psicologici nel lavoratore. Questi rischi rappresentano una vera preoccupazione per le
organizzazioni, al punto che molto spesso
si preferisce affrontarli in modo non esaustivo e con strumenti non sempre adeguati a coglierne gli aspetti rilevanti.
La sindrome del Burnout sta oggi raggiungendo proporzioni epidemiche tra i
lavoratori dei paesi occidentali a tecnologia avanzata. Questo non significa che
qualcosa nelle persone non funziona più,
ma piuttosto che si sono verificati cambiamenti sostanziali sia nei posti di lavoro
che nel modo in cui si lavora.
Maslach e Leiter affermano che la priorità delle organizzazioni post-moderne si è
spostata dalla qualità dei processi produttivi (il cui motore era la capacità di coinvolgimento del collaboratore- empowerment organizzativo) verso i meri bisogni
di budget (per cui il collaboratore è utile
solo se funzionale agli obiettivi di budget).
L'importante processo di sviluppo tecnologico e informatizzato dei sistemi produttivi, ha comportato inoltre una sempre
maggiore riduzione delle prerogative dei
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collaboratori con una conseguente diminuzione del ruolo lavorativo del significato
e della valorizzazione delle risorse umane.
Come sottolineato da Maslach e Leiter
(2000) “si lavora sempre più spesso in contesti nei quali i valori umani sono a grande
distanza da quelli economici. Quello che ci
contraddistingue come esseri umani, quello che ci spinge a lavorare bene oltre che
sodo viene ignorato oppure minimizzato”.
Questo atteggiamento spinge i lavoratori
ad adottare atteggiamenti di distacco, sia
fisico che psicologico, verso l’organizzazione nella quale lavorano, causando molto spesso un calo della qualità della loro
prestazione. Oltre a ciò le aziende sono in
continuo mutamento e la forte competizione le spinge a continue ridefinizioni degli
obiettivi, tra l’altro sempre più complessi
e innovativi, mutamenti che comportano
altrettante modifiche nel modo di lavorare
che deve essere in sintonia con gli obiettivi
che l’organizzazione si è data.
Questi elementi facilitano l’insorgenza di
patologie organizzative che compromettono sia la qualità dei beni e servizi offerti ai
pazienti/clienti, sia la salute dei lavoratori
che agiscono in un ambiente patologico.
Infatti, se le organizzazioni, dati i continui mutamenti che le interessano, non
sostengono i propri collaboratori, fornendo a questi adeguati strumenti per poter
gestire e fronteggiare i cambiamenti, e
organizzando il lavoro anche sulla base
delle esigenze degli stessi, contribuiscono
all’insorgenza di alcune patologie come: lo
stress e il burnout.
Nel lavoro sanitario, ad esempio la sofferenza, evoca nei pazienti istanze emotive
primarie, richieste regressive, mentre al
contempo negli operatori sanitari evoca
desideri di “salvezza onnipotente”, sentimenti di ostilità, insofferenza, angosce
persecutorie ed aggressività.
I professionisti delle professioni di aiuto
conosciute anche come “helping professions” (infermieri, medici, assistenti sociali, ostetriche, ecc.) nonostante, dispongano
nella loro attività professionale di tecnologie avanzate, non possono prescindere
dalla relazione tra persone, tra chi richiede
e chi offre aiuto, e devono soggiacere allo
squilibrio che tutto questo comporta. La
caratteristica di queste professioni è una
"relazione di aiuto operatore - utente" definita high-touch (alto contatto) ossia che
implica numerosi contatti diretti con delle persone in difficoltà che richiedono un
coinvolgimento sia emotivo che fisico, tale
da comportare un rischio elevato di burnout .
Queste figure sono caricate da una duplice fonte di stress: il loro stress e quello
della persona aiutata. Ne consegue che, se
non opportunamente trattate, queste cominciano a sviluppare un lento processo
di “logoramento” o “decadenza” psicofisica dovuta alla mancanza di energie e di
capacità per sostenere e scaricare lo stress
accumulato.
Letteralmente Burnout significa proprio
“bruciare fuori”, dunque è qualcosa di interiore che esplode all’esterno e si manifesta.
Le prime esplicitazione del burnout si
erano verificate con riferimento ad alcuni
puntuali contesti lavorativi delle professioni sanitarie, mentre oggi tutte le professioni di aiuto sono da considerarsi, senza eccezione alcuna, a rischio burnout.
La sindrome del burn out nel personale
della sanità, considerata anche la rilevanza
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sociale del fenomeno, sta riscontrando un
notevole interesse da parte della letteratura
psicologica e psichiatrica. Gli effetti dello
stress lavorativo sulle condizioni di salute
dell’operatore sanitario ed i conseguenti rischi di burnout coinvolgono numerosi fattori che si sviluppano diversamente in ogni
individuo e/o in ciascuna categoria professionale.
Oggi si parla di burnout come di una vera
e propria malattia in preoccupante aumento o, addirittura, come uno dei mali del secolo.
Lo studio del burn out ha subito nel tempo, da parte degli studiosi del fenomeno
una evoluzione non indifferente, in quanto
essi hanno approfondito in relazione ai diversi aspetti nei quali esso suole presentarsi, ma soprattutto in relazione all’approccio
con il settore nel quale gli studiosi stessi
operavano: così il burnout è stato di volta
in volta oggetto di studio da parte di medi-
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ci, sociologi, psicologi e degli economisti,
ovviamente con impostazioni e risultati diversi.
Innanzitutto occorre precisare che il burnout si distingue dallo stress, il quale eventualmente può costituirne una concausa.
Selye (1937) definisce lo stress come una
“reazione biologica aspecifica dell’organismo alla presenza di un agente stressante
finalizzata a ristabilire la condizione preesistente”.
È opportuno precisare che la risposta allo
stress attraversa tre step distinti:
a)
Allarme questa fase comporta modificazioni di carattere biochimico ed umorale
b)
Adattamento nel quale l’organismo
si organizza in senso difensivo
c)
Esaurimento in questa terza fase le
difese crollano e l’organismo non riesce ad
adattarsi ulteriormente
Il termine burnout - che traducendo letteralmente dall’inglese significa bruciato,
scoppiato trova la sua prima applicazione
pratica nel giornalismo sportivo anglosassone degli anni ’30 per descrivere il brusco
calo di rendimento di un atleta che, dopo
un periodo di successi, non è più in grado
di ripetere gli stessi lusinghieri risultati, pur
essendo in perfetta forma fisica, a causa del
venir meno degli stimoli motivazionali.
Il burn out - con riferimento alla attività lavorativa e in dipendenza di questa - è
stato definito da Freudemberger nel 1974
come una condizione di esaurimento fisico
ed emotivo, riscontra tra gli operatori impegnati in professioni di aiuto, determinata
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dalla tensione emotiva cronica creata dal
contatto e dall’impegno continui ed intensi con le persone, i loro problemi e le
loro sofferenze. Secondo Cherniss (1982)
il burnout rappresenta il tipo di risposta
ad una situazione avvertita come intollerabile, in quanto l’operatore percepisce
una distanza incolmabile tra la quantità
di richieste avanzate dagli utenti e risorse
disponibili - sia individuali, sia organizzative- per fornire adeguata risposta alle
richieste stesse; da questa percezione negativa deriva un senso di impotenza acquisita, dovuta alla convinzione di non poter
far nulla per modificare la situazione, per
eliminare l’incongruenza tra quello che il
professionista ritiene che l’utente si aspetti
da lui e ciò che egli è effettivamente in grado di offrirgli.
Gli studi più approfonditi sul burnout in
sanità sono stati condotti da Maslach nel
1982 e anni successivi, autore che ha evidenziato come, nella sindrome del burnout, non sia tanto lo stress ad assumere
una valenza di barriera difensiva bensì la
sua conversione in atteggiamenti di distacco e di meccanicità comportamentale
dell’operatore. Il processo di burnout, non
prevenuto né contenuto, può cristallizzarsi in una entità clinica e può invalidare il
soggetto fisicamente e psichicamente, oltre
ad incidere negativamente sui rapporti familiari, amicali e relazionali in genere.
L’insorgenza della sindrome del burnout
negli operatori sanitari segue generalmente 4 fasi (Bellani et al., 2002):
1.
La prima fase nota come Entusiasmo Idealistico
2.
La seconda fase nota come Stagnazione
3.
La terza fase nota come Fase della
Frustrazione
4.
La quarta fase nota come Morte
Professionale
Tra gli aspetti epidemiologici della sindrome del burn out descritti nella letteratura,
non sembra esistere un accordo unanime
tra i differenti autori, sebbene si riscontra
un determinato livello di coincidenza per
alcune variabili, quali: età, sesso, stato civile, turnazione lavorativa, anzianità professionale, sovraccarico lavorativo.
Obiettivo dello studio
L’obiettivo dello studio è stato quello di
valutare l’impatto della sindrome di burnout nella professione sanitaria infermieristica, in particolare negli infermieri dei
Blocchi Operatori e della Terapia Intensiva
del Dipartimento di Scienze Chirurgiche
dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza
e quali sono gli approcci e strategie che le
organizzazioni possono adottare per prevenire e/o trattare la Sindrome del Burnout cercando di delineare degli strumenti
Come descritto da Maslach, il burnout vie- che potrebbero essere utili per affrontare e
ne identificato attraverso tre fattori conco- gestire il fenomeno
mitanti:
1.
Esaurimento emotivo (EE)
2.
Depersonalizzazione (DP)
3.
Realizzazione Professionale (RP)
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Materiali e Metodi
Lo studio è stato condotto in due momenti
successivi. Il primo momento ha previsto
la ricerca di materiale bibliografico e di letteratura. Gli studi sono stati ricercati nelle
banche dati utilizzando le parole chiavi (key
words): burnout syndrome, helping professions, critical care unit, parole chiavi incrociate tra di loro con operatori booleani, con
il limite temporale non anteriore al 1998.
Dagli studi è emerso che negli infermieri
risultano livello più elevati di burnout, rispetto ad altri professionisti della salute,
correlati al contatto diretto prolungato,
con rischio di coinvolgimento emotivo, e a
bassi livelli di soddisfazione sul lavoro (Engelbrecht et al., 2008; Chopra et al., 2004).
Alcuni autori rilevano caratteristiche individuali che predispongono all’insorgenza
del burnout: età superiore ai 30/40, nubilato/celibato, livello culturale elevato; in generale le persone che affrontano con un atteggiamento passivo/difensivo, con ridotte
capacità di controllo e che si impegnano
maggiormente nel proprio lavoro, risultano maggiormente a rischio (Tomei et al.,
2008). È interessante evidenziare che alcuni
studi sugli effetti dei fattori di rischio sulla
salute degli operatori sostengono che le differenti tipologie di trattamenti erogati e le
differenti caratteristiche delle persone prese in carico, determinano specifiche condizioni di lavoro e influenzano il livello di benessere nel contesto lavorativo (Tummers
et al., 2002; Verhaeghe et al., 2008). Diversi
studi dimostrano un’incidenza maggiore in
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strutture che si occupano prevalentemente
di patologie croniche, nello specifico oncologia (Barnard et al., 2006; Medland et al.,
2004; Gentry & Baranowsky, 1998), psichiatria, malattie infettive (Zenobi & Stefanile,
2007).Gli studi che riguardano l’incidenza
del fenomeno nelle terapie intensive sono
scarsi e discordanti. In Europa si parla del
coinvolgimento del 30% degli infermieri e
del 40-50% dei medici (Michalsen & Hillert, 2011). Nello specifico degli infermieri
che lavorano in reparti di terapia intensiva,
risulta un basso esaurimento emotivo, fattore di rischio per la sindrome (Tummers
et al., 2002), ma alti livelli di spersonalizzazione assistenziale (Viotti et al. 2012). In
generale, il livello di insoddisfazione degli
infermieri dei reparti per patologie acute
risulta due volte superiore, presumibilmente per un maggior carico di lavoro, insieme
a una riduzione dei tempi relazionali (Violante et al., 2009). Uno studio italiano riporta che sugli elementi del burn out, esaurimento emotivo, realizzazione personale e
depersonalizzazione, non emergono differenze statistiche tra i reparti di cronicità e
acuzie. Per quanto riguarda l’esaurimento
emotivo, risulta nettamente superiore negli
infermieri del dipartimento emergenza-urgenza; la spersonalizzazione, invece, risulta
assente in tale area, ma elevata nei reparti
per patologie croniche (Burla F. et al, 2013).
Nonostante in letteratura esista un consenso generale nel considerare il burnout un
fenomeno con un’incidenza maggiore agli
esordi della carriera lavorativa (Sentinello
& Negrisolo, 2009), si rileva che i soggetti
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anagraficamente e professionalmente più
anziani, risultano significativamente più
insoddisfatti, dunque a rischio di burnout
(Violante et al. 2009). Dai risultati ottenuti
si evince che il burnout non è un fenomeno legato alla contingenza dell’inserimento lavorativo, ma si aggrava nel tempo, in
modo graduale. Dalla bibliografia emergono riflessioni significative correlate alle
specificità dei contesti di lavoro ed è per
tale ragione che si è voluto indagare l’impatto della sindrome di burnout sugli infermieri delle sale operatorie e della Terapia Intensiva.
Il secondo momento ha previsto la somministrazione del Maslach Burnout Inventory –MBI- (Maslach e Jackson, 1993).
L’MBI è uno strumento validato, costituito
da ventidue items che vanno a misurare
le tre differenti dimensioni del burnout:
Esaurimento Emotivo (EE), Depersonalizzazione (DP), Realizzazione Personale
(RP). A ciascuna domanda l’intervistato
assegna un valore secondo scala Lickert da
0 /6. All’ MBI sono state aggiunte una parte anagrafica che va ad indagare: età, sesso,
titolo di studio, stato civile, turnazione lavorativa e titolo di studio e una parte che
prevede due domande a risposta aperta
ovvero:
a.
In riferimento alla sua attuale esperienza, quali aspetti giudica più positivi
della sua professione?
b.
In riferimento alla sua attuale esperienza, quali aspetti giudica più negativi
della sua professione?
L’ MBI modificato è stato somministrato
in forma anonima al personale infermie-
ristico dei blocchi operatori e della terapia intensiva afferenti al Dipartimento di
Scienze Chirurgiche, nel periodo maggio
2015 e settembre 2015, previa autorizzazione della Direzione Sanitaria, del Direttore di Dipartimento e del Responsabile
del Servizio Infermieristico.
Sono stati arruolati tutti l’infermieri dell’area chirurgica che nel periodo di riferimento,rispondevano ai seguenti criteri di
inclusione: in servizio presso le U.O. di
riferimento durante il periodo di studio
e che hanno accettato volontariamente di
partecipare allo studio. Sono stati esclusi
dall’indagine tutti gli infermieri che non
hanno acconsentito di partecipare allo
studio o non presenti in servizio nelle rispettive unità operative durante il periodo
di studio. I dati ottenuti sono stati tabulati
ed elaborati mediante analisi statistiche e
rappresentati in forma grafica. I questionari somministrati sono stati 53 (numerosità del campione).
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Risultati e Discussione
Ai fini dello studio sono stati consegnati 53 questionari, rispettivamente 15 in S.O Chirurgia Addominale, 8 in S.O Urologia, 13 S.O Ortopedia e 17 in Terapia Intensiva (Rianimazione I). In totale sono stati raccolti 43 questionari compilati, con una compliance
del 72%. Su un campione di 43 infermieri, 28 erano di sesso maschile (65%), 15 (35%)
di sesso femminile Fig. 1. L’anzianità di servizio lavorativa media complessiva è stata di
20 anni. La distribuzione del campione per area di appartenenza è risultata essere la
seguente: il 19% appartiene all’U.O. dell’Urologia, il 23% all’U.O. dell’Ortopedia, il 26%
all’U.O . della Chirurgia Addominale e il 32% Terapia Intensiva (Fig. 2). 33 infermieri
(77%) è soggetto al continuo cambiamento dei turni (turnista), mentre solo 10 infermieri
(23 %) risulta non essere più turnista. Il titolo di studio posseduto dal campione è stato:
Diploma di Infermieri Professionale (63%), Laurea In Infermieristica (19%) di I Livello,
Diploma Universitario per Infermiere (14%) , altro titolo di studio (4%).
Figura 1 - Distribuzione degli infermieri in base al sesso
Figura 2 - Distribuzione del campione in base all’Unità operativa di appartenenza
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Dall'analisi dei dati estrapolati per ciascuna area dalla somministrazione del Maslach
Burnout Inventory (MBI) è emerso che:
1. area dell' Esaurimento Emotivo (EE): il 21 % del personale infermieristico si sente
sfinito emotivamente dal proprio lavoro qualche volta alla settimana; il 30 % si sente
sfinito alla fine di una giornata di lavoro ogni giorno; il 23% si sente stanco quando si
alza la mattina e deve affrontare un’altra giornata di lavoro; il 14 % si sente di trattare
alcuni pazienti come fossero oggetti; il 14 %sente di lavorare tutto il giorno con la
gente gli pesa; solo il 14 % riesce a capire facilmente come la pensano gli utenti ogni
giorno; (Fig. 3)
Figura 3
2. area della Depersonalizzazione (DP): i risultati mostrano come il 2 % degli infermieri affronta efficacemente i problemi degli utenti solo qualche volta all’anno; il 16
% degli infermieri si sente esaurito dal lavoro una volta a settimana; il 19 % crede di
influenzare positivamente la vita di altre persone attraverso il proprio lavoro; il 12 %
da quando ha cominciato a lavorare è diventato più insensibile con la gente qualche
volta alla settimana; il 12 % ha paura di andare incontro a un indurimento emotivo
ogni giorno; il 12 % si sente pieno di energie qualche volta all’anno;il 14 % si sente frustrato dal proprio lavoro qualche volta alla settimana;il 16 % crede di lavorare troppo
duramente ogni giorno;il 5 % qualche volta alla settimana non ha interesse per ciò che
succede ad alcuni utenti; (Fig. 4).
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Figura 4
3. area Realizzazione Personale (RP): il 12 % degli infermieri sostiene che lavorare direttamente a contatto con la gente gli crei troppa tensione qualche volta alla settimana; il
7 % non riesce mai a rendere gli utenti rilassati e a proprio agio;il 5 % non si sente mai
rallegrato dopo aver lavorato con i propri utenti;il 5 % ha realizzato molte cose di valore
nel proprio lavoro qualche volta all’anno;il 16 % sente di non farcela più una volta a settimana;il 9 % affronta i problemi emotivi con calma qualche volta all’anno; il 19 % ogni
giorno ha l’impressione che gli utenti diano la colpa all’operatore per i propri problemi;
(Fig 5)
Figura 5
L'analisi dei dati ha messo in evidenza l’elevata adesione del personale infermieristico allo
studio e quindi il voler informarsi e conoscere la sindrome del burnout, L’adesione allo
studio, che ha avuto una durata di 2 mesi (maggio 2015 – settembre 2015) è stata del tutto volontaria e non ha voluto privilegiare nessuna Unità Operativa particolare. La scelta
della sperimentazione ha coinvolto ogni infermiere in servizio nel periodo suddetto, in
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quanto il coinvolgimento emotivo di fronte alla sofferenza riguarda tutti indistintamente. I dati percentuali riferiti alla partecipazione al questionario e la spontaneità
all’adesione hanno evidenziato quanto il
problema burnout sia sentito dal personale infermieristico. Si può affermare che,
in ordine di gravità, la dimensione Esaurimento Emotivo ( EE), ha evidenziato le
condizioni peggiori dell’esposizione alla
sindrome del burnout. Questa situazione
di gravità è molto evidente nel 30 % degli
infermieri in quanto essi si sentono sfiniti
ogni giorno dopo una giornata di lavoro.
Questa situazione è rimarcata dal fatto di
lavorare troppo duramente e di sentirti
sempre stanchi al mattino al solo pensiero di iniziare una nuova giornata di lavoro; essi si sentono particolarmente esauriti
emotivamente in quanto dopo anni di lavoro l’utente/paziente viene trattato come
fosse un oggetto, trovando pesante anche il
solo confronto . La dimensione “Depersonalizzazione” ( DE) ha evidenziato come
il 19 % degli infermieri non è mai riuscito
a influenzare positivamente la vita dell’utente/paziente attraverso il proprio lavoro in quanto non gli importa veramente
di ciò che succede ad alcuni di essi; fondamentale è considerare come un elevato
numero di professionisti che trattano gli
utenti/pazienti con distacco rendendosi
anche conto di essere diventati più insensibili alle richieste dei pazienti . Dall'analisi dei dati emerge una grossa paura per
gli infermieri ovvero che questo lavoro li
possa indurire emotivamente, e che ciò si
possa ripercuotere anche nella vita privata.
La dimensione “Realizzazione Personale”
ha evidenziato gravi forme di disagio degli
operatori; infatti il 19 % degli intervistati si
sente colpevolizzato dagli utenti/pazienti ,
cioè sente che gli utenti/pazienti attribuiscono al personale sanitario la colpa dei
loro problemi ; questi disagi nascono soprattutto dalla inefficienza di alcune strutture e servizi , e tale condizione genera un
forte stress sia negli operatori che negli
utenti/pazienti; è importante sottolineare come molti infermieri non si sono mai
sentiti rallegrati nello svolgere tale professione e non sono mai riusciti a far sentire
gli utenti/pazienti a proprio agio e rilassati
, alcuni infermieri invece sentono di non
farcela più e sarebbero disposti anche a
cambiare la propria vita e il proprio lavoro;
inoltre molti infermieri hanno affermato
che lavorare a contatto con la gente gli crea
molta tensione e che ciò si riflette in un’espressione di massimo disagio. Il dato più
allarmante è che solo il 5 % del personale
infermieristico si sente realizzato dal proprio lavoro. La mancanza di realizzazione
personale è una cosa grave, significa fare
un lavoro che non si ama più. Si può ipotizzare che essa sia venuta a mancare con
il passare degli anni, e che il sentimento di
entusiasmo presente all’inizio della carriera si è spento con il passare del tempo e
con la visione che le cose non andavano si
era ipotizzato e sperato.
Conclusioni
Dallo studio condotto emerge che, visti
gli alti rischi che il burnout comporta, è
necessario ed opportuno intervenire su
di esso, sia per la salute del lavoratore che
per l’organizzazione. Prevenire il burnout
ha quindi fondamentale importanza sia
da un punto di vista economico sia da un
punto di vista del costo umano (Baiocco
et al.,2004). Gli interventi devono essere
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rivolti sia al singolo che all’organizzazione in cui esso opera e alle interazioni tra
queste due. Dallo studio è emerso che il
burnout “colpisce” soprattutto le helping
professions, in particolare gli infermieri
che oltre ad essere sottoposti a pressanti
richieste dagli utenti/pazienti, vanno incontro anche alle incessanti pressioni organizzative che richiedono più lavoro in
minor tempo, con meno mezzi e con più
persone da controllare (pazienti, studenti, subordinati ecc.), aumentando così il
rischio che il sovraccarico di lavoro possa compromettere l’efficacia della stessa
attività di aiuto, causando anche continue lamentale che derivano dall’utenza
insoddisfatta. I professionisti di aiuto che
sperimentano il burnout, sono esauriti sia
fisicamente che psicologicamente a causa
dell’interazione sociale con chi è aiutato
ma anche da alti livelli di stress lavorativo
e, come si è visto, da livelli di frustrazione
personale e di competenze inadeguate alla
situazione (Payne 1982), ed è tutto questo
che comporta una risposta negativa sia nei
confronti di se stessi che verso il proprio
lavoro.
Numerose sono le strategie che l'organizzazione può porre in essere per prevenire/trattare il burnout quali: il Counseling
Psicologico, le strategie di Coping (Coping centrato sulla soluzione del problema
, Coping centrato sulla richiesta di supporto sociale, Coping centrato sul disagio
emotivo,Coping centrato sull’evitamento
del problema). Inoltre è possibile contenere l’insorgere e prevenire le conseguenze
del burnout con: l’informazione, che mira
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a far conoscere questo fenomeno e ad offrire utili consigli per prevenirlo; la formazione, attraverso esperienze di gruppo o
discussione di casi con l’obiettivo di creare
strumenti per far fronte al fenomeno e l'attuazione di interventi specifici, attraverso
la strutturazione, in base alle esigenze organizzative, di programmi anti-stress-lavoro correlato studiati sulla mansione lavorativa. Non basta solo la formazione del
singolo anche se necessaria, formazione
volta a migliorare e/o modificare i comportamenti, ma ci vogliono anche i cambiamenti nell’organizzazione. Ma spesso,
come già visto, le organizzazioni tendono
a pensare il burnout come un problema
della persona anzi che del contesto in cui
lavora. È quindi importante che la direzione e i dipendenti si impegnino reciprocamente per trovare insieme delle soluzioni
che migliorino il contesto di lavoro, agendo direttamente sulle discrepanze che potrebbero causare il burnout, e allo stesso
tempo agendo sull’individuo per indurlo
a trovare delle strategie personalizzate di
gestione dei propri vissuti prevenendo
l’eccessivo stress e il burnout.
“ Tuttavia, il semplice disporre degli strumenti non è sufficiente. Avete anche bisogno di molta pazienza e di dedizione per
mantenere in vita il processo. I progressi
saranno lenti, non veloci. Tanto vorremmo
essere in grado di offrire soluzioni rapide
e facili ……. ma la dura verità è che non
esistono risposte semplici a un problema
complesso come il burn out. Esistono delle risposte……….. Le risposte riguardano
l’incremento dell’impegno produttivo nel
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lavoro e la riduzione delle discrepanze
tra le persone e il lavoro. Con la pazienza
e la perseveranza da parte dei singoli che
dell’organizzazione, si può progredire verso un posto di lavoro del futuro più sano e
più umano” (Maslach e Leiter 2000).
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Approfondimenti
Il PRELIEVO EMATICO DA ACCESSO VENOSO
PERIFERICO: PERCHÉ NON ESEGUIRLO?
UN MITO DA SFATARE
Studio Osservazionale
Celestina Pazienza, Dottoressa in Infermieristica
Gianluca Marcucci, Dottore Magistrale in Scienze Infermieristiche e Ostetriche, Docente di Discipline Infermieristiche Università degli Studi di Foggia
INTRODUZIONE
Il prelievo di
sangue
venoso è una
procedura
invasiva indispensabile
per la diagnostica in vitro, poiché rappresenta un
passaggio irrinunciabile per ottenere la
matrice biologica da analizzare. Si tratta
di una tra le più antiche pratiche mediche
utilizzate fin dall’antichità con tecniche differenti. Fu solo all’inizio del XX secolo, con
l’introduzione di aghi e siringhe, che il prelievo di sangue si avvalse di tecniche più sicure ed affidabili. Un ulteriore innovazione
si ebbe dopo la fine della seconda guerra
mondiale, quando la Becton Dickinson, introdusse i sistemi a vuoto cosiddetti “Vacutainer”. Il prelievo tramite venipuntura è
nervi periferici oltre ad esporre l’operatore
al rischio di puntura accidentale.
In genere ogni professionista sanitario
abilitato tende a stabilire una prassi consona e familiare, che ripete nel tempo. La
buona riuscita di un prelievo ematico non
dipende tuttavia soltanto dalla competenza dell'operatore, ma anche da una serie
di variabili indipendenti, quali il luogo, il
dispositivo, l'anatomia del paziente, la sua
emotività. La raccolta del sangue avviene
grazie all’incisione (venipuntura), previa
disinfezione della cute, di una vena, precedentemente reperita e scelta per caratteristiche idonee, effettuata mediante apposito
ago per pungere e provette per la raccolta
del sangue. Le modalità di accesso ad una
vena periferica vanno dalla puntura venosa
estemporanea all’incannulamento.
I CVP (cateteri venosi periferici) sono i
dispositivi più usati per l’accesso vascolare
periferico, permettendo il collegamento tra
una tecnica dolorosa e invasiva che può pro- la superficie cutanea e una vena del circovocare lividi, ematomi, infezioni, reazioni lo periferico, al fine di garantire un rapido
vasovagali e, seppur in rari casi, lesione dei accesso per l’infusione di liquidi, soluzioni
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nutritive, farmaci, sangue e suoi derivati.
Sono usati di solito per terapie infusive
continue o ripetute nel corso della giornata e si classificano in relazione al tempo di
permanenza: a breve termine (Abbocath e
Angioset) e a medio termine (MidLine).
L’ago cannula è costituito da un tubicino di
materiale morbido chiamato cannula, che
necessita di un introduttore rigido, l'ago
o mandrino metallico, che serve a forare
l'epidermide e a facilitare il posizionamento del presidio in vena. Il mandrino viene
sfilato una volta completamente inserita e
posizionata la cannula, di materiale biocompatibile, che può quindi essere utilizzata per il passaggio di liquidi o farmaci.
L'ago cannula è completato da due fascette
adesive usate per fissare il presidio alla pelle del paziente, al fine di evitare movimenti accidentali della cannula che potrebbero
causare danni o provocarne lo sfilamento,
e da un cappuccio a protezione dell'ago,
che viene rimosso prima dell'utilizzo.
Nonostante l’Assistenza Infermieristica
basata su evidenze scientifiche (EBN) sia
pratica sempre più diffusa e comune, sono
ancora tante le pratiche che, seppur supportate da prove di efficacia e studi scien-
tifici, vengono disattese e non praticate
dagli operatori sanitari. Una di queste è il
prelievo venoso da accesso venoso periferico (AVP) tramite catetere venoso periferico (CVP) durante l’infusione per ottenere
campioni di sangue per esami di laboratorio. Questo dispositivo non è normalmente utilizzato per ricavare campioni di
sangue venoso perché si ritiene che l’infusione di farmaci e fluidi alteri i risultati dei
parametri ematochimici.
La letteratura disponibile supportata
da studi scientifici con raccolta dati evidenzia che il prelievo di sangue effettuato
da accesso venoso periferico con CVP sia
un’alternativa valida al prelievo eseguito
da venipuntura estemporanea, e dimostra che non vi è alterazione dei parametri
ematochimici.
IPOTESI DI LAVORO
Fattibilità ed eseguibilità del prelievo venoso per esami ematochimici da accesso
venoso periferico CVP con correlata linea
di infusione al fine di ridurre il numero di
venipunture inappropriate e correggere la
malpractice assistenziale.
Anno XXVII
SCOPO DEL LAVORO:
Lo scopo del lavoro è stato duplice:
1) analizzare le motivazioni che spingono
gli operatori sanitari a non praticare il prelievo venoso per esami ematochimici da
una linea di infusione ove presente
2) proporre una check list e un protocollo operativo per la corretta esecuzione del
prelievo
per poter dare una risposta esaustiva alla
domanda: “ E’ possibile evitare procedure
dolorose per la raccolta di campioni di sangue venoso nei pazienti con CVP, nonostante
l’infusione di farmaci? ” e sfatare, dunque,
un falso mito.
MATERIALI E METODI
La metodologia di lavoro adottata per l’elaborazione del presente lavoro consta di due
fasi:
La prima fase del presente lavoro ha previsto la ricerca di studi scientifici che validassero l’ipotesi di lavoro. La ricerca è stata
condotta su PubMed utilizzando le seguenti parole chiave (key words): Accuracy,
Blood Sample, Infusing Intravenous Lines,
Intravenous Infusion, Peripheral Catheters.
Le parole chiave sono state incrociate tra di
loro mediante gli operatori booleani AND
e OR. Dalla ricerca effettuata sono emersi
numerosi studi che hanno supportato l’ipotesi di lavoro.
Da quanto emerso dalla overview della letteratura disponibile, è partita la seconda
fase del lavoro che è consistito nell'esecuzione dello studio osservazionale.
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DISEGNO DELLO STUDIO E CAMPIONAMENTO
Lo studio condotto per i presente lavoro è
uno studio osservazionale, trasversale, con
approccio di tipo descrittivo mediante la
somministrazione di un questionario in
forma anonima volto ad indagare se la pratica del prelievo ematico da accesso venoso
periferico sia praticata o meno, e se non lo
fosse quali sono le motivazioni che spingono il professionista sanitario infermiere a
non praticarla e se esista o meno all’interno delle unità operative una check list per
l’esecuzione del prelievo e delle procedure
operative.
Lo studio è stato condotto presso il Dipartimento di Scienze Chirurgiche della Fondazione IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza
con idonea e formale autorizzazione . L’intervistato è stato adeguatamente informato
sulla finalità dello studio ed è stato invitato a partecipare su base totalmente volontaria, nel pieno rispetto dell'anonimato, della
privacy nel pieno rispetto della normativa
vigente in materia di trattamento dei dati
sensibili.
Lo studio è stato condotto nel periodo
giugno/settembre 2015, periodo nel quale è stato somministrato il questionario. Il
campione preso in analisi è costituito da 70
infermieri, di sesso maschile e femminile. I
criteri di inclusione al campione, prevedevano: l'essere in servizio nel Dipartimento
di Scienze Chirurgiche e la volontarietà di
partecipare allo studio. Sono stati esclusi
dal campione tutti coloro che non hanno
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dato il consenso alla partecipazione allo
studio. Il questionario somministrato è un
questionario strutturato, composto da due
parti una parte anagrafica e una parte costituita da 9 domande con items a risposta chiusa a scelta tra alternative proposte.
I limiti riscontrati per l'esecuzione dello
studio sono stati: considerando l’approccio
osservazionale-descrittivo monocentrico,
l’uso di un campione di convenienza, che
non consente di generalizzare i risultati, la
mancanza di uno studio di verifica e validazione del questionario e la mancata
supervisione delle procedure infermieristiche e l’affidamento esclusivo all’autovalutazione soggettiva tramite gli appositi
questionari. Pertanto, le risposte sono state basate esclusivamente sulla conoscenza
e può non riflettere con precisione i veri
comportamenti verso le diverse pratiche
di prelievo. Dunque, il livello riferito della conoscenza per quanto riguarda queste
pratiche potrebbe non essere preciso e i rispettivi dati possono non avere valore assoluto.
I dati ottenuti sono stati analizzati, elaborati e rappresentati in forma grafica tramite l’utilizzo del programma “Microsoft Office Excel”. I dati raccolti sono stati tabulati
ed elaborati tramite formule statistiche.
RISULTATI E DISCUSSIONE
Ai fini dello studio sono stati distribuiti
70 questionari, di questi solo 51 questionari sono stati compilati, con una compliance = 73%. La distribuzione del campione in base al sesso è risultata essere:
28 (55%) di sesso femminile e 23 (45%)
di sesso maschile, con un’età media di
45 anni. Il titolo di studio del campione
è risultato essere: 41 (80%) Infermie-
ri Professionali, 6 (12%) in possesso di
Diploma Universitario e 4 (8%) in possesso di Laurea di I° livello. Il numero dei
prelievi effettuati giornalmente nelle unità
operative in cui il campione opera è di 20
(47%) (fig. 1) 1e questi vengono effettuati
mediante una venipuntura estemporanea
(94%) (fig.2).
Fig. 1
Fig. 2
In merito alla possibilità di utilizzare un
pregresso accesso venoso periferico per
l’esecuzione del prelievo, il campione è
sembrato essere molto combattuto, infatti solo il 10% dello stesso ha risposto
in modo affermativo, il restante si è così
suddiviso: 32 (63%) degli infermieri hanno risposto “no non lo userei”, 11 (22%)
hanno risposto “raramente” e infine 3
(6%) hanno barrato la scelta secondo cui
è una pratica altamente sconsigliata (fig. 3).
Anno XXVII
Il 65% del campione, inoltre, attribuisce la
non esecuzione del prelievo venoso da AVP
da parte degli operatori sanitari alla motivazione secondo cui i risultati potrebbero
essere alterati. In particolare fa riflettere un
dato ottenuto relativo al medesimo quesito,
seppur rappresenti il più basso in termini
di percentuale di risposte: il 4% (ovvero 2
infermieri su 51) afferma che la motivazione che spinge gli operatori a non effettuare il prelievo ematico da AVP è il fatto che
questo richieda molto tempo.
A tal proposito, nonostante la tecnica del
prelievo da AVP richieda, in alcune occasioni, più tempo (in altre potrebbe richiederne molto più la venipuntura estemporanea qualora si incontrino ostacoli nel
reperire la vena), ci si può avvalere del fatto
che come professionisti sanitari e in virtù
della teoria olistica e di un agire centrato
sul paziente, gli infermieri dovrebbero basare il loro operato sulla “qualità” del tempo più che sulla “quantità”.
Indagando poi sulla conoscenza degli in-
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fermieri relativa all’esistenza in letteratura
scientifica di studi che dimostrano che non
esistono controindicazioni all’esecuzione
del prelievo da accesso venoso periferico per esami di laboratorio è risultata una
scarsa conoscenza (28%) dell’argomento.
Il sesto e il settimo quesito del questionario, che pongono rispettivamente a ciascun
infermiere partecipante la domanda circa
l’esistenza nella propria U.O di strumenti
quali check list per la corretta esecuzione
sia del prelievo ematico con venipuntura
sia del prelievo venoso mediante AVP, sono
stati posti per valutare le effettive risorse
messe a disposizione dalla struttura sanitaria e quanto queste possano giovare agli
infermieri delle U.O nell’attuazione di una
best practice assistenziale.
Il dato, seppur discordante soprattutto da
infermieri appartenenti alla stessa unità
operativa, è significativo: il 73% ha affermato che non esiste una check list per l’esecuzione del prelievo ematico e ancor di
più, l’88%, ha dichiarato che non esiste alcuna guida per l’effettuazione di un prelievo ematico da CVP. (figg. 5 e 6)
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E’ chiaro come questa mancanza possa interferire con un operato corretto soprattutto se si considera che la quasi totalità degli
infermieri aderenti al questionario (94%)
ritiene utile e opportuno avere a disposizione gli strumenti sopra citati per una
pratica clinica assistenziale basata su prove
di efficacia come è auspicabile per un professionista sanitario responsabile, competente e autonomo come l’infermiere.
Il dato più “allarmante” in termini di risultati ottenuti, in quanto chiaro segno di
una mentalità improntata su falsi miti, riguarda, tuttavia, un 17% che emerge dall’analisi delle risposte dell’ultimo quesito: 9
infermieri, posti dinanzi all’ipotesi in cui
venissero mostrati loro dati scientifici che
dimostrano l’effettiva mancanza di differenze significative nei risultati di laboratorio tra un prelievo eseguito con puntura
estemporanea e campione ottenuto mediante tecnica di prelievo da CVP, hanno affermato che il comportamento che
adotterebbero sarebbe il medesimo, ossia
continuare ad effettuare i prelievi con una
nuova venipuntura.
Ciò nonostante, il 65% degli infermieri ha,
al contrario, risposto scegliendo l’opzione
che più concorda con un operare deontologico, professionale e responsabile proprio di un professionista, ossia quella di
valutare la situazione e decidere con ratio
la metodica di prelievo da utilizzare, considerando i dati scientifici a disposizione e
in piena autonomia decisionale. (figg. 7 e
8)
L’obiettivo primario di questo studio è
quello di analizzare le motivazioni che
spingono gli operatori sanitari a non praticare la tecnica di prelievo venoso da un
accesso venoso periferico già in situ.
Nella realtà clinica dei pazienti ricoverati
nelle U.O ospedaliere è cresciuta la necessità di terapie endovenose impegnative: la
chemioterapia, la nutrizione artificiale, la
terapia antalgica, le trasfusioni e, di conseguenza, i frequenti prelievi.
Tutto questo richiede una disponibilità di
accessi venosi sempre maggiore.
Analizzando i dati risultanti dalla ricerca condotta, è emerso che, nonostante il
numero elevato di prelievi giornalieri effettuati nelle U.O. prese in esame, gli infermieri sono restii ad ottenere campioni
ematici da AVP, privilegiando nettamente
la tecnica della nuova puntura venosa.
Il quesito di partenza, che ha scaturito la
volontà di condurre uno studio sull’argomento, è stato: “E’ possibile evitare procedure dolorose per la raccolta di campioni di
sangue venoso nei pazienti con CVP, nonostante l’infusione di farmaci?”.
L’overview della letteratura ha ampiamente dimostrato, attraverso numerosi studi
scientifici, l’eseguibilità del prelievo venoso da accesso venoso periferico con linea
di infusione correlata, senza che vi siano
alterazioni dei parametri ematochimici.
Anno XXVII
Tuttavia, la scarsa conoscenza da parte degli infermieri dell’esistenza di tali studi, cosi
come si riscontra dai risultati ottenuti, apre
lo spazio ad alcune riflessioni.
Sulla base delle premesse fatte, l’articolo
11 Capo III del Codice Deontologico recita: “l’infermiere fonda il proprio operato
su conoscenze validate e aggiorna saperi e
competenze attraverso la formazione permanente, la riflessione critica sull’esperienza e la ricerca. Progetta, svolge e partecipa
ad attività di formazione. Promuove, attiva
e partecipa alla ricerca e cura la diffusione
dei risultati”. Ancora più, l’articolo 12 Capo
III pone un accento significativo sul valore
della ricerca, così recitando: “l’infermiere
riconosce il valore della ricerca, della sperimentazione clinica e assistenziale per l’evoluzione delle conoscenze e per i benefici
sull’assistito”.
La variabilità della pratica assistenziale e la
disomogeneità delle risposte derivano da:
diversità nella formazione, tradizioni e abitudini delle realtà operative e scarsa diffusione di una cultura professionale basata su
evidenze scientifiche e su teorie.
L’infermiere il più delle volte agisce per
“imitazione” o “abitudine”, trovandosi
spesso in contesti lavorativi in cui vi è la
presenza di infermieri con molti anni di
esperienza abituati a svolgere determinati
compiti. Tuttavia l’infermiere, per la figura professionale che riveste, dovrebbe basare il proprio agire sulla base di evidenze
scientifiche, ossia risultati validi, generalizzabili, clinicamente rilevanti che emergono da studi clinici condotti da colleghi
degnamente appartenenti alla comunità
scientifica mondiale. La vera novità consiste nell’utilizzo esplicito e sistematico della
letteratura per prendere decisioni cliniche.
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Questa è la componente concettuale della
EBN che “impone” di avvertire il bisogno
di formazione/informazione perché i gap
di conoscenza generati dall’incontro con
il paziente devono essere immediatamente
colmati e soddisfatti.
Saper riconoscere gli atti assistenziali di cui
non è stata verificata in modo appropriato
l’efficacia, il profilo di sicurezza, il rapporto benefici/rischi sottrae al paziente interventi inefficaci e la formazione, la ricerca
produce nuove conoscenze che permettono anche un collegamento diretto tra teoria e pratica assistenziale. A supporto delle attività assistenziali è necessario avere a
disposizione di strumenti che garantiscano
la best practice assistenziale. In quest’ottica
è fondamentale l’uso di strumenti come le
checklist che permettano ai professionisti
sanitari, soprattutto nell’espletare compiti
talvolta routinari, di agire correttamente in
termini di tecnica per ottenere la massima
qualità delle prestazioni e offrire al paziente
un’assistenza ottimale dedicando all’attività
professionale il giusto tempo. A tal proposito si può dar voce ad uno dei più celebri
fisici della storia, nonché filosofo, studioso
e pensatore per il suo complesso apporto
alla cultura in generale, il quale sul tempo
affermava che “Il tempo è relativo, il suo
unico valore è dato da ciò che noi facciamo
mentre sta passando.” (Albert Einstein).
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Luglio
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PROGRAMMA PRELIMINARE
LA PROFESSIONE INFERMIERISTICA ALLO SPECCHIO:
TRA NUOVE ASPETTATIVE E VECCHIE INCOGNITE
Sala congressi - Resort “La Gattarella”
Vieste 11-13 settembre 2016
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LA PROFESSIONE INFERMIERISTICA ALLO SPECCHIO
UNA IDENTITA’ DA DIFENDERE
1^ giornata 11 SETTEMBRE 2016
Evoluzione della disciplina infermieristica domande
Dott.ssa Beatrice MAZZOLENI
Identità del professionista infermiere
Dott. Edoardo MANZONI
Evoluzione dei modelli organizzativi e assistenziali
Dott.ssa Rita MARICCHIO
Il punto su etica e deontologia infermieristica
Dott. Pio LATTARULO
Comunicazione e social media
Dott. Angelo DEL VECCHIO
DISCUSSIONE
CONCLUSIONI: Barbara Mangiacavalli Presidente FNCIPASVI
LA PROFESSIONE INFERMIERISTICA ALLO SPECCHIO
LE ORGANIZZAZIONI AVANZATE NELLA PROFESSIONE INFERMIERISTICA
2^ giornata 12 SETTEMBRE 2016
Le competenze avanzate e specialistiche degli infermieri nell’attuale scenario
socio politico
Sen. Dott.ssa Annalisa SILVESTRO
La contendibilità infermieristica
Dott. Flavio PAOLETTI
Nuovi modelli organizzativi di gestione infermieristica per il territorio: l’ospedale di comunità a gestione infermieristica
Dott. ssa Barbara PORCELLI
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Post acute care, tra realtà futuro
Dott.ssa Vianella AGOSTINELLI
Nuovi modelli organizzativi di gestione infermieristica in ospedale:
complessità di cura assistenziale
Da definire
Il Nursing PICC Team – una esperienza
Foggia – Taranto
DISCUSSIONE
CONCLUSIONI: Sen. Dott.ssa Annalisa SILVESTRO
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LA PROFESSIONE INFERMIERISTICA ALLO SPECCHIO
FORMAZIONE,AUTONOMIA,RESPONSABILITÀERICERCA,TRANUOVEASPETTATIVEEVECCHIEINCOGNITE
3^ giornata 13 SETTEMBRE 2016
Nuove sfide e nuove frontiere per l’infermieristica del futuro:
il contributo della ricerca disciplinare.
Prof. Gennaro ROCCO
La responsabilità infermieristica
Prof. Emanuela TURILLAZZI
Core competence all’esame di abilitazione infermieristica – una sperimentazione
Dott.ssa Anna MARCHETTI
Autonomia e responsabilità: il lavoro d’équipe
Dott.ssa Barbara CHIAPUSSO
DISCUSSIONE
CONCLUSIONI: Vice Presidente FNC IPASVI Dott.ssa Maria Adele SCHIRRU
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III CONGRESSO NAZIONALE SOCIETA' SCIENTIFICA COMLAS
“Professione infermieristica e le nuove frontiere
della responsabilità professionale”
FOGGIA, 30 settembre 2016
Università di Foggia, Dipartimento di Studi Umanistici, Facoltà di Lettere - Via Arpi, 176 - 71121 Foggia (FG)
Ore 13.30 – 18.45
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CREDITI ECM 4
Partecipanti 100
Le iscrizioni sono RISERVATE E GRATUITE per i soli infermieri iscritti al collegio IPASVI di FOGGIA.
Per iscriversi accedere alla propria area riservata al collegio IPASVI di FOGGIA